Francesca Vennarucci - Di forma in forma. Gli acrobati delle parole

Introduzione / 1. Le metamorfosi di Apuleio / 1.1 Un’opera plurilinguistica / 1.2 La magia e lo sguardo deformante / 1.3 La metamorfosi di Lucio / 2. Intersezioni: Ovidio. Lucio e Atteone / 3. Intersezioni: Collodi. Lucio-Lucignolo e Pinocchio / 4. Intersezioni: Kafka. Lucio e Gregor

Introduzione

Trascorrere di forma in forma. Abbandonare le sembianze usuali che, pur rassicurando, limitano il corpo e lo costringono a ciò che è noto. Trasformarsi in esseri alati per volare, in piante per non suscitare più passioni, in acqua per scorrere via... Mutare incessantemente volto sembra essere il sogno dell’uomo, ma anche il suo incubo. Il potere di trasformare appartiene a divinità egoiste e vendicative, ovvero a una rischiosa arte magica; è connesso a impegnativi riti misterici. La metamorfosi richiede un ripensamento di se stessi, ed esige un prezzo spesso molto alto. A volte è necessaria una metamorfosi “per fare di se stessi ciò che si è”, come direbbe Kafka, mentre in altri casi la metamorfosi è degradazione, è l’inabissarsi e lo smarrirsi dell’uomo nella dimensione bestiale e conduce ad esclusione ed isolamento. La letteratura ha esplorato l’inesauribile universo semantico della metamorfosi: Ovidio, Apuleio, Kafka hanno declinato nelle loro opere il tema della metamorfosi, catturandone il fascino e il mistero.
Il percorso si propone di accostare opere molto lontane diacronicamente e ideologicamente, che però tra loro dialogano grazie al rincorrersi di topoi, immagini e figure. In particolare è sembrata didatticamente produttiva la scelta della metamorfosi come fil rouge, per avvicinare i giovani discenti a testi di cui spesso si leggono solo alcuni brani e che invece andrebbero valorizzati attraverso una lettura integrale. Quella che qui si propone è una lettura delle Metamorfosi di Apuleio, delle Avventure di Pinocchio di Collodi e del romanzo breve di Kafka La metamorfosi. Necessari riferimenti sono il poema di Ovidio e il romanzo di Cervantes.
Il tema è inoltre interessante dal punto di vista linguistico: il mutare forma dei protagonisti conduce il narratore a mutare stile, punto di vista, ritmo, quasi fosse un acrobata che salta in corsa da un cavallo all’altro, come dice Apuleio. La metamorfosi rifiuta la stabilizzazione linguistica oltre a quella formale e può dare vita a opere sperimentali e anti-canoniche.

 

1. Le metamorfosi di Apuleio

1.1 Un’opera plurilinguistica

 

Nel primo capitolo delle Metamorfosi Apuleio presenta la materia dell'opera e offre una dichiarazione di poetica: egli intreccerà varias fabulas, favole di vario genere relative a trasformazioni sia di forma fisica che di fortuna; gli uomini mutati in altre forme riacquisteranno poi la loro dimensione. Il poeta esplicita le proprie fonti:
- la novella milesia di Aristide di Mileto, novella di genere erotico;
- la cultura alessandrina, papyrum Aegyptiam, e il culto di Iside e Osiride, Nilotici calami, dunque l'Egitto, luogo d'ispirazione sia relativamente allo stile che a uno dei temi principali dell'opera, il culto di Iside;
- la cultura greca, fabulam Grecanicam: Apuleio aveva studiato a Cartagine a ad Atene e aveva appreso il greco prima del latino; le favole milesie erano poi state scritte in greco.
Apuleio insiste molto sulla fatica fatta per studiare il latino in qualità di autodidatta e si scusa se qualche termine exoticus et forensis sarà presente nei suoi scritti: ma l'affermazione non è da intendere alla lettera; è la scelta degli aggettivi che offre la vera interpretazione: exoticus è termine greco, mentre forensis, qui sinonimo di forasticus, è latino; il poeta mette quindi in evidenza quella che è la sua peculiarità: egli domina il latino e il greco con uguale competenza, anzi, come fa notare Luca Canali, «dalla scienza delle parole Apuleio fa dipendere la propria sopravvivenza»[1], nonché il successo come operatore culturale e scrittore alla moda.
Lo scrittore possiede la stessa scientiam desultoriam del cavaliere acrobata capace di saltare in corsa da un cavallo all'altro e questa perizia nel tessere e nell'intrecciare varie vicende è sostenuta da uno stile che esalta la metamorfosi, la varietà degli accenti: immutatio vocis. Dunque l'intreccio delle favole è connesso, intimamente legato all'intreccio vocis.
Apuleio dice chiaramente che la metamorfosi agisce su tre livelli:
- la forma fisica: Lucio trasformato in asino e poi di nuovo in uomo; Panfile trasformata in gufo...
- la sorte, la fortuna;
- la parola;
Nell'incipit delle Metamorfosi di Ovidio in pochi versi viene presentato non solo l'argomento della poesia, mutatas formas, ma anche i protagonisti, gli dei, ed è esplicitato il modello di poesia prescelto: carmen perpetuum, il poema:

In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora. Di, coeptis -nam vos mutastis et illa-
adspirate meis primaque ab origine mundi
ad mea perpetuum deducite tempora carmen.
«L'estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi. O dei -anche queste trasformazioni furono pure opera vostra- seguite con favore la mia impresa e fate che il mio canto si snodi ininterrotto dalla prima origine del mondo fino ai miei tempi.»[2] (trad.it. Bernardini Marzolla)


Come evidenzia Di Bucci, Ovidio era animato dall'idea «che la legge che governa il mondo è quella dell'eterna metamorfosi, della volatilità e leggerezza delle forme, un perpetuo nascondersi dell'essere dentro l'apparire»[3]. In relazione al linguaggio Ovidio chiede agli dei di concedergli un canto ininterrotto, un poema unitario, in grado di tutto comprendere, capace di dare senso alle mille storie grazie alla sua organicità. Il mutare della materia non comporterà quindi un radicale mutare d'accenti. Rispetto ad Ovidio, che necessariamente costituisce un modello, si nota in Apuleio un allontanamento in senso nettamente plurilinguistico, posto in rilievo dalle dichiarazioni dei due incipit.

