Introduzione/Il regno della Luna: fra sogno e realtà/ Il canto della luna, il canto dei poeti/ Gli emblemi della luna/ Il gioco della luna
Che la luna, attraverso le sue misteriose facies,abbia esercitato sulla mentalità collettiva, fin da tempi immemorabili, un fascino dirompente e sempre vivo non desta alcuna meraviglia; a giusta ragione per tutto ciò che questo corpo celeste ancora evoca ha meritato l'appellativo di «astro narrante».[1]
Da sempre, quindi, la luna ha impresso profonde suggestioni non solo su scienziati, ma anche su filosofi e letterati: «chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un'immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuol vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più».[2]
Il potere seduttivo della luna ha continuato ad esprimersi in quell'epoca della storia in cui il sapere vive una nuova e feconda stagione: il Rinascimento.
Ariosto ovvero il poeta «cosmico e lunare»[3] descrive la luna in molti passi della sua opera, di cui i più significativi sono le ottave del canto XXXIV dell'Orlando Furioso[4] e alcuni versi della Satira III.[5]
Il Canto XXXIV ha come protagonista lo stravagante paladino Astolfo, il cui intervento, che ha tutti i tratti del fantastico e dell'avventuroso, nell'economia della storia, è provvidenziale per la vittoria dei cristiani.
Il lettore aveva lasciato Astolfo alla fine del XXXIII canto quando, messe in fuga le Arpie, le aveva incalzate fino a una grotta che discendeva nelle viscere della Terra: la porta dell'Inferno. Una volta ostruita l'entrata della caverna per imprigionarvi i mostruosi uccelli, Astolfo viene condotto dall'Ippogrifo in cielo fino a raggiungere la soglia del Paradiso, dove è accolto da San Giovanni Evangelista che, dopo averlo informato che la follia di Orlando è parte di un disegno provvidenziale, lo accompagna sulla Luna per recuperare il senno del paladino reso pazzo per amore. Con una punta di ironia il narratore affida proprio al più bislacco degli eroi del poema, appunto Astolfo, la missione del ritrovamento del senno dell'amico d'arme.
Verso il tramonto, dunque, Astolfo e l'Evangelista si mettono in viaggio per la Luna: «Tutta lasfera varcano del fuoco,/et indi vanno al regno della luna»: questo l'incipit del canto XXXIV, in cui l'intrepido e bizzarro viaggiatore, accompagnato da san Giovanni, si dedica alla nobile missione di recuperare il senno che Orlando ha smarrito per amore; solo riportandolo all'amico, Astolfo potrà restituire il paladino ai doveri della guerra.
Il canto XXXIV recupera il topos del viaggio nel regno degli Inferi o nell'aldilà, frequentissimo sia nella letteratura classica, a partire da Luciano di Samosata, che in quella volgare, il cui principale modello di riferimento per Ariosto è senza dubbio il viaggio di Dante attraverso le sette sfere, dalle quali la Terra, a Dante personaggio, appare tanto piccola alla vista da sembrare vile:
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante
Dante, Paradiso, XXII, 133-35.
Anche Astolfo appena 'atterrato' sul suolo lunare è colto da meraviglia: deve aguzzare lo sguardo se, dalla luna, vuole osservare la terra e il mare che la circonda, tanto il globo terrestre appare piccolo e offuscato. La piccolezza della Terra, vista dalla Luna, preannuncia il tema della riduzione delle attività terrene a follia.
Ma la meraviglia è doppia perché anche la Luna, lungi dall'essere così piccolo corpo come appare a chi la osserva dalla Terra:
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassomiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s'indi la terra e 'l mar ch 'intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l'imagin lor poco alta si conduce.
Ariosto, Orlando Furioso, XXXV, 71.
È evidente la concezione relativistica di Ariosto che, attraverso il 'cavalier antico', Astolfo, rendendosi conto delle mutevoli dimensioni, che i due pianeti assumono, cambiando il punto di osservazione, opera una sorta di rovesciamento della realtà conosciuta.
«Quello di Astolfo, in rapido pellegrinaggio dall'inferno sino al cielo della luna, è una sorta di percorso iniziatico dell'eroe che mima sinteticamente, in una gara impostata sull'elemento fantastico più che su quello cosmogonico e dunque ironicamente persa in partenza, i modelli alti del viaggio nell'aldilà, primo tra tutti, naturalmente, la Commedia».[6]
La materia cavalleresca, dunque, si fonde in questo canto con la tradizione dei viaggi stellari attraverso il cielo. Ma se nel modello dantesco il viaggio ultramondano era stata occasione per una riflessione cristiana sulla vita terrena, l'ascesa di Astolfo ha un diverso scopo. In Ariosto le allegorie dei vizi e delle illusioni umane, unite alla satira contro la realtà delle corti, inducono ad una riflessione sulla caducità della vita umana e sulla insensatezza delle aspirazioni individuali.[7] Tutto il ragionamento ariostesco conduce ad una lucida ed amara conclusione: solo la pazzia è assente dalla Luna poiché è rimasta tutta sulla Terra, gelosamente custodita dagli uomini.
La luna di Astolfo, aristotelicamente corpo perfetto del mondo ultraterreno, è però allo stesso tempo completamento della terra, uno specchio che riflette l'immagine rovesciata del globo terrestre.
