Il Don Chisciotte è, prima di tutto, una portentosa avventura della scrittura, un'impresa folle e mirabile quanto le gesta dello sfortunato cavaliere. Possiamo meglio comprenderlo se pensiamo che ad impugnare la penna era un uomo che aveva superato la cinquantina e che nella sua esistenza[1] aveva sperimentato il disinganno più cocente (penso al mancato riconoscimento che ebbe al ritorno dalla battaglia di Lepanto), e il terribile paradosso della prigionia (i cinque anni ad Algeri, nel pieno della vita) e poi la sua ombra che si ripresenta più volte, negli anni successivi: quest'uomo era pronto a combattere di nuovo, chinandosi sul manoscritto che lo avrebbe riscattato attraverso le mirabili avventure di un folle. Tutta la sua esperienza, gli anni di spostamenti per la Spagna, adolescente al seguito del padre chirurgo prima, uomo costretto ad impieghi modesti poi, ma anche gli anni della giovinezza, con le vicende del soldato in Italia e del prigioniero ad Algeri, tutto sarebbe confluito in quel romanzo, nutrendo la sua scrittura di succhi impensati, fondando un archetipo per i romanzieri che sarebbero venuti nei secoli. Una grande e meritata vittoria alla quale il lettore esulta intimamente; un sentimento simile a quello che suscitano i versi di Tabaccheria di Fernando Pessoa, una poesia scritta con la tensione del riscatto e di giustizia riconquistata per se stessi:
«Ho fatto di me ciò che non ho saputo, / e ciò che potevo fare di me non l'ho fatto. [...] / Mi hanno riconosciuto in seguito per chi non ero e non l'ho smentito e mi sono perso. / [...] Ho scaraventato la maschera e ho dormito nel guardaroba / come un cane tollerato dall'amministrazione / perché inoffensivo / ed ora voglio scrivere questa storia per provare che sono un sublime».[2]
Verso la conclusione del romanzo, costretto ad abbandonare le avventure cavalleresche dopo la sconfitta in duello, Don Chisciotte pensa di ritirarsi alla vita campestre, seguendo il costume dei pastori d'Arcadia e confida al fedele Sancio:
«Io non avevo speranze da darle, né tesori da offrirle, perché le mie speranze sono tutte impegnate per Dulcinea, e i tesori dei cavalieri erranti sono come quelli dei folletti, apparenti e falsi»[3]
In questo esilio forzato dalla cavalleria, ancora frastornato dall'affronto subito, viene assalito dai pensieri; tra questi quello di Altisidora, la fanciulla che, in una delle tante burle, aveva finto di essere innamorata di lui. Nelle note al romanzo Donatella Morro Pini afferma che l'espressione tesoro de duende indica «ricchezza immaginaria, o che svanisce senza che si sappia come è stata impiegata». È ad un simile deposito di energia che attinge la scrittura, un'opera di dedizione per la quale ogni interruzione equivale ad una lacerazione, ad una perdita di quell'aura che si crea soltanto con il tempo, con il cumularsi dei giorni in cui, come scrive Cervantes nel prologo alla prima parte del romanzo, si sta come aspettando qualcosa o qualcuno, «col naso in aria, la carta dinanzi, la penna dietro l'orecchio, il gomito sulla scrivania». È proprio in quelle ore di apparente inattività che i "folletti" invisibilmente lavorano, versando un tesoro che alimenterà la scrittura.
Molte volte Cervantes deve avere sperimentato l'impossibilità di scrivere, il sentirsi con le mani legate, entro la prigionia che la vita materiale, con le sue necessità, impone.[4] Entro quei confini ristretti molti tesori immaginari si formano e si disperdono; c'è però un contenuto di verità, o come una promessa fatta a se stessi, che aspetta soltanto il tempo del rilascio, della liberazione, quando si può rimanere con «la mano sulla gota pensando a quel che dire», fino a che la vita viene a visitarci, come l'amico più atteso.