 

1.2 La magia e lo sguardo deformante

Il narratore-protagonista dell’opera di Apuleio, Lucio, dichiara di essere diretto in Tessaglia ex negotio, per affari, ma in realtà, sin dalla prima pagina, questo che è il motivo ufficiale del viaggio viene offuscato e quasi cancellato da un altro, dal vero motivo: la sete di novità, la curiosità verso ogni stranezza, in particolare verso le arti magiche, di cui la Tessaglia è culla. Significativa in questo senso è la prima novella inserita nel tessuto del romanzo: il racconto di Aristomene che narra la vicenda inquietante di Socrate, padre di famiglia sedotto, schiavizzato e infine ucciso da una perfida maga; dopo aver ascoltato questa lunga e agghiacciante storia di magia Lucio muta il suo stato d'animo, la sua percezione del mondo si trasforma:

Tra tutte le cose che vidi in quella città, nessuna mi sembrò essere ciò che in realtà era, ma ogni creatura od oggetto credevo avessero assunto una figura diversa dalla primitiva, per effetto di funebri incantesimi recitati con voce sommessa. Credetti cioè che i ciottoli in cui inciampavo fossero uomini mutati in pietre, gli uccelli di cui udivo il canto, uomini che avessero messo le penne; credetti che in modo consimile gli alberi attorno al pomerio si fossero coperti di foglie, e l'acqua delle sorgenti si riversasse da umane membra; mi sembrava che le statue e le immagini stessero lì lì per parlare, i buoi e altri animali del genere emetter predizioni, e che persino dal cielo e dal disco del sole sarebbe caduto sulla terra un oracolo.[4]

Come mostra l'incipit del libro II Lucio osserva la realtà con occhi nuovi, il suo sguardo “deforma” ciò che vede, nel tentativo di svelare ciò che si cela dietro l’apparenza. Lucio giunge a casa del suo ospite, Milone, un ricchissimo usuraio, avaro e sentimentale, la cui moglie, Panfile, è una famosa maga; qui Lucio incontra la simpatica e piacente Fotide, giovane servetta dei due coniugi, ed entra in intimità con lei.
Una sera Lucio si reca a cena dall’elegante Birrena e ascolta il racconto terrificante di Telifrone, secondo racconto inserito nel corpo del romanzo e sempre connesso alle arti magiche: nel corso di una veglia funebre, alla quale si è prestato per denaro, Telifrone cade preda di incantesimi e, poiché ha lo stesso nome del defunto, viene dalle streghe mutilato al suo posto, privato di orecchie e naso. Il racconto riprende evidentemente quello narrato da Trimalchione nel corso della sua stravagante e luculliana cena, centrato anch’esso intorno ad una veglia funebre e alla lotta impari tra uomini e streghe. Il racconto rafforza l’impressione del protagonista di trovarsi in un mondo pervaso di magia, in cui tutto è possibile. A nulla valgono le ilari prese in giro e i commenti degli altri commensali che evidentemente non credono alla fantastica avventura di Telifrone: Lucio non trova alcun motivo per dubitarne. L’atmosfera della narrazone è ora a tal punto satura di magia che può accadere qualsiasi cosa.
La mutata disposizione d’animo e di sguardo predispone il giovane Lucio alla metamorfosi e si manifesta in modo dirompente in un episodio molto interessante, non a caso ripreso da Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte. Tornando a casa dalla cena, ubriaco di vino e di magia, Lucio intravede davanti alla porta dell’abitazione di Milone tre figure enormi che tentano di entrare: convinto che siano briganti Lucio estrae la spada e li colpisce ripetutamente, abbattendoli. Affaticato si getta sul letto e crolla in un sonno “placido”. La mattina dopo si sveglia in preda al panico e già si vede davanti ai giudici; ed infatti vengono a prenderlo due littori e, mentre la folla si riversa in strada, lo trascinano in giudizio. L'accusatore racconta l'accaduto. Lucio a sua volta racconta il fatto mitizzandolo, rendendolo epico, enfatizzando la violenza e l'arroganza dei briganti, insistendo sui loro intenti criminosi e invocando la legittima difesa. Infine tutto si rivela una beffa: Lucio ha in realtà combattuto contro degli otri e tutta la popolazione si è presa gioco di lui in occasione della pubblica festa dedicata al dio del Riso. Il povero Lucio viene poi in parte confortato dal racconto di Fotide: gli otri erano davvero animati; non potendo procurarsi i capelli del giovane amato dalla maga Panfile, necessari ad un incantesimo, Fotide aveva consegnato alla sua padrona, ingannandola, peli strappati da otri di pelle caprina: dunque alla porta di Panfile nel cuore della notte si erano presentati tre otri e non un bel giovane della Beozia.
Nella costruzione di questo episodio Apuleio utilizza in modo consapevole la metamorfosi d'accenti: il racconto è infatti scomposto con tecnica cubista e raccontato da almeno quattro punti di vista:
- racconto in presa diretta del protagonista-narratore Lucio
- racconto dell'anonimo accusatore, finto testimone oculare
- racconto del protagonista-narratore Lucio davanti alla folla
- racconto “veritiero” di Fotide
In realtà nessuno di questi racconti può avanzare pretese di verità: Lucio è stato ingannato; l'accusatore mente sapendo di mentire; Fotide invoca la magia..., ma nello stesso tempo tutti contengono una parziale verità. Attraverso il gioco della scomposizione e della moltiplicazione dei punti di vista si pone in luce non solo la disponibilità di Lucio alla deformazione, ma anche l'assoluta mancanza di una verità assoluta, in grado di imporsi, di far valere come unica la propria prospettiva: è questo un dato importante per comprendere il senso del romanzo e la poetica di Apuleio.
Cervantes riprende questo episodio nel capitolo trentacinquesimo della prima parte del Don Chisciotte, dal titolo “Dell'eroica e gigantesca zuffa che don Chisciotte sostenne con degli otri di vino rosso, e dove si dà termine al racconto dell'Incauto Sperimentatore”: mentre tutta la compagnia sosta nella solita locanda ed è intenta a leggere il racconto dell'Incauto Sperimentatore (a sua volta ripreso dall'Orlando Furioso di Ariosto), don Chisciotte riposa con Sancio in una soffitta. Ad un certo punto la lettura del racconto è interrotta da Sancio, il quale chiede a gran voce che si accorra in aiuto del suo padrone eroicamente impegnato in una battaglia contro un gigante. Anzi Sancio è convinto che don Chisciotte abbia già decapitato il gigante, poiché ha visto scorrere il sangue e la testa rotolare a terra. Tutti si precipitano a vedere e trovano don Chisciotte in camicia con la spada in pugno, intento a colpire degli otri di vino.
Cervantes attenua, rispetto ad altri episodi, la follia di don Chisciotte, affermando che nel sogno gli otri sono divenuti giganti; ma il lettore quasi non nota questo particolare, poiché è ormai abituato alla straordinaria disponibilità alla deformazione del reale evidenziata dal personaggio e dal suo scudiero. Inoltre anche quando viene bruscamente risvegliato don Chisciotte non muta affatto la sua convinzione di aver combattuto con il gigante e rivolge al curato, credendolo la principessa Micomicona, un discorso rassicurante: l’hidalgo ha tenuto fede alla sua promessa, il gigante è sconfitto. Sancio non si dà pace, poiché non riesce più a trovare la testa del gigante, nessuno può tranquillizzarlo: trova un conforto soltanto in una spiegazione assai conforme a quelle che offre sempre il suo padrone: «la testa del gigante l’aveva vista lui, -Sancio- e, per maggior indizio, aveva una barba che gli arrivava alla cintura; e se non compariva, era perché tutto ciò che succedeva in quella casa era per opera d’incantesimo». È cioè un malefico incantatore che scombina la realtà e fa apparire le cose diverse da come sono: i giganti sembrano mulini, il gigante di Micomicone appare come un otre di vino... Mentre tutti ridono a crepapelle ascoltando “le corbellerie” dell’hidalgo e del suo scudiero, l’oste e l’ostessa si lamentano per la perdita degli otri e la loro figlia «tace e di tanto in tanto sorride»: a proposito di questo passo scrive Miguel de Unamuno: «Un tocco di poesia! La figlia, innamorata dei libri di cavalleria, sorrideva. Dolce rugiada sulla passione di scherni patita da don Chisciotte. In quell’occasione in cui tutti ridevano a crepapelle, il sorriso della figlia dell’oste era un sospiro di pietà». [5]
L'hidalgo desidera confrontarsi con la realtà, agire in essa per modificarla: la sua mente è capace di idee generose, è educata ad alti ideali di lealtà, coraggio, abnegazione. Per dare un senso alla realtà e agire in essa don Chisciotte ha bisogno di trasfigurarla, di trasformarla in qualcosa di comprensibile e decifrabile: egli desidera ardentemente credere che dei volgari mulini e degli otri di vino siano dei giganti. Tutto ciò che di banale e confuso e quotidiano è dato incontrare don Chisciotte è in grado di trasformarlo in qualcosa di straordinario e unico. In questa potenza creativa è la forza e il fascino del personaggio, che accompagna alla “follia” una profonda saggezza. Purtroppo non vi è alcuna corrispondenza tra la realtà vera e quella che don Chisciotte immagina di vedere: ciò determina il fallimento delle imprese dell'eroe, le sue azioni risultano prive di reale efficacia. Da qui la nota di malinconia, se non di tragedia, che si avverte in ogni pagina, subito dietro la comicità.
Il triste declino dell'eroe ha inizio quando il suo fido scudiero Sancio lo invita a credere che tre contadine qualsiasi siano in realtà l’amata Dulcinea e due dame: don Chisciotte è perplesso, poiché vede soltanto delle rozze contadine, ma immagina che la sua “miopia” sia opera di qualche malvagio incantatore... A poco a poco l’hidalgo diviene oggetto di presa in giro e di scherno: non è più lui a trasfigurare la realtà, ma sono gli altri che elaborano macchinazioni e lo pongono di fronte a realtà fittizie, per burlarsi del suo candore e della sua ingenuità.

