Emira Armentano - Solo andata: Erri De Luca e il “popolo” dei migranti

Il popolo dei migranti

 

Quando il popolo non è nazione ma crogiuolo di uomini, non è cittadinanza ma evaporazione di diritti, non è territorio condiviso ma dispersione di genti, allora stiamo parlando del 'moderno popolo dei migranti'.
Nuova aggregazione multietnica, i migranti odierni sono quelli che su barconi di fortuna, sfruttati da trafficanti d'uomini e ammassati in stive senz'aria o in coperta dove l'aria è troppa, partono da un lontano 'dove' per raggiungere un inesprimibile 'qui'.
Sono popolo perché identificabili in una massa omogenea eppure indistinta, definibile tout court come 'altro' da noi. Pertanto i contorni del loro 'essere popolo' non sono geografici o territoriali, etnici o religiosi… sono quelli della disperazione e della fuga, della fame e della paura, della speranza e dell'oblio. Ed è questo che li caratterizza come 'nuovo popolo', nuova aggregazione sovranazionale: viaggiatori loro malgrado, capaci di attraversare deserti e guerre, montagne e frontiere, diventano popolo di navigatori che nel mare nostrum cercano i confini di una 'nuova' nazione popolare.
E se anche, cercando una nazione, trovano fin troppo spesso il loro cimitero, questa dimensione di morte - preventivata e inevitabilmente accettata - li trasfigura in nuovi Ulisse alla ricerca della patria inesistente, in eroi sconfitti da un destino maligno, in compagni compianti e perduti. Però quelli che eroi non sono più, perché vivi – sopravvissuti – bagnati – malati –affamati, diventano pericolosi, presenza ingombrante, popolo da accogliere dentro un altro popolo, genti diverse venute a sovvertire l'ordine costituito.

 

La patria letteraria

 

Ma la dimora disattesa dei migranti, sia nell'accezione di morte che in quella di respingimento, si trasforma in diritto di cittadinanza letteraria, in narrazioni poetiche che nel terzo millennio delineano nuovi personaggi e nuove epopee.
E' quanto accade in solo andata[1] di Erri De Luca: moderno poema epico, con "righe che vanno troppo spesso a capo"[2], l'opera del 2005 è un canto di dolore e sconfitta di un popolo migrante che, nelle individualità spersonalizzate dei suoi cantori, sente l'urgenza di parlare, dialogare, urlare, ammutolire. Epica antifrastica, dunque, epica dei vinti e degli sconfitti, epica non più celebrativa di una civiltà e dei suoi valori, ma comunque epica di genti che proprio in questi versi trovano la propria legittimazione di popolo.
E infatti i componenti del Coro dell'opera, esplicito riferimento alla tragedia classica ma anche all'impersonalità dei suoi protagonisti, si autodefiniscono "popolo di sabbia", "deserto che cammina"[3], migrazione di "patrie"[4]: pur eterogenei per provenienza, si riconoscono nell'essere una "patria" che è solo "una barca – un guscio aperto"[5], si riconoscono nell'essere "solo andata"[6].
Questa di De Luca è, infatti, un'epopea senza ritorno, volutamente senza ritorno, perché vive della solo andata dei profughi che lasciano l'Africa per non tornarci più: "Devi tornare a casa. Ne avessi una, restavo."[7] Il Mediterraneo, nell'incipit[8] dell'opera, è infatti luogo asimmetrico[9] tra le coste di partenza e quelle di arrivo, perché è "senza pareggio"[10]: "toccano Italia meno vite di quante salirono a bordo"[11]. E qui riecheggiano i versi di un altrove universale che sempre De Luca ha delineato in un'altra raccolta di poesie, Opera sull'acqua[12], dove "migratori senz'ali, contadini d'Africa e di oriente affogano nel cavo delle onde"[13], delineando volti che incontrano il "fondo di pupilla di una cernia"[14] o che si aggrappano alla vita "battendo le pinne dei piedi"[15]. Ma il popolo dei migranti è destinato alla dispersione, perché "un viaggio su dieci s'impiglia sul fondo"[16] o perché lo spazio condiviso sul gommone che attraversa il Mediterraneo si trasforma in campo di battaglia, in cui morti e feriti si mescolano a vite che stentano a respirare.

