Francesca Romana Camarota - «Riman da parlare della cucina»: silenzi, assenze, dimenticanze, negazioni

La presenza del cibo nella scrittura femminile tra ‘900 e oggi

 

È nello stesso tempo liberatorio e doloroso scorrere il catalogo Le immagini affamate; donne e cibo dalla natura morta ai disordini alimentari, relativo alla mostra tenuta ad Aosta nel 2006: decine di artiste dalla seconda metà del ‘900 che con sempre maggiore consapevolezza intrecciano e svelano legami tra cibo, corpo femminile e le loro rappresentazioni. Senza pietismi, ipocrisie, talvolta con spietatezza ed ironia, sempre con coraggio e lucidità. Ricchissimi e fertili gli anni ‘70: the dinner party di Judy Chicago, The semiotic of the kitchen di Martha Rosler, Identical lunch di Alison Knowles, il video Still di Cindy Sherman. Ed il rivoluzionario Festino di primavera di Meret Oppenheim del 1959: il corpo nudo della modella si fa tavola per il cibo che deve essere mangiato dagli spettatori direttamente dal suo corpo. O anche l'installazione BV52 di Vanessa Beecroft: una lunga tavola di vetro trasparente intorno alla quale spiluccano cibi talmente colorati da sembrare falsi, decine di modelle molto magre, alcune quasi nude e altre interamente vestite, coinvolte in un congelato, faticoso ed afasico rituale alimentare. O i tre video di The Kitchen: Homage to Saint Therese (2009) della performance tenuta da Marina Abramovich nella cucina dell’ex convento di La Laboral a Gijon in Spagna e presentati a Milano e Napoli nella mostra Estasi. In uno di questi l’artista tiene in mano per un’ora un pentolino di latte che sembra quasi animato da un terremoto interiore, di tale progressiva violenza da far uscire quasi tutto il contenuto sulle mani della donna.

Anche il cinema, e soprattutto negli ultimi anni, parla di cibo in un modo inusuale e anche provocatorio: basti pensare ad Hungry hearths di Saverio Costanzo del 2015; o anche Primo amore di Matteo Garrone del 2004. In entrambe le pellicole le protagoniste si confrontano, per scelta o per costrizione, con modelli alimentari e sociali fortemente disturbanti.

 

È più complesso e sfuggente cercare le tracce del cibo e del corpo femminile nella narrativa italiana scritta da donne della seconda metà del ‘900. C’è un punto di partenza: Nascita e morte di una massaia di Paola Masino del 1939. Nato per una sfida anche dolorosa con Massimo Bontempelli, il romanzo/fiaba nera/racconto gotico/exemplum eretico e paradossale è una allucinata ed allucinante cronaca di una distruzione, di un rifiuto, di una perdita. Sarcastico, surreale, disperato, sempre in bilico sul vuoto di una figura femminile sempre più macchietta e caricatura di se stessa, dilaniato tra il dover essere e il volersi sottrarre anche fisicamente, è uno spietato e ipnotico atto d’accusa nei confronti degli stereotipi asfissianti del Fascismo nei confronti delle donne, solo madri, solo fattrici, solo nutrici. A questo proposito è interessante notare che negli anni del regime vennero pubblicati in Italia molti manuali culinari (sia di cucina autarchica che di cucina degli avanzi e con gli avanzi; Vivere bene in tempi difficili, Come le donne affrontano le crisi economiche entrambi degli anni ‘30; nel 1931 venne anche pubblicato Poesia nascosta: seicento ricette di cucina ebraica di Lia Levi) scritti da donne. Gli stereotipi sui ruoli e sulle identità non vennero messi in discussione, anzi ribaditi, nel ribadire un protagonismo femminile confinato negli spazi della cucina.[1] La massaia della Masino è una ribelle che vorrebbe fuggire dal labirinto/prigione/ragnatela (come non pensare ai ragnimadre di Louise Bourgeois?) delle convenzioni materne e sociali. Cerca di farlo, per quanto può. Ma può solo trovare affinità con Pinocchio, con un mondo di cartapesta, un sogno delirante, incoerente, popolato di creature bidimensionali di carta, italica e dozzinale versione del teatro balinese delle ombre. C’è il cibo, viene nominato, preparato, mangiato. Ma è gessoso e falso come il cibo di scena in teatro. La Massaia pensa alla morte, la Massaia vede la sessualità e la procreazione come violenza e sopraffazione, la Massaia ha fame; e come acutamente sottolinea Lucia Re