Dalle dimensioni della luna il poeta passa poi alla descrizione del paesaggio lunare e ne sottolinea la identità/alterità che lo lega alla terra; anche l'ambiente lunare, infatti, è simile a quello terrestre: ci sono fiumi, laghi, campagne, pianure, valli, montagne e selve a significare che fra i due corpi celesti si istaura una corrispondenza, una sorta di attrazione magnetica, del resto confermata anche dall'astronomia:
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
Sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne
[…]
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Ariosto, Orlando Furioso, 72, vv. 1-3 e vv.7-8
Inoltre l'osservazione del globo terrestre dalla luna, ovvero dall'alto, consente un rovesciamento di prospettiva che ridimensiona il senso delle attività umane, delle passioni, delle vicende del piccolo ed insignificante mondo terreno[8].
Ai due personaggi che avevano attraversato la sfera del fuoco, la parte, secondo la cosmografia antica, più esterna delle sfere concentriche del mondo sublunare che circondano la Terra,[9] la superficie lunare si mostra loro liscia e lucida, tanto da esser paragonata a un acciaio senza macchie:
Tutta la sfera varcano del fuoco
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano, uguale, o minor poco
di ciò ch'in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
Ariosto,Orlando Furioso, XXXIV, 70
Ariosto non è interessato troppo all'aspetto naturalistico-scientifico del pianeta, infatti la luna è raffigurata, secondo topici modelli letterari di riferimento, splendente e luminosa, e neppure è incuriosito dalla topografia del mondo lunare: la descrizione è, infatti, tratteggiata a rapide pennellate. Per di più la luna «non ha macchia alcuna», espressione questa nella quale è facile cogliere un'ironica e chiara presa di distanza dal poema dantesco, in cui il problema delle macchie lunari è una delle tante questioni dottrinali ivi presente.
La descrizione del paesaggio lunare che si dispiega dall'ottava 72 alla 83 del canto XXXIV si avvale della rappresentazione del paese dei sogni di Somnium, una delle Intercoenales di Leon Battista Alberti.[10]
In un viaggio immaginario nel regno dei sogni, Libripeta, protagonista di Somnium, racconta di aver visto una ampia valle con tutte le cose perdute dagli uomini: fra queste mancava solo la pazzia, rimasta sulla Terra. Il viaggio di Libripeta smaschera vizi e difetti umani nel mondo alternativo alla Terra; poteri, ricchezze, cariche, benefici e persino gli amori sono ammassati alla rinfusa e mostrano tutta la loro vacuità, una vera e propria fiera delle vanità: sacche gonfiate di adulazione, di lusinghe bugiarde e di suoni pomposi ma effimeri.
In Alberti non si parla propriamente di paesaggio lunare, ma di paese dei sogni; vero è, anche, che da sempre, specie in astrologia, la dimensione onirica e la luna sono associati. E Alberti era anche astrologo.[11] Ma il mondo dei sogni di Alberti è diretto verso il basso quello di Ariosto verso l'alto.
Alberti ha ispirato il lunare ariostesco non solo nel disegno, ma anche nel fornire alcune immagini; infatti, nell'intercenale Somnium,il paese dei sogni era descritto come un vallone ricolmo di enormi vesciche, di antichi imperi, di rami d'oro e di adulazioni:
Libripeta: Nam sum vesice, plene licentia, mendaciis atque sonitu tibia rum et tubarum. Proxime stant beneficia, atque ea quidem sunt hami argentei aureique.
[Libripeta:sono enormi vesciche piene di adulazione, di menzogne, di flauti e trombe risonanti. Lì vicino si trovano i benefici: sono ami d'oro e d'argento.].[12]
La ripresa in Ariosto è puntuale, ma l'atmosfera che si respira nel viaggio albertiano è più fosca e cupa, ben lontana dalla fantasia festosa dell'Ariosto:
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesciche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch'eran le corone antiche
e degli Assirii e de la terra lida,
e de'Persi e de' Greci, che già furo
incliti, et or n'è quasi il nome oscuro.
Ariosto,Orlando Furioso, XXXIV, 76
Armi d'oro e d'argento appresso vede
in una massa, ch'erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
[…]
Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, 77
La luna fa la sua apparizione anche nella Satira III di Ariosto, scritta nell'aprile del 1518 ed indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi, desideroso di sapere come il poeta si trova al servizio del cardinale Alfonso d'Este, dopo aver abbandonato deluso Ippolito d'Este.[13] Il volto della luna si rivela nel secondo apologo, contenuto nella Satira, attraverso il quale Ariosto ritorna sul tema della Satira I: il desiderio ad una vita tranquilla, lontana dall'ambizione e dalla brama di ricchezze, aliena dalla vanitas vanitatum.
In questa breve favola, inclusa appunto nella Satira III, gli uomini primitivi, vedendo il pallido cerchio della luna sulla cima di un monte, catturati dal suo fascino, si illudono di poterla afferrare:
Nel tempo ch'era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l'astuzie che sono ora,
a pie' d'un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non non so mostrar, vivea ne la val ima;
che più volte osservando al inequale
luna, or con corna ora senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;
e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;
chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.
Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d'esser rimasi giù.
Quei ch'alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi
Ariosto, Satira III, vv. 208-228
È questo infatti «l'apologo dei pazzi che vogliono impadronirsi della luna»[14], creatura cangiante nel volto, polimorfa, misteriosa, «la inequale luna, or con corna or senza, or piena or scema» per il popolo dei primitivi, «gente inesperta».