 

L'inizio del viaggio

 

Ma prima di giungere alla descrizione sofferta di questo scontro tra uomini, la narrazione di solo andata di De Luca, affidata a "sei voci" di protagonisti indeterminati, parte da lontano, da spazi desertici e assolati che in terra d'Africa assistono alla lunga marcia di un popolo, numericamente esiguo ma continuamente rinnovato/rinnovabile nel tempo, che va alla ricerca del mare per un futuro diverso: un vero esodo, causato da guerre intestine ("calati da altopiani incendiati da guerre e non dal sole"[17]) e organizzato "sotto la sferza di polvere"[18] in colonne serpeggianti che seguono il "tallone che precede"[19]: "il viaggio a piedi è una pista di schiene"[20].
Genti in cammino, che abbandonano le proprie terre perché "i soldati bruciano i villaggi"[21], "gettano al fuoco gente e bestie"[22], "sgozzano il pozzo con la dinamite, abbattono le piante, rotolano teste di bambini in punta di stivali"[23], i migranti diventano nelle voci del Coro il "seme sputato il più lontano dall'albero tagliato, fino ai campi di mare"[24]: il mare è necessità e non scelta, obbligo e non destino, è "il più gentile dei confini messi a sbarramento"[25], è "linea d'arrivo, abbraccio di onde ai piedi"[26].
Le "sei voci" di De Luca ci accompagnano nel viaggio di un popolo in fieri, nel cui immaginario poetico e ingenuo l'acqua del Mediterraneo si trasforma in girandola, in carro, in sollievo, in mezza luna coricata, in tappeto di preghiera… ma quel mare è poi solo "un orlo arrotolato sulla fine dell'Africa"[27], non meta ultima ma trampolino di lancio verso terre di nessuno.
E il popolo migrante, trattato il prezzo con i mercanti di uomini, sale sul barcone e qui si unisce, si accomoda, si modella, si adatta a una "sella più comoda di una cavalcatura"[28]: il racconto ora non è più corale e neanche a sei voci, ma è quello di uno solo, di un unico protagonista che dà voce all'intera comunità cui appartiene. Sarà lui a catapultarci sulla barca in movimento, a renderci spettatori inermi di una progressiva scesa agli inferi, a farci sentire l'odore della paura e della disperazione.

 

La traversata

 

Cadenzato in "giorno uno, secondo, terzo, quarto", e poi in un tempo sempre più ineffabile e indeterminato, il viaggio per mare diventa nelle parole del singolo protagonista una lotta per la sopravvivenza che inevitabilmente vede soccombere i più deboli e indifesi.
Il primo a morire è un bambino, che dalle braccia della madre si abbandona a un nuovo grembo materno, quello del mare che tutti accoglie, che "avvolge in un rotolo di schiuma la foglia caduta dall'albero degli uomini"[29]. Ma il viaggio prosegue e la fame di spazio attanaglia quel microcosmo di popolo: da un lato due marinai armati, dall'altro la moltitudine inerme dei migranti che progressivamente vengono relegati in metri quadrati sempre più angusti, sempre più distanziati e lontani da chi con il potere delle armi ritaglia per sé uno spazio di aria e sicurezza. Fanno "mosse di minaccia"[30], "hanno ammazzato già, si sente dalla puzza di paura"[31]: d'altronde la paura serpeggia ovunque in quella dimensione precaria, ignota, nuova e spersonalizzante. E il mare si agita, si gonfia, si abbatte e rende instabile la presa di chi si aggrappa a un giaciglio di sicurezza: "uno di noi rotola verso di loro"[32]… un migrante perde posizione e senza volerlo si ritrova ai piedi di uno dei carcerieri che subito punta l'arma; ma le mani alzate per lo spavento non lo proteggono: il mare "rovescia l'equilibrio"[33], lo spinge "in bocca all'arma", un colpo parte e l'uomo soccombe, "morto sfondato in petto"[34], anche lui ora destinato al mare e al suo abisso.
Ma nel seguito del tragitto la sorte si inverte e ondate marine discontinue fanno cadere improvvisamente il marinaio col fucile: il potere armato soccombe, si disperde, si annulla e cade trafitto sotto la lama tagliente di chi sta raccontando… ora è il popolo indifeso e succube a fare paura, a costringere -suo malgrado- il secondo marinaio a buttarsi in mare da vivo, a scappare, a diventare profugo in acque straniere.
Nella corrente mediterranea ora il popolo migrante è senza guardiani, senza guida… libero nel territorio libero di una barca che è diventata loro. E il primo atto da popolo libero è praticare il "comunismo"[35]: condividere cibo, acqua, teli reperiti dal bagaglio dei marinai… tolto il comando agli assassini, il popolo si autodetermina come alla nascita di una nazione? di una patria? di un nuovo inizio? Ma l'anziano dice che "spetta al mare decidere di noi"[36]: non sono veramente liberi, il mare dà e il mare toglie.
Ma assaporare anche solo momentaneamente la libertà permette ai naviganti di viaggiare con la memoria e con la nostalgia alla ricerca del tempo perduto e non più ritrovato di un passato ormai inesistente perché non più futuribile: privi di radici e accompagnati da ricordi sempre più evanescenti i migranti si vanno lentamente sfaldando nel loro essere "popolo", sia per le progressive morti sul barcone sia per la progressiva perdita del passato che fa da collante… loro sono solo andata.
Il sale arriva dal mare e incrosta i corpi, il vento spinge lontano, le nuvole accompagnano la traversata trasfigurandosi in immagine oniriche e deliranti… il tempo passa e nessuno sa più orientarsi… e infine provati, sfiniti, angosciati, i profughi arrivano alla terraferma.