Cervantes sta al suo romanzo come Don Chisciotte sta a Dulcinea. Pensando alla fedeltà con cui Cervantes ha creato negli anni il Chisciotte, oltre alla sincerità accorata con cui lo strampalato cavaliere giustifica la sua condotta verso Altisidora, viene in mente l'appello alla propria forza che ogni distacco dal lavoro richiede, per riprendere l'opera, quasi come in un nuovo inizio; tornano le parole dell'invocazione al sole che apre la narrazione del governo di Sancio Panza dove, con la potenza della sua ironia, Cervantes s'innalza fino a sovrastare la fonte di ogni luce:[5]
O perpetuo esploratore degli antipodi, face del mondo, occhio del cielo, o dolce agitator di bocce in fresco! Timbro qua, Febo lì, arciere qua, medico là, padre della poesia, inventore della musica, tu che sempre ti levi e nonostante le apparenze mai ti posi; a te dico, o sole, col cui aiuto l'uomo genera l'altro uomo; a te dico, perché tu mi aiuti e illumini l'oscurità del mio ingegno, onde possa svolgere punto per punto la narrazione del governo del gran Sancio Panza; perché senza di te io mi sento freddo, sbigottito, confuso.
Era almeno dai tre capitoli precedenti che Cervantes andava preparando la narrazione di Sancio governatore, annunciandola per poi dilazionare il suo inizio (si veda a proposito il sommario del capitolo 44: «Come Sancio Panza fu condotto a prender possesso del suo governo [...]» e del capitolo 45: «Come il gran Sancio Panza prese possesso della sua isola [...]»).
Ma se torniamo a pensare alla struttura del romanzo troviamo che l'idea del governo dell'isola è nata quasi contemporaneamente all'ingresso sulla scena di Sancio.[6] Poco dopo la descrizione, piuttosto sbrigativa, del futuro scudiero (presentatoci dicendo soltanto che è «un contadino del vicinato», «un uomo dabbene», «ma con molto poco sale nella zucca»), si passa all'azione oratoria e persuasiva di Don Chisciotte e alla risposta affermativa del contadino-scudiero. Tutto avviene nel giro di due periodi (descrizione di Sancio, azione di Don Chisciotte, risoluzione a partire insieme), due periodi che potrebbero, per il contenuto dinamico, per la narrazione dell'incontro di due mondi così distanti, racchiudere un intero romanzo. La promessa dell'isola da governare viene subito dopo, quando ancora Sancio è un personaggio appena abbozzato e senza nome (soltanto nella frase seguente ci viene detto come si chiama, con l'aggiunta di un'informazione sul suo stato: è padre di famiglia).
Il primo ingresso sulla scena di Sancio è all'insegna del patetico: dalla sottolineatura della sua condizione di povertà materiale con l'inciso «(se pure si può dare questo nome a un povero)», all'appellativo di «pover'uomo» con cui viene apostrofato, rimarcando la sua povertà intellettuale, all'informazione sugli affetti che si lascia alle spalle («la moglie e i figliuoli»). La tonalità di pathos è accresciuta dal fatto che la figura di Sancio viene presentata in maniera completamente passiva, come una vittima della follia di un uomo ben più colto e consapevole, lucido quanto determinato nel suo piano di fuga dalla realtà. Se poi torniamo alle prime righe che aprono il romanzo, in quelle pagine in cui Cervantes ci disegna il suo vecchio e solitario eroe, troviamo che, dopo averci descritto con malevolo compiacimento le pietanze che occupano la magra mensa dell'idalgo, riunisce in una frase quelle che sono le presenze quotidiane, gli affetti e la famiglia di Chisciano: «una governante», «una nipote», «un garzone». Soffermiamoci un attimo su quest'ultimo personaggio che non comparirà più nel romanzo: «un garzone capace per il campo come per il mercato, buono a sellare il ronzino come a menar la roncola». Non avrebbe potuto essere lui lo scudiero e compagno delle sue avventure? Perché Don Chisciotte ha preferito invece darsi da fare nel «circuire» e persuadere un contadino suo vicino di casa? Una risposta potrebbe essere cercata nella prima descrizione che Cervantes ci dà di Sancio, dove le due caratteristiche che vengono immediatamente messe in luce sono la sua bontà e tempra morale e la sua facilità a credere e ad essere persuaso: «hombre de bien [...] pero de muy poca sal en la mollera». In poche parole il buono e folle Chisciano avrebbe intuito nel contadino Sancio una fraterna somiglianza, avrebbe intravisto quelle qualità d'animo che lo avrebbero reso l'insostituibile e necessario compagno di viaggio. Ma potremmo cercare di rispondere anche ricorrendo ad uno di quei tanti segni che Cervantes lascia della sua tumultuosa forza narrativa, del suo coraggioso procedere in avanti, in uno slancio guidato da qualcosa di più grande dell'intelligenza e della determinazione: dall'istinto, quel «qualche cosa di spontaneamente sensuoso» di cui parla Auerbach.
