Emira Armentano - Anime cieche: il “sonno della ragione” e la paura del vivere contemporaneo

Cecità di José Saramago

“L’uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole”, di kantiana memoria, si declina nel corso dei secoli nella lotta all’ignoto e alla derivante paura attraverso l’uso consapevole della ragione quale mezzo di conoscenza e di autodeterminazione.

E per quanto la “scoperta” dell’inconscio individuale e collettivo, con le relative pulsioni e ancestrali paure, abbia negli ultimi cento anni gettato un’ombra sulla possibilità reale dell’uomo di controllare in toto se stesso e i suoi rapporti con gli altri, è indubbio che la ragione è stata l’unico strumento che abbia permesso agli esseri viventi di evitare l’homo homini lupus nella costruzione della società (civile). 

 

Il  sonno della ragione


Ma sul finire del ‘900, anticipando emblematicamente l’orrore delle torri gemelle, la barbarie dell’ISIS e l’indifferenza di fronte alle stragi dei migranti, un autore visionario come J.Saramago[1]  avverte tutti noi che il “sonno della ragione”[2] è tra noi, serpeggia silenzioso (e forse non troppo) come un fiume carsico, pronto a “generare mostri” che ci illudevamo di aver sconfitto da tempo. E lo fa con la potenza della narrazione letteraria, attraverso una distopia atemporale, trasportando il lettore nella dimensione angosciante del romanzo Cecità (titolo originale Ensaio sobre a cegueira) del 1995.

Con frasi prive della tradizionale scansione della punteggiatura e con il discorso diretto che si fonde con l’indiretto, Saramago dà vita a un apologo sulla nostra “fragile” civiltà, facendo emergere la più grande (perché porta con sé tutte le altre) delle paure umane: ridare voce solo e soltanto agli impulsi primordiali, ritornare a uno stato di natura ferino, alienare i diritti umani inalienabili.

E’ questo il mondo di Cecità, un mondo in cui all’improvviso una malattia misteriosa rende gli uomini ciechi[3] (prima ne sono colpiti solo pochi - quelli che diventeranno i protagonisti della storia narrata -, poi man mano tutti): si diffonde il panico e il Governo, per autotutela e paura, isola i ciechi in un ex labirintico manicomio per impedire loro qualsiasi contatto con l’esterno, con i “sani”. Inizia allora un lento precipitare nell’abisso della violenza, dell’abbrutimento, dell’istinto animalesco dove labile diventa il confine tra carnefici e vittime: lo stato di natura hobbesiano riemerge e l’uomo, privato delle regole della convivenza civile, si sporca, si denuda, si svilisce tra inesistenti condizioni igieniche, nella lotta per l’approvvigionamento di viveri, nelle disumane relazioni umane… sarà così inevitabile che nell’ex manicomio si instauri darwinianamente la dittatura dei più forti che impongono regole e violenza (fino allo stupro “volontario” e agli omicidi di autodifesa). La cecità fisica diventa il segno tangibile del tramonto della ragione, la nuova peste che contagia gli esseri viventi concentrati autisticamente su un sé sempre più degradato: “è di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria”[4]

E niente cambia quando la vita dal chiuso del manicomio si sposta fuori (infatti un giorno i soldati di guardia non ci sono più: tutta la popolazione è diventata cieca e i protagonisti della storia escono alla ricerca di una nuova sopravvivenza). Fuori, nella “civilissima” città, al contagio collettivo sono seguiti il caos, il panico, l’abbandono di ogni etica e responsabilità: strade devastate, guerriglia tra gruppi contrapposti di ciechi, cani che si cibano dei cadaveri dei morti abbandonati per strada e vivi che girano strisciando come vermi alla ricerca di un brandello di cibo, in perenne attesa della pioggia, perché è l’unico modo per assetarsi.

