Francesca Matteoni - Prezzemolina e i bambini delle fate

Il terreno della fiaba / Nascere nell’orto delle fate / Le prove, l’aiutante magico, il Bel Giullare

Il terreno della fiaba

Molti anni fa, all’inizio dell’estate, le maestre di una scuola materna della mia città misero in scena con il teatro dei burattini la fiaba toscana di Prezzemolina. I bambini si erano preparati bene per lo spettacolo, imparando una filastrocca sulla coraggiosa ragazzina, facendo disegni e riempiendo varie pagine del quaderno dei ricordi. Dopo la festa, per vari giorni, mia cugina che aveva allora 4 anni continuò a cantare fra sé e sé la storia del cugino Memè e delle fate cattive, ridendo per gli omini che escono impazziti dalla Scatola del Bel Giullare. La guardavo dalla finestra giocare nel prato, intonando C’era una volta una bambina, che si chiamava…, pensando che era proprio lei la piccola Prezzemolina, bella, innocente e arguta, che avrebbe dovuto presto imparare a guardarsi da pericoli meno fantastici di fate cannibali e dalle facili promesse di futuri adulatori, senza tuttavia perdere la curiosità per la scatola a sorpresa, un po’ beffarda, un po’ meravigliosa, che è la sorte.
Della fiaba uno dei primi elementi ad emergere è proprio una certa sfrontatezza, la personalità della protagonista che non ha nulla del vittimismo della figura femminile, dell’eccesso di purezza pari alla dose di sciagure che subisce, di tanta tradizione fiabesca europea. Prezzemolina non aspetta passivamente o con spirito sacrificale di essere riscattata da un eroe: anche quando è terrorizzata, in preda allo sconforto, non cede, sa il fatto suo, resiste per salvarsi letteralmente la pelle.
Eppure in questa storia piena di movimento e dialoghi vivaci, tutti tendenti alla migliore soluzione finale, c’è qualcosa di oscuro e inquietante, che si delinea fin dall’inizio nell’incognita identitaria di Prezzemolina. C’è una casa materna, una donna incinta ed un orto, un’immagine familiare, che si popola di presenze ostili. C’è una bambina che cresce molto in fretta, ma lontano dalla cura dei genitori, sempre minacciata, in pericolo. Chi è in realtà la protagonista, cosa rappresenta? Come spiegare la sventatezza della madre, la sua sparizione nello svolgersi della trama?
Una fiaba è uno specchio distorcente – prende la realtà del mondo e la trasforma attraverso i sentimenti - crea figure visibili, di carne, dalla paura e dai desideri. Molto prima di diventare strumento pedagogico o divertimento per i più piccoli, è memoria dell’uomo: tramandata oralmente, poi nella sua forma scritta, porta il segno di diverse epoche culturali, credenze religiose, pensieri, che si succedono in una data area nel tempo. Voce su voce, segno su segno, potremmo paragonare la fiaba ad un terreno straordinariamente vario, formato dall’accumularsi di reperti archeologici nelle ere. Quando arriva a noi è compito difficile distinguere tutti i componenti, ma la loro coralità ci colpisce come qualcosa di ancora attuale e affascinante. Italo Calvino stesso, parlando della lingua da lui tradotta e riscritta nelle fiabe italiane ebbe a dire che durante la stesura si faceva forte:

del proverbio toscano caro al Nerucci: ‘La novella nun è bella, se sopra nun ci si rappella’, la novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s’aggiunge passando di bocca in bocca. Ho inteso di mettermi anch’io come un anello dell’anonima catena senza fine per cui le fiabe si tramandano, anelli che non sono mai puri strumenti, trasmettitori passivi, ma i suoi veri autori.[1]

Per rispondere alle domande allora, sciogliere i nodi che tengono insieme la trama del racconto e scoprire alcuni degli elementi originali, occorre non dar nulla per scontato e prendere anche la più bizzarra delle apparizioni molto sul serio. Ricordarsi che la fiaba non è un’invenzione d’autore, ma una variante di uno stesso tema all’interno di una vasta tradizione, sia temporale che spaziale. Si comincerà dunque dall’inizio, dal primo evento davvero straordinario, che non ha nulla da invidiare alla magia di una strega o di un orco: la nascita della protagonista.