Ma torniamo a Cervantes e alla sua lotta di scrittore. Nel momento in cui si accinge a scrivere il Don Chisciotte è un uomo che sente di non potersi concedere indugi o dilazioni. Il momento dell'apprendistato è trascorso, così come il tempo delle esperienze vitali. Ora l'approssimarsi della vecchiaia, già annunciata dalla sua barba argentea, gli ricorda che questa volta si gioca il tutto per tutto, senza riserve. La morte è più solida di quanto si possa immaginare. Anche il personaggio folle che è uscito dalla sua penna si è probabilmente allontanato da casa verso la Mancia percorsa dalle ombre, proprio per sfuggire al concretizzarsi della fine. Tutto l'intervallo del suo allontanamento dalla casa e dal borgo "senza nome", è stato probabilmente la migliore preparazione al più lungo sonno. La religiosità del romanzo, quella tensione alla trascendenza che a volte si riverbera in maniera più nitida ma che è sempre presente tra le corde che muovono la narrazione, è probabilmente generata dall'esplodere di vitalità e di immaginazione che precedono la morte. Lo scatto vitale che porta il nobiluomo a trasferire le fantasie nate dalla lettura nello spazio concreto dell'esistenza, potremmo considerarlo meglio se ci figurassimo di fronte l'immagine del vecchio cavaliere rinsavito a letto, attorniato da quelle figure amiche e familiari che, in un moto contrario all'azione di tutto il romanzo, vorrebbero sospingerlo fuori, verso nuove avventure. E se tutto il racconto di gesta e di beffe meravigliose non fosse altro che il delirio di un uomo morente? Se gli incontri, le sagome confuse, la realtà doppia e le trasformazioni operate dagli incantatori appartenessero a quel filmino che, negli istanti che precedono la fine, scorre ad una velocità e con una ricchezza di vita irripetibile? Potremmo ipotizzare che, rimediando ad una vita deserta e brulla come la terra che abitava, con tanto tempo libero da potere letteralmente impazzire di letteratura, quella sequenza ultima scorresse davanti agli occhi di Chisciano in un inedito innesto di ricordi e di vita irrealizzata, inseguita tante volte col pensiero, disegnata e illuminata dall'immaginazione. Forse tutto il romanzo si è proiettato sulle pareti della stanza di un uomo prossimo alla morte. Se invece di un'armatura fatta in casa e malconcia fosse uscito con le pantofole e il pigiama poco importa. È di poca importanza anche se quell'uomo abbia realmente calcato con uno scudiero la Mancia, guardato dagli uomini che incontrava come un prodigio. Possiamo pensare che la follia illuminata che lo ha contagiato di fronte al pensiero della resa ultima, gli abbia mostrato la vita come avrebbe dovuto essere interamente vissuta: tralasciando ogni impedimento che si fosse presentato sulla strada o, se necessario, eliminandolo con la forza, per realizzare l'ideale a cui ci si è votati (Dulcinea come verbo incarnato, legge inderogabile, bellezza e verità che elimina ogni attenuante, dilazione, argomento). Una vita di dignitoso benessere, ma sempre stringendo la cinghia, senza concedersi sfarzi, è messa ad un tratto da parte, per un progetto più grande; «poi Don Chisciotte si mise a far quattrini, e vendendo una cosa, impegnandone un'altra, ma tutte con molto discapito, mise insieme una discreta sommetta»:[7] questo concreto darsi da fare attorno ad un sogno che improvvisamente vanifica le costrizioni fino allora accettate, nel repentino sconvolgersi della quotidianità e degli equilibri consueti, è il corrispettivo del Chisciano che, di fronte all'annunciarsi della fine, sa prendersi le sue soddisfazioni, senza preamboli e mezze misure.
