Ezio Raimondi - L’esperienza letteraria: un dialogo delle culture

All'inizio del Novecento, poco prima che l'Italia si destasse dai sogni rosei della belle époque nell'incubo insanguinato del primo conflitto mondiale, Renato Serra, nel volgere lo sguardo a Carducci, un protagonista della vita culturale che non aveva mai cessato di testimoniare il passato, aveva già la chiara percezione del distacco irrimediabile che separava le «lettere» novecentesche dalla tradizione, proprio mentre rilevava la necessità di continuare a ricercare il confronto con un tempo lungo alle nostre spalle per non cedere alle facili liquidazioni del passato che la «volgarità» del «nuovo a ogni costo» sembrava imporre. Alla maniera di Kraus e Benjamin, avvertiva la pericolosa inerzia di una lettura ridotta a consumo, del libro come attualità commerciale, e della lingua avvilita nella frase fatta, in particolare dalla parola dei giornali (i mass-media di allora) che tende alla violenza dell'istante senza più concedere spazio al silenzio, e quindi a una possibile conversazione.
Come la sua, anche altre intuizioni negli stessi anni videro che la tradizione non poteva essere l'oggetto di un superamento o di una liquidazione, quanto piuttosto un luogo di confronto, anche per via dei crescenti contatti del mondo occidentale con gruppi umani per i quali essa è una forza viva, ancora vigorosamente in azione. In verità tutte le rivoluzioni, anche quelle scientifiche e tecnologiche, pongono in un modo o nell'altro il problema della tradizione e del passato, e del resto dallo stesso orizzonte franto del moderno – lo testimoniano scrittori come Joyce, Eliot, Valéry, Hofmannsthal – veniva il richiamo ai segni del passato nell'archivio dei tempi, fra nomi, concetti, figure cui restava legato un senso più alto. La scelta del viaggio verso i padri poteva valere tanto un'iniziazione a un magistero formale, quanto un'iniziativa assunta in nome di un nuovo presente, da pionieri di un nuovo giorno della cultura. Anche quando la tradizione si frantumava in un museo di rovine, non si cessava ancora di inventarla: certo essa non aveva nulla d'uniforme o d'inerte, e nel suo strutturarsi in una spazialità orizzontale definiva in sostanza lo sfondo su cui si stagliavano, più nitide e intense, le figure fuori serie dell'originalità e dell'anomalia. Se la tradizione può dunque essere in determinate circostanze ricordo fedele ma anche lacerante rottura, non già a segno di una contraddizione, ma coerentemente a un'idea di memoria come «energia», aperta nella sua stessa omogeneità a un flusso erratico di urti, fratture, antagonismi, si capisce perciò come il passato tenda ad assumere la figura di una pluralità mobile e sincronica.
Questa è la concezione che emerge, poco prima della metà del secolo, dalle pagine di Ernst Robert Curtius, il grande studioso appartenente alla generazione di Gottfried Benn, che nella cultura della retorica, ossia la teoria delle forme profondamente radicata nella tradizione letteraria, veniva scoprendo una «morfologia della tradizione letteraria» che era insieme una «biologia della letteratura», simile, per esempio, alla «immaginazione creatrice» di Bergson, allo studio della sopravvivenza di stereotipi figurativi pagani nei nuovi cicli della cultura occidentale di Aby Warburg, e alle «immagini arcaiche originarie dell'inconscio collettivo» rivelate dalla psicologia del profondo di Jung. Attraverso tali pagine cominciava ad affermarsi la percezione che la cosiddetta «letteratura nazionale» avesse bisogno di una prospettiva più ampia entro cui darsi ragioni più complesse: quella stessa Europa di cui parlava Thomas Mann nelle Storie di Giuseppe, allorché evocava l'immagine del «pozzo del passato». Era insomma un'Europa che veniva dalla solidarietà di generazioni francesi, italiane, inglesi e tedesche e da una trama di significati condivisi, non troppo lontana dal quadro della Weltliteratur proposta da Goethe, perché proprio già in essa si dava l'ampliamento della significatività e della forza espressiva come una sorta di dilatazione dell'orizzonte, nella quale ogni voce, ogni tradizione e ogni testo, pur restando se stesso, attraverso il confronto sapeva diventare anche altro.
La letteratura del primo Novecento scopre infatti, nel quadro del suo peculiare enciclopedismo, di essere essa stessa uno spazio del molteplice, dove ragioni differenti coesistono con storie e ritmi variabili. Verrebbe quasi da dire, ricordando un pensiero di Virginia Woolf, che in ogni pagina si schiude una finestra, un'apertura, uno scorcio sulla realtà che ci sta intorno. Molteplice e sorprendente anche quando ci è familiare, ciò che si ricrea di continuo è un panorama di stratificazioni della memoria e di sedimentazioni della materia. Restando con lo sguardo all'Inghilterra, intorno a quegli stessi anni T.S. Eliot, in uno dei capitoli delle sue Note per la definizione della cultura, affermava poi che un uomo dovrebbe sentirsi non semplicemente un cittadino di una particolare nazione, ma di una parte particolare di questo paese, della sua «cultura», della sua tradizione «caratteristica»: però tutt'altro che chiusa in se stessa, perché pronta al dialogo con altre tradizioni.
