Francesca Bersino - Storia, non-storia, contro-storia

 

Per comprendere il titolo di questo percorso didattico leggiamo un passo tratto dal saggio dello scrittore e critico letterario Giuseppe Lupo, che mi ha suggerito le linee argomentative di questo iter: «Se per Storia si intende procedere di eventi che modifica le condizioni di vita degli individui, dal genere del romanzo storico (di impianto manzoniano, come ‘componimento misto di storia e invenzione’) discendono alcune tipologie narrative che reinterpretano il concetto di storia»[1]. In altre parole, metteremo a confronto tre concezioni di Storia, che affermano, o contraddicono, l’idea che il corso delle vicende umane proceda verso una progressiva realizzazione e miglioramento delle condizioni generali, specialmente delle classi subalterne.

 

Proprio dal romanzo storico manzoniano prenderemo le mosse.

 

1)   STORIA: Motore del cambiamento, laboratorio della modernità. 

-       A. MANZONI, I promessi sposi, cap. XXXVIII

 

Lo splendido saggio di E. Raimondi (Il romanzo senza idillio, Einaudi, 2000, ma sucito in prima edizione nel 1973) e gli studi di S. S. Nigro[2] ci mettono in guardia dal rischio di considerare il finale del romanzo come una celebrazione dell’happy end del vivere e della storia, non fosse altro perché Manzoni pone la parola “fine” solo dopo l’ultimo capitolo della Storia della colonna infame,  in cui ha ricostruito la pagina più nera del celebre delirio, ovvero della caccia agli untori. Nel cap. XXXVIII del romanzo si possono, tuttavia, ravvisare dei segnali di fiducia nel procedere degli eventi, che ci portano assai lontano dal pessimismo storico della tragedia Adelchi (il cui finale non lasciava spazio ad alcun cambiamento dei rapporti civili e sociali: «non resta che fare il torto o patirlo»). Questa fiducia viene espressa nel sugo di tutta la storia, allorché l’autore riporta la conclusione cui i due sposi sono giunti dopo una lunga ricerca e riflessione insieme: «i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma […]  la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e […] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore»; ovvero, pur avendo ben presente il fondo oscuro e imprevedibile della realtà (i guai, appunto), i due sposi affermano di poter guardare al futuro con fiducia, poiché la sicurezza nell’amore di Dio renderà i guai più sopportabili e, addirittura, farà sì che da essi possa nascere qualcosa di utile (sul significato di questa parola si apre lo spazio dell’interpretazione: la solidarietà? Il mettere da parte gli interessi individuali nei momenti di crisi? Rinunciare alla vendetta, ovvero al perpetuarsi del circuito del male?). Va sottolineato che tale prospettiva fiduciosa sul corso degli eventi appartiene ai due personaggi, non al narratore/autore, benché questi ammetta, appena dopo, che  «Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia».

 

Ammesso comunque che questo modo di guardare al futuro appartenga solo alla coscienza dei due protagonisti, e non al narratore/autore, va notato in ogni caso che anche per Manzoni, il narratore/autore appunto, la Storia ha in sé, immanente a sé, una forza di propulsione che porta gli eventi a procedere verso il superamento delle crisi e il miglioramento delle condizioni generali. Ricordiamo l’affare stipulato da Bortolo e Renzo con il figlio del proprietario di un filatoio alle porte di Bergamo, che li rende proprietari, da dipendenti e manovali che erano; e, ancora, la partenza dei due sposi da un paese che li aveva tanto maltrattati, verso un luogo più accogliente e verso una nuova vita. Ancora più eloquenti, per il discorso che ci interessa sulla Storia come divenire, le parole che l’autore usa per sintetizzare il nuovo corso degli eventi dopo la terribile pestilenza: «Sul principio ci fu un po' d'incaglio per la scarsezza de' lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni[3] de' pochi ch'eran rimasti. Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest'aiuto [notiamo la fine ironia manzoniana in questa fulminante antifrasi; la limitazione delle paghe degli operai, come è noto, non è certo un aiuto alla ripresa economica e della produzione, ndr], le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino. Arrivò da Venezia un altro editto, un po' più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero a abitare in quello stato. Per i nostri fu una nuova cuccagna» (corsivi nostri).