 

La fame quindi non solo rivela il vero volto della guerra, ma mette in crisi il sistema del disciplinamento sociale di classe e di genere su cui il fascismo si basa. [...] il corpo semantico del cibo e della nutrizione quindi si rivela essere veicolo ideale di resistenza [...] non solo per quanto riguarda la codificazione dei ruoli sessuali ma rispetto all’ideologia fascista generale.[2]

 

Ed in maniera analoga osserva Piero Meldini:

 

Il disprezzo del cibo nella narrativa rosa degli anni Trenta-Quaranta, in effetti, non sembra solo in rapporto con l’anoressia adolescenziale, né con la mera riproposizione del binomio amore-inappetenza [...] In breve: nel rifiuto del cibo si mimetizza quello della cucina, del matrimonio, della maternità, insomma del ruolo tradizionale della donna. È singolare che proprio i romanzi rosa, veri o presunti veicoli della morale tradizionale, di messaggi consolatori, di un’educazione sentimentale timorata e fiabesca, rispettino la prima generazione femminile che esprime un’obiezione di massa, benché largamente inconsapevole, alle  «faccende» domestiche.[3]

 

Atteggiamento femminile inatteso ma in linea con quanto emerso da una ricerca sulle aspirazioni sul futuro delle adolescenti nel 1938: pochissime desideravano essere madri, mogli, casalinghe.

Alla fine del libro, la Massaia muore. Ma solo così potrà essere quello che vuole essere: nutrimento per la natura e non solo per lo Stato, mostruoso, spietato, grottesco inghiottitore di fanciulle.

 

La storia di Elsa Morante, L’Agnese va a morire di Renata Viganò e Pimpì oselì di Elena Gianini Belotti, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg: ovvero, la seconda guerra mondiale sugli ultimi Ida e Useppe, la resistenza partigiana di una vecchia grossa contadina, la vita familiare nella provincia bergamasca degli anni ‘30, la vita di una delle famiglie culturalmente più importanti e politicamente impegnate contro la dittatura. Quattro opere differenti accomunate dal periodo storico e divise dal cibo e sul cibo.

Il testo della Belotti, ambientato nella durissima, retriva, chiusa provincia bergamasca degli anni ‘30 ha come protagonista Cecilia, una bambina che vive per alcuni anni con il fratellino e la madre, maestra elementare volontariamente lontana da Roma e dal marito incapace di trovare un lavoro serio, in un paesino delle valli bergamasche. La sottile ironia che percorre le pagine, originata soprattutto dagli stupori di Cecilia nei confronti dell’incomprensibile mondo degli adulti, non impedisce al romanzo di essere ugualmente un atto di accusa nei confronti del Fascismo. Tutto il fragile e corrotto castello di carte della dittatura viene scardinato dall’occhio attento e acuto della bambina: la scuola, la famiglia, i rapporti tra le persone, le società in cui vive -sia quella agricola, retrograda, poverissima della provincia bergamasca che quella piccolo borghese ed operaia ugualmente misera e violenta di Roma. Terrificante è la descrizione degli zii paterni Marcella e Beppe che cercano qualsiasi tipo di cibo nei campi:

 

Marcella e Beppe vagano famelici, raccolgono more dai cespugli di rovo e frutta marcia sotto gli alberi, rosicchiano bacche di rose canine e grattaculi, masticano grappoli di fiori d’acacia, divorano fichi d’India ancora acerbi riempiendosi la bocca di spine. Raccattano i noccioli delle albicocche e delle pesche, li schiacciano con un sasso e mangiano avidi la mandorla. Talvolta Cecilia li ha sorpresi nell’orto che il papà coltiva a ingozzarsi di pomodori ancora verdi, fagiolini, cetrioli, cercando penosamente di inghiottire in fretta per dissimulare il furto. Marcella l’ha fissata deglutendo a vuoto mentre rosicchiava una mela, e con sua tremenda vergogna ha raccattato il torsolo da terra e l'ha spolpato finché non è rimasto che il picciolo. Persino i semi ha ingoiato.[4]