Già nel ritorno dalla prima sortita si può leggere la conclusione del romanzo: il cavaliere che rientra «pesto e stroncato», non risponde nulla alle domande dei suoi, chiede solo di mangiare e dormire e si leva dal letto dopo due giorni.[8] Un altro preannuncio della sua morte è in uno dei capitoli finali, dove è narrata «l'avventura più spiacevole per Don Chisciotte di quante fin allora glien'eran capitate»,[9] ossia la sconfitta in duello da parte del Cavaliere dalla Bianca Luna (alias il baccelliere Sansone Carrasco che con questo espediente riesce ad ottenere il ritorno a casa di Chisciano). Disarcionato e buttato al suolo dall'impeto dell'avversario, Don Chisciotte,
«tutto pesto e intontito, senza alzarsi la visiera, come se parlasse di dentro una tomba, con un fil di voce malferma disse: – Dulcinea del Toboso è la più bella dama del mondo ed io il più disgraziato cavaliere della terra. Ma la mia debolezza non deve compromettere questa verità. Colpiscimi dunque, cavaliere, e toglimi la vita, poiché mi hai tolto l'onore».[10]
Sono già evidenti i segni di quella malattia che lo ucciderà, qualche ora dopo aver visto morire anche la propria follia e l'ideale assoluto che l'aveva alimentata. Don Chisciotte, scaraventato a terra assieme al suo cavallo, sembra esserne lucidamente cosciente: al «fil di voce malferma» e "tombale" con cui Cervantes descrive la nuova condizione di Don Chisciotte-Chisciano, corrisponde subito dopo la dichiarazione da parte di questo della propria «debolezza»: una perdita di forza che però non rinuncia a mettere in salvo l'ideale, anzi, è pronta a sacrificarsi per preservarne la «verità».
Se Don Chisciotte fosse morto in questo modo sarebbe stato un eroe tragico, come volevano i romantici. Ma il Cavaliere dalla Bianca Luna, e Cervantes, non glielo hanno voluto concedere. Intimandogli il ritorno a casa come era stato pattuito prima dello scontro, riconducono di nuovo Don Chisciotte dentro quella realtà da cui era fuggito e che poi aveva continuato a intravedere come il fondale sul quale si proiettavano i suoi fantasmi.
C'è un particolare che forse può attenuare la brutalità con cui viene trattato Don Chisciotte in questo episodio la cui singolarità è anticipata nel sommario: nella scena forse più drammatica del romanzo, quella del cavaliere che, ridotto al suolo, con la lancia del nemico puntata, invoca la morte, il viso di Don Chisciotte resta protetto dalla visiera che non viene alzata neanche per parlare. Il fatto che non mostri gli occhi è una conseguenza dell'"onore tolto" con la sconfitta nel duello? Oppure una scelta dovuta per attenuare la compassione che il volto di Don Chisciotte avrebbe suscitato in Cervantes come nel lettore? In linea con la morte da eroe tragico che gli nega, mantenendogli il viso coperto, l'autore diminuisce l'effetto di pathos. Ma è anche in un gesto di pudore nei confronti della propria creatura che Cervantes sottrae, nel momento più «spiacevole» di tutte le avventure, il volto di Don Chisciotte al lettore. Soltanto dopo che il ritorno al paese è pattuito e il Cavaliere dalla Bianca Luna se ne è andato, rivediamo il volto di un uomo che è ormai profondamente e irrimediabilmente cambiato, un sopravvissuto: «rialzarono Don Chisciotte, gli scoprirono il viso e lo trovarono pallido e sudato».[11] Se pensiamo alla successione di momenti in cui il volto del cavaliere è celato e poi scoperto, vengono in mente i rituali degli spettacoli di magia: prima il telo è calato e poi si alza per rivelare l'oggetto nella sua nuova natura. Il personaggio di Don Chisciotte ha subito una metamorfosi e insieme a lui tutta la narrazione. Non vedremo più il cavaliere messo in ridicolo da beffe irriverenti e affettuose, il nostro riso sarà sempre più trattenuto dalla malinconia e dalla pena. Sentiremo intorno crearsi il silenzio e rarefarsi l'atmosfera. Anche il lettore, come i famigliari e gli amici, si prepara ad assistere il vecchio nobiluomo al suo capezzale. Dopo la vista di quel volto «pallido e sudato» come quello di Cristo condotto al calvario, si sente che la stazione finale è stata raggiunta e che ora resta l'approdo che conclude il romanzo. Eloquente a questo proposito il silenzio con il quale Don Chisciotte e Sancio vengono indotti ad assistere all'ultima, non a caso mortuaria, rappresentazione dei Duchi. Don Chisciotte è ormai in balia di un'altra superiore volontà: la sconfitta nel duello lo priva della possibilità di agire e, in definitiva, della sua identità di cavaliere («se io potessi adoprare le armi, e la mia promessa non mi legasse le braccia»).