La luna è dunque il regno dell'inganno, della mutabilità, dell'inafferrabile e quindi dell'irraggiungibile, sfuggente come la Fortuna; infatti giunti sulla cima del monte, gli amanti della luna, si ritrovano sfiniti dalla fatica, delusi dalla loro stoltezza e insoddisfatti come alla partenza:[15]
Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch'ogni quïete sia, né ve n'è alcuna.
Ariosto, Satira III, vv. 229-231:
La conclusione della breve storiella, metafora della incontentabilità umana e del folle desiderio di ricchezze e onori, è emblematica e chiarificatrice dell'atteggiamento di Ariosto nei confronti delle illusioni di potere degli uomini, della sua profonda e istintiva aspirazione ad una vita serena e semplice, schiva da ambizioni mondane, conforme ai dettami della filosofia oraziana della aurea mediocritas.
Ariosto non è fra quelli che aspirano a raggiungere il regno della luna.
Da sempre la luna è fonte di ispirazione poetica, forse per il desiderio tutto umano di evadere dalle sofferenze rifugiandosi in un mondo dove regna la fantasia e l'immaginazione. Alla luna spesso i poeti si rivolgono come ad un'amica affettuosa e consolatrice dei loro affanni.
Un canto triste il madrigale Se io paregiasse il canto ai tristi lai degli Amorum libri del Boiardo[16], il canzoniere il cui titolo evoca gli Amores ovidiani; in questo componimento il poeta invoca la natura, secondo il topos bucolico che percorre la tradizione lirica da Teocrito a Virgilio, a testimonianza del suo dolore. Il volto placido e splendente dell'astro incoraggia le confidenze amorose dell'amante/poeta, che soffre per gli inganni e l'indifferenza della donna amata, Antonia Caprara, e dal cielo dona la sua luce luminosa e silente.
Or cominciamo gli dolenti lai
Qua sotto l'aria bruna,
ricominciamo e canti pien' di guai.
Diceti, stelle, e tu, splendida luna,
se mai nei nostri tempi o ne' primi anni
simile a questa mia fu doglia alcuna.
Boiardo, Amorum Libri, II, 44, 31-33.
Ma se in questa lirica alla luna il poeta si rivolge per esprimere le sue lamentationes in altri luoghi degli Amorum libri l'incanto e lo splendore della luce lunare richiama alla memoria (sulla scorta di reminescenze ovidiane)[17] la bellezza della donna amata:
Porgime aita, Amor, se non comprende
Il debol mio pensier la nobiltade
che a questo tempo tanta grazia rende,
che glorïosa ne è la nostra etade.
Sì come più risplende,
alor che il giorno è spento,
intra le stelle rade
la Luna di color di puro argento,
quando ha di fiame il bianco viso cento
e le sue corne ha più di lume piene,
solo a sua vista è il nostro guardo intento,
che da lei sola a nui la luce viene:
così splende qua giù questa lumiera,
e lei sola contiene
valor, beltade e gentileza intiera.
Boiardo, Amorum Libri, I, 15, vv. 16-30
Dal punto di vista tematico questa canzone è debitrice della canzone CCXXVI dei Rerum VulgariumFragmenta del Petrarca specie «per la descrizione tutta giocata sullo splendore e sulla irradiazione della luce, di fenomeni collegati all'immagine dell'amata e allo sguardo che da lei sprigiona».[18]
Benedetto Gareth, detto il Cariteo, poeta nato a Barcellona intorno al 1450 e morto a Napoli, sua patria adottiva, prima del dicembre del 1514, visse e operò alla corte aragonese, alla quale fu sempre fedelissimo; molto presto fece parte dei letterati che si riunivano intorno al Pontano, nell'omonima accademia.[19]
Luna è il senhal che la donna amata assume nel Canzoniere a lei dedicato, Endimione,[20] che evoca il mito del pastore amato dalla Luna;[21] il poeta talvolta si rivolge alla donna talvolta alla luna, corpo celeste, in un continuo gioco di ambiguità e sovrasensi:
Io piango et penso et dico exanimato:
?La Luna mia di stelle un altro choro
offusca, et altro cielo hor fa beato.
E forse dice: O si per suo ristoro
fusse con noi hor quello sconsolato! –
Et in questo respiro inseme et moro
Cariteo, Endimione, son. CXXXI, vv.9-14
«Dal punto di vista tematico e strutturale, la storia di Endimione e della Luna costituisce l'elemento aggregante del canzoniere scandito dalle varie indicazioni cronologiche dell'amore per Luna, dal ritornare dei giochi sul nome di Luna e dei versi, spesso bellissimi, dedicati ai notturni, al sonno e al sogno»:[22]
Il poeta talvolta si paragona a Endimione, che certo è più fortunato nel suo amore per la Luna, mentre il poeta è spesso tormentato dall'infelicità dell'assenza della donna che estingue anche la vena poetica.
Quest'è, s' io non mi inganno, il bel balcone
ch'era sì chiaro e lucido da primo,
hor con oscurità morte portende;
sotto il qual l'infelice Endimione
solea, rivolto al ciel, cantare in rima
quella beltà, ch'al primo cielo splende.
Hor più non vi s'intende
Lyra, né voce alcuna.