 

L'arrivo

 

Ed ecco che il popolo di migranti arrivato a destinazione perde subito la libertà assaporata sul mare per divenire "colpevoli di viaggio"[37]: guanti di plastica e maschere alla bocca, chi li accoglie sull'isola di Lampedusa separa i morti dai vivi, rinchiude il popolo sopravvissuto in mille unità in un centro per sole cento persone …  non c'è fame né sete né freddo… questo è comunismo? No… "è recinto e noi siamo bestiame. Non ci vogliono" [38].
Comunque la terraferma è stata raggiunta: il popolo si ricompone nelle sue usanze e nei suoi abbracci, si ritorna alle preghiere, alla vita da cortile, alla cura dei bambini. Ma questo popolo non esiste, se non nelle frammentarie schedatura amministrative, deve ritornare indietro, deve ridiventare popolo d'Africa… è lì che esiste…. non qui…
Eppure se avessero avuto la possibilità di rimanere Africa non avrebbero attraversato un mare di morte e penuria. Il protagonista del racconto si gira di schiena per dimostrare che è tutto qui "l'indietro" che gli resta: vorrebbe un futuro, un'appartenenza a un nuovo popolo che diventerebbe il suo… questa è l'identità che si va cercando, essere popolo di individui sovranazionali.

 

Echi letterari

 