 

Nascere nell’orto delle fate

Prezzemolina è una fiaba del tipo A- 310 indicato nell’indice di Atti Aarne e Stith Thompson come “la principessa nella torre”.[2] La più famosa di queste è senz’altro “Raperonzolo” dei fratelli Grimm, ma se vogliamo rintracciare l’antenata, la parente prossima della nostra storia, essa è senz’altro “Petrosinella” de Lo Cunto de li Cunti del Basile.[3] In queste fiabe una donna incinta che vive in prossimità di un campo o di un orto, viene colta da un desiderio irrefrenabile per la pianta che vi cresce abbondantemente: il raperonzolo oppure il prezzemolo delle due fiabe italiane. Tuttavia l’ingordigia della futura madre sarà fatale per l’essere che porta in grembo: i proprietari dell’orto sono infatti creature soprannaturali: un’orchessa in Petrosinella, una maga in Raperonzolo ed alcune fate nella nostra Prezzemolina, che mal tollerano l’intrusione della donna, imponendole di dar loro il bambino o la bambina quando sarà nata. La versione ottocentesca dei Grimm si differenzia dalla versione di Basile: prima di tutto il prezzemolo, la pianta originaria, viene sostituita con il raperonzolo; non è più la donna a procurarsi la pianta, ma il marito a rubarla e contrattare con la strega; infine la figura della protagonista è assai più docile delle due eroine italiane. Un certo sentimentalismo annacqua e nasconde le tematiche ben più cupe e i caratteri forti della fiaba antica.
Il raperonzolo stesso è un simbolo positivo: è infatti una pianta autogenerante, capace di riprodursi senza l’aiuto degli insetti e quindi indice di fertilità, che ben si accorda con lo stato della donna nella fiaba.[4] Il bene ed il male sono nettamente divisi, uniti solo dalla solerzia incauta del marito nell’accontentare la moglie, avventurandosi nel campo della strega. Ben diverso è il ruolo della madre nelle varianti italiane e del prezzemolo, la pianta del suo desiderio: fin dai trattati più antichi di medicina la pianta era nota come abortivo, capace di provocare il ritorno del ciclo mestruale interrompendo così le gravidanze indesiderate.[5] Il prezzemolo faceva parte della farmacopea a base di erbe e rimedi magici usati nella medicina popolare amministrata per lo più da donne e guaritrici; era una delle piante associate alla stregoneria, così come la pratica dell’aborto nei trattati di demonologia veniva collegata alla presenza del diavolo e ai malefici della strega.[6] La madre è dunque implicitamente complice delle ‘fate’ a cui la futura bambina è destinata. Entrando nell’orto, un luogo apparentemente domestico, eppure popolato di creature potenti, varca deliberatamente un doppio confine: quello della casa, del luogo umano, al sicuro dagli spiriti demoniaci, e quello del corpo materno, fatto, secondo l’etica sociale e religiosa del tempo, per contenere e nutrire il vivente e non espellerlo anzitempo.
È curioso, riflettevo durante la rilettura della fiaba, come io stessa da bambina, affacciata alla finestra o dal piccolo terrazzo della mia bisnonna, che tramite una rampa corta di scale conduceva nel cortile, considerassi diversamente il prato dove giocavo e l’orto dove stavano le verdure. Nell’orto dovevo muovermi con cautela per non calpestare gli ortaggi, le insalate. Ma c’era qualcosa d’altro che in un certo senso mi intimoriva: nell’orto avvertivo le “cose” crescere sotto di me, tanto più visibili che altrove perchè mi avrebbero sfamato e ne avrei così fatto parte. In questo luogo d’ombra la vita si sviluppa dal terreno, dal sottosuolo, da dove non c’è respiro, dove stanno i morti, il buio, i segreti. Ogni pianta si nutre di un’esistenza a sua volta passata e trasformata.[7] Si ricorderà qui un’altra fiaba del Cunto, “La mortella”, dove una madre senza figli partorisce una pianta di mortella, da cui in seguito uscirà una bellissima fata, una donna meravigliosa da qualcosa di non umano, sebbene carico di energia vitale.[8] Il feto abortito, impossibilitato a ricevere un riconoscimento sociale e religioso tramite il battesimo, condivideva, sebbene in altri termini, una stessa natura straordinaria. Sepolto all’aperto, nei campi, non esauriva per questo il suo potenziale fisico, tutta la vita a venire che gli era stata improvvisamente sottratta. La tradizione popolare europea fa di questi strani morti creature fantastiche, capaci di interferire con il mondo quotidiano dei viventi, spesso influenzandolo negativamente. Nel migliore dei casi diventano folletti dispettosi o spiriti della casa, incapaci di abbandonare il luogo originario di residenza, ma possono anche trasformarsi in piccoli demoni-vampiro che tornano a tormentare la madre ed il nucleo familiare.[9]
C’è un altro legame tra i bambini morti senza il battesimo ed il soprannaturale: essi erano infatti al centro di una delle più macabre credenze sulla stregoneria. Durante il sabbah le presunte streghe disseppellivano i corpicini, per nutrirsene o bollirli nel loro calderone così da ottenere l’intruglio magico che permetteva loro di resistere alla tortura e di volare.[10] Similmente un racconto francese presenta un gruppo di fate danzanti che si trasformano in scheletri, rivelando l’aspetto mortifero della loro natura, per divorare il corpo putrescente di un piccolo morto non battezzato.[11]
Se da una parte questo spiega l’interesse delle padrone dell’orto per Prezzemolina, alcune caratteristiche della fiaba restano da comprendere, prima tra tutte l’aggressività e la malignità attribuita alle stesse fate, che le imparentano più con le orche e le streghe delle altre versioni menzionate, che non con l’idea di essere femminile etereo, talvolta capriccioso, ma fondamentalmente positivo che associamo alla parola “fata”. Come osserva Michele Rak, riguardo le fate nei racconti di Basile, esse sono in genere apparizioni straordinarie e benigne,[12] ma qui sostituiscono l’orca e la strega nel personaggio della fata Morgana, l’ultima pericolosa avversaria da sconfiggere per Prezzemolina. Nell’apparente ribaltamento dei ruoli della fiaba in realtà le cose sono rimesse al loro posto: fate, orche, creature di un altro mondo dentro il nostro, sono tutti esseri sospesi tra il desiderio per la vita umana ed il loro non appartenervi affatto, custodi del confine tra la nostra dimensione e quella ignota del post mortem. La trasgressione della madre e la natura in divenire della bambina fanno sì che esse possano impadronirsi, almeno temporaneamente, del destino della bambina. Sono presenze minacciose, ma solo quando un essere umano non rispetta l’ordine implicito delle cose oppure quando una creatura è suo malgrado essa stessa connotata da un’ambigua liminalità.