Rotta giace e spezzata omai la lira,
la voce è morta, e l'ombra hor qui sospira
eternamente, e piange l'aurea luna.
Cariteo, Endimione, canz. XI, vv.1-11
L'invocazione del nome della donna amata si confonde, in un sofisticato gioco di parole, con la preghiera alla creatura celeste, chiamata a diffondere dall'alto del cielo la freschezza dei suoi raggi sull'ardore della passione amorosa del poeta:
Costei che mia vita benigna et ria fortuna,
et la mia vita, et morte tene in mano,
per cui tanti suspiri spargo in vano,
è con iusta cagion chiamata Luna,
e non sol perché nel mondo è sola et una,
et ha divino il volto più che humano,
ma perché basta ad agghiacciar Vulcano,
quando tutte le fiamme inseme aduna.
Fu preso il suo candor da l'alto cielo,
ov'è la lattea via del paradiso
non nota a la volgare et cieca gente.
Quanti col raggio tocca, muta in gelo,
ma 'l scintillare e fulgora del viso
me, misero!, converte in fiamma ardente.
Cariteo, Endimione, son. XXIII
Un canto originale e certo fuori dal coro dei 'poeti laureati' è rappresentato da Domenico di Giovanni detto il Burchiello, il barbiere di Calimala, poeta antimediceo vissuto e morto a Firenze nel 1449, autore di una raccolta di sonetti caudati in volgare[23] che, inserendosi nella tradizione comico-realistica, danno vita a un modo alquanto originale di far poesia, il cosiddetto «rimare alla burchia». Questa singolarissima esperienza poetica, caratterizzata dall'accumulazione all'apparenza caotica e paradossale di soggetti disparati e da un lessico bizzarro e spesso criptico, si distingue per gli effetti clamorosi di nonsense, spesso accompagnati da una precisa volontà allusiva di carattere osceno ed erotico. È una poesia ludica, giocosa, fatta di 'parole in libertà' che mescola tradizione classica e popolare, satira politica e riflessioni sulla vita quotidiana.
Nominativi fritti e mappamondi
e l'arca di Noè fra duo colonne
cantavan tutti "Kyrieleisonne",
per la 'nfluenza de' taglier mal tondi.
La luna mi dicea «Ché non rispondi?»
et io risposi «I' temo di Giansonne,
però ch' i' odo che 'l diaquilonne
è buona cosa a fare i cape' biondi»
Burchiello, Rime, X
Nel sonetto più celebre, Nominativi fritti e mappamondi, un coro di oggetti personificati (nominativi, mappamondi, e persino l'arca di Noè) chiede pietà a Dio per l'influsso malevolo degli astri («influenza de' taglier mal tondi»); la luna, astro benefico perché perfettamente tondo, invita il poeta a rispondere al coro; il poeta dichiara ironicamente di aver paura di Giasone che rappresenterebbe qui la personificazione di una cultura erudita e pedante verso la quale si indirizza la satira mordace del Burchiello[24]. Al v. 4, l'influenza èletteralmente il potere di un'autorità, ma è anche il termine astrologico da riferirsi all'influsso degli astri: «donde la metafora del tagliere per indicare un corpo celeste d'influenza nefasta; e la presenza confortante della luna (v.5), la cui perfetta rotondità, fausta e amichevole, è contrapposta (per un implicito movimento immaginativo) all'imperfetta geometria degli astri malevoli».[25]
Nel riferimento alla luna forse è da intravedere una probabile allusione al gioco giovanile in voga al tempo della mona Luna che consisteva nell'escludere uno dei ragazzi; alla fine gli altri rimasti, eleggevano una mona Luna che il ragazzo escluso doveva indovinare.[26]
Espressione raffinata ed elegante la scrittura lirica del Tasso che si inserisce nella lunga tradizione dei Rerum Vulgarium Fragmenta e del petrarchismo cinquecentesco rinnovandola con profonda originalità. Molti e vari i temi delle Rime del Tasso che, a differenza della raccolta amorosa del Petrarca, si presenta come un canzoniere 'disordinato'.[27]
Il tema amoroso è certo uno dei più frequentati all'interno della raccolta di Rime. All'infelicità o alle gioie del canto dell'innamorato si unisce, spesso, in un compianto commovente anche la natura.
Nel madrigale Qual rugiada o qual pianto la struggente malinconia, provocata nel cuore del poeta dalla separazione dalla donna amata, si rispecchia e si confonde con gli elementi naturali. Paesaggio dell'anima, dunque, il delicato notturno di questa lirica in cui la «bianca luna» sparge una pura nube di gocce cristalline nel grembo dell'erba fresca. L'astro attraverso il suo biancore e le sue gocce trasparenti domina la notte illuminando l'oscurità di un freddo chiarore:[28]
Qual rugiada o qual pianto,
quali lacrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
e perché seminò la bianca luna
di cristalline stille un pure nembo
al'erba fresca in grembo?
perché ne l'aria bruna
s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure insino al giorno?
fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Tasso, Rime 324
I misteriosi silenzi della notte dipingono in un altro componimento del Tasso lo sfondo di un intenso e delicato momento d'amore pervaso di gioia:
em>Tacciono i boschi e i fiumi
E 'l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna:
e noi tegnamo ascose le dolcezze amorose:
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.
Tasso, Rime, 530
A questo intimo e struggente connubio d'amore la natura risponde come sospendendo ogni suono e l'amore è qui silenzio per non rompere l'incanto di questa gioia.