 

1.3 La metamorfosi di Lucio

La trasformazione di Lucio in asino è descritta in qualche modo “ricalcando” quella di Panfile in gufo: dunque è bene partire da questa. Lucio ottiene, usando tutte le sue arti di seduttore, che Fotide lo introduca di nascosto nella stanza segreta di Panfile e assiste alla metamorfosi di Panfile in gufo grazie ad una magica pomata. Il brano è interessante dal punto di vista linguistico perché sono presenti grecismi (lacinia, pyxis), diminutivi (plusculus, a, um) termini ripresi da Pacuvio citato da Cicerone (succussus), da Nevio con traslazione di significato (promico in Nevio “sviluppare un'orazione” in Apuleio “spuntare”), termini usati solo da Apuleio (periclitabundus, a, um).
Il passo viene ripreso quasi testualmente da Michail Bulgakov nel suo romanzo Il Maestro e Margherita: Margherita si trasforma in strega e diviene capace di volare grazie ad una magica crema fornitagli da Azazello uno degli “assistenti” di Woland-Satana. Proprio intorno alle nove di sera la giovane donna innamorata, sola nella sua stanza, si spoglia nuda e prova su di sè la portentosa crema, che non solo la ringiovanisce, ma la rende più vigorosa e selvaggia, nonché “priva di peso” e in grado di volare.
Dal punto di vista contenutistico il testo di Apuleio mostra in realtà la trasformazione di Lucio: egli è già diverso da quel che era prima per il semplice fatto di aver assistito alla metamorfosi della maga; lo stato di esaltazione e di scollamento dalla realtà è giunto al culmine: Lucio è ormai pronto per entrare in una dimensione parallela. Infatti la sua metamorfosi segue di pochissimo quella della maga ed è ad essa analoga in primo luogo dal punto di vista linguistico: per descriverla Apuleio usa gli stessi termini.
Lucio compie gli stessi gesti della maga, ma l'esito della metamorfosi è diverso: egli si trasforma in asino e nelle vesti di un asino vivrà mille avventure, ascolterà mille storie, mutando a poco a poco la sua personalità: il contatto continuo con la morte produrrà nel giovane una metamorfosi profonda, interiore. Al termine del romanzo Lucio ridiverrà uomo, ma solo grazie all'intervento di Iside: l'ultima metamorfosi, la più importante, non sarà affidata al caso, dettata da un'insana e sventata curiosità giovanile; sarà ritualizzata, necessitata da una reale motivazione e portatrice di senso.

