L’extremo del riso
assaglia il pianto
F. Petrarca, RVF LXXI, 87-88
Questo percorso didattico, pensato per le classi del primo anno di un triennio, è uno dei tanti che il Decameron, testo multiforme e variegato, può offrire. Il nostro itinerario, che ha preso ad exemplum solo alcune novelle, in cui il riso e il pianto, in quanto emozioni l'una all'antipodo dell'altra trovano una collocazione accanto alle tematiche strutturali (la fortuna, l'amore, l'intelligenza, la magnificenza d'animo), non ha la pretesa di costituire un punto di arrivo; vorrebbe configurarsi piuttosto come un'occasione di partenza per suggerire ulteriori letture e approfondimenti, posto che la finalità dell'educazione letteraria nella scuola secondaria di secondo grado è quella di stimolare gli allievi alla esplorazione di un testo letterario e ancor più quello di generare la passione per la lettura.
Nel Decameron, vera e propria 'commedia umana' della società, si coglie il senso vivo dell'esperienza dell'uomo medievale in ogni aspetto dell'esistenza. E non si può fare a meno di constatare che nel Decameron si ride. Oltre alle donne e ai giovani della lieta brigata, talvolta ridono i personaggi delle novelle e ride anche il lettore [1].
Del resto risum movere è nell'intenzione dell'autore e, appunto, nel dilettare e consolare è insita la poetica di questo testo. Ad avvertirci di questa chiave di lettura è Boccaccio stesso nell'Introduzione, quando, rivolgendosi alle donne, a cui è dedicata l'opera, le tranquillizza subito rassicurandole che alla tristezza e al dolore, suscitati dal ricordo dello scenario drammatico della peste, succederà la letizia che sempre segue la sofferenza:
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa, la quale essa porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi, quasi sempre tra' sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono terminate [2].
Ma il riso è strettamente connesso con il pianto, è l'altra anima del sentire umano: quello di un'emozione estrema.
Sin dall'inizio il Decameron si configura anche come il contenitore di esperienze tragiche e dolorose; ne offre un primo esempio il ricordo minuzioso della peste e dei suoi catastrofici effetti, la narrazione si apre all'insegna della paura della morte e del dolore, scenario apocalittico dove il morbo e le sue conseguenze dominano incontrastati e condizionano ogni aspetto della vita e delle relazioni umane.
La peste che si abbatte su Firenze, vista come un flagello voluto dalla giustizia divina, «per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata» comporta, dunque, «la dissoluzione della legge civile, delle regole primordiali di convivenza fra gli uomini, dei legami di società, di vita morale, dei doveri di famiglia, delle corrispondenze naturali degli affetti» [3].
In questo drammatico contesto, sette giovani donne e tre giovani uomini decidono di abbandonare Firenze, devastata dall'epidemia, per rifugiarsi in una villa in campagna. La scelta della brigata fiorentina di fuggire dalla città non è dettata soltanto dal desiderio di esorcizzare il pensiero della morte, perché la descrizione minuziosa e cruda della peste è anzi un esempio evidente del memento mori, ma anche dalla volontà di ristabilire, in un luogo ideale, quell'ordine sociale demolito dall'epidemia [4].
Il proposito della fuga per paura del contagio e della morte è accompagnato dal desiderio di poter condurre, nel lieto paesaggio campestre, un tenore di vita contrassegnato dall'allegria e dal 'riso', senza oltrepassare il limite della saggezza, come la stessa Pampinea avverte («io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, […] uscissimo e […] ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessime») e come viene poi ribadito, una volta che la lieta brigata è alloggiata nel locus amoenus, dal giovane Dioneo, «piacevole giovane e pieno di motti», che dichiara l'intenzione di lasciarsi alle spalle tutti i pensieri tristi e di voler divertirsi, ridere e cantare:
«Donne […] io non so quello che de' vostri pensieri voi v'intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me n'uscii fuori, e per ciò o voi a sollazzare ed a ridere ed a cantare con meco insieme vi disponete…» [5].