Ancora una volta la bianca luna èla discreta testimone di un delicatissimo sentimento.
Il canto VI della Gerusalemme Liberata vede come protagonista Erminia, che, segretamente innamorata di Tancredi, dall'alto delle mura di Gerusalemme segue il duello, interrotto solo dal calare della notte, fra Argante e il paladino cristiano. La fanciulla è tormentata da desideri opposti: da un lato il cogente desiderio di raggiungere il cavaliere amato, Tancredi, per soccorrere le sue ferite e dall'altro il timore di essere scoperta dai nemici.
Era la notte, e 'l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna,
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L'innamorata donna iva co 'l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea muti campi e quel silenzio amico.
Tasso, Gerusalemme Liberata, canto VI, 103.
Questo notturno fotografa l'immagine della donna innamorata che alla natura può confidare le proprie angosce e sofferenze d'amore. L'episodio ha echi virgiliani, ma declinati secondo una sensibilità tutta manieristica: anche qui un gioco di trasparenze e di liquidità: le gocce di rugiada illuminate dal chiarore lunare appaiono limpide perle.
Nella Gerusalemme Liberata la notte, del resto, ha una funzione specifica perché accompagna i momenti di più grande intensità emotiva e di massima riflessione. Ma non solo. La sospensione notturna è anche momento dell'inquietudine, dell'incertezza, del patetico. In una notte oscura, con il favore delle tenebre, si consuma la 'singolar tenzone' fra Tancredi e Clorinda:
Era la notte, e non prendean ristor
col sonno ancor le faticose genti
ma qui vegghiando, nel fabbril lavoro
stavano i Franchi alla custodia intenti
e là i Pagani le difese loro
gían rinforzando tremule e cadenti
e reintegrando le già rotte mura:
de' feriti era comun la cura.
II
Curate alfin le piaghe, e già finita
dell'opere notturne era qualch'una
e rallentando l'altre, al sonno invita
l'ombra omai fatta più tacita e bruna
Tasso, Gerusalemme Liberata, Canto XII, 1-2
La tragedia d'amore e guerra incontra il suo epilogo nell'oscurità notturna in cui però non rifulge lo splendore amico dell''astro d'argento':
53
Guerra e morte avrai, disse, io non rifiuto
Darlati, se la cerchi: e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto,
ed aguzza l'orgoglio, e l'ire accende.
E vansi a ritrovar non altrimenti
Che due tori gelosi, e d'ira ardenti.
54
Degne d'un chiaro Sol, degne d'un pieno
Teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
Chiudesti e nell'oblio fatto sì grande,
Piacciati ch'io ne 'l tragga, e in bel sereno
Alle future età lo spieghi, e mande.
Viva la fama loro, e tra lor gloria
Splenda del fosco tuo l'alta memoria.
Tasso, Gerusalemme Liberata, XII, 53-54
Se la letteratura ha esplorato il mondo lunare, l'iconografia non si è certo risparmiata nella raffigurazione della Luna. Molteplici sono gli esempi che il Rinascimento offre ai nostri occhi inquisitori e affascinati dai mille significati che il simbolo lunare misteriosamente racchiude.
Nella sala della Libreria Piccolomini a Siena è raffigurato il mito di Endimione e la Luna.
La Libreria nacque per ospitare la collezione di manoscritti raccolta da papa Pio II e dal nipote Francesco Todeschini Piccolomini, divenuto poi pontefice con il nome di Pio III. La ricca e pregiata collezione di manoscritti non ebbe mai dimora nello splendido edificio, perché dispersa dopo la morte di Pio III, il 18 ottobre del 1503. La costruzione e la decorazione della Libreria rappresentano un atto significativo di splendido mecenatismo attraverso il quale i Piccolomini attuarono un progetto di propaganda politica e di prestigio culturale: tramandare la memoria di papa Pio II con un edificio che fosse anche una biblioteca, un luogo di memoria, un heroon.[29] Del resto lo stemma Piccolomini, un crescente, ovvero una mezzaluna in fase crescente, compare in effigie ovunque nell'edificio.
Nell'iconografia del soffitto si celebra il 'trionfo della luna', nume tutelare della famiglia Piccolomini: i riquadri centrali della volta contengono due episodi mitologici: il Ratto di Proserpina e la storia di Diana e Endiminione, al centro della volta campeggia, in marmo, lo stemma della famiglia Piccolomini.
Una trilogia visiva della luna, dunque: Selene, identificata dai Romani con Diana, presente in icona nei crescenti dello stemma, è la dea notturna; Diana, raffigurata mentre scende dal carro nell'atto di avvicinarsi al pastore addormentato, e Proserpina la 'luna' strappata al mondo e costretta a vivere nel buio del regno oscuro di Plutone.[30]
Nel dipinto della volta della Libreria Piccolomini il mito di Diana ed Endimione è ambientato in un paesaggio bucolico; Diana è raffigurata in atto di scendere dal suo carro accompagnata dalle Ore, dee delle stagioni, delle quali una reca in mano un cesto colmo di fiori; un Cupido, armato di faretra, precede Diana per posare sulla testa di Endimione addormentato una corona.