Ma tra Otto e Novecento la storia letteraria poteva ancora essere definita da una dimensione nazionale specifica, oggi dobbiamo invece iscriverla in un insieme più ampio, in un confronto interculturale e interstorico che muove di continuo di esperienza in esperienza, di ragione in ragione, come un grande dialogo che si svolge nel tempo con protagonisti sempre diversi e in cui gli scambi sono straordinariamente vivi e frequenti. E può essere che nel nostro compito nuovo, di fronte a un sistema letterario che anche dietro la spinta del mercato si costituisce strutturalmente all'incrocio fra mondo globale e mondi locali, finiamo col riconoscere motivi e caratteri che hanno radici lontane. Forse anche una letteratura come quella italiana, se interrogata in modo adeguato, alla luce dei nuovi problemi e delle nuove prospettive, potrebbe insegnare come un certo dialogo fra le tradizioni sia stato possibile anche in altri tempi. Pensiamo alla Divina Commedia : è chiaro che nel suo quadro prodigiosamente organico si determina una sorta di impulso all'universalità, in cui affluiscono, al positivo e al negativo, diverse culture e diversi codici mentali. E' un poema dove l'enciclopedia del sapere rinvia alla vita universitaria di Parigi così come, sebbene implicitamente, all'Inghilterra, e dove addirittura è compresente il mondo musulmano con ragioni, come è stato ipotizzato, che forse entrano persino nella stessa costruzione dell'opera, nel suo disegno vertiginoso dal razionale al metarazionale. In verità, è sempre avvenuto che le letterature si siano mescolate tra loro, come emerge palese quando ci si metta in rapporto anche con altre letterature nazionali. Si ricordava l'idea della Weltliteratur di Goethe, di una letteratura mondiale nella quale entravano nuove tradizioni e in cui assumeva un ruolo cruciale, alla base del dialogo delle nazioni, il problema della traduzione. E uno degli esempi veniva proprio da lui, che riscopriva la poesia persiana e ne faceva parte integrante della propria tradizione occidentale. D'altro canto quando Madame de Stäel scriveva De l'Allemagne scopriva nella cultura romantica tedesca una nuova entità che compariva a livello europeo. Pensiamo al grande slancio del Romanticismo tedesco: la Germania era un Paese sino ad allora apparentemente ai margini, che scopriva la modernità e immetteva uno straordinario flusso di energie nel contesto della cultura europea e finanche extraeuropea, non appena coinvolgeva gli Stati Uniti e l'America meridionale. Certo oggi il fenomeno si presenta in forme molto più radicali, su una scala incomparabilmente più vasta, in cui entrano in gioco tanto il mondo latino-americano quanto il mondo orientale, con l'India, l'Australia, la Cina, il Giappone, per tacere di Israele, dei paesi arabi o del Sudafrica. E sono proprio quelle che, in un lessico tradizionale, chiameremmo le periferie. Ma anche la dialettica tra centro e periferia, oggi, esige di essere rivista nel profondo, col riconoscimento dei processi fluidi che modificano di continuo le relazioni date e le dignità precostituite, tanto più nel contatto ineludibile con gruppi umani per i quali la tradizione autoctona continua a costituire una forza viva, entro i ritmi di un divenire che non si può adeguatamente intendere secondo il metro dello sviluppo occidentale.
Certo è un dato di fatto, come ha riconosciuto più di uno scrittore, che la letteratura oggi trova espressioni talora più vitali proprio alle periferie, che nell'atto stesso di riscoprire la letteratura e la sua tradizione le investono con il senso vivo dei propri problemi e con la freschezza delle proprie esperienze. E' come una metamorfosi di prospettive, ove il presente di popoli un tempo conquistati e oppressi, con il dramma di una cultura vinta, assume la letteratura e la sua tradizione come strumento di riscatto della propria identità e della propria dignità per poi farvi deflagrare la vitalità sovversiva e la forza di metamorfosi di una esperienza inalienabilmente originale, che chiede di essere riconosciuta nella sua differenza e nella sua eccentricità. Così, in un singolare movimento, gli scrittori delle periferie, che conoscono bene la letteratura istituzionalizzata e che talvolta si servono di una lingua altra da quella d'origine, si portano sin dentro il centro e lo traducono nella propria periferia, rivitalizzandolo a contatto con un universo di cose nuove da testimoniare e di nuove parole da trattenere. Più che di periferie, a questo punto, si deve parlare di nuovi centri, diversi da quelli tradizionali. Il policentrismo si rivela più che mai un'altra faccia del nostro universo globale e plurale.