Innegabile, dunque, che il Decameron esalti una nozione anche edonistica della letteratura che, come tutte le arti, può fornire un sollievo agli affanni e alle angosce del vivere. E il miglior antidoto per contrastare la paura e l'angoscia, il dolore e il pianto, è l'emozione che sta all'estremo: il riso. Ma accanto a novelle che stimolano il riso, esaltano i piaceri della vita o celebrano il talento dell'ingegno, troviamo la presenza di novelle dal triste epilogo, alle quali l'autore dedica un'intera giornata, la quarta. Si tratta di quelle novelle che hanno per tema gli amori infelici, attraverso le quali Boccaccio ripropone, accanto al senso del comico, quello estremo del tragico, già espresso nella cornice con l'affresco della peste.
È spontaneo chiedersi, dunque, quale sia la funzione di storie lacrimevoli in un'opera che ha come fine il diletto del lettore, e ancor più delle lettrici, essendo il Decameron dedicato, in prima istanza, al pubblico femminile. Boccaccio, attraverso le novelle che trattano di amori infelici, finisce per somministrare alle sue lettrici una cura 'omeopatica', cercando di farle guarire dalle loro pene d'amore ricorrendo al racconto di amori dal tragico esito [6].
Il proemio del Decameron si apre solennemente con una sentenza: «Umana cosa è avere compassione degli afflitti». Con questa affermazione, chiara enunciazione di poetica, l'autore dichiara di voler prestare, con la sua opera, conforto e diletto alle persone sofferenti, in primis alle donne che, per sensibilità e condizione sociale, hanno maggiormente bisogno del conforto dell'immaginazione. E insieme alla cura offre anche un rimedio preventivo, un insegnamento per evitare di cadere vittime della sofferenza amorosa o per superarla al meglio. Insomma siamo dinanzi all'antico ma sempre valido precetto oraziano del docere delectando. Anche nel Decameron riso e pianto si configurano come emozioni estreme, ma ognuna è ritratta attraverso molteplici sfumature: il riso può essere gioioso o triste, buono o indignato, intelligente o sciocco, superbo o cordiale, condiscendente o insinuante, sprezzante o sgomento, offensivo o incoraggiante, sfrontato o timido, amichevole o ostile, ironico o sincero, sarcastico o ingenuo, tenero o rozzo….allegro o malinconico [7].
Come afferma Giovanni Getto:
forse anche più significative [nel Decameron] sono le lacrime, da quelle di ipocrisia di ser Ciap-pelletto a quelle di disperazione di Andreuccio chiuso nell'arca, da quelle di Ghismonda represse e regolate come una liturgia funebre a quelle abbandonate di Lisabetta, da quelle di monna Tessa sulla quale si è rovesciata l'ira di Calandrino a quelle di fisica amarezza dello stesso Calandrino mentre tiene in bocca la galla di gengiovo…, da quelle di sincera amicizia di messer Torello e del Saladino al momento del congedo a quelle di finta disperazione di madonna Jancofiore ("ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi") [8].
Il riso non sempre abundat in ore stultorum: talvolta è esemplificazione straordinaria dell'intelligenza umana che viene in soccorso nei momenti più difficili dell'esistenza.
Sulla scia di una tradizione esemplare, ormai consolidata, di cui il precedente temporale più vicino al Boccaccio, era il Novellino [9], nel Decameron trovano spazio anche novelle costruite sui motti spiritosi e le battute argute che, in molti frangenti, salvano il protagonista nel momento di massima paura e disperazione. Il riso vince così la paura esorcizzandola e diluisce le tensioni esistenziali ponendosi come antidoto del dolore e panacea dell'animo.
Le novelle della sesta giornata del Decameron, sotto il reggimento di Elissa, celebrano l'efficacia dei motti di spirito o delle argute risposte, dedicate, come anticipa il narratore in chiusura della precedente giornata, a chi «con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno».
È il caso della settima novella della sesta giornata, in cui «Madonna Filippa, dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta, sé libera e fa lo statuto modificar».
Madonna Filippa è una gentil donna di Prato, moglie di Rinaldo de' Pugliesi, appartenente ad una delle famiglie più potenti e ricche della città, che, colta in flagrante adulterio dal marito, è condotta in tribunale. In caso di pubblica confessione la donna rischia di esser arsa viva per la trasgressione commessa ed è per questo che il marito trascina la moglie adultera in giudizio, pensando di sfruttare a proprio vantaggio la crudele legge della terra di Prato.