Molti, ma poco convincenti, i tentativi di interpretare questi miti degli affreschi della volta in chiave neoplatonica cogliendovi allusioni alla morte e alla rinascita o alla lotta fra istinti bestiali e aspirazioni intellettuali. Del resto nell'arte rinascimentale il tema di Diana ed Endimione affascina per il suo valore di exemplum del potere di amore; così è anche nell'affresco che, nella Sala delle Prospettive della villa Farnesina, celebra di nuovo l'amore fra il pastorello Endimione e la dea lunare:
La villa Farnesina fu fatta erigere e decorare con grande magnificenza da Agostino Chigi, banchiere senese, fine mecenate e raffinato esperto d'arte, ai primi del '500 per celebrare il segno della sua personalità e cultura. Nella villa il mecenate fece inoltre dipingere, sulla volta della Sala di Galatea, il proprio oroscopo, affidandone la realizzazione a Baldassare Peruzzi, un artista che, come ci riferisce il Vasari, si dedicò anche agli studi di astrologia. Dunque siamo dinanzi ad una vera e propria carta del cielo in cui sono raffigurate tutte le posizioni delle costellazioni astrali per il calcolo di una genitura: quella appunto di Agostino Chigi. La Luna, che corrispondeva all'ascendente del nascituro al momento del concepimento, è raffigurata nel segno della Vergine.[31]
Il soffitto chigiano è da considerarsi il documento astrologico più preciso realizzato nel Rinascimento, mirabile sintesi della cultura iconografica fiorentina e romana.
D'altra parte il culto del cielo e 'la fede negli astri', la convinzione del loro influsso benefico o malefico sul destino umano erano profondamente radicati nella cultura rinascimentale e nelle corti del tempo. L'astrologia, dunque, ricopre un ruolo di primo piano per l'uomo del Rinascimento che, nonostante si considerasse faber del proprio destino, non smise mai di interrogare gli astri e di consultare astrologi per poter in qualche modo arginare l'imprevedibilità del fato.[32]
Uno dei più importanti e ancora per certi versi misterioso cicli astrologici è quello che dimora a Ferrara sulle pareti di Palazzo Schifanoia, commissionato da Borso d'Este e realizzato tra il 1467 e il 1470 dall' 'officina ferrarese' in cui operarono Cosmé Tura, Ercole de'Roberti, Francesco Cossa.
Il palazzo costituisce una delle tante delizie estensi in cui la corte amava soggiornare e ritirarsi per schivare la noia (da qui il nome Schifanoia) ma anche per trarre auspici.[33]
Le segrete intenzioni del ciclo di Schifanoia sono da rintracciare nel pensiero astrologico veicolato dagli Astronomica di Manilio, dall' Introductorium in astronomiam, di Abu Ma 'shar e dal trattato di magia talismanica Picatrix, dimostrazione del fecondo colloquio che l'uomo del Rinascimento instaurò con l'antica sapienza.[34]
Pellegrino Prisciani, astronomo professore dello Studio di Ferrara, bibliotecario e storiografo degli Estensi, per i quali la pratica astrologica aveva da tempo assunto pratica quotidiana, fu l'ideatore del ciclo pittorico.
Dei dodici scomparti originari (numero corrispondente ai mesi dell'anno e ai segni dello zodiaco), divisi in tre fasce parallele, se ne sono conservati solo sette. Nella fascia inferiore di questi appaiono scene della vita di corte, in cui è riconoscibile per importanza la figura di Borso d'Este; sulla fascia di mezzo, in posizione centrale si trova ciascun segno dello zodiaco, accompagnato dalle tre enigmatiche figure dei decani, divinità di origine egizia che presupponevano la divisione dell'anno in trentasei decadi, ognuna dominata da un dio, tre per ogni segno zodiacale; sulla fascia superiore invece campeggiano gli dei dell'Olimpio che prendono il posto delle divinità planetarie.[35]
La luna fa la sua apparizione nella raffigurazione del mese di Giugno in cui domina il segno del Cancro, raffigurato come un gigantesca aragosta. Mercurio, il pianeta-divinità protettrice del mese di Giugno, uno dei tre decani, appare trionfante su un carro trainato da due aquile e ha in mano il caduceo e la lira. Gli altri due decani, Venere e la Luna, il primo è rappresentato come un giovane avvolto da un ramo, la Luna come un uomo con piedi palmari e con un drago alato.
Nel Rinascimento nessuna città al mondo come Ferrara accoglieva la magia e l'astrologia, non solo nella vita di corte ma anche nella vita quotidiana di tutti i suoi abitanti. E il fascino che esercitò in questa città il gioco dei tarocchi fu dirompente.[36]
Oggi i Tarocchi sono considerati un libro esoterico a fogli staccati pervenutoci attraverso i secoli; del resto la loro origine si perde nella notte dei tempi. Lo statuto esoterico e occultistico dei Tarocchi non sembra però attestato prima dell'ultimo ventennio del Settecento in Francia e apparterrebbe quindi al secondo influsso culturale ermetistico (il primo fu quello introdotto nella Firenze a metà del Quattrocento in seguito alla traduzione latina delle opere di Ermete Trismegisto); questo non significa negare che il gioco dei Tarocchi non avesse da prima un suo contenuto divinatorio tale da consentire presagi.