Dal romanzo di Saramago emerge un’umanità abbrutita, sporca, omicida, egoista, impaurita, disperata, regredita a uno stato primitivo: ed è in questa umanità che deve specchiarsi l’uomo contemporaneo per riconoscersi, pur nell’illusione di essere totalmente diverso. Attanagliato dalla paura di rivivere una nuova peste boccacciana, sovvertimento di ogni legge e di ogni morale, l’uomo contemporaneo deve immergersi nelle altre pesti/cecità, da Omero a Camus, da Lucrezio a Manzoni, per comprendere la natura umana “colpevole del suo stato di minorità”: e deve capire, come dice Saramago, che “questo inferno in cui ci hanno messo a vivere noi lo abbiamo reso più infernale dell’inferno”.[5]


Un romanzo senza cronotopo


Saramago si sta interrogando sulla civiltà umana e sulla sua involuzione, e quindi sta riflettendo innanzitutto sulla natura umana, sul suo statuto ontologico: non è un caso, infatti, che il romanzo è privo di un cronotopo preciso (siamo in una Città qualunque, di una Nazione qualsiasi, in un Tempo indeterminato) e ha protagonisti senza nome (il “primo cieco” e la “moglie”, il “ladro” - poi «sostituito» dal “vecchio con la benda nera”, “l’oculista” e la “moglie dell’oculista”, la “ragazza dagli occhiali scuri”, il “ragazzino strabico”) identificabili solo con il ruolo sociale, annullati nell’identità specifica. In questo modo Saramago afferma che quanto sta narrando può avvenire ovunque e in ogni tempo: a lui interessa parlare degli uomini che si comportano da ciechi perché hanno difficoltà a comportarsi da esseri razionali in una situazione (letterariamente inventata, ma metaforicamente reale) di grave e profonda crisi: da qui la dimensione “universale” (senza nomi né coordinate spazio-temporali) del testo, che si intreccia con l’altra dimensione portante, “l’inspiegabile” (cause della malattia, del contagio collettivo, dell’immunità della donna, della guarigione finale), a creare un’atmosfera sospesa e alienante dove tutto può accadere.

 

Leggere il romanzo e leggervi le nostre paure

 

Le paure di cui sono inondati i protagonisti della storia sono le nostre: innanzitutto non vedere, diventare ciechi, non sapersi più orientare né capire dove si è … paura cioè di non essere più autosufficienti, di dover dipendere dagli altri: i ciechi del romanzo abbandonati a loro stessi, quando devono andare in bagno o spogliarsi o mangiare, diventano i pazienti lasciati sulle lettighe negli ospedali delle nostre città o i malati di mente imprigionati e legati ai letti in un mare di escrementi; il ragazzino strabico che aspetta la madre che mai verrà si trasfigura nel fanciullo migrante sopravvissuto alla traversata nel Mediterraneo ma divenuto orfano e rinchiuso in un ossimorico centro di accoglienza; le donne violentate, che alla violenza si sottopongono “spontaneamente” per avere in cambio cibo, evocano tutte le donne oggi vittime della violenza fisica e morale di mariti, compagni e padri autoritari.

Le paure di cui sono inondati i protagonisti della storia sono le nostre: diventare schiavi della Storia e di chi detiene il potere, sottostare alle legge del più forte in uno Stato dittatoriale, essere privati dei diritti inalienabili. Il Governo di Saramago che reclude i ciechi in un «lager» (realizzazione del teorema platonico di Trasimaco[6]: ogni forma di potere emana leggi strumentali rispetto all’interesse primario della propria conservazione) è fin troppo facilmente assimilabile agli Stati totalitari del “secolo breve”[7] ma richiama anche quelle forme meno eclatanti di violazione dei diritti civili e politici di cui oggi in alcuni casi persino la democratica Italia si è macchiata (v. sanzioni Corte di Strasburgo: il blitz della polizia alla scuola Diaz , durante il G8 di Genova del 2001, sanzionato come tortura; Italia condannata per la violazione dei diritti delle coppie omosessuali nel 2015; Italia condannata per il sangue infetto dal 2012 al 2016; etc.).