 

2. Intersezioni: Ovidio. Lucio e Atteone

Il testo di Apuleio permette le più diverse intersezioni, ma i riferimenti più ricchi di spunti sono offerti da due autori: Ovidio, modello imprescindibile, e Collodi, che fa vivere al burattino Pinocchio trasformazioni che molto devono all'invenzione di Apuleio.
Nell'opera di Ovidio i personaggi vengono mutati dagli dei in piante, in pietre, in animali, in suoni: il tema della trasformazione viene declinato assecondandone tutte le varietà. La metamorfosi che più è sembrata significativa è quella di Atteone, giovane nipote di Cadmo che, per aver involontariamente visto la vergine Diana nuda al bagno, viene mutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani che non lo riconoscono. Come molti altri anche questo mito mostra la crudeltà di divinità suscettibili, prive di alcun senso della pietà: Diana non si ritiene soddisfatta finché i cani non hanno orribilmente straziato il corpo del giovane e incolpevole Atteone, davanti allo sguardo dei compagni di caccia che parimenti non lo scorgono nel giovane cervo che hanno davanti. L’ira della dea appare ingiustificata, Atteone subisce una pena crudele e in alcun modo commisurata al suo gesto. Sono i suoi stessi cani ad ucciderlo, quei cani a cui lui, pur conservando pensieri e sentimenti umani, non può più rivolgersi con le parole; il suo sguardo “smarrito e implorante”, i lamenti, il voltarsi quando gli amici lo chiamano a godersi lo spettacolo della fine della preda colpiscono profondamente l’impressione del lettore e hanno reso celebre questo mito, ripreso anche in innumerevoli opere pittoriche e scultoree: basti pensare al ciclo di affreschi del Parmigianino presso la Rocca di Fontanellato, o al grande gruppo scultoreo della Reggia di Caserta.
Si nota nella vicenda di Atteone il corto circuito presente in tutte le altre metamorfosi qui analizzate tra la bestia-umana, le bestie e gli umani. La bestia-umana non trova asilo né tra le bestie, né tra gli umani e rimane perciò esclusa da qualsiasi possibilità comunicativa: appena trasformato in asino Lucio viene accolto male dagli altri animali presenti nella stalla, che temono per la loro razione di cibo e non viene affatto “riconosciuto” dal suo cavallo, così come Atteone non viene “riconosciuto” dai suoi cani. Lo sventurato nipote di Cadmo deve inoltre subire il supplizio di sentirsi cercare a gran voce dai suoi compagni proprio mentre viene dilaniato davanti ai loro occhi, così come Lucio deve subire i maltrattamenti del proprio servo, deciso ad allontanarlo con tutti i mezzi da una immagine sacra circondata di salvifiche rose. Esclusi dal mondo degli uomini e da quello delle bestie a coloro che hanno subito una metamorfosi animale non resta altro che ascoltare e trarre giovamento da ciò che è possibile apprendere mentre tutti si esprimono come se la bestia non potesse capire.
La figura di Atteone viene evocata sapientemente da Apuleio attraverso la tecnica dell’ekphrasis: il giovane Lucio è appena giunto nella città di Ipata, in Tessaglia ed ha trascorso la prima notte in casa di Milone, senza sapere molto del suo ospite e di sua moglie. Per caso il giovane incontra per via una sua parente, la ricca Birrena, che lo invita senz’altro a casa sua e pare ansiosa di parlargli. Nell’atrio della lussuosa casa della donna è presente un gruppo scultoreo rappresentante Diana e Atteone, minuziosamente descritto dal narratore.
Subito dopo Birrena mette in guardia Lucio dagli straordinari poteri della maga Panfile, capace di trasformare chiunque in qualsiasi cosa. Ma Lucio è curioso e non vede l’ora «di saltar giù a capofitto proprio nell’abisso»: egli decide di sedurre Fotide per essere indirettamente introdotto ai segreti dell’arte magica di Panfile. L’ekphrasis prefigura quanto sta per accadere: come il giovane cacciatore nipote di Cadmo è stato trasformato in cervo per aver visto Diana nuda al bagno, così anche Lucio pagherà con la metamorfosi in asino per aver visto ciò che non avrebbe dovuto vedere. Nel primo caso però Atteone paga con la metamorfosi e poi con la vita un evento verificatosi indipendentemente dalla sua volontà, o meglio: nel testo ovidiano è evidente che il giovane è giunto per caso presso la grotta nella quale Diana era solita bagnarsi; con significativa variante Apuleio inserisce nell’ekphrasis Atteone già trasformato in cervo e curioso, desideroso di osservare la dea che si bagna: nella rilettura apuleiana neanche l’avvenuta metamorfosi persuade Atteone della pericolosità della sua impresa. I cani minacciosi di Diana, e non i suoi, lo attendono per sbranarlo.
Nel caso di Lucio è molto forte l’elemento della volontà, anzi della giovanile avventatezza: Apuleio sembra servirsi del riferimento ad Atteone per sottolineare la leggerezza che caratterizza Lucio in questa prima fase del romanzo: egli sembra davvero un “personaggio in disponibilità”, come direbbe Giacomo Debenedetti, un archetipo dei tanti personaggi alienati da se stessi che popolano la letteratura novecentesca, una sorta di Mattia Pascal agli inizi della sua avventura.