[12] Come se ciò non bastasse, la banda di uomini armati e silenziosi inviati dai Duchi per condurre Don Chisciotte e Sancio di fronte alla vista di una finta morte, impongono ai due il silenzio. A Don Chisciotte, privato dell'azione, non è concesso conoscere nulla di quanto sta accadendo: «due o tre volte volle domandar dove lo conducevano e che cosa volevano; ma appena cominciava a muover le labbra, gliele facevan chiudere presentandogli le punte delle lance».[13] Questa banda armata inviata dai Duchi (e da Cervantes) rappresenta quel moto che porterà alla morte di Don Chisciotte e alla conclusione del romanzo. Il «meraviglioso silenzio»[14] che serbano Don Chisciotte e Sancio, è la maggiore prova di sottomissione alla volontà dell'autore che i personaggi potessero dargli. In questo passo Cervantes regge le redini del romanzo in modo assolutistico, ottiene una conferma del suo potere, e assapora il silenzio finale, il vuoto dietro l'ultima parola scritta. Ma se Don Chisciotte, la creatura che più appartiene alla letteratura e quella che il suo autore più conosce per averla lungamente meditata e per avervi impresso tanti aspetti della propria biografia, può essere ridotto ad un manichino muto mosso da altri, Sancio che è il «figlio inatteso»[15] di Cervantes, e che nell'arco del romanzo compie una maturazione tale da divenire, in alcuni episodi della seconda parte, il vero e proprio protagonista, Sancio, il contadino-governatore sempre fedele a se stesso, può ribellarsi al silenzio imposto e riavviare la narrazione. Dopo una serie di appellativi ingiuriosi con cui gli uomini dei Duchi sottomettono scudiero e cavaliere, Sancio, seppure in un discorso tra sé, insorge a ristabilire le parole che possono definire la realtà, torna ad affermare la sua visione, la sua irriducibile identità: «No me contentan nada estos nombres» («Non mi garban punto questi nomi»).[16] Mentre Don Chisciotte continua a subire il silenzio, confuso e incapace di trovare una ragione a quello che gli sta capitando: «cavalcava tutto intontito, senza riuscire a spiegarsi, nonostante tutte le sue riflessioni, che cosa volessero significare quei vituperi che gli dicevano».[17]
L'atmosfera di funebre attesa dei capitoli finali del romanzo s'avvia con lo scacco subito da parte del baccelliere Carrasco, uno di quei personaggi che, assieme al curato, alla governante e alla nipote, esercita una forza centripeta che contrasta l'errare del folle nobiluomo. Da qui ha inizio l'agonia del cavaliere, quella debolezza mortale che lo farà rimanere «sei giorni a letto, intontito, triste, pensoso e malinconico, rimuginando dentro di sé il disgraziato avvenimento della sua sconfitta».[18] Ed è ad una seconda e definitiva morte che assistiamo nella conclusione del romanzo, quando, dopo altri «sei giorni a letto», Don Chisciotte «esalò il suo ultimo spirito, ossia morì».[19] Le due espressioni con cui viene descritto il suo trapasso ribadiscono in modo ultimativo la morte del personaggio assicurandosi da un'altra continuazione apocrifa del romanzo e, insieme, ricalcano la doppia natura della sua vita, una vocata al sublime e al tragico, nello stile sostenuto e derivato dalla letteratura cavalleresca, l'altra rivolta al realismo e al quotidiano anche più umile. Dicendo due volte del suo trapasso e poi continuando, nelle ultime pagine a legarlo a sé, con la dichiarazione dell'indissolubilità tra la penna di Cide Hamete (la sua scrittura) e Don Chisciotte, e mostrandocelo infine disteso nella fossa, è come se Cervantes si accertasse di avere ricoperto bene con la lingua il suo eroe, senza lasciare nessuna parte scoperta, riconsegnandolo così, amorevolmente avvolto, al silenzio e alla terra.