Le paure di cui sono inondati i protagonisti della storia sono le nostre: diventare nulla in mano a chi tutto può, fino a perdere fiducia in Dio (per chi ce l’aveva) e nella possibilità di una teodicea, cioè di una riflessione filosofica sull’esistenza di una “giustizia di Dio”[8]. Emblematica a tal proposito è l’immagine sconvolgente delle ultime pagine del romanzo, quando tra la gente raccolta in una chiesa – la cui santità è deturpata e resa irriconoscibile dalle spoglie disumane che lì si sono accasciate – la moglie dell’oculista vede statue e dipinti sacri con gli occhi coperti da bende e pennellate bianche: ennesimo simbolo scelto dall’autore a significare il senso di sdegno o forse di indifferenza, di “divina” cecità rispetto alle tremende umane vicende, che alcuni uomini ancora attribuiscono al divino. “Pensò di essere ammattita, di avere le allucinazioni, non poteva essere vero ciò che le mostravano gli occhi, quell’uomo inchiodato alla croce con una benda bianca a tappargli gli occhi […]”[9]; Saramago è arrivato “ad affermare che Dio non merita di vedere”.[10]

La nuova peste del III millennio

 

Nell'anno (1995) in cui Saramago pubblica Ensaio sobre a Cegueira, si era riscoperto come attuale qualcosa che, nella civilizzata Europa, si pensava fosse definitivamente passato col 1945: tra il 1992 e il 1995, a pochi chilometri dalle nostre coste, in Bosnia e Croazia, lo stupro etnico, la reclusione in campi di concentramento, la riduzione dell'uomo allo stato animale sono stati avvenimenti reali, tangibili, documentati. E molti di noi le vicende le hanno lette sui giornali, le hanno visionate in filmati tragici, le hanno elaborate razionalmente con un’assuefazione forse troppo sbrigativa: così le paure sono state esorcizzate con i media, con il filtro di una televisione che sempre più si banalizzava in videogioco, con una lenta e progressiva rimozione che di colpo ha portato la “civiltà”, all’apertura del III millennio, a riconfrontarsi con le ataviche paure, cioè quelle delle stragi di innocenti, delle guerre di religione (o proditoriamente definite tali), dei disastri nucleari …  quelle che in Cecità hanno avuto il volto di uomini lentamente trasformatisi in fantasmi di se stessi che, inspiegabilmente come l’hanno persa, ritrovano la vista e il cammino verso una possibile palingenesi (o una definitiva sconfitta?).

 

La figura femminile: una novella Beatrice

 

Infatti in questo inferno in terra i protagonisti riescono a non perdersi, a non abbattersi completamente, a rimanere “gruppo”, a riconquistare una possibile salvezza grazie a una figura femminile, alla moglie dell’oculista, unica a non perdere mai la vista (sempre per motivi imperscrutabili): fautrice di un atto d’amore (si finge cieca per non abbandonare il marito e per essere così internata con lui), diviene guida soccorritrice dei protagonisti, assumendo su di sé il ruolo di dispensatrice di vita. Grazie a lei i protagonisti riescono a “organizzarsi” nel lager disumano, grazie a lei possono “sconfiggere” i nuovi carnefici, grazie a lei escono dalla prigionia e rinascono a nuova vita.

Testimone oculare dell’orrore, la “moglie” diventa gli occhi di tutti i suoi compagni, e anche di quelli del lettore che attraverso la sua “focalizzazione interna” segue lo sviluppo degli avvenimenti. E’ lei ad affermare: “Io [ho] la responsabilità […] di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti”.[11] 

Solo grazie alla vista, che manca agli altri (sia in senso fisico che metaforico), la donna vede[12] ciò che gli altri non vedono guardando a fondo nell’animo e nei comportamenti umani, divenendo il centro gravitazionale di chi a lei si affida: è materna, è affidabile, è pronta al sacrificio, è piena di paure e fragilità ma si mostra sicura di sé, è colei che decide e indirizza: è la guida nell’inferno terreno.