 

È molto interessante che lo svelamento degli inganni del regime passi attraverso il cibo ed il rovesciamento dei ruoli genitoriali: è il padre ad essere l’adulto accudente, premuroso nei confronti dei figli, è il padre che cucina con attenzione ed amore sia spuntini per il mare che pranzi completi - compreso il ciambellone - per festeggiare il ritorno della famiglia da Bergamo. La madre, al contrario, è dura, severissima, umilia in continuazione i bimbi, ottusamente ligia al regime, mai dimentica del proprio passato di stenti e privazioni, che però vede come il solo modello educativo corretto. Una scena in particolare, riferita al cibo, colpisce per la sua crudeltà così inutilmente gratuita da giustificare l’inappetenza (anche politica e sociale?) di Cecilia: durante una visita ad un anziano amico bergamasco la bambina si accorge, in un crescendo di sgomento ed orrore, che questo aveva preparato delle trappole con uccellini vivi per poter catturare gli uccelli migratori da mangiare poi con la polenta. Il disgusto che prova vedendo come e quanto e con quale frenesia l’uomo uccide gli uccellini viene decuplicato dal godimento goloso che percepisce nelle parole della madre quando rievoca «il profumo dell’intingolo che sfrigolava sul fuoco del camino. Certi odori non si dimenticano più per tutta la vita».[5]

 

Tutta La storia è concentrata sulla fame, sulla ricerca del cibo, sul desiderio assoluto di placare il vuoto ormai congenito dello stomaco. Ida, povera, poverissima, con un bimbo sognante, luminoso e malato da crescere e sfamare, si aggira per Roma, sventrata dai bombardamenti e umiliata dall’occupazione nazifascista, come un animaletto famelico, disperato e spesso perdente, cercando di colmare il languore cronico della guerra, della miseria, della vita. Ruba delle scatolette di cibo, un uovo, partecipa al saccheggio di sacchi di farina, diventa sempre più piccola e smunta; mangerebbe aria e acqua con erbe di campo pur di nutrire Useppe. La fame è anche fame di vita, di esistenza, forse anche di affetto e amore, di una vita normale anche se modesta; e non è solo soddisfacimento fisico come succede invece per Useppe e Nino, i suoi due figli che quando mangiano lo fanno con gusto e voracità. Nel testo morantiano però il cibo ha come «sapor di cenere»: è sì un’esigenza ma non ha né concretezza né la tattilità. Del resto, è talmente disperante e ineluttabile l’esistenza di Ida, creatura segnata già nel brevissimo nome a un’esistenza effimera e quasi trascurabile,  un’esistenza da ‘cosa’, paradigmatica e quasi proverbiale nel suo destino già scritto.

 

Nel romanzo della Viganò il cibo viene menzionato, spesso sotto forma di ‘minestra’. O anche salumi, pane, latte… I partigiani hanno fame, i civili hanno fame, i soldati tedeschi razziano e saccheggiano le fattorie e le case in cerca di cibo. È la stessa protagonista però, o per meglio dire la sua fisicità essenziale, forte, robusta, come un albero secolare o una roccia granitica, a rendere corporeo il testo: il cibo è presente ma è come se non avesse importanza nel suo percorso di consapevolezza ed azione giusta. È il suo corpo sicuro a dettare le regole, a proteggere e far crescere la vittoria della giustizia e dell'azione civile sulla barbarie e sulla crudeltà.