Ma torniamo alla domanda che ci eravamo posti riguardo al motivo che può avere condotto l'idalgo-cavaliere, alla soglia delle sue avventure, a dimenticare a casa il suo garzone e ad andare a cercare invece il suo scudiero tra i contadini del vicinato. Due personaggi femminili (la nipote e la governante) e due maschili (il curato e il barbiere), rappresentano la famiglia di Chisciano, la figura materna che lo attende a casa e quella paterna che è pronta ad uscire e ad inseguirlo, a travestirsi per entrare nel suo mondo e ricondurlo indietro. Contro di loro il buon idalgo, per quanto acceso dalla follia, non riesce (e non può) reagire violentemente. Per questo sceglie di partire entrambe le volte la mattina presto, assicurandosi che non lo veda nessuno,[20] e per questo, nel principio della seconda parte, entra in scena la figura del baccelliere Sansone Carrasco,[21] a cui verrà affidato il ruolo che era stato del curato e del barbiere (inseguirlo e riportarlo a casa).
Sono gli stessi personaggi che rappresentano i suoi affetti famigliari a suggerirgli, dopo il rogo dei libri e la muratura della stanza in cui erano conservati, la spiegazione dell'incantatore malvagio,[22] argomento che, in seguito, tante volte proteggerà la sua follia dagli impedimenti della realtà. La scomparsa dei libri di cavalleria costituisce un'ingerenza[23] terribile, la più grande violenza che il buon Chisciano subisce da parte dei suoi famigliari. Una vera e propria devastazione interiore, con il curato che, aiutato dal barbiere, mentre Don Chisciotte dorme per riprendersi dalla sua prima e sfortunata sortita, passa al vaglio i suoi libri, affidandoli o alle mani bramose della nipote e della governante che li buttano in cortile per il fuoco, oppure a quelle del barbiere che li nasconde in casa sua.
Due giorni dopo Don Chisciotte si levò, e la prima cosa che fece fu di andare a vedere i suoi libri; e siccome non ritrovava la stanza dove li aveva lasciati, l'andava cercando di qua e di là. Arrivato al punto dove era solito trovar la porta, tastava con le mani, e girava e rigirava gli occhi per tutto senza dire una parola; ma dopo un bel pezzo finalmente domandò alla governante da che parte stava la stanza dei suoi libri.[24]
È di fronte a questo spiraglio di libertà e di salvezza venuto meno che l'idalgo organizza, questa volta con più determinazione e accortezza (vedi la «discreta sommetta» messa da parte), la seconda sortita. Ora che l'origine dei suoi sogni è distrutta, la realtà dovrà accogliere le sue illusioni, ricreare quel mondo di letteratura oppure sparire, allo stesso modo in cui, nella notte, se n'era andata velocemente la biblioteca. Ora il reale esiste soltanto nella misura in cui può riportare nella Mancia lo splendore della cavalleria errante. E il medesimo espediente con cui gli era stato occultato il tentativo di murare il suo mondo interiore, una volta alla ventura ritorna a preservarlo nella sua follia. Non è un paradosso, è soltanto la traccia, sottile, della provenienza del suo lucido male: l'origine va ricercata proprio in coloro che vogliono curarlo, ossia in una situazione affettiva povera quanto il suo paese e la sua condizione sociale. Nella sosta a casa prima della terza sortita, il curato e il barbiere «non tralasciarono [...] di far visita alla nipote e alla sua governante, alle quali raccomandarono di avergli di gran cure, e di dargli da mangiare roba molto nutriente e adatta a rinforzare il cuore e il cervello, da' quali con ogni probabilità dipendeva tutta la sua disgrazia».[25] Probabilmente se andassimo a scorrere i brani del romanzo in cui Don Chisciotte dialoga con il curato, il barbiere e le figure che rappresentano i suoi affetti famigliari, troveremmo che nei loro confronti non c'è mai quell'apertura di cuore, quella condivisione e profondità umana che scaturisce invece dalle avventure vissute con Sancio. Don Chisciotte, solitamente misurato e trattenuto, riesce in alcuni particolari momenti ad esprimere le proprie emozioni, istintivamente, mostrando il benefico influsso ricevuto dall'indole di Sancio; così avviene quando lo scudiero accetta le condizioni del disincanto di Dulcinea: «si buttò al collo di Sancio e gli dette mille baci in fronte e sulle guance»,[26] oppure quando intuisce la fratellanza spirituale del nobile e folle Cardenio, al quale riserva uno degli abbracci più emozionanti dell'intero romanzo.