 

3. Intersezioni: Collodi. Lucio-Lucignolo e Pinocchio

Nelle vesti di un asino Lucio compie la sua discesa agli Inferi: non si contano le volte in cui tutto sembra perduto, ogni via di fuga e di salvezza preclusa, la morte certa. Il viaggio di Lucio si trasforma in una corsa verso la morte. Proprio in questo correre verso la morte Lucio incontra il burattino Pinocchio, eroe dell'affascinante e inquietante romanzo “per bambini” di Carlo Collodi.
Pinocchio subisce, nel corso delle sue avventure, due metamorfosi, una reversibile e una irreversibile: da burattino a ciuchino, nel Paese dei Balocchi; e da burattino a bambino, alla fine della storia.
Pinocchio inizialmente è un pezzo di legno da catasta capitato per caso nella bottega di Mastro Ciliegia, il quale, ignaro, decide di servirsene per fare una gamba di tavolino. Ma il pezzo di legno rifiuta di diventare una gamba di tavolino; meglio tentare le vie del mondo sotto forma di burattino, munito di agili gambe per scappare. Il romanzo narra della sua ininterrotta. Ecco la sua prima dichiarazione di intenti, rilasciata al Grillo-parlante:

Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all'alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.[6]

La nascita di Pinocchio è ben strana, perché, prima ancora di essere creato come burattino, egli esiste e sa delle cose, ha una propria conoscenza del mondo: sa di non essere nato alla libertà, sa che dovrà sottomettersi ad un ineludibile dover essere, comportandosi come tutti gli altri bambini. Ma sa anche che vuole andarsene, sottrarsi al proprio destino, ribellarsi. Le prime vittime del furore liberatorio di Pinocchio sono il povero Geppetto, rinchiuso senza colpa in prigione e poi nel ventre del pesce-cane ed il Grillo-parlante, “appiccicato” alla parete. Ridotte al silenzio le due figure paterne e ammonitrici, il burattino si trova a dover provvedere da solo alla propria sussistenza: tormentato dai morsi della fame decide di uscirsene per il mondo in cerca di “persone caritatevoli”:

Per l'appunto era una nottataccia d'inferno. Tonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna. [...] In paese Pinocchio trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.[7]

E' un burattino di legno, con la sua paura e il suo fiato grosso, a portare la vita in una realtà di morte; la parabola di Pinocchio è tutta qui: nell'incontro inquietante con questo paesaggio rabbioso e sbarrato e morto. Nella sua corsa verso la libertà il burattino non potrà che ripetutamente cozzare contro un mondo irriducibile ai propri desideri: come in questa notte di tempesta, egli correrà verso la morte. La solitudine e il destino di morte di Pinocchio vengono chiaramente delineati nell'opposizione dialettica tra due non-luoghi: l'isola delle “Api industriose” e il “Paese dei balocchi”. Nel primo non si trova né un ozioso, né un vagabondo: «Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo, nemmeno a cercarlo col lumicino. - Ho capito; - disse subito quello svogliato di Pinocchio - questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! - ». Tutti hanno una esatta collocazione sociale, si identificano in ciò che fanno: non avere nulla da fare equivale a non esistere; niente è gratuito, tutto si può ottenere integrandosi, accettando di fare qualcosa. Pinocchio viene convinto dalla Fata dai capelli turchini, opportunamente trasformatasi in “mamma”, ad andare a scuola. Ogni cosa par che si compia ed il burattino sta per trasformarsi in un'utile gamba di tavolino sotto forma di un bambino “per bene” in carne ed ossa. Ma Pinocchio parte con Lucignolo, il cui nome richiama chiaramente il giovane e sventato Lucio di Apuleio, verso il “Paese dei balocchi”.
L'antitesi dialettica tra il luogo della necessità, nel quale si diventa dei bravi bambini, e il luogo della libertà, nel quale ci si trasforma in “ciuchini”, evidenzia l'impossibilità del burattino di aderire all'uno o all'altro modello. In un mondo in cui gli adulti gridano, danno consigli, attuano i più crudeli ricatti morali, Pinocchio, ancor prima di avere un nome, ha una colpa. Rifiuta di adeguarsi ai piani degli altri, ma sa che il proprio tentativo di eversione è colpevole.[8] Egli continua a reiterare il rifiuto - “voglio andare avanti” -, ma sa che la sua corsa non avrà un esito favorevole. Non a caso quella che nella prima stesura costituiva la fine del romanzo, ci mostra il burattino catturato di notte in un bosco da due ombre nere - gli “assassini” - che lo appendono ad una quercia.
Con l'invocazione disperata al babbo e la morte del burattino, Collodi concludeva il romanzo pubblicato nel 1881, a puntate, nel «Giornale per i bambini»; l'anno dopo lo riprenderà trasformando la morte reale in una morte apparente ed elaborando tutta un'altra serie di avventure che conducono il burattino sempre allo stesso punto: a giacere inanimato su una sedia, scrutato dagli occhi canzonatori di un bambino “per bene” nato anche lui dal nulla. L'avventura del burattino non può che concludersi con la morte, perché il suo rifiuto del mondo non è mai radicale: c'è l'amore per il padre, ci sono miriadi di buone intenzioni; ma la sua integrazione in esso è parimenti impossibile: perché il bambino Pinocchio nasca il burattino deve morire. Luogo topico della morte e della rigenerazione è il ventre della balena.
Pinocchio salva la vita al vecchio e infermo Geppetto trascinandolo fuori dalla balena e da quel momento nessuna fuga è più pensabile: il burattino è già morto. Il lettore però continua a sentire, in certe notti d'inferno, il suono affannoso di piedini di legno, vaganti in cerca di persone caritatevoli che non abbiano in capo di trasformare ogni burattino scavezzacollo in un anonimo bambino “dabbene”. E dunque al di là di un pallido e debolissimo “lieto fine”, l'utopia collodiana ci interroga ancora, anche in virtù delle risonanze con l'opera di Apuleio.
La metamorfosi in ciuchino e l'elemento del circo mostrano una chiara ascendenza apuleiana: anche Collodi pone la sua creatura, radicalmente eversiva, a contatto con la degradazione, la umilia: Pinocchio-ciuchino avrebbe dovuto esibirsi in uno spettacolo da circo, davanti ad un pubblico di impeccabili bambini dabbene, sotto gli occhi ammonitori, seppur amorevoli, della “madre”; pur di sottrarsi Pinocchio si azzoppa, sfiora di nuovo la morte. Anche Lucio-asino si sottrae all'infame spettacolo pubblico che avrebbe dovuto vederlo protagonista di una prestazione sessuale umiliante con una assassina condannata a morte: è a questo punto che egli sente di aver toccato il fondo e scappa invocando davvero la morte.
Per entrambi i personaggi si profila la necessità di una rigenerazione che costituisce la vera morte: Lucio-asino si immerge nelle acque del mare e invoca Iside; Pinocchio, novello Giona, sosta nel ventre del pescecane, vive un'esperienza chiaramente “biblica”: la sua è una sosta di morte. E' possibile a questo proposito un riferimento alla favola di Amore e Psiche, piccolo gioiello incastonato nel romanzo di Apuleio: Psiche, per “espiare” la colpa, cui è stata indotta dalla sua inguaribile curiosità, dovrà superare varie prove, l'ultima delle quali è la discesa agli Inferi; essa rischia di morire anche in questo caso: non sa ancora resistere alla curiosità, ma Amore la salva ed ella può metamorfizzarsi: diviene immortale.
Nel caso di Lucio e Pinocchio compare l'elemento archetipico dell'acqua e Pinocchio compie la sua discesa agli Inferi nel buio del ventre del pescecane, ma è innegabile: la metamorfosi finale dei due personaggi comporta la morte della vecchia identità e dà vita, in entrambi i casi ad un finale “debole”. Il lettore rimane legato al personaggio eversivo, curioso, in corsa verso la morte: Lucio sacerdote di Iside, che insegue, sempre un po' scettico a dire il vero, lo svelamento dei vari misteri, è triste quasi quanto il bambino dabbene di Collodi. Bisogna poi aggiungere che Lucio, dopo la seconda iniziazione, riscuote molto successo a Roma in qualità di avvocato; lo studioso di religioni antiche Reinhold Merkelbach scrive: «evidentemente i seguaci di Iside erano strettamente uniti anche nella vita di tutti i giorni e perciò entrare nella loro cerchia significava pure spesso aver trovato la via giusta per il successo commerciale»[9]; ai fini del discorso svolto fin qui questo dato non può essere sottovalutato, poiché l'avvocato domina la parola: si deve supporre che finalmente Lucio abbia acquisito la capacità di dominare il reale attraverso il dominio della parola, che abbia imparato a servirsi del continuo e fluttuante mutare d'accenti.
Dunque da una parte un avvocato, dall'altra un bambino dabbene: sarebbe interessante sollecitare in classe un dibattito su questi finali “deboli”, ponendo in evidenza il fatto che nella prima stesura delle avventure di Pinocchio, come già è stato ricordato, il burattino non viveva alcuna metamorfosi, moriva impiccato e Collodi, genialmente, avrebbe concluso così la più famosa fiaba della letteratura italiana: dato non poco inquietante e ignoto ai più. Inoltre è possibile notare che anche nel caso di Pinocchio l'elemento linguistico è fondamentale; sin dall'inizio il burattino si sottrae all'alfabetizzazione: la sua lotta contro la scuola è emblematica del desiderio di ribellione e di rottura con la tradizione e il dover-essere. Pinocchio vende l'abbecedario per assistere ad uno spettacolo di burattini: rifiuta l'obbligo scolastico, dunque rifiuta di fare suo un codice, rifiuta l'omologazione linguistica, uno dei capisaldi della “neonata” Italia. Il bambino dabbene che nasce dalle sue ceneri mostra invece di aver fatto propria la morale dominante: si esprime in modo diverso, come un primo della classe; sembra credere davvero che solo dalla scuola scaturisca la possibilità di un’emancipazione sociale, come in quegli anni sosteneva la Sinistra Storica.