Riecheggia in questo desiderio quello ormai atavico del Moammed Sceab[39] di Ungaretti, "suicida" perché "non aveva più patria"[40], perché non integrato in un popolo che lui voleva sentire proprio: la sua è la crisi d'identità che ogni migrante moderno sente e vive sulla propria pelle, sospeso in un limbo castrante alla ricerca di sé, alla ricerca di una collocazione definitiva che invece puntualmente lo ricaccia in una dimensione atemporale e aspaziale, rendendolo "nessuno" e quindi inesistente.
"La terraferma Italia è terrachiusa"[41], dice Erri De Luca, salva i naufraghi ma poi non li accetta e non li accoglie, celebra il mare "seminato di annegati"[42] e piange al cinema per il Titanic affondato[43], ma "a casa gli occhi"sono "asciutti per un mare di annegati negri/ come il Nilo dei neonati Ebrei/ affogati dal re per l'uguale ragione di noialtri:/ il timore del numero"[44]. Timore del numero… del numero di genti che verrebbe a scalfire la nostra appartenenza al popolo italiano ed europeo, popolo di salde radici e mores consolidati, popolo autoctono che ha dimenticato di essere stato popolo emigrante.
Popolo italiano emigrante che ha lasciato tracce di sé in fotografie virato seppia e in documenti orami ingialliti, divenendo col tempo soggetto di opere letterarie e cinematografiche che testimoniano l'interesse umano e antropologico di un'Italia che affettuosamente guarda e celebra i sacrifici dei propri bisnonni e nonni. E così gli emigranti siciliani di Sciascia, nel racconto Il lungo viaggio[45], partiti clandestini per l'America e sbarcati di nuovo in Sicilia senza saperlo, sono oggetto di una frode cinica che sottolinea l'ingenuità ignorante di chi spera in un futuro migliore per sé e i propri figli, mentre il protagonista del film "Pane e cioccolata"[46] si trasfigura in un personaggio disturbante e degradato, costretto a vivere in un pollaio insieme alle galline che deve uccidere per lavoro e pronto a un patetico tentativo di mimesi col popolo svizzero attraverso la tintura bionda dei capelli.
Anche Erri De Luca si sofferma, nel 2003, sui nostri migranti ne L'ultimo viaggio di Sindbad[47], testo per il teatro, che evoca migrazioni lontane nel racconto del capitano, dove i saluti accorati dei familiari sotto le grandi navi che, all'inizio del '900, partivano per le Americhe si intrecciano con i saluti nascosti e lontani dei nuovi migranti che clandestini oggi viaggiano verso l'Europa: a un popolo ufficiale si contrappone un popolo invisibile. "Allora – scrive De Luca – il molo del porto di Napoli era nero di madri. Gli emigranti tenevano speranze. […] Sulla pietra del porto di Napoli si poteva sentire il rumore degli addii".[48]
Giunto al suo ultimo viaggio, Sindbad rievoca nella memoria nomi e avvenimenti, sguardi e morti, tragedie e approdi sulla scia immaginifica del nome magico che porta, quello del marinaio fantastico de Le mille e una notte: rivivono santi e profeti in fuga sul mare, a cominciare da Giona, archetipo biblico del naufrago-migrante, sacrificato alle onde inferocite e accolto da un ventre di balena accogliente.
Ma accoglienti non sempre sono oggi i porti del Nord, le città europee, i politici oltranzisti, i cittadini che ascoltano la pancia e non la ragione, tentando di annullare (possibile?) le nuove ondate migratorie, ovvero "quello che, secondo Erri De Luca, sarà il segno distintivo del Novecento, che verrà ricordato come il secolo delle migrazioni, non quello delle guerre mondiali prima e seconda, ma quello in cui le migrazioni hanno svuotato e spopolato terre e paesi molto più di due guerre mondiali"[49].  

 

Dalla profezia alla realtà

 

Queste ondate sono inarrestabili. Bisogna immaginarci che noi – forse non questa generazione, ma insomma la generazione di questi nostri giovani convivrà con un mondo multiplo, pieno di umanità riversata ovunque. Bisogna immaginarsi insomma che il mondo è una patria unica, oppure saremo tutti immigrati. Saremo tutti degli emigranti, anche quelli che abitano a casa loro diventeranno degli emigranti.[50] 

Patria unica perché popolo unico, senza distinzioni etniche, culturali o religiose, popolo riemerso da una palingenesi catartica.
In tale dimensione si muoveva, già negli anni '60, Pier Paolo Pasolini che, nella lirica Profezia[51], immagina una sorta di invasione di extracomunitari, un movimento inarrestabile di genti che dal Sud del Mediterraneo si imbarcheranno per il Nord guidati da Alì, un arabo dagli occhi azzurri:  
Alì dagli Occhi Azzurri/ uno dei tanti figli di figli,/ scenderà da Algeri, su navi/ a vela e a remi. Saranno/ con lui migliaia di uomini/ coi corpicini e gli occhi/ di poveri cani dei padri […]/ Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/ a milioni, vestiti di stracci/ asiatici, e di camicie americane.[52]

Questi milioni di persone saranno come gli antichi Greci che una volta sbarcati al Sud portarono con loro la nuova civiltà, il nuovo mondo, il nuovo ordine. Allo stesso modo i nuovi migranti porteranno la distruzione, la dissoluzione del mondo borghese che finalmente potrà riscattarsi e ritrovare la libertà: "distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il germe / della Storia Antica"[53]. Questo terzo mondo pasoliniano è un popolo originario, ancora intatto e incontaminato dalla società capitalistica, in cui poter ritrovare le tracce più autentiche di un mondo contadino che nei paesi occidentali andava rapidamente scomparendo, divorato dallo ‟sviluppo senza progresso". I migranti di Pasolini si trasfigurano in nuovi e violenti barbari, fautori di un'utopistica rivoluzione che unisce il papa buono Giovanni XXIII, il giovane arabo Alì e la bandiera rossa di Trotzky: un incubo per l'Europa borghese ma un sogno per il Pasolini disilluso e deluso.