 

Le prove, l’aiutante magico, il Bel Giullare

Eppure, si può continuare ora, Prezzemolina cresce, non diventa immediatamente schiava e pasto delle fate, né tanto meno feto sotterrato nell’orto. Come bambina, individuo non ancora del tutto indipendente dalla madre e ricca di quel futuro, del potere dell’esistenza a venire ricercata dagli esseri ultramondani, si colloca in una zona incerta, dove si forma l’identità. Se da una parte dunque la fiaba nasconde lo spettro delle pratiche abortive, dall’altra essa è anche una storia di formazione: segna il percorso difficile dall’infanzia alla maturità, il tutto in una luce sinistra. È infatti ancora la madre a determinarne la malasorte per la seconda volta: dopo averla già “promessa” alle fate mentre era nel ventre.

Un giorno la mamma era distratta. Tornò Prezzemolina da scuola e disse: - Dicono le Fate che vi ricordiate quel che gli dovete dare, - e la mamma, senza pensare, disse: - Sì, di’ che la piglin pure.
L’indomani la bambina andò a scuola. – Allora, se ne ricorda la tua mamma? – chiesero le Fate.
- Sì, dice che potete prendere quella cosa che vi deve dare.
Le Fate non se lo fecero dire due volte. Afferrarono Prezzemolina e via.[13]