Così, in un mondo “senza Dio”, la moglie dell’oculista è l’unica capace di portare luce nella cecità, trasfigurandosi in nuova donna-angelo, figura salvifica che dalla tradizione cortese/stilnovista recupera il topos degli occhi legato a quello della salvezza. Lei, chiaramente, non è più spirito evanescente che permette un’elevazione spirituale, ma “magna mater”, madre terra, madre benigna, concreta, capace di adeguarsi alle circostanze: si sporca, si abbrutisce, si dispera, uccide … è carne viva che soffre, ma nel baratro della sofferenza mantiene la lucidità (o la disperazione) di lottare per il bene comune. “Erano tutti lì, dipendevano da lei come i piccini dipendono dalla mamma”[13]: in queste parole sentiamo l’eco dantesca della guida-Virgilio che incita il suo novello protetto a seguirlo, solo per il suo “me’”, cioè per il suo “meglio”: “Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno/ che tu mi segui, e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per luogo etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti”.[14] Ma la “moglie” è anche moderna trasfigurazione della Beatrice dantesca che proprio di Virgilio si serve per salvare Dante-agens per poi assumere lei stessa il ruolo di guida. E in entrambe le donne è l’amore la causa prima del loro agire: “I’ son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare”;[15] allo stesso modo la moglie dell’oculista così dice: “Amore mio, […] resto per aiutare te, e gli altri che verranno”.[16]

 

Il “male” imperscrutabile

 

Ma le “disperate grida” e gli “spiriti dolenti” non provengono più in Saramago da una dimensione oltremondana bensì da una quotidianità in cui tutti noi siamo immersi: e se in Dante il “male” ha un’origine chiara e indubbia, conoscibile e anche affrontabile, in Saramago, come evidentemente in tutta la modernità, il “male” ha cause imperscrutabili[17] ed è per questo che suscita terrore,  ansia, angoscia. Quale morbo è questo male bianco, questa cecità lattiginosa, questa bianca oscurità? Da dove proviene? Come si diffonde? Come si cura? Si cura? Sono queste le domande sottese alla trama del romanzo di Saramago, ai suoi uomini violenti e alle sue atmosfere distopiche: è l’impossibilità di dare una risposta razionale e scientifica alla diffusione della malattia che diventa metafora dell’abisso angosciante in cui si trova chi legge. Cecità non è un romanzo giallo (chi è il colpevole?), né una narrazione post-apocalittica da Day after (come forse si trasforma nel film Blindness[18]), né un indugiare banale sulla solita cattiveria della natura umana: è l’affresco, come ha detto lo stesso autore, cui va incontro l’umanità privata della ragione, delle regole condivise, della capacità di sentire che nihil humani a me alienum puto[19]. E la paura che ne emerge è quella atavica dell’Homo sapiens di fronte alla belva, dello smarrimento di fronte al non sapere cosa fare, del voler fuggire senza poterlo fare: annientamento e orrore… come di fronte agli ultimi attentati parigini, alle decapitazioni talebane, ai cori razzisti negli stadi o nelle piazze “pro-family”. Ma l’annientamento e l’orrore nascono anche e soprattutto perché non si riesce a dare una spiegazione logica, razionale a tali comportamenti, o quanto meno una spiegazione immediata: è il male bianco che non fa vedere oltre la cortina “di latte” ma che immerge tutti in una profonda notte dell’anima così da diventare anime cieche: non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.[20]

 

Una conclusione come ne Le città invisibili di Calvino?

 

Come non pensare, leggendo l’inferno di Saramago, alla conclusione de Le città invisibili di Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.”[21] Saramago trasporta l’inferno delle città invivibili calviniane nella dimensione dell’assoluto e ne dipinge un quadro di indifferenza e ignavia, come afferma lo stesso Calvino: “Due modi ci sono per non soffrirne [del vivere nell’inferno]. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”[22]. E’ questa la scelta degli ignavi e dei deboli, non vedere, non sentire, non parlare, e concentrarsi solo e soltanto su se stessi: rimanere ciechi, come direbbe Saramago, ciechi che non vogliono vedere, non che non possono vedere.