Esemplare e degna di un principe del foro è l'arringa di Madonna Filippa dinanzi al Podestà: la donna non rinnega la colpa, anzi ribadisce con forza e ardore l'eccezionalità della sua passione e la sincerità del suo sentimento, qualità che il narratore non omette di sottolineare più volte: «La donna che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son davvero…» decide «di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire che vilmente, fuggendo, per contumacia in esilio vivere e negarsi degna di così fatto amante». Con la sua ammissione di colpa Filippa va incontro alla condanna e a morte certa, ma a liberarla da questa sarà un suo intelligente contrattacco esplicitato in una frase ironica e arguta, condotta con grande maestria di eloquenza e notevole abilità retorica, che susciterà il riso ironico e compiaciuto del popolo, concorso ad assistere al processo:
li quali, udendo così piacevol domanda, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono, la donna aver ragione e dire bene: e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto[…] La donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa [10].
Il riso in questa situazione ha un duplice potere: quello di porre in risalto l'importanza dell'arte della parola e quello salvifico; lo annuncia lo stesso Filostrato, il narratore, in incipit della stessa novella:
Valorose donne, bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima, quivi saperlo fare dove la necessità il richiede: il che sì ben seppe fare una gentil donna della quale intendo di ragionarvi, che no solamente festa e riso, ma sé da lacci di vituperosa morte di sviluppo [11].
È il discorso della protagonista dinanzi al giudice che costituisce il cuore della novella, perché, attraverso quelle parole, viene elaborata una 'singolare teoria dell'amore basata sul principio della domanda e dell'offerta' [12], ovvero sul principio costitutivo della legge dei mercanti, gli stessi che avrebbero condannato la donna per adulterio. Madonna Filippa, andando contro le convenzioni sociali, con un atto talmente spregiudicato, che ha comunque dell'anacronistico, difende il diritto suo, e di altre donne, all'amore e all'eros.
È lecito chiedersi perché il pubblico in tribunale si diverte davanti al discorso di Filippa che per la sensibilità del lettore moderno non suona molto spiritoso. Se il riso rivela sempre una certa condivisione dei valori del pubblico, il riconoscere se stessi, nel caso della novella boccacciana il riso mostra una sodalità e complicità con la situazione di Filippa. Le risa del pubblico evidenziano in questo modo la forza e la naturalezza del desiderio erotico. D'altronde il gruppo di coloro che ridono non è formato solo dai pratesi, che ascoltano in tribunale il caso di Filippa, ma anche dalla brigata. […] Le risa della brigata dei novellatori coronano dunque la vittoria finale dell'equità e il ristabilimento di una vera giustizia [13].
Famosissima e molto divertente anche la quarta novella della sesta giornata che ha per protagonista Chichibio, il cuoco veneziano di Currado Gianfigliazzi, ricco signore di Firenze, che, grazie ad una motto scherzoso, stempererà la rabbia e provocherà nel padrone un riso compiaciuto, annientando la volontà del signore di punire il cuoco anche con la vita.
Chichibìo, per compiacere la serva Brunetta, di cui era invaghito, le regala la coscia di una gru che Currado Gianfigliazzi, dopo una battuta di caccia, aveva ordinato di servire arrosto alla tavola dei commensali. Alla richiesta del padrone di offrire una spiegazione dinanzi ad una 'portata' incompleta, la stupidità di Chichibio sfida l'intelligenza del suo signore rispondendo che le gru hanno una sola zampa. Il comportamento del cuoco, irrisorio e offensivo, ma molto ingenuo, gioca col fuoco e scatenare la rabbia ed esaspera Currado, che dinanzi ai convitati, osservando le regole di un certo bon ton, trattiene l'ira, che però ossessiona il suo animo in un crescendo, come la sapienza del narratore sottolinea attraverso la reiterazione della parola:
Currado per amore de' forestieri che seco aveva non volle dietro alle parole andare, ma disse: "Poi che tu di' di farmelo veder ne' vivi, cosa che io mai più non vidi né udì dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai"». Finite dunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò. Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli conveniva pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare cavalcava appresso a Currado con al maggior paura del mondo…» [14].
Il ritratto che Boccaccio ci offre del cuoco veneziano, in cui si esprime anche tutta la polemica antiveneziana della Firenze trecentesca, è quello di una persona sciocca, bugiarda e inaffidabile, appunto «nuovo bergolo» soccorso, nel momento di massima tensione, dalla fortuna che «alcuna volta aiutatrice de' paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone che mai, ad animo riposato, per lo dicitore si sarebber potute trovare».