Niente è casuale nelle fiabe. Nella risposta affrettata della madre, attribuita alla sua distrazione, riecheggiano nuovamente le credenze magiche, legate al rifiuto del concepimento e alle pratiche stregonesche. Nel testo per eccellenza sulla stregoneria, il Malleus Maleficarum, scritto da due domenicani alla fine del XV secolo ed intriso di misoginia, il modo più rapido di consegnare la futura prole al diavolo si risolve nell’uso della parola, gettando una rabbiosa maledizione sull’eventuale figlio. “Che se lo prenda il Diavolo!”, poteva esclamare una donna spazientita, parlando del suo bambino, desiderio che rischiava di essere esaudito, come punizione divina.[14]
Questo esempio collegato alla fiaba è memore prima di tutto dell’unica azione reale compiuta dalle presunte streghe, ovvero l’uso della parola, la lingua svelta e talvolta maligna di alcune delle accusate; in secondo luogo, più rilevante, di un’idea di maternità animata da una tensione conflittuale tra madre e figlio, non del tutto risolta dal legame affettivo. I figli infatti, traevano e traggono la loro vita dalla madre, quasi, si potrebbe inferire, sottraendogliene un po’, fisicamente attraverso il nutrimento nel grembo ed il processo di allattamento, e spiritualmente, in un contesto culturale e religioso, che esaltava il ruolo sacrificale della madre, colei che ripara, che nutre. Nello stereotipo femminile che ne viene fuori e che ha influenzato, talvolta viziato, l’interpretazione storica dei processi per stregoneria della prima età moderna, la linea che divide la madre dalla strega è tracciata nel corpo del bambino, nella sua forza vitale, che può essere donata, così come voluta indietro, agognata, rubata.[15]
Prezzemolina dunque per essere, diventare adulta, lotta contro una serie di creature femminili che derivano tutte, quasi una sorta di proiezione, di creature uscite da uno specchio, dalla figura materna. Presa in custodia dalle fate, dovrà ingegnarsi per restare viva e non cotta e mangiata dalle suddette. Prima di essere ammessa nella comunità, dovrà superare delle prove, proprio come il “piccolo innocente” di un racconto popolare umbro, che, defunto senza ricevere la salvifica acqua battesimale, dovrà tornare sulla terra per sette anni, affrontando tre compiti imposti da Dio, prima di essere ammesso in cielo.[16]
È a questo punto che interviene una presenza classica del fiabesco, l’aiutante magico, tratteggiato nel buon Memè, cugino delle fate, che svolge i lavori impossibili affidati a Prezzemolina e le dà indicazioni su come sfuggire alla temibile fata Morgana, e ottenere la scatola del Bel Giullare. Ogni volta Memè le chiede un bacio, ma Prezzemolina resiste: la morale della fiaba non può essere più chiara per le giovani donne… restare virtuose, sostituire all’emotività l’arguzia, almeno finché serve, finché non si è fuori pericolo e sicure delle buone intenzioni del corteggiatore.
Nella figura dell’eroe maschile, come nell’ambientazione della fiaba, vanno notate due caratteristiche non da poco, che differenziano la storia da tante altre della tradizione. Non c’è un principe valoroso, capace di vincere subito la ritrosia della ragazza, ma il cugino scapolo delle fate, con un nomignolo tutto toscano, che se da una parte fa simpatia, dall’altra non lascia certo immaginare un uomo avvenente, muscoloso o consumato e illanguidito dalla malinconia (come ad esempio il principe di Pelle d’Asino, nella fiabe di Perrault). Inoltre c’è una macroscopica mancanza nella topografia della storia: abbiamo l’orto e la casa, ma non c’è traccia del bosco! Quel luogo fantastico e oscuro, al cui attraversamento corrispondeva la crescita, la trasformazione del protagonista, qui è assente. Niente rovi, torri dentro la foresta, animali che escono da magiche ghiande come in Petrosinella: la maturazione di Prezzemolina è tutta descritta tramite azioni concluse in spazi domestici, dove, come uscendo dal sotterraneo dell’orto, si va dal buio alla luce, dal disordine all’ordine. Così il primo compito attribuitole sarà quello di dipingere una stanza nero-pece, piena di carbone, di bianco latte con ogni uccello dell’aria rappresentato sui muri. Da un mondo minerale, statico, alla volatilità del cielo, del respiro, della chiarezza. Poi, per non essere raggiunta dalla famelica fata Morgana, su consiglio del cugino Memè, colmerà dei vuoti, riparerà cose rotte o malandate, munirà alcuni personaggi degli strumenti per il loro lavoro, sazierà la fame di un gruppo di cani che si mordono tra loro. Ed infine, scesa nella cantina, altro spazio prossimo al sottosuolo, prediletto dalle streghe e da certi folletti dediti al vino (dal Cluricauno irlandese, al Linchetto toscano), metterà fine alla vita delle fate-megere, soffiando sulle candele accese che contengono le loro anime. Una credenza antichissima, diffusa nelle teorie mediche da Galeno fino ai primi del 1700, viene qui riadattata, nell’immagine della fiamma flebile, ma tangibile, nascosta nel remoto della casa. Il calore vitale, principio attivo dell’anima e dell’esistenza, agiva nel corpo e nell’umido radicale che ne costituiva il potenziale fisico, come il fuoco di una candela con la sostanza da bruciare – se ne serviva consumandola e portando con il tempo alla morte – oppure ne era sopraffatta, attraverso un malfunzionamento degli umori e del sangue, che la soffocavano.[17] Soffiando sulle fiammelle, Prezzemolina spegne il calore vitale delle fate: è all’interno dei loro corpi, simbolicamente rappresentati dalla cantina. Finalmente libera, potrà uscire dalla prigionia, sposare Memè e fare suo il palazzo della fata Morgana, diventando così donna e sostituendo le altre forze femminili che volevano relegarla nell’ombra e nella terra dei morti.
E, a questo punto ci chiederemo, la scatola del Bel Giullare? Cos’è, questo buffo vaso di Pandora, che vuol dirci, ha un ruolo e un significato?
Se lo ha, esso è il gioco in cui ogni elemento, perfino oscuro e drammatico, viene rielaborato continuamente in questa fiaba. La scatola del Bel Giullare è il linguaggio, l’ironia con cui la storia di Prezzemolina riesce a coniugare temi scabrosi del passato e della nostra coscienza collettiva con il senso d’avventura e scoperta, l’imprevedibilità del destino, in cui coinvolgere bambini d’ogni età. È la beffa costante dell’esistenza dove tutto si ripete, come gli omini insensati, indistinguibili l’uno dall’altro, che fuoriesce dalla scatola “a suon di musica”, e dove tutto sfugge al tentativo umano di preservare qualcosa, di mantenere l’ordine, di non finire. È il modo in cui la fiaba guarda di sottecchi la seriosa realtà e le dice: “Dopotutto, anche tu sei un’invenzione”.