Quando il giovane fu vicino, salutò a voce bassa e rauca, ma con molta cortesia. Don Chisciotte gli rese il saluto con non minore garbatezza, e disceso da cavallo, andò ad abbracciarlo con gentile contegno e bei modi, e lo tenne stretto un bel pezzo fra le braccia, come se lo avesse conosciuto da lungo tempo. L'altro che possiamo chiamare Lo Straccione dalla Brutta Figura, come Don Chisciotte era quello della Triste, dopo essersi lasciato abbracciare, lo scostò un po' da sé, e postegli le mani sulle spalle, si mise a guardarlo fisso come volendo vedere se lo conosceva, non meno meravigliato forse nel vedere la faccia, il personale e le armi di Don Chisciotte, di quel che non fosse Don Chisciotte nel veder lui.[27]
Sono questi i momenti che costituiscono la vera medicina contro la malattia di Chisciano. È la relazione stabilita con Sancio la salvezza di Don Chisciotte. Quando, nel definitivo ritorno verso il paese, il cavaliere si troverà mortalmente indebolito, si confermerà l'idea che Sancio ne conserva e vivifica l'insegnamento. Proprio al contadino-scudiero spettano le parole che riassumono il significato dell'intera vicenda e che riconciliano l'errare del folle con la sua patria e la casa da cui era fuggito:
Apri le braccia, e ricevi il tuo figliolo Don Chisciotte, che se pure ritorna vinto da braccia altrui, ritorna vincitore di se stesso; il che, come egli m'ha insegnato, è la maggior vittoria che si possa desiderare.[28]
Come in un romanzo di formazione, l'anziano-giovane Don Chisciotte ritorna a casa dopo aver cercato di realizzare il suo ideale, molte volte caduto sulle strade del mondo. Ora è maturo per la morte. Ora rientra nel perimetro degli affetti, di quelle figure da cui era scappato: la nipote, la governante, il curato, il barbiere. L'azione di questi quattro personaggi è quella che esercitano altrettante pareti domestiche: la chiusura, la permanenza, la stasi. Dietro di loro è la volontà ordinatrice dell'autore, quell'istanza classica che si scontra con il molteplice e mutevole della sensibilità barocca. Il garzone allora viene dimenticato al principio del romanzo perché una sortita con lui non sarebbe stata una vera evasione dalla quotidianità. La casa, lo abbiamo visto, è il luogo della frustrazione, dell'illusione irrealizzata, della malattia e della morte. Le avventure di Don Chisciotte celebrano invece la valorosa adolescenza di un uomo dall'argentea barba.
Note:
[1] Vedi: www.bibliomanie.it/cervantes_don_chi-sciotte.htm
[2] F. Pessoa, Ho fatto di me ciò che non ho saputo, in L'enigma e le maschere, a cura di P. Civitareale, Mobydick, Faenza 1993.
[3] M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di C. Segre e di D. Moro Pini, trad. di F. Carlesi, Mondadori (I Meridiani Collezione), Milano 2006, cit. p. 1160 (II, 67). Tutte le citazioni tratte dal romanzo fanno riferimento a questa edizione. Laddove si è sentita più viva la necessità dell'originale spagnolo, si è fatto riferimento all'edizione Planeta, Barcellona 2005 (M. de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, Texto, introducción y notas de M. de Riquer, de la Real Academia Espanola, Edición revisada y actualizada).