 

Enea: proto-migrante fondatore di popolo

 

E non è forse un emigrante, scappato da una patria in fiamme (Troiae ab oris[54]) insieme ai familiari e ai più cari compagni, quell'Enea che, nella fondazione mitica dell'Occidente, dà vita a un nuovo popolo e a una nuova civiltà?
Enea è un profugo (profugus[55]), sballottato per terra e per mare (et terris iactatus et alto[56]),finché non giunge alle spiagge di Lavinio e, costretto alle armi e alla guerra, fonda la città portando gli dei nel Lazio, da dove derivano la stirpe latina, i padri albani e le mura dell'alta Roma (dum conderet urbem, inferretque deos Latio, genus unde Latinum Albanique patres, atqu(e) altae moenia Romae[57]).[58]
Enea è l'archetipo del migrante che non sceglie la traversata, l'avventura, la conoscenza altra, ma vi è costretto suo malgrado perché ormai privo di patria: certo, è investito di dagli dei di un ruolo che non può rifiutare, ma -spogliato della sua "condanna" divina- rimane l'eroe tragico che attraversa i flutti marini, perde dolorosamente i compagni, abbandona Creusa e poi Didone, salva Anchise e Ascanio, affronta affanni e tragedie, viene rifiutato e si sente incompreso: Tantae molis erat Romanam condere gentem![59](Era una così grande fatica fondare la stirpe romana!).
Gens cioè popolo: Enea fonderà un nuovo popolo e darà un nuovo ordine, proprio come sperava Pasolini ne La profezia.
Così dal mito al futuribile si dipanano storie di migranti, protagonisti di avventure e desideri, obiettivi e speranze che oggi si frantumano sulle increspature delle onde marine di solo andata, nuovo abisso dell'anima occidentale, ancora una volta profetizzato da Pasolini che, infatti, col tempo abiurò la speranza dell'alternativa che per lui avevano rappresentato i "nuovi" popoli terzomondisti.
E allora di nuovo De Luca sottolinea la distanza tra NOI e LORO nella chiusura di solo andata: "Voi siete il collo del pianeta, la testa pettinata,/ il naso delicato, siete cima di sabbia dell'umanità./ noi siamo i piedi in marcia per raggiungervi,/ vi reggeremo il corpo, fresco di forze nostre".[60]

 

Dal mito allo sport: le Olimpiadi di Rio 2016

 

Ma nuovi Enea senza patria oggi si sono riuniti in un team sportivo che ufficializza e legittima l'idea di un popolo ormai senza confini e territorio: le Olimpiadi 2016 hanno visto, per la prima volta, la partecipazione di una squadra sovranazionale, senza bandiera se non quella a cinque cerchi, multietnica e plurilingue, la "squadra dei profughi", composta da atleti provenienti dalla Siria, dal Sudan meridionale e dalla Repubblica Democratica del Congo, tutti fuggiti da violenze e persecuzioni nei loro paesi e rifugiati in luoghi di più ampio respiro, come il Belgio, la Germania, il Lussemburgo, il Kenya e il Brasile.
Questi atleti, che hanno gareggiato in nome di sessanta milioni di rifugiati, sembrano usciti dalle pagine di solo andata: hanno affrontato bombardamenti e traversate a piedi, hanno contrattato per un viaggio clandestino, hanno affrontato i flutti marini e la speranza dell'arrivo in terra straniera. Emblematica è la figura della nuotatrice Yusra Mardini, che nell'agosto del 2015 si è tuffata dal barcone in procinto di affondare nel Mare Egeo con 20 migranti a bordo, trascinandolo fino a mettere tutti in salvo sulle coste dell'isola di Lesbo, e che a Rio 2016 è diventata una stella - anche senza medaglie - nuotando i 100 stile libero e i 100 farfalla: è lei la realizzazione del sogno di chi, volendo essere solo andata, trova la propria libertà e dignità in una nuova idea di popolo e di integrazione.