C’è poi anche un’altra forza di propulsione delle cose, che appartiene a un livello individuale e collettivo inconscio, e cioè quell’attaccamento alla vita e alla sua perpetuazione che emerge con particolare vigore proprio quando si è usciti dalle crisi più nere; don Abbondio, infatti, rivolgendosi ai due futuri sposi e proponendo loro una semplificazione nelle pratiche di pubblicazione [denunzie], afferma con insolita ma spontanea allegria che sono già numerose le coppie che si sono prenotate per la cerimonia di domenica: «Orsù, ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete cos'ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la dispensa per l'altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica ne ho già... uno... due... tre; senza contarvi voi altri: e ne può capitare ancora».

 

2)   NON-STORIA: Negazione della storia come laboratorio della modernità, cioè come luogo in cui si genera un reale cambiamento per la vita delle persone

-       G. Verga, Libertà, Novelle rusticane, 1883

 

Di contro a tale fiducia nel cambiamento, si possono trovare alcuni autori che negano fermamente l’idea che la Storia proceda, e ci rappresentano la caduta di ogni migliore aspettativa di cambiamento. In questo senso è eloquente la novella verghiana Libertà, che ricostruisce la sanguinosa rivolta nell’agosto del 1860 da parte del ceto rurale del paese di Bronte contro le angherie dei notabili,  a seguito dello sbarco di Garibaldi in  Sicilia e dell’ondata di  fervore  libertario e anti-aristocratico che aveva suscitato.   Le truppe garibaldine comandate dal gen. N. Bixio, in realtà, ristabiliscono l’ordine con arresti, con un processo sommario ed esecuzioni di condanna a morte di cinque brontesi. Verga rielabora l’episodio, riabilitando la figura e le azioni del gen. Bixio, come ha fatto notare Leonardo Sciascia [4], ma ciò che più conta per il nostro ragionamento è la  tesi che Verga dimostra: l’occasione storica per un ribaltamento delle cose si era posta, sì, ma il nuovo della storia non avanza affatto, i rapporti di forza non mutano e le aspirazioni sono destinate a  essere schiacciate.

 

All’indomani della strage, infatti, i popolani si ritrovano in una piazza deserta e senza il richiamo della Messa domenicale:

 

«Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. — Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! — Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. […] Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sè calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. — Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! — Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! — Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! — E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? — Ladro tu e ladro io. — Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! — Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure» (corsivi nostri).

 

La mancanza di competenze tecniche-professionali, l’incapacità di organizzarsi senza ricevere ordini da altri, rendono i rivoltosi quasi prigionieri di quanto accaduto; l’insorgere di un fondo radicato nell’uomo di prepotenza li scaglia gli uni contro gli altri. L’irriducibile individualismo porta i contadini, alla fine, ad essere esattamente come i cappelli.

E così al termine della vicenda di Bronte, i rapporti sociali tornano come erano all’inizio. La pace ristabilita ha un sapore disgustoso, perché condita con la vendetta.

 

«Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre».

 

L’atmosfera di stasi, di immobilità durante i tre anni di processo assume connotazioni mortifere tramite le scelte lessicali adottate:

 

«Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicchè quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale».

 

Fino all’angoscioso finale, in cui si manifesta il duro pessimismo verghiano verso le aspirazioni al riscatto dei ceti subalterni.

 

«Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!»

 

La novella, al di là del fallimento della rivolta di Bronte, documenta anche l’amarezza di Verga verso gli esiti del processo risorgimentale, che «viene peraltro assunto come prova dell'inaffidabilità di ogni ideologia, ogni mitologia di progresso, giacché nulla cambia nelle vicende umane, e se una evoluzione si produce è verso il peggio, non verso il meglio»[5].

 

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945, Einaudi

 

Anche Carlo Levi ci rappresenta una condizione di assoluto e immodificabile immobilismo storico, allorché posa il suo sguardo, al contempo documentario ed empatico, sulla popolazione della Lucania. L’autore torinese rievoca nel Cristo gli anni del confino in Basilicata (1935-36, Lucania) per il suo impegno politico anti-fascista, prima a Grassano, poi ad Aliano, che nel romanzo diviene Gagliano. Il Cristo è un testo che partecipa di tanti elementi: prosa narrativa, prosa saggistica; nel 1979 ne fu tratto un film per la regia di F. Rosi, con G.M. Volonté, L. Massari, I. Papas.