 

4. Intersezioni: Kafka. Lucio e Gregor

 

Nel Novecento il tema della metamorfosi viene declinato in modo originale da Franz Kafka, nel racconto lungo o romanzo breve del 1912 La metamorfosi. Anche nel caso di Kafka, come già in Apuleio, l'uomo sprofonda nella bestia, ma non vi è più alcuna allusione a un evento interiore che giustifichi la degradazione: il lettore può formulare diverse ipotesi, ma restano tutte a suo carico. Un incipit folgorante presenta la metamorfosi già avvenuta del giovane commesso viaggiatore Gregor Samsa, trasformatosi nel corso di una notte agitata in un “enorme insetto immondo”. Gregor mantiene il padre, la madre e la sorella in un discreto benessere col suo tenace lavoro, ma è evidentemente anche sotto ricatto: lavora duramente perché è convinto che la sua famiglia debba estinguere un debito, ma di questo debito non si parla più dopo la metamorfosi di Gregor, anzi spunta fuori del denaro provvidamente nascosto.
Gregor non si dispera affatto per l’avvenuta trasformazione in bestia, pare anzi convinto di poter lavorare e gestire la sua vita come prima; è attraverso gli occhi degli altri, della sua famiglia e del procuratore, che egli vede e registra lo sgomento e la ripugnanza connessi alla sua nuova natura. L’elemento bestiale e perturbante irrompe in una tranquilla famiglia borghese destabilizzandola e mostrandone i limiti culturali e affettivi: la morale vieta gli impulsi bestiali e se ne difende senza essere in grado neanche di riconoscerli.
Gregor familiarizza lentamente e parzialmente con il suo nuovo corpo: cambia la propria postura, da eretta a supina, prova le proprie fragili zampette e soprattutto modifica la propria alimentazione. La fame di Gregor e il suo sostentamento, di cui si occupa la sorella con un misto di affetto e ripugnanza, acquistano una notevole importanza, poiché Gregor spesso avverte i morsi della fame, ma di fatto cessa a poco a poco di nutrirsi. Egli rifiuta il cibo e dunque si avvia all’inedia e alla morte eppure in rari momenti di rabbia fa dei piani per «penetrare nella dispensa e prendere ciò che gli spettava». L’elemento del cibo riveste grande importanza anche nell’opera di Apuleio: dopo essere stato venduto a due schiavi, un pasticcere e un cuoco, Lucio-asino prende a mangiare di nascosto porzioni notevoli dei prelibati avanzi che i due mettevano da parte. Scoperti i suoi “strani” gusti alimentari e le sue tendenze umane Lucio diviene una sorta di celebrità, un fenomeno da mostrare: una affascinante matrona si innamora di lui e paga grosse somme di denaro per poter dar sfogo alla sua passione. Ma un asino che si comporta in modo umano non può essere altro che un numero da circo. Gregor da parte sua smette a poco a poco di avere appetito, si allontana così sia dalla natura umana che da quella bestiale: non ha fame di cibo, non sa immaginare cosa gli sarebbe piaciuto mangiare, ma ha fame di affetto, di riconoscimento, desidera riguadagnare la sua posizione in seno alla famiglia.
Il primo e più grande dolore di Gregor è connesso al fatto di non riuscire più a farsi capire attraverso il linguaggio: egli è convinto di parlare in modo intellegibile, ma nessuno riesce più a capirlo, dunque egli smette di emettere suoni. È questa la più profonda frattura tra Gregor e la sua famiglia, che rappresenta sostanzialmente tutto il suo mondo. Inoltre anche in Kafka, come in Apuleio e Collodi, la bestia conserva pensieri umani: vi è dunque una confusione di codici indicata, anche in questo caso, dalla rinuncia alla parola. Emblematica a questo proposito è la scena dello spostamento dei mobili: mentre la sorella, riconoscendo la natura bestiale dell’essere che è stato suo fratello, desidera rendere più agevoli i suoi movimenti attraverso la stanza allontanando da essa il mobilio, la madre è di altro parere: «e non è forse come se noi dimostrassimo, allontanando i mobili, di aver perduto ogni speranza di miglioramento e lo si abbandonasse ormai a se stesso senza nessun riguardo?». La madre ancora spera che la metamorfosi possa essere reversibile: ella è l’unica persona in grado di interpretare il complesso mondo interiore del figlio. La comprensione rappresentata dalla madre non trova però spazio per incidere gli eventi, poiché la donna prova un disagio che si esprime solo attraverso malesseri, svenimenti, sonni come di malata, privi di qualunque efficacia sulle sorti di Gregor e anzi facilmente strumentalizzabili dal padre e dalla sorella. Ascoltando le parole della madre Gregor misura quanto, in soli due mesi, egli si fosse immerso nella natura bestiale e quanto l’isolamento abbia sviato la sua intelligenza. La camera comoda e calda, arredata con il mobilio di famiglia, rappresenta l’umanità, la memoria di sè, il senso di appartenenza. Vuota essa si trasforma in una tana e, più tardi, in un sudicio ripostiglio. Nel momento in cui vede la sorella intenzionata a continuare l’opera di smobilitazione Gregor decide di operarsi per salvare almeno qualcosa e dunque irrompe nella stanza abbandonando il suo nascondiglio sotto il canapè: il lettore rimane spiazzato dalla scelta di Gregor, che invece di proteggere il cassettone o la scrivania, che pure gli sono così cari, decide di salvare un quadro. Il quadro rappresenta una donna vestita di pelliccia e viene descritto nella prima pagina del romanzo, poiché su di esso si posa lo