[4] Il personaggio di Alonso Chisciano eredita da Cervantes, insieme ad altri elementi, una vocazione alla scrittura che si scontra con gli impedimenti della vita materiale. Vedi, prima dello sprofondamento nelle letture cavalleresche e dell'inizio della follia: «e molte volte gli venne la voglia di pigliar la penna e di finirla lui, con grande precisione, come lì si prometteva; e lo avrebbe fatto di certo, e vi sarebbe anche riuscito, se non lo avessero distolto altri maggiori e continui pensieri», M. de Cervantes, op. cit., I, 1, p. 22.
[5] M. de Cervantes, op. cit., II, 45, p. 964.
[6] M. de Cervantes, op. cit., I, 7, p. 66. Il governatorato dell'isola, le modalità e i tempi in cui può essere conseguito, costituisce anche l'argomento del primo dialogo tra il cavaliere e lo scudiero, all'inizio delle loro avventure (I, 7, pp. 67-68); è Don Chisciotte ad esordire con il tema del governo dell'isola, facendone l'oggetto del suo primo insegnamento («tu devi sapere che fu un uso molto comune tra gli antichi cavalieri erranti [...]»), come per allettare Sancio e riconfermarlo nella decisione presa di partire.
[7] M. de Cervantes, op. cit., I, 7, p. 66.
[8] M. de Cervantes, op. cit., I, 5, p. 54 e I, 7, p. 64.
[9] M. de Cervantes, op. cit., II, 64 (sommario), p. 1142.
[10] M. de Cervantes, op. cit., II, 65, p. 1146, corsivo nostro.
[11] A rimarcare la condizione di morente debolezza di Don Chisciotte, il cavaliere è rappresentato in uno stato di completa passività e abbandono, come un oggetto nelle mani di altri (sono questi a "rialzarlo" e a "scoprirgli il viso").
[12] M. de Cervantes, op. cit., II, 68, p. 1169.
[13] M. de Cervantes, op. cit., II, 68, pp. 1169-1170.
[14] M. de Cervantes, op. cit., II, 68, p. 1169.
[15] V. Bodini, Introduzione a M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. e note di V. Bodini, con un saggio di E. Auerbach, illustrazioni di G. Dorè, Einaudi, Torino 1994, pp. XI-XXXIV, cit. p. XIII (vedi anche, in partic., p. XVI).
[16] La vitalità e la ricchezza del parlato popolare di Sancio è resa, nella traduzione di Carlesi, con il dialetto toscano.
[17] M. de Cervantes, op. cit., II, 68, p. 1170.
[18] M. de Cervantes, op. cit., II, 65, p. 1149.
[19] M. de Cervantes, op. cit., II, 74, p. 1204 e p. 1210.
[20] M. de Cervantes, op. cit., I, 2, p. 27 e I, 7 p. 67.
[21] Nominato per la prima volta da Sancio (II, 2, p. 611), viene poi descritto come «un furbone di prima riga», dotato di «un'intelligenza molto fine [...] d'un carattere malizioso, beffardo e burlone» (II, 3, p. 613). Potrebbe essere interessante leggere la seconda parte del romanzo soffermandosi su questo personaggio, tracciando il ritratto dell'antagonista di Don Chisciotte, della figura che lo sconfigge e riconduce a casa.
[22] L'argomento dell'incantatore, comparso per la prima volta nella bocca della governante, provocando il riso del curato (I, 6, p. 55), viene poi scelto di comune accordo, come espediente di fronte alle domande che Chisciano avrebbe fatto quando non avrebbe trovato più i suoi libri (I, 7, pp. 64-65).
[23] Riguardo all'invadenza della nipote e della governante nei confronti di Chisciano vedi anche l'affermazione del curato: «non son tipi da potere far di meno di stare ad ascoltare all'uscio» (II, 2, p. 608).
[24] M. de Cervantes, op. cit., I, 7, pp. 64-65.
[25] M. de Cervantes, op. cit., II, 1, p. 593.
[26] M. de Cervantes, op. cit., II, 36, p. 900.
[27] M. de Cervantes, op. cit., I, 24, p. 228.
[28] M. de Cervantes, op. cit., II, 73, p. 1198.