 

Anche in un altro testo morantiano, Menzogna e sortilegio, il cibo è quasi inesistente: la labirintica struttura a chiocciola del racconto, il linguaggio sontuoso e straniante, compiaciuto ed arcaico, le infinite digressioni, le menzogne, i nascondimenti, i silenzi, l’atmosfera di svelamento sempre presente e atteso ma sempre rimandato, i personaggi, narratrice compresa, ambigui, volutamente irrisolti e grottescamente melodrammatici…È un’opera talmente potente e inclassificabile, disturbante e ipnotica da confondere e spaventare, discesa senza pietà nel maelström dell’anima. da rendere tutto superfluo; del resto la madre di Elisa, la voce narrante in prima persona, è inappetente, il padre mangia pochissimo, e la stessa narratrice dice: «mangiucchiavo svogliata il mio pezzo di pane bagnato di lacrime».[6] È vero che con Rosaria, prostituta innamorata di suo padre che prenderà in casa con sé Elisa dopo la morte dei suoi genitori, la ragazza mangia di gusto. Ma il cibo di cui si nutre sono dolcetti, frutta secca, confetti, uvetta, gelatine…cibo da caricatura, come è in fondo Rosaria, vitale, di buon cuore ma facilmente vulnerabile e personaggia presa in prestito da un ‘feuilleton’ ottocentesco.

Lessico famigliare è molte cose: romanzo sfaccettato, cronaca storica ma nello stesso tempo mémoire personale, drammatico, ironico, sincero e pudico, asciutto, fiabesco, complesso ma affabile. Anche se ambientato nello stesso lasso di tempo degli altri, il libro della Ginzburg, almeno nella prima parte, è come fuori dal tempo, è un ritratto fedele, sentito e sobrio di una famiglia italiana non ordinaria di cui viene narrata la quotidianità con sorridente attenzione. Ma di questa quotidianità il cibo non fa parte. Solo qualche accenno: la voracità del padre, la curiosità alimentare della madre…Ma niente di più.

 

Una di quelle frasi o parole ci farebbero riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, tra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati [...]Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità famigliare che sussisterà finché saremo al mondo.[7]

 

Un’altra opera in cui il cibo è totalmente assente è Rinascimento privato di Maria Bellonci. Isabella d’Este Gonzaga, splendida voce narrante ed autorevole protagonista indiscussa della storia, della politica e dell’arte del XVI secolo, descrive con attenzione, cura ed amore il suo abbigliamento, un manicotto di pelliccia, l'acconciatura dei capelli, un libro, un addobbo floreale, facendo provare a chi legge la consistenza e la concretezza. Nel suo universo, immenso e nello stesso tempo circoscritto, nelle sue stanze piccole talora piccolissime nelle quali amava «vivere con se stessa», il cibo non ha posto. E poco importa che questo sia oggetto di creatività, stupore, meraviglia e potere nelle corti italiane, poco importa che nell’arco di tempo della vita di Isabella siano stati stampati almeno tre dei più importanti manuali rinascimentali italiani di cucina e gastronomia (Maestro Martino, Libro de arte coquinaria; Bartolomeo Sacchi detto il Platina, De honesta voluptate et valetudine; Cristoforo Messisbugo, Libro novo); il cibo, la più cogente quotidianità, non c’è. Forse perché tutto lo spazio è preso dalla scrittura, dalle parole, dalla testimonianza di se stessa come essere senziente, parlante, «come può essere un intelletto femminile indipendente in sé, pur accettando tutti i legami con la vita terrena».[8]

È la scrittura il cibo, la ragione di essere. Costrette per secoli a mangiare dopo e meno e peggio degli uomini della propria famiglia, a non seguire le proprie preferenze alimentari, costrette a vivere quotidianamente l'umiliazione dell’angolo del focolare, della cenere e della ricerca del commestibile, lo abbandonano quando capiscono che c’è altro che a sua volta può produrre la parola. «la sola volta che mi toccò quella scintillazione della vostra presenza».[9]

 

Questo solo volevo ancora dirvi. E quest’altro: giocate, ridete, cantate, e suonate, e studiate e leggete e fatevi dipingere quadri, amata mia nell’anima. Anche se vi scriverò ancora, e magari a lungo, forse mai vi saluterò con la commozione di stasera avendo scoperto in voi una delle rarissime creature che vivono una libertà inventata giorno per giorno, secondo i chiari e gli oscuri delle proprie verità.[10]

 