Nel testo vediamo in atto la crisi della concezione hegeliana di Storia come Progresso, ma con una declinazione differente da quella rappresentata da Verga. In questo caso non c’è progressismo emancipatorio perché il mondo contadino degli Anni Trenta ritratto da C. Levi è un altro mondo, che vive in un altro tempo, con altre leggi, in una «condizione di atavica incomunicabilità»; non ha contatti né con il capitalismo, né con lo stalinismo, né con il nazifascismo. Il mondo rurale della Lucania è inoltre pervaso da un immaginario religioso arcaico, in cui confluiscono cristianesimo delle origini, culti pagani e forme di panteismo. Per i contadini della Lucania tutto partecipa di una doppia natura, umana e divina. Anche per questo agli occhi del torinese Carlo Levi si presenta come quell’altro mondo, negato alla Storia.

 

«Tutto è realmente possibile, quaggiù, dove gli antichi iddii dei pastori, il caprone e l'agnello rituale, ripercorrono, ogni giorno, le note strade, e non vi è alcun limite sicuro a quello che è umano verso il mondo misterioso degli animali e dei mostri. Ci sono a Gagliano molti esseri strani, che partecipano di una doppia natura. Una donna, una contadina di mezza età, maritata e con figli, e che non mostrava, a vederla, nulla di particolare, era figlia di una vacca. Così diceva tutto il paese, e lei stessa lo confermava. Tutti i vecchi ricordavano la sua madre vacca, che la seguiva dappertutto quando era bambina, e la chiamava muggendo, e la leccava con la sua lingua ruvida. Questo non impediva che fosse esistita anche una madre donna, che ora era morta, come da molti anni era morta anche la madre vacca. Nessuno trovava, in questa doppia natura e in questa doppia nascita, nessuna contraddizione: e la contadina, che anch'io conoscevo, viveva, placida e tranquilla come le sue madri, con la sua eredità animalesca».[…]

 

«Alcuni assumono questa mescolanza di umano e di bestiale soltanto in particolari occasioni. I sonnambuli diventano lupi, licantropi, dove non si distingue più l'uomo dalla belva. Ce n'era qualcuno anche a Gagliano, e uscivano nelle notti d'inverno, per trovarsi con i loro fratelli, i lupi veri.- Escono la notte, - mi raccontava la Giulia, - e sono ancora uomini, ma poi diventano lupi e si radunano tutti insieme, con i veri lupi, attorno alla fontana. Bisogna star molto attenti quando ritornano a casa. Quando battono all'uscio la prima volta, la loro moglie non deve aprire. Se aprisse vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già di uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all'uscio per la terza volta, si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l'uomo di prima. Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano battuto tre volte. Bisogna aspettare che si siano mutati, che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo, e anche la memoria di essere stati bestie. Poi, quelli non si ricordano più di nulla».

 

La natura divina, che i contadini lucani vedono in ogni essere vivente, ma anche in ogni manifestazione della natura (anche nell’Eros), ha spesso connotati oscuri e spaventosi, e rimanda alle divinità ctonie, sotterranee, della mitologia pagana.

«La doppia natura è talvolta spaventosa e orrenda, come per i licantropi; ma porta con sé, sempre, una attrattiva oscura, e genera il rispetto, come a qualcosa che partecipa della divinità. […] Tutto, per i contadini, ha un doppio senso. La donnavacca, l'uomo- lupo, il Barone-leone, la capra-diavolo non sono che immagini particolarmente fissate e rilevanti: ma ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità. La ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei, la religione e la storia. Ma il senso dell'esistenza, come quello dell'arte e del linguaggio e dell'amore, è molteplice, all'infinito. Nel mondo dei contadini non c'è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale». 

 

Carlo Levi, sulla soglia del Cristo si è fermato a Eboli, fornisce al lettore con toni dolenti le chiavi di lettura per comprendere il titolo e insieme il mondo dell’umile Italia, negato alla Storia e allo Stato.

 

«Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare    con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia  e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte. – Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. […] Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. […] Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. […] Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli».