 

Note:


[1]Italo Calvino, Fiabe Italiane, vol. 1, Milano: Mondadori, 1993, p. XXIII.

[2]Vedi Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, 1994.

[3]G. B. Basile, Lo Cunto de Li Cunti, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1999, pp.284 - 295.

[4]William Irvin Thompson, Imaginary Landscapes: Making Worlds of Myth and Science, New York, St. Martin’s Press, 1989. Citato in www.surlaline-
fairytales.com/

[5]Tractatus de Virtutibus Herbarum, Mainz, 1484, p. 140. John M. Riddle, Eve’s Herbs. A History of Contraception and Abortion in the West, Harvard, Harvard Unversity Press, 1997, p. 103

[6]Stephen Wilson, The Magical Universe. Everyday Ritual and Magic in Pre-Modern Europe, London and New York, Hambledon and London, 2000, pp. 123-124

[7]Vedi anche Michele, Rak, Logica della fiaba, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp.95-96.

[8]G. B. Basile, Lo Cunto de li cunti, cit., pp. 52-73

[9]Alfonso Maria di Nola, La Nera Signora. Antropologia della morte e del lutto, Roma, Newton Compton, 2001, pp. 175-178. Per uno studio approfondito su questi spiriti nella tradizione nordica si veda Juha Pentikainen, The Nordic Dead-Child Tradition, Helsinki, 1968.

[10]Johann Weyer, De praestigis daemonum, Basileae, per Ioannem Oporinum, 1563. Se ne veda la traduzione di John Shea, Witches, Devils and Doctors in the Renaissance, New York, 1991, pp. 172-173. Robin Briggs, Witches and Neighbours. The Social and Cultural Context of European Witch-Hunt, Oxford: Blackwell, 1996, pp. 65, 243-244.

[11]Alfonso Maria di Nola, La Nera Signora, cit. p. 179.

[12]Michele Rak, Logica della fiaba, cit., p. 147.

[13]Italo Calvino, Fiabe Italiane, cit., vol. 2, p. 456.

[14]Stephen Wilson, The Magical Universe, cit., p. 123

[15]Si veda Diane Purkiss, The Witch in History. Early modern and twentieth-century representations, London and New York, Routledge, 1996, pp. 91-112; Mary E. Wiesner, Women and Gender in Early Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 270; Adriano Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Torino, Einaudi, 2005, pp. 129-149. Inoltre Ottavia Niccoli, Il corpo femminile nei trattati del Cinquecento, in Gisela Bock, Giuliana Nobili (a cura di), Il corpo delle donne, Ancona, Transeuropa, 1988, pp. 25-43.

[16]Alfonso Maria di Nola, La Nera Signora, cit., p. 177

[17]Peter Niebyl, Old Age, Fever and the Lamp Metaphor, in Journal of the History of Medicine, vol. 26, no. 4 (Oct., 1971), pp. 351-368. Niccolò Serpetro, Il mercato delle meraviglie della natura. Overo Istoria naturale, Venezia, Tomasini, 1653, p. 15.