«Le carte vengono distribuite a 'caso' e pervengono secondo la fortuna o la sfortuna in queste e in quelle mani. Subito dopo però il gioco ha le sue regole razionali che l'uomo conosce più o meno bene […] Al pari degli astri le carte inclinano, non determinano; al tavolo da gioco, non meno che nella vita, l'uguaglianza non esiste, ma la tempo stesso unusquisque est faber fortunae suae. Prudenza, dissimulazione, audacia, possono intervenire a mutare le sorti della partita».[37]
Le prime testimonianze sulle carte da gioco in Europa risalgono al XIV secolo forse importate dal mondo musulmano attraverso i crociati e i saraceni. Fra la metà e la fine del Quattrocento i mazzi di carte dei Tarocchi più pregiati, dipinti a mano, vengono eseguiti per lo più nell'rea padana, fra Milano, Bologna e la corte ferrarese.
Fra questi mazzi di carte sono compresi i cosiddetti Tarocchi del Mantegna, incisi prima del 1467 e riconducibili per stile all'ambiente ferrarese, ma erroneamente attributi al Mantegna.[38]
Le 50 incisioni sono divise in 5 serie di immagini, ordinate secondo valori ascendenti ma non presentano alcun riferimento né ai semi (bastoni, spade, coppe, e ori), né agli onori (fante, cavallo, regina, re) e dunque al gioco dei tarocchi vero e proprio. I tarocchi del Mantegna, più che carte da gioco sembrerebbero un'opera didattica e istruttiva: il contenuto stimolava quindi il giocatore ad un'ascesa verso la perfezione, un itinerarium mentis in Deum.
Ogni gruppo inizia con la raffigurazione de Le condizioni umane, prosegue poi con Apollo e le Muse, le Arti e le scienze, con particolare riferimento alle Arti Liberali, ossia a quel complesso di conoscenze teoriche considerato indispensabile all'uomo, si passa poi si passa agli Spiriti e alle Virtù, infine ai Pianeti e alle Stelle dell'Universo per giungere all' Ottava Sfera, al Primo Mobile e alla Prima Causa, cioè Dio.
L'immagine della Luna è quella che apre la serie dei Pianeti: è raffigurata su un carro nelle vesti di una figura femminile che tiene in mano l'astro, mentre sorvola un paesaggio acquatico.
È interessante notare che è l'unica immagine planetaria che, insieme al sole, recupera l'iconografia derivata dagli Astronomica di Manilio. Un'analoga raffigurazione della Luna compare nella decorazione a fresco della camera delle stelle nel Palazzo Trinci a Foligno e nel rilievo del tempio Malatestiano a Rimini.[39]
ncora oggi, dunque, la Luna, creatura immobile e splendida, esercita, attraverso immagini e parole tramandate da molti secoli, il suo misterioso fascino, tanto che, come popolarmente si riporta abbia detto Shakespeare, non è possibile restare insensibili alla sua voce: «Folle è l'uomo che parla alla Luna. Stolto chi non le presta ascolto».
Pubblicato il 06/02/2015
Note:
[1]P. Greco, L'astro narrante. La luna nella scienza e nella letteratura italiana, Springer Verlag, 2009.
[2]I. Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, p. 183.
[3]I. Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, p. 183.
[4]L. Ariosto, Orlando Furioso a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1982.
[5]L. Ariosto, Satire, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987.
[6]N. Bonazzi, Dall'Inferno del reale all'utopia della letteratura. Il Furioso tra la terra e la luna, in www.griseldaonline.it, num 14.
[7]Cfr. C. Segre, Da uno specchio all'altro: la luna e la terra nell' "Orlando furioso" in Fuori dal mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell'aldilà, Torino, Einaudi, 1990, pp. 109-110.
[8]Cfr. S. Bassi, Immagini della Luna fra '500 e '600 in Il pensiero simbolico nella prima età moderna a cura di A. Angelini e P. Caye, Firenze, Olschki, 2007, pp. 261-267.
[9]La fonte dell'episodio è certamente Dante (Par. I, 49-142); cfr. in particolare il cap. IV di G. Savarese, Il Furioso e la luna, in Il Furioso e la cultura del suo tempo, Roma, Bulzoni, 1984, in cui il critico cerca di dimostrare che Ariosto partecipa alle suggestioni astrologiche rinascimentali.
[10]Il primo ad aver individuato come fonte dell'episodio di Astolfo sulla luna Somniun di Alberti è stato E. Garin, il quale rinvenendo le Intercenali di Alberti ha notato la rassomiglianza dell'episodio ariostesco con il testo albertiano. Cfr. E. Garin, Venticinque intercenali indedite e sconosciute di Leon Battista Alberti, «Belfagor», XIX, 1964, pp. 377-396.
[11]Cfr. R. Cardini, Alberti e l'astrologia, in Leon Battista Alberti: la biblioteca di un umanista, a cura di R. Cardini, Firenze 2005, pp. 151-56.
[12]L. B. Alberti, Intercenales, a cura di F. Bacchelli e D'Ascia, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 228-241.
[13]Ariosto, Satire, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987.
[14]C. Bologna, Le "Satire" di Ludovico Ariosto, in Letteratura italiana. Le opere, a cura di A. Asor Rosa, Umanesimo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 2007, p. 164.
[15]Cfr. C. Segre, La favola della luna (Ariosto, Sat., III, 208-31) e i suoi precedenti, in Book Production and Letters in Western European Renaissance: Essay in Honour of Conor Fahy, ed. by A. L. Lepschy, J. Took, D. E. Rhodes, London. The modern ties research association, 1986, pp. 279-83.