Ma Calvino apre una porta nell’abisso infernale: “Il secondo [modo del vivere nell’inferno] è  rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”[23]. Allo stesso modo anche Saramago apre uno spiraglio nell’abisso delle anime cieche? La moglie dell’oculista e il suo farsi guida/novella Beatrice è la possibile risposta? L’amore-passione che è anche amore-compassione diviene l’istinto primordiale che permette di agire nell’inferno della brutalità? E’ questo l’antidoto alla seguente affermazione del romanzo?: “La paura acceca […] eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi”.[24] 

Affrontare la paura del vivere contemporaneo significa allora, forse, rispondere con una catena umana che, ribaltando quella dall’esito letale de “La parabola dei ciechi”[25] di Bruegel, si riallaccia laicamente alla “social catena” leopardiana: quell'orror che primo/ contra l'empia natura/ strinse i mortali in social catena[26] si affronta con la lucida dignità di chi gli occhi li vuole usare, di chi - come la moglie dell’oculista nel romanzo di Saramago - altro non è che “un re dotato di occhi in una terra di ciechi”.[27]

Pubblicato il 14/03/2016

 

Note:


[1] Nato in Portogallo nel 1922 e morto in Spagna nel 2010, è stato romanziere, poeta, drammaturgo, saggista, critico letterario, premio Nobel per la letteratura nel 1998.

[2] El sueño de la razón produce monstruos” (Il sonno della ragione genera mostri). Acquaforte di F. Goya  realizzata tra il 1797 e il 1799.

[3] La cecità in Saramago non è rappresentata dal buio, dal nero, dall’oscurità… essa è un biancore lucente, un mare di latte, un male bianco. Questa inversione dei tradizionali colori, che rinnova l’inquietudine, trova forse nell’unione degli opposti il superamento dell’interpretazione (di matrice illuministica) univoca di bene (=bianco) e male (=nero) a favore di una visione più complessa e sfaccettata.

[4] J.Saramago, Cecità, trad. di R. Desti, Einaudi, Torino, 1996 , p.34 (parla l’oculista).             

[5] Ivi, p.188

[6] Platone, Repubblica, l.I

[7] Il secolo breve è il saggio di Eric Hobsbawm, in cui lo storico britannico dà l’efficacia formula di descrizione del ’900.

[8] Ne Il concetto di DIO dopo Auschwitz  (1987),  H.Jonas (filosofo ebreo tedesco, 1903-1993) afferma che il terribile evento di Auschwitz, il suo essere simbolo del Male assoluto, rende proprio problematica la possibilità di una teodicea.

[9] Saramago, op. cit., p.304

[10] Saramago, ivi, p.306

[11] Saramago, ivi, p.241

[12] Saramago, ivi, exergo: “Se puoi vedere, guarda./ Se puoi guardare, osserva”.

[13] Saramago, ivi, p.216

[14] Dante, Inf. I, vv.112-116

[15] Dante, Inf. II, vv.70-72

[16] Saramago, ivi, p.41

[17] Ad esempio, una rivisitazione della peste-cecità come male imperscrutabile/senza cause si ritrova nel romanzo del 2010 XY di Veronesi, dove una inspiegabile, inquietante, illogica e abominevole strage sconvolge una comunità e tutti i suoi abitanti: quello che inizia come un romanzo noir o giallo si trasforma invece in una tragica affermazione dell’illusione umana di poter giungere a una spiegazione logica degli eventi…  la verità, nel senso tradizionale, non si potrà scoprire, si scoprirà solo la fragilità dell’uomo e delle sue convinzioni.

[18] Blindness del 2008 diretto da Fernando Meirelles debutta come film d'apertura al  Festival di Cannes del 2008.

[19] Parole pronunciate nell'Heautontimorumenos di Terenzio (I, 1, 25) 

[20] Saramago, op. cit., p.315

[21] I.Calvino, Le città invisibili, Mondadori, 2015, p.160

[22] Ivi

[23] Ivi

[24] Saramago, op. cit., p.126

[25] Quadro di Pieter Bruegel il Vecchio del 1568

[26] Leopardi, La ginestra, vv.147-149

[27] Saramago, op. cit., p.245