 

Come si può notare, in C. Levi non c’è alcun compiacimento estetizzante nel ritrarre il popolo, il primitivo; Levi si allea con i contadini di Agliano, l’umile Italia, ma le distinzioni vengono mantenute. Levi si fa interprete di questa realtà, ma non si mescola ad essa. Non c’è democratizzazione della lingua o abbassamento stilistico. La scrittura carloleviana, anzi, conserva il nitore proprio di un registro classicheggiante, ritmato da frasi brevi e “scolpite nella pietra”, per riprendere una similitudine usata da un altro torinese, Primo Levi, per descrivere il proprio dettato linguistico. Su entrambi, evidentemente, molto aveva influito la lezione ricevuta negli anni di liceo classico, da cui avevano appreso un linguaggio nitido che tiene assieme mirabilmente la chiarezza espositiva e l’efficacia espressiva, pur senza il ricorso a ornamenti retorici che impreziosiscano la pagina. Nel passo tratto dalla prefazione al Cristo osserviamo l’uso delle anafore (Cristo; Nessuno/nessun), mezzo retorico parsimonioso e pur così efficace nel dare un ritmo e una struttura cadenzati, nel conferire gravitas alla pagina. La letterarietà ben dissimulata è percepibile anche nelle allusioni ad altri testi d’autore, come il celebre “osso” montaliano Spesso il male di vivere ho incontrato, qui evocato nella dolente affermazione «il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose»

 

Quale sarà il destino di questo mondo rispetto al divenire storico? Non agganciarsi al treno del progresso, ma scomparire negli anni del boom economico, dello spopolamento delle campagne, della televisione e della cultura di massa; cosa che, secondo un altro scrittore che si fece cantore del mondo rurale, P. P. Pasolini, costituisce una tragedia senza risarcimento.

 

3)    CONTROSTORIA: Idea che non nega la capacità della Storia di essere motore della modernità, ma mostra come le azioni degli uomini la rendano inefficace.

 

«Nei testi che rientrano in questo orizzonte, infatti, non si nega l'arrivo della storia, ma si mette in atto uno stratagemma in base al quale si tenta di influenzare, da parte delle classi egemoni, il corso della storia, manipolando gli eventi a proprio favore ed evitando in questo modo che i fatti modifichino lo status dei rapporti tra chi governa e chi è governato».[6]

 

Federico De Roberto, I Viceré, 1894

Il romanzo percorre la storia della famiglia nobile Uzeda di Francalanza (dietro la quale si celano i Paternò di Catania) segnata da un patrimonio genetico corrotto a causa dei continui matrimoni tra consanguinei; in questo senso il romanzo di De Roberto è, tra quelli veristi, il più fedele alle teorie positiviste-naturaliste sul determinismo della race, il patrimonio genetico, sui caratteri individuali, come si può notare dai numerosi personaggi segnati dalle più singolari tare e deviazioni temperamentali. Nelle pagine del romanzo si può ripercorrere anche la storia italiana, tra gli anni 1855 e 1882, osservata da De Roberto con disincanto e amarezza nel mettere in luce i “peccati originali” della Nuova Italia: il trasformismo opportunista, la corruzione per incrementare i profitti personali, pur mantenendo intatto il buon nome, l’eloquenza volta a fascinare e irretire le menti meno più sensibili al miraggio della parola fluente e ornata. Consalvo, nipote della principessa Teresa di Francalanza e figlio del primogenito di questa, Giacomo Uzeda, dopo un viaggio di formazione in Italia e all’estero intraprende la carriera politica e diviene prima assessore e poi sindaco; infine, grazie anche alle sue faconde abilità oratorie, viene letto tra le file della Sinistra storica alle prime elezioni a suffragio allargato (per censo e per età), nel 1882. Nel dialogo finale con l’anziana zia Ferdinanda, quintessenza dell’albagia aristocratica, emerge una visione della storia come monotona ripetizione: gli uomini sono sempre gli stessi, le condizioni mutano, ma la differenza è solo esteriore. Il primo eletto con suffragio quasi universale non è un popolano, né borghese, né democratico, ma un membro di una delle più illustri famiglie siciliane, il quale ha saputo cavalcare il corso del cambiamento storico e avocarlo all’interesse proprio e della propria famiglia. 