Il motto spiritoso, uscito dalla bocca del cuoco e che lo salva, non è intenzionalmente astuto e intelligente, non avrebbe mai potuto esser proferito ad 'animo riposato', perché Chichibio, essendo uno sciocco, non è in grado di elaborare una strategia. La battuta è piuttosto l'iperbole della propensione alla bugia e della sfrontatezza di Chichibio.
Sarà proprio quel forte sentimento di paura che attanaglia lo stolido cuoco, la disperazione, che fa irrazionalmente appello alle risorse estreme della mente, infatti, a suggerirgli la salvifica spiritosa e astuta battuta, apprezzata dal signore come sintomo del candore della spiritosaggine: «A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e in riso, e disse: "Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare"».
Se in alcune novelle il riso è associato all'intelligenza o al talento – ne sono un esempio i casi di ser Ciappelletto (I 1) o di frate Cipolla (VI 10) e di Martellino (II 1) – in altre si ride per la mancanza di talento: è il caso delle quattro novelle (VIII 3; VIII 6; XI 3 e XI 5) che hanno per protagonista Calandrino, la prova vivente della sciocca credulità e stupidità nonché il personaggio più comico del Decameron [15]. Antieroe per eccellenza, Calandrino, pittore fiorentino, è il destinatario delle beffe degli amici Bruno e Buffalmacco, «uomini sollazzevoli e sagaci» che si prendono in più occasioni gioco di lui, sciocco che non sospetta neanche di esserlo, anzi agisce anche per avidità, grettezza d'animo e malizia.
Ma anche la novella nona della ottava giornata deride la stupidità: il protagonista, maestro Simone, medico tronfio, presuntuoso e falsamente saccente, rimane vittima di una beffa orditagli dagli spregiudicati e astuti Bruno e Buffalmacco, gli stessi autori dei pesanti scherzi ai danni di Calandrino. Del resto il comico è onnipresente, nel quotidiano, è un fenomeno che caratterizza l'esperienza di tutti i giorni [16].
In tutti questi casi si tratta di un 'riso' amaro, patetico, poiché oltre a rappresentare la varietà del mondo e degli aspetti della vita, Boccaccio vuole qui svelare la fragilità umana dinanzi ai desideri umani. «La stupidità non è condannata: è riconosciuta propria dell'uomo come il desiderio, così come il riso, e semmai condannata come questi, peccato della natura o forse della fortuna» [17].
Già il soprannome 'Calandrino' è una sorta di nomen omen, perché, costruito sul diminutivo di calandra, un uccello simile all'allodola, il nomignolo esprime tutta l'ingenuità di chi lo porta, perché come un allodoletta, appunto, sembra nato apposta per essere 'uccellato', ovvero 'catturato nel paniere della beffa' [18].
La terza novella della ottava giornata è incentrata sulla fantasiosa idea della pietra elitropia con cui il giovane burlone Maso del Saggio, che trova poi come alleati nello scherzo Bruno e Buffalmacco, fa sbalordire il sempliciotto Calandrino che pensa subito al possibile uso fraudolento. «La novella si sbizzarrisce nell'invenzione, anche linguistica, della vena comica, con deformazione dei vocaboli per renderne misterioso il significato e creare il consenso dell'ignaro» [19]. Il momento in cui il riso trionfa è quando la situazione è portata all'estremo e il 'beffato' deve difendersi dall'accusa di aver beffato gli amici: «Compagni, non vi turbate, l'opera sta altramenti che voi non pensate! Io, sventurato!, avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Bruno e Buffalmacco, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere che quasi scoppiavano» [20].
La novella ha anche un lato miseramente triste: il beffato Calandrino per sfogare la sua stizza e la sua rabbia, una volta rincasato a mani vuote, percuote selvaggiamente la moglie in un atto di barbarie e di violenza che lascia davvero sconcertati e che non può che avere l'effetto di rendere patetico quel riso inizialmente 'comico'.