Emira Armentano
Liceo Scientifico A. Labriola, Napoli

Pubblicato il 09/11/2016

 

Note:


[1] Erri De Luca, solo andata, Feltrinelli, 2005 (volutamente con la "s" minuscola)

[2] È il sottotitolo di solo andata

[3] solo andata, cit, pag. 24

[4] Ivi, pag. 25

[5] Ivi, pag. 34

[6] Ibidem

[7] Ibidem

[8] Ivi, pag. 7, Nota di geografia

[9] Sembra che questi versi adattino alla modernità l'antico mito di Eco e Landro, divisi dall'Ellesponto e uniti dalla traversata notturna di Leandro, fino a quando i gorghi implacabili del mare, tra venti trascinanti e flutti minacciosi, non si impossessano per sempre della vita del giovane amante. Anche qui ritroviamo due sponde asimmetriche, un andare e tornare che si conclude con la sola andata.

[10] Ibidem

[11] Ibidem

[12] Erri De Luca, Opera sull'acqua, Einaudi, 2002

[13] Naufragi, in Opera sull'acqua, cit., pag.19

[14] Volti, in Opera sull'acqua, cit., pag. 8

[15] Ibidem

[16] Naufragi, cit.

[17] solo andata, cit., pag. 11

[18] Ibidem

[19] Ibidem

[20] Ibidem

[21] Ivi, pag. 25

[22] Ibidem

[23] Ibidem

[24] Ibidem

[25] Ivi, pag. 12

[26] Ivi, pag. 11

[27] Ivi, pag. 14

[28] Ivi, pag. 15

[29] Ivi, pag. 16

[30] Ivi, pag. 15

[31] Ibidem

[32] Ivi, pag. 19

[33] Ibidem

[34] Ibidem

[35] Ivi, pag. 22

[36] Ibidem

[37] Ivi, pag. 31

[38] Ibidem

[39] G. Ungaretti, In memoria, in L'Allegria

[40] Ivi, vv.6-7

[41] Da questa parte del mare, in Opera sull'acqua, cit.

[42] Erri De Luca, Preghiera laica, del 20 aprile2015

[43] Erri De Luca, Il timore del numero, in Bizzarrie della Provvidenza, Einaudi, 2014

[44] Ibidem

[45] L. Sciascia, Il lungo viaggio, in Il mare colore del vino, Einaudi, 1973

[46] F. Brusati, 1973

[47] Erri De Luca, L'ultimo viaggio di Sindbad, Einaudi, 2003

[48] http://fondazionerrideluca.com/lultimo-viaggio-di-sindbad-intervista-e-recensione-di-gerardo-picardo-adnkronos/

[49] I. M. Zoppi, Da questa parte del mare. Gianmaria Testa ed Erri De Luca nel secolo delle migrazioni. https://dialnet.unirioja.es/descarga/articulo/3175801.pdf

[50] De Luca E., 2001, Intervista, Manziana (RM), RaiNews24, in I. M. Zoppi, cit.

[51] P.P.Pasolini, Profezia, in Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964

[52] Ivi

[53] Ivi

[54] Virgilio, Eneide, v. 1

[55] Ivi, v. 2

[56] Ivi, v. 3

[57] Ivi, vv. 5-7

[58] Genus unde latinum: In realtà la stirpe latina esisteva già quando Enea sbarcò nel Lazio. Ma i veri latini, quelli che avrebbero poi fondato Roma, nacquero dalla fusione tra i latini originari e i troiani sbarcati nel Lazio al seguito di Enea. Albanique patres: secondo la tradizione seguita da Virgilio,  la città di Alba Longa venne fondata da Iulo-Ascanio, figlio di Enea. Dalla discendenza dei re di Alba Longa sarebbero giunti Romolo e Remo, i fondatori di Roma.

[59] Virgilio, Eneide, v. 33

[60] solo andata, cit., pag. 36