[16]M. M. Boiardo, Amorun libri tres a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1998.
[17]Cfr. Ovidio, Heroides, XVIII, 71-73 «Quantum [Luna] cum fulges radiis argentea puris,/concedunt flammis sidera cuncta tuis, / tanto formosis formosior omnibus illa est».
[18]M. M. Boiardo, Amorum libri tres, Torino, Einaudi, 1998, p. 45.
[19]Sul Cariteo si vedano i contributi di G. Parenti, Benedet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, Firenze, Olschki, 1993; B. Barbiellini Amidei, Alla Luna. Saggio sulla poesia del Cariteo, Firenze, La Nuova Italia, 1999; E. Fenzi, «Et havrà Barcellona il suo poeta» Benet Garret, il Cariteo, «Quaderns d'Italià», VII, 2002, pp.117-140.
[20]Le rime del Cariteo a cura di E. Percopo, Napoli, Tipografia dell'Accademia delle Scienze, II, 1892.
[21]Secondo il mito Endimione era un giovane e bel pastore di cui la luna si innamorò e, non sopportando l'idea che il suo amante potesse morire, donò lui sonno e giovinezza eterna andandolo a visitare ogni notte. (cfr. Miti e personaggi del mondo classico, Milano, Bruno Mondadori, 1989; Dizionario di Mitologia greca e latina a cura di B: Ferrari, Torino, UTET, 1999).
[22]Cfr. B. Barbiellini Amidei, Alla Luna. Saggio sulla poesia del Cariteo, pp. 59-61.
[23]I sonetti del Burchiello a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004.
[24]Cfr. A. Tartaro, La letteratura in volgare in Toscana, in AA.VV., Letteratura italiana. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, Il Quattrocento, III, 1, Laterza, Roma-Bari, 1971.
[25]A. Tartaro, La letteratura in volgare in Toscana, in AA.VV., Letteratura italiana. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, Il Quattrocento, III, 1, Laterza, Roma-Bari, 1971.
[26]Cfr. Burchiello, I sonetti, a cura di M. Zacarello, Torino, Einaudi, 2004, p. 16.
[27]Complessa la questione filologica delle Rime del Tasso alcune delle quali circolarono, soprattutto durante la reclusione del poeta, in edizioni pirata. T. Tasso, Le rime, a cura di B. Basile, Roma, Salerno, 1994, voll. 2.
[28]Si riteneva che la luna, riflettendo i raggi del sole, diffondesse freddo sulla terra. Per il biancore e la freddezza della luna. Cfr. C. Zampese, "Color di puro argento". I poeti (prima del canocchiale), in www.griseldaonline.it, n. 14 in particolare la nota 4 e A. G. Chisena, Dante e la Dea Bianca. Le divinità lunari nella "Commedia" in www.griseldaonline.it. n.14.
[29]Cfr. La Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena a cura di D. Torraca e S. Settis, Modena, Panini, 1998.
[30]Dizionario di mitologia a cura di A. Ferrari, Torino, Utet, 1999.
[31]Cfr. F. Saxl, La fede astrologica di Agostino Chigi in La fede negli astri. Torino, Boringhieri, 1985, pp. 303-412; G. Mori, Arte e astrologia, Firenze, Giunti, 1987, pp. 37-38
[32]Cfr.E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica astrologica dal Trecento al Cinquecento, Bari, Laterza, 1976; O. Pompeo Faracovi, Lo specchio alto: astrologia e filosofia fra Medioevo e prima Età Moderna, Pisa, Roma, Serra, 2012
[33]Cfr. M. Bertozzi, La Tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Livorno, Sillabe, 1999, che riporta una accurata bibliografia a partire dal saggio di Aby Warburg che per primo aveva fornito una chiave di lettura del ciclo degli affeschi astrologici di Palazzo Schifanoia.
[34]Cfr. M. Bertozzi, La Tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Livorno, Sillabe, 1999; N. Iannelli, Simboli e costellazioni: il mistero di palazzo Schifanoia: il codice astronomico degli Estensi, Firenze, Angelo Pontecorboli Editore, 2012.
[35]Cfr. M. Bertozzi, La Tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Livorno, Sillabe, 1999, p. 25.
[36]Cfr. Le carte di corte. I Tarocchi. Gioco e magia alla corte degli Estensi, a cura di G. Berti e A. Vitali, Ferrara, Nuova Alfa Editoriale, 1987.
[37]F. Cardini, La fortuna, il Gioco, la Corte, in Le carte di corte. I Tarocchi. Gioco e magia alla corte degli Estensi, a cura di G. Berti e A. Vitali, Ferrara, Nuova Alfa Editoriale, 1987, p. 14.
[38]Cfr. C. Vieri Via, I Tarocchi cosiddetti del «Mantegna»: Origine, significato e fortuna di un ciclo di immagini in Le carte di corte. I Tarocchi. Gioco e magia alla corte degli Estensi, a cura di G. Berti e A. Vitali, Ferrara, Nuova Alfa Editoriale, 1987, p. 49-71.
[39]Cfr. C. Vieri Via, I Tarocchi cosiddetti del «Mantegna»: Origine, significato e fortuna di un ciclo di immagini in Le carte di corte. I Tarocchi. Gioco e magia alla corte degli Estensi, a cura di G. Berti e A. Vitali, Ferrara, Nuova Alfa Editoriale, 1987, p. 49-71.