 

«Vostra Eccellenza giudica obbriobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato... L'importante è non lasciarsi sopraffare... Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre disse: «Vedi? Quando c’era i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento.» Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta... Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole, ma neppure molti di questi sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo   che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile... E poi, poi il mutamento è più apparente che reale. […] La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. […] Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl'interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l'ha travolta... Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di spezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!» (corsivi nostri)

 

G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958

 

Il nostro percorso si avvia alla conclusione; ci resta da analizzare il romanzo nel quale, più di tutti, la concezione della Contro-Storia è divenuta la tesi centrale, sebbene senza alcuna aura di celebrazione, anzi, accompagnata da uno spirito di delusione per il fallimento delle istanze romantico-risorgimentali di un reale cambiamento storico e sociale, soprattutto riguardo alla partecipazione delle classi popolari alla storia; stiamo parlando del capolavoro letterario Il Gattopardo, pubblicato da Feltrinelli nel 1958, del cui successo straordinario (anche grazie alla splendida versione cinematografica del 1963 per la regia di L. Visconti, con un cast d’eccezione: Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Lucilla Morlacchi), l’autore mai venne a conoscenza. G. Tomasi di Lampedusa, infatti, scomparso un anno prima della pubblicazione, aveva invano presentato il suo romanzo alle case editrici Mondadori ed Einaudi, che lo avevano rifiutato per ragioni di politiche editoriali; in quegli anni, infatti, la letteratura era volta all’impegno nel presente e alla testimonianza politica e civile, e un romanzo come Il Gattopardo, a metà tra romanzo storico e romanzo psicologico, ambientato in un’epoca storica e istituzionale ormai del tutto superata, destava il sospetto di nostalgie reazionarie, filo-aristocratiche e monarchiche. Tornando al nostro discorso, in realtà nel romanzo di Tomasi di Lampedusa sembrano convivere due concezioni; l’una è riconducibile all’idea del manipolare il cambiamento storico-politico per non veder mutati i propri privilegi (Contro –Storia), e questa concezione Tomasi di Lampedusa la attribuisce al giovane Tancredi nella pagina del dialogo con lo zione, il principe Fabrizio di Salina (cap. I), in cui è posta la celebre frase, divenuta emblema di un comportamento trasformista, aperto ai cambiamenti, ma solo in apparenza; gattopardesco, appunto.

 

«Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina? – Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. – Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti. – Il povero Salina si sentì stringere il cuore. – Un duello? – Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi. – […]  Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re. – Gli occhi ripresero a sorridere. – Per il Re, certo, ma per quale Re? – Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. – Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato? – Abbracciò lo zio un po’ commosso. – Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore. –». 

 

Tancredi ha compreso perfettamente da una parte che la dinastia dei Borbone è giunta al termine della sua esistenza, non solo perché sopraffatta dal volgere degli eventi storici, ma anche perché rappresentata da un re politicamente imbelle, fragile nella personalità, Francesco II (soprannominato Franceschiello); dall’altra ha ben chiaro che, se l’aristocrazia non si mette a capo del movimento antiborbonico guidato da Garibaldi e dai suoi generali, il rischio di un capovolgimento dell’assetto politico in senso repubblicano, se non dell’anarchia, è molto concreto.

 

Poche pagine dopo, è lo stesso don Fabrizio che, nel dialogo con il primogenito Paolo, giovane ozioso e dedito a discutibili e singolari passioni, prende fermamente le difese delle posizioni politiche di Tancredi, garanzia del permanere di privilegi della classe aristocratica.

 

«Volevo chiederti, papà, come dovremmo comportarci con Tancredi quando lo rivedremo”. Il Principe capì subito e cominciò a irritarsi. “Che intendi dire? Cosa c'è di cambiato?”. “Ma, papà, certamente tu non puoi approvare: è andato a unirsi a quei farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio; queste sono cose che non si fanno”. […] Il Principe ne fu tanto indignato che non fece neppure sedere il figlio. “Meglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la cacca dei cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non sono sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con duca di Querceta sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a Tancredi ed agli altri come lui». 

 

Accanto a questo atteggiamento opportunista (Contro-Storia), nel romanzo vi è anche un’altra concezione, che nega fermamente la possibilità di un divenire storico (Non – Storia); la avvertiamo nelle parole dello stesso don Fabrizio, Principe di Salina, durante il colloquio con il conte piemontese Chevalley (cap. IV), che gli propone, a nome del nuovo governo, la carica di Senatore del Regno.