Se la parola è cibo, è sostanza e basta da sola a nutrire il testo e la protagonista/voce narrante che lo crea, allora questo può spiegare, pur con i dovuti distinguo tra opere molto diverse, anche il silenzio sul cibo, o le poche parole, in altre opere di autrici italiane. Basti pensare quindi alla tetralogia L’amica geniale di Elena Ferrante: pur se ambientata prevalentemente a Napoli, perennemente affamata, poverissima, bisognosa, così come lo sono i protagonisti e le protagoniste, gli accenni non generici al cibo sono pochissimi e quasi sempre veloci e sbrigativi. Nonostante ricorrenze e feste da celebrare con scorpacciate alimentari, nonostante una famiglia del quartiere abbia una salumeria nella quale tutti comprano, il cibo è poco più che citato. È una comparsa secondaria nella vita di Lina e Lenù, vita che rincorrono per superarla, nel tentativo di uscire dalla circolarità vischiosa ed infida delle loro esistenze. Il loro desiderio cocente di uscire dal gran teatro del mondo è tale forse perché si sono accorte che questo è di cartapesta scadente, hanno visto quanto sono sbiaditi i colori e come sono di terz’ordine le quinte; e quindi tutto quello che le riporta indietro è inutile ed anzi pericoloso.

 

Il silenzio sul cibo riguarda anche La mennulara di Simonetta Agnello Hornby e Accabadora di Michela Murgia: anche se personagge molto differenti condividono l’insularità sia geografica che mentale dei loro compaesani. E se sono quello che sono è dovuto solo alla loro intelligenza e sensibilità, doti che il cibo non migliora o esalta.

Sia pure nelle oggettive differenze (cronologiche, autoriali, contenutistiche) c’è un comune sentire che collega Lessico famigliare  a Mia madre è un fiume di Donatella Di Pietrantonio, Non vi lascerò orfani di Daria Bignardi, Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone: sono tutti libri di memorie famigliari, opere che cercano di ricostruire, ritrovare e rievocare soprattutto madri. Difficili, bellissime, faticose, contadine, professoresse, quasi analfabete…È però solo la parola che le evoca, nient’altro: non le tradizioni familiari, le consuetudini alimentari, il potere evocativo dei piatti cucinati dalla madre forse perché quelle madri sono tutte fuori dai ruoli, o per inconsueta ribellione personale o per malattia mentale. Fa eccezione l’opera prima, autobiografica, di Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume: la scrittrice parla con la madre afflitta da demenza senile, anche attraverso i i suoi piatti che adesso è lei figlia a preparare; cibi molto reali, gustosi, poveri ma di cui pare di provare odori e sapori tanto è viva l’essenziale descrizione della protagonista narratrice. Quello è il loro linguaggio; su quel terreno, che è stato anche motivo di progresso sociale ed allontanamento dalla povertà crudele, entrambe si ritrovano.

 

E potrebbe essere questo il nucleo fondante di tutte quelle narrazioni, particolari e intriganti, che la loro origine in Casalinghitudine di Clara Sereni del 1987. Un toccante, e sobrio percorso di vita attraverso ricette che hanno segnato momenti importanti nella vita e della vita dell’autrice. ricette semplici, quotidiane, casalinghe. Come una madeleine o come una porzione del comfort food preferito, sono un modo per trovare il padre, amato ma difficile, la madre morta troppo presto, le sorelle, una famiglia complessa e articolata, il proprio privato che in quegli anni e per Clara Sereni vuol dire anche e spesso il pubblico, l’impegno civile, la partecipazione alla vita pubblica dello Stato.

 

perché è impossibile una vita solo funzionale, senza piccoli gesti di agio, senza un odore di cena, senza una qualche ricchezza. Così le mie radici aeree affondano nei barattoli, nei liquori, nelle piante del terrazzo, nei maglioni e coperte con i quali vorrei irretire il mondo, nel freezer [...] nella mia vita a mosaico la casalinghitudine è anche un angolino caldo [...] le ricette sono una base per costruire ogni volta sapori nuovi, combinazioni diverse.[11]

 

Perché la casalinghitudine è un’attitudine della mente e del cuore, una disposizione alle combinazioni affettive, nate da buone consuetudini e da benedette improvvisazioni.  È il diritto di rivendicare il proprio rapporto col cibo che è sempre significativo e narratore di storie e legami. È un libro sincero ed essenziale, che non concede sconti e non idealizza né l'aspetto culinario né la rievocazione non sempre pacifica della famiglia e del passato dell’autrice. E (ri)prenderlo in mano per cercare una ricetta da realizzare porta con sé il (ri)leggere le emozioni a quella collegate.