Ma è poi vero, anche in questo caso, che la memoria del passato continua a rifluire nel presente. Quando si legge un romanzo come Paradiso del cubano Lezama Lima, quasi non si riesce più a distinguere tra medioevo, barocco e il presente dilacerato della realtà postcoloniale dei Caraibi. E' tutta la letteratura che viene messa in gioco. Ma questo, in un ordine più generale, è anche uno dei caratteri della letteratura del Novecento, che nel momento stesso in cui qualche volta sembra rompere drasticamente con il passato, lo mette in gioco per intero. Si è parlato, a questo proposito, di nuove opere-mondo. Diciamo piuttosto che il passato tende sempre più ad assumere la figura di una pluralità mobile e sincronica, ordinandosi non più secondo paradigmi selettivi e teleologici, ma alla stregua di una biblioteca o di un'enciclopedia paradossalmente aperta, forse anche di un grande bazar. Vero è che le tradizioni singole non si riescono più a isolare, sono inestricabilmente intrecciate fra loro, proprio come poliglottismo e creolizzazione definiscono i fenomeni emergenti nel nuovo ordine antropologico della società multietnica. Certo anche questa diversa "giovinezza" delle tradizioni e delle letterature deve diventare una parte della nostra esperienza. Si tratta di un compito straordinariamente arduo che va poi definito e assolto, fuori da ogni enfasi, nella dimensione umile e paziente del lavoro quotidiano, là dove si determina nel concreto il nostro modo di porci di fronte al mondo, ossia dinanzi agli uomini. Va da sé che il multiculturalismo susciti poi nuovi problemi: qualcuno parla di relativismo totale, altri invece, forse più a ragione, invitano a riconoscere che il multiculturalismo non significa relativismo dei valori, perché alla fine determina proprio dei valori umani comuni, differenziati ma insieme solidali. Come è stato acutamente osservato, proponendosi come un assoluto il relativismo non può alla fine che negare se stesso, perché se fosse valore assoluto non sarebbe più relativismo. Proprio negli scrittori delle periferie, invero, il sentimento profondo del luogo e del suo retaggio remoto non vanifica ma anzi avvalora la ricerca eticamente vincolante di un denominatore comune di umanità. E in realtà la letteratura si è sempre portata dentro, anche nel rivolgersi a tradizioni profondamente diverse come quella orientale, indiana o cinese, un proprio impulso a una dimensione globale, tutt'uno con il sentimento di un insieme più ampio, di cui veniva a far parte, acquistando il suo significato più autentico, anche il testo nuovo con la sua sfida inventiva. La varietà deve comportare anche un elemento comune, una ragione umana senza la quale non potrei intendere l'altro e riconoscere in lui, proprio in quanto diverso, un compagno della mia stessa avventura.
Nell'universo contemporaneo della complessità rientra senza dubbio il fenomeno di una sconfinata molteplicità di tradizioni che si trovano a convivere in un mondo che, per un altro dei paradossi del nostro presente, sentiamo più vasto e nello stesso tempo, con i nuovi strumenti informativi, straordinariamente rimpicciolito. Ma l'economia planetaria non elimina il dissidio anche sanguinoso degli interessi e delle visioni del mondo, l'ansia travagliata e talvolta intransigente dell'identità. Ciò che si profila è dunque un sistema culturale strutturalmente aperto e fluttuante, in cui confluiscono canoni, valori, comportamenti anche molto differenti e spesso in conflitto e in cui non si può fare a meno di un pluralismo autentico, fondato sullo scrupolo pensoso di ritornare di continuo sulla propria prospettiva parziale, senza abdicare alla propria singolarità ma impegnandola al confronto con il diverso, al gioco molteplice e spregiudicato delle relazioni, arricchita anche attraverso il dissenso. In un libro dedicato alla "società individualizzata", a quella che altri definisce "società orizzontale", un sociologo di severa e penetrante acutezza come Zygmunt Bauman può osservare che con la globalizzazione e la trasmissione elettronica dell'informazione si produce una "svalutazione del luogo", una perdita di significato dello spazio, mentre alla prospettiva dello "stanziale" sembra sostituirsi quella del "nomade". Ma più che un'alternativa irreversibile questo significa un nuovo rapporto tra "globale" e "locale", come afferma Roland Robertson, un veterano in materia, per il quale la globalizzazione produce non solo l' "uniforme" ma anche il "diverso" e diviene il contesto necessario entro cui si colloca anche la cultura differenziata del "luogo". Ne nasce allora la consapevolezza attiva di una pluralità di storie e tradizioni, il principio negoziato del confronto, la costruzione di un'identità attraverso la presenza dialogante dell'altro.
Ora la letteratura, con il suo spazio di figure visibili e invisibili, introduce ed educa esattamente a questa conoscenza, a questa compresenza di verità differenti nella pluralità libera delle coscienze. E il tema dell'altro, oggi così vivo nel discorso filosofico e in tante riflessioni avvertite di ordine sociologico, viene ineludibilmente in primo piano, nella vocazione della letteratura a riconoscere e a capire la diversità, ad assimilarla senza cancellarla o farle violenza. Ed anche la scuola, nel mondo della multiculturalità e della globalizzazione che crea, come sappiamo, nuove forme di etnia, ha il compito di salvaguardare il senso profondo della parola come dialogo, come rapporto tra un soggetto e un altro dove è l'altro che conta , in quanto è colui attraverso il quale anche il soggetto scopre qualcosa di sé.