 

Le ragioni che don Fabrizio adduce nel rifiutare la carica di senatore del Regno d’Italia sono innanzitutto di ordine storico-politico:

 

«Ma allora, Principe, perché non accettare?” “Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si fosse fatto così non si sarebbe scampato dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesione’, non avevo detto ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento […] Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la». (Cap. IV)

 

Nelle parole del principe Fabrizio vi è la denuncia della mai attuata centralità del popolo (inteso nella totalità delle sue componenti) nel processo risorgimentale. «Il principio della sovranità popolare è ben lontano dall’essere applicato in modo estensivo. Gli approdi del processo risorgimentale non riescono a tradurre la rivoluzione politica in riforme sociali, cosicché lo stato nato dal Risorgimento e dall’unificazione della penisola rischia di essere una forma moderna di dominio oligarchico. Una parte di Italiani considera l’Italia unita come una nuova forma di occupazione, un’ingiustizia che si sostituisce alle antiche; il popolo non è protagonista del nuovo stato, semplicemente cambia padrone»[7].

 

In seguito, adduce motivazioni di ordine psicologico, attribuite al popolo siciliano, la cui natura tenderebbe a cedere alla voluttà dell’abbandono, all’inazione, di più ancora, al fascino del non essere, al cupio dissolvi.


«Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti». (corsivo nostro)

 

Infine, conclude affermando che l’immobilismo della Sicilia è dovuto al suo clima, a ragioni ambientali.

«Ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse più che le denominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; […] questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi. […]  Da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe esser sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose,  che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete».  (corsivo nostro)

 

Per proseguire nell’indagine e problematizzare la concezione di Storia: uno spunto riguarda la rivisitazione del passato storico in chiave ludica e combinatoria, tipica del Post Moderno (U. Eco, Il nome della rosa, 1980);un secondo spunto potrebbe essere quello della concezione apocalittica della Storia, secondo l’idea che il genere umano andrà incontro alla propria distruzione, la Natura continuerà a esistere indisturbata, e le miriadi di oggetti costruiti dall’uomo rimarranno su una Terra completamente spopolata come segno delle insensatezza delle ambizioni umane (G. Morselli, Dissipatio H. G., 1973).

 

 

Bibliografia:

F. Finotti, Italia. L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, 2016

G. Lupo, L'Unità d'Italia nella narrativa della non-storia, dell'antistoria e della controstoria), "Italianistica: Rivista di letteratura italiana" , Vol. 40, No. 2, L'unità d’Italia nella narrativa e nella storiografia letteraria (maggio/agosto 2011), pp. 211-219

G. Lupo, La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli, Soveria Mannelli, Rubettino editore, 2021

 S. S. Nigro, Come leggere (oggi) i Promessi sposi, “Domenica”, inserto culturale de “IlSole24Ore”, 22 ottobre 2023

V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, CUEM, 1990

 

 

 


[1] G. Lupo, L'Unità d'Italia nella narrativa della non-storia, dell'antistoria e della controstoria, "Italianistica: Rivista di letteratura italiana", Vol. 40 (2011), n. 2, pp. 211-219

[2] Solo per citare l’ultimo contributo in ordine cronologico su La storia della colonna infame, si legga la seguente citazione, tratta da un articolo pubblicato su “Domenica”, inserto culturale de “IlSole24Ore”: «Ci sono voluti anni perché la “piccola storia” venisse riconsegnata al grande romanzo e riconosciuta come l’ultimo e inseparabile capitolo del capolavoro manzoniano. Eppure lo scrittore era stato avveduto. Aveva fatto stampare la parola “FINE” non dopo l’esito felice della vicenda di Renzi e Lucia, ma nell’ultima pagina della Storia della Colonna infame».

[3] Sviamento e pretensioni: per la mancanza di voglia di lavorare e per le pretese economiche dei pochi operai che erano rimasti

[4] L. Sciascia[4], La Sicilia e la sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose di Sicilia, Einaudi, Torino 1970

[5] (V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma 1990)

[6]  G. Lupo, Ibidem

[7] F. Finotti, Italia. L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, 2016

 

 

21 dicembre 2023