A Casalinghitudine è possibile associare per affinità i libri di Simonetta Agnello Hornby (Caffé amaro, Piano nobile) ma soprattutto Un filo d’olio: una commossa, idilliaca e sognante rievocazione di alcune infinite estati infantili nella tenuta di campagna di Mosé, in Sicilia, luogo edenico, perfetto, luminoso, e cornucopia generosa di armoniosi sentimenti e rigogliosi prodotti della terra. L’autrice, insieme alla sorella Chiara, ha voluto (come viene precisato nell’introduzione), onorare la madre e la zia, sorelle che si sono sempre amate, e «la cultura della tavola della nostra famiglia»

Un altro testo simile al volumetto della Hornby è Croccante e pinoli di Antonella Ottai. Contiene solo 6 ricette, italiane e mitteleuropee come omaggio al padre. L’autrice scrive per ricordarlo e ricostruire il percorso accidentato della loro vita comune, ma anche per riallacciare di nuovo i rapporti con la figlia alla quale dedica le ricette. Anche in questo caso la saporosa e promettente concretezza del soggetto  narrativo si fa veicolo della ricerca degli affetti  e del debito di amore filiale e materno.

Se si dovesse quantificare quanto cibo c’è nella produzione narrativa femminile italiana dagli anni ‘30 ad adesso si rimarrebbe con ben poco, soprattutto se confrontata con la coeva produzione maschile: Pasolini, Moravia, Bianciardi, Tomasi di Lampedusa, Calvino… Forse però la sua mancanza o la sua episodicità non equivalgono alla sua condanna o dannazione - come non pensare all’anoressia come un mezzo per provare a liberarsi dal sistema patriarcale? - quanto piuttosto al suo diventare altro, qualcosa che non appartenga per forza agli eterni stereotipi femminili  in nome di una diversa ed urgente necessità.

 

Conoscere e mangiare, parola e cibo, dice Alves, sono fatti della stessa pasta, sono figli della stessa madre: la fame[12]

 

La parola è cibo, la conoscenza è alimentazione, il sapere è sapore, la scrittura è cucina[13]

 

Signora, che cosa possiamo mai sapere noi donne se non filosofia da cucina? [...] E  io dico spesso pensando a tali bagattelle: se Aristotele avesse cucinato avrebbe scritto molto di più.[14]

 

(Il testo è tratto dalla relazione tenuta al Congresso ADI Catania, 2022)

 


[1] M. P. Moroni Salvatori, Novecento in cucina bibliografia gastronomica italiana 1900-1950, Bologna, Pendragon, 2014.

[2] AA.VV., Il cibo e le donne nella cultura e nella storia Prospettive interdisciplinari, a cura di M.G.Muzzarelli e L. Re, Bologna, Clueb, 2005, pp.180-181.

[3] P. Meldini, Gli Italiani e il cibo negli ultimi due secoli, Rimini, Guaraldi LAB, 2013, pp.76-77.

[4] E.Gianini Belotti, Pimpì oselì, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 1996, pp.113-114

[5] Gianini Belotti, ivi, p.128.

[6] E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi, 2014, p.663.

[7] N.Ginzburg, Lessico famigliare in Opere vol.I, Milano, Mondadori (‘Meridiani’), 1986, pp.920-921.

[8] M. Bellonci, Rinascimento privato, Milano, Mondadori, 1989, p.554.

[9] M. Bellonci, ivi, p. 546.

[10] M. Bellonci, ivi, p. 555.

[11] C. Sereni, Casalinghitudine, Torino, Einaudi, 1987, p. 165.

[12] F. Rigotti, La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria, Bologna, Il Mulino, 1999, p.13

[13] F. Rigotti, ivi, p.20

[14] Juana Ines de la Cruz monaca messicana del XVIII secolo, autrice forse del Libro de cocina.