sguardo di Gregor appena sveglio: «appeso alla parete c’era un ritratto, ritagliato da lui – non era molto – da una rivista illustrata e messo in una bella cornice dorata: raffigurava una donna seduta, ma ben dritta sul busto, con un berretto a boa di pelliccia; essa levava incontro a chi guardava un pesante manicotto, in cui scompariva tutto l’avambraccio». Cosa rappresenta questa donna avvolta in una pelliccia? Perché Gregor l’ha scelta per abitare la bella cornice da lui intagliata? Perché ora decide che proprio questa immagine va salvata? Il testo non fornisce risposte e l’immagine rimane emblematica di qualcosa che non è facile definire: la donna è quasi interamente coperta di pelliccia, dunque è come se un qualche animale la avvolgesse e nascondesse in parte la sua natura umana, per proteggerla? per renderla misteriosamente affascinante?
Il messaggio insito nel gesto di Gregor non solo non viene colto, ma la madre, quando lo scorge aggrappato alla parete, è presa da un malore e la situazione precipita. Il sistema di segnali corporei emessi dall'insetto viene sistematicamente frainteso dai familiari ed è il padre che sempre si incarica di “punire” Gregor, prima scacciandolo con la scopa, poi, in una scena muta e agghiacciante, colpendolo ripetutamente con delle mele. Colpisce in quest’ultima scena proprio il silenzio: dapprima il padre insegue lentamente il figlio che fugge dinanzi a lui e poi inizia a scagliargli contro delle mele, sempre più velocemente: il ritmo si fa incalzante, ma il silenzio è ancora totale, finché la madre, inseguita dalla sorella, esce di corsa dalla stanza e si precipita urlando sul marito, pregandolo di risparmiare la vita al figlio; mentre grida e corre le cadono le vesti slacciate ed ella giunge nelle braccia del marito seminuda, gli stringe le mani dietro la testa e lo cinge «in un pieno amplesso»: ciò è quanto vede Gregor prima di svenire.
Il complesso rapporto di Kafka con il padre consente di comprendere meglio il testo e le tematiche affrontate. Nelle storie kafkiane l'umiliazione dell'uomo, la sua impotenza ed esclusione è provocata dall'arbitrarietà del potere e della legge, dalla distanza a cui essi si pongono, sottraendosi a qualsiasi familiarità e sfuggendo al contatto con l'uomo comune: il suo rapporto con il padre sta evidentemente alla base di questa esclusione sociale vissuta con un profondo e oscuro senso di colpa. Il padre di Franz, Hermann Kafka è un uomo robusto, forte, sicuro di sé, perfettamente a proprio agio nella società. E’ un abile commerciante che deve a se stesso e alla propria intraprendenza una discreta fortuna ed una certa agiatezza economica. Non manca mai di sottolineare le sue umili origini, perché meglio si possano apprezzare i traguardi raggiunti. All’età di trentasei anni, nel 1919, Franz scrive una articolata lettera al padre, che non verrà mai consegnata al destinatario. La sua lettura è molto utile per comprendere non solo il dramma di Gregor, ma l’intera opera dello scrittore praghese, in quanto il complesso rapporto con il padre ha segnato tutta la sua vita e l’intera sua opera, come egli stesso sottolinea: «nei miei scritti parlavo di te, vi esprimevo quanto non riuscivo a sfogare sul tuo cuore, era un congedo da te volutamente dilazionato». La paura del padre si è costruita a poco a poco a partire dall’infanzia anche a causa dei metodi educativi paterni, sempre eccessivi e tesi a fortificare, del tutto inidonei per il bambino timoroso e ipersensibile cui erano diretti; il confronto col padre forte e vigoroso ha infatti sempre schiacciato il figlio, rendendo manifesta la sua fragilità fisica. Il padre ha inoltre determinato l’insicurezza psicologica del figlio, sminuendone sempre le idee e le esperienze: «Il coraggio, la decisione, la fiducia, la gioia per questo o per quello non resistevano fino in fondo se tu eri contrario o anche solo se la tua contrarietà era prevedibile; e del resto era prevedibile per la quasi totalità delle mie azioni».
La scrittura diviene un modo per dialogare con il padre e dunque non è un’attività libera: è sempre condizionata dalla pressione di contenuti e da una visione del mondo che non può prescindere dal rapporto traumatico con la figura paterna.
Al termine dell’epistola Kafka immagina che il padre replichi adducendo le sue ragioni. In tipico stile kafkiano si riapre la finestra sulla complessità inesauribile dei torti e delle ragioni: ogni tentativo di accogliere il punto di vista dell’altro e comprenderlo non può che essere illusorio, la verità si può avvicinare, ma mai raggiungere pienamente. Kafka sa che l’unica possibilità consiste nel ribadire sempre e comunque la propria estraneità al modello paterno. La fuga non è pensabile, il confronto non è rinviabile.
L’estraneità è vissuta come colpa, come inabilità dal figlio, che si sente sempre attaccabile, condannabile: c’è evidentemente in lui qualcosa che non funziona, che si è inceppato. Nel racconto La metamorfosi la colpa di Gregor non è esplicitata, ma certo è presente e assunta come dato di fatto: Gregor si trasforma in un insetto immondo o lo è sempre stato agli occhi del padre e dunque della autorità suprema?
Rimane infine una dolorosa esclusione che non trova una realtà diversa cui appartenere: non esiste un modello di vita alternativo a quello proposto dal padre. In un folgorante frammento si legge:

Se corri avanti senza sosta, se continui a sguazzare nell'aria tiepida, le mani di lato come pinne, se nel dormiveglia della fretta guardi fuggevolmente tutto ciò cui passi dinanzi, lascerai che anche la carrozza, un giorno, ti passi dinanzi sfuggendoti. Ma se resti saldo, se con la forza dello sguardo fai crescere profonde e ampie radici, nulla potrà rimuoverti; e non sono tuttavia radici, bensì solo la forza del tuo sguardo che fissa la meta; allora vedrai anche l'oscura immutabile lontananza, dalla quale nulla può arrivare se non, appunto, quella carrozza; essa s'avvicina, si fa sempre più grande da riempire, nell'istante in cui giunge a te, tutto il mondo; e tu affondi in essa come un bambino nei cuscini di una vettura da viaggio che corra attraverso la notte e la tempesta.[10]

La «forza dello sguardo che fissa la meta» permette all'uomo di porsi ben saldo su profonde e ampie radici, e di essere pronto quando arriverà la carrozza, l'attimo che va colto, la rivelazione: la letteratura si offre per Kafka quale unico strumento per questa operazione che consiste nel dare forza allo sguardo; anche se sarà necessario abitare l'angoscia, l'importante è gettare lo sguardo verso l'oscura e immutabile lontananza, non guardare fuggevolmente, ma penetrare in modo vigile in fondo a noi stessi e alla vita.
Romano Luperini nella storia letteraria da lui curata, La scrittura e l'interpretazione[11], fornisce diversi documenti critici che permettono di ricostruire il conflitto di interpretazioni cui il racconto La metamorfosiha dato vita. Pertinente è l'interpretazione di Adorno che lo definisce un'“allegoria vuota”, un'allegoria di cui è stata sottratta la chiave: i fatti si accampano sulla scena nudi e postulano la necessità di una interpretazione, ma non ne tollerano nessuna[12]. La lettura del testo di Kafka suscita sempre nei ragazzi una straordinaria curiosità e le interpretazioni che essi forniscono risultano spesso assai interessanti: in particolare si soffermano ad indagare i rapporti familiari, mettendo in luce il contesto di incomprensione e di incomunicabilità in cui Gregor da sempre vive. Giungere alla lettura integrale del testo kafkiano al termine di un percorso sulla metamorfosi offre chiavi di lettura stimolanti per inserirsi consapevolmente nel dibattito interpretativo.

 

Note:


[1]Luca Canali, Antologia della letteratura latina. Dalle XII tavole ad Aurelio Agostino, Milano, Einaudi Scuola, 1999, p. 742

[2]Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, I, 1-4, trad. P. Bernardini Marzolla, Torino, Einaudi, 1994

[3]Orietta Di Bucci Felicetti, Antonia Piva, Giovanni Sega, Domus Aurea. Autori latini per il triennio, Firenze, La Nuova Italia, 2000, vol. III, p. 292

[4]Apuleio, Le metamorfosi o L’asino d’oro, II, 1, trad. C. Annaratone,Milano, BUR, 1999, p.113

[5]Miguel De Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio, a cura di Mario Polia, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 2006, p. 133

[6]Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, in Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano, Meridiani Mondadori, 1995, p. 372.

[7]Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, in Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano, Meridiani Mondadori, 1995, p. 377.

[8]Cfr. Emilio Garroni, Pinocchio uno e bino, Laterza, Roma.Bari, 1975

[9]Reinhold Merkelbach, Introduzione a Le metamorfosi o L’asino d’oro, Milano, BUR, 1999, p. 22.

[10]Franz Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), trad. A. Lavagetto, Milano, Feltrinelli, p. 47

[11]Romano, Luperini, Pietro Cataldi, Lidia Marchiani, La scrittura e l’interpretazione, ed. blu, vol. 5, tomo secondo, Dal Naturalismo alle avanguardie, pp. 1133-1166

[12]Th. W. Adorno, Appunti su Kafka, in Prismi, Torino, Einaudi, 1972, pp. 250-251.