Ma come l'amore, che nel Decameron alberga anche nei cuori dei ceti più umili, oltre che in quelli degli artistocratici e dell'alta borghesia, anche la stupidità può trovare dimora in personaggi di realtà sociali diverse: se Calandrino è lo sciocco popolano ignorante, il protagonista della novella ottava della sesta giornata è un uomo di cultura, un medico, Mastro Simone da Villa, «più ricco di ben paterni che di scienza»; ha studiato a Bologna, sede dell'università più prestigiosa del tempo, ma «la cui scienza non si stendeva forse più oltre che il medicare i fanciulli del lattime». Viene ritratto sempre pronto a vantarsi della sua prestanza, del suo titolo e dei suoi presupposti nobili natali:
Tu vedi innanzi come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona, ed ho un viso che pare una rosa; ed oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve n'abbiate niuno, e so di molte belle cose […] e come tu hai potuto vedere, io ho pure i più be' libri e le più belle robe che medico di Firenze. In fé di Dio ho roba che costò…. [21].
Anche Mastro Simone, vero e proprio 'dottor Balanzone' ante litteram, rimane vittima di una beffa ideata dagli astuti e spregiudicati Bruno e Buffalmacco e, anziché ritrovarsi fra le braccia di una bellissima donna, finisce in una latrina. Costretto a tornare gabbato e maleodorante a casa, la moglie lo accoglie con aspri rimproveri che sottintendono anche una scarsa capacità amatoria del marito:
Deh! come ben ti sta! Tu eri ito a qualche altra femina e volevi comparire molto onorevole con la roba dello scarlatto. Or non ti bastava io? Frate, io sarei sufficiente a un popolo, non che a te. Deh!, or t'avessono essi affogato, così come essi ti gittarono là dove tu eri degno d'esser gittato! Ecco medico onorato, aver moglie ed andar la notte alle femine altrui! [22].
Naturalmente i due amici fuori dall'uscio si godono lo spettacolo, ridendo a crepapelle. Ma anche in questa storia si aggiunge la beffa nella beffa perché Bruno e Buffalmacco non si accontentano di aver riso per l'accaduto; infatti la mattina dopo, recatisi dal medico, rincarano la dose dei rimproveri accusandolo di aver mancato all'appuntamento 'galante' che loro stessi si erano adoperati di procurargli. Il dottore travolto dal senso di colpa scongiura, implora e prega gli amici di perdonarlo. Il riso della comicità si trasforma a questo punto in riso di compassione per una stupidità travestita da falsa scienza.
Sin dal suo incipit la novella è un mirabile concentrato di ironia, che suscita un sorriso malizioso: la vicenda ha come teatro un convento che il narratore definisce sarcasticamente famoso per la sua «santità e religione»; qui la relazione amorosa di una giovane suora, Isabetta, con il giovane amante, viene scoperta dalle consorelle, che, più per invidia che per ragioni morali, riferiscono l'accaduto alla madre badessa, Usimbalda, «buona e santa donna secondo la oppinion delle donne monache». Anche qui il narratore esercita la sua sferzata ironica in ben due luoghi: nell'adozione del nome Usimbalda (che forse è una sorta di nome parlante, un nomen omen) e nel definire ironicamente la badessa 'santa donna'. La badessa è in realtà a letto con un prete e nella fretta di accorrere a punire la giovane suora, anziché indossare il salterio, si pone in testa le brache del sacerdote.
Pubblicamente accusata e redarguita dalla badessa, la giovane suora colpevole si accorge però della situazione comica creatasi dall'insolito velo monacale, indossato dalla superiora, e la prende a pretesto per difendersi e per sfidare la badessa con una battuta, vero capolavoro di umorismo e di ironia: «"Madonna, io vi priego che voi v'annodiate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace"».
A quel punto la badessa comprende la sua gaffe e le altre monache si accorgono che anche colei che doveva essere un esempio di integrità morale,'predicava bene ma razzolava male'.
A suor Usimbalda, 'baldanzosa' di nome e di fatto, non resta che trasformare il suo minaccioso e moralista sermone in modo del tutto opposto, concludendolo con un'affermazione che svela l'ipocrisia della religiosa e la sottopone al riso del lettore:
Di che la badessa, avvedutasi del medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone […] e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s'era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potese; e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l'Isabetta col suo amante[23].
Il riso, che sorprende in una continua suspense, ha in questa novella una funzione demistificatoria.
La conclusione, davvero degna di una fiaba a lieto fine 'e vissero tutti felici e contenti', non è solo una irriverente, ma scherzosa, polemica al tema della corruzione della vita conventuale, è un vero e proprio inno liberatorio all'eros e alla rivendicazione dei diritti della natura, a torto repressi.
Si tratta di una delle più note, apprezzate e studiate novelle della centuria; è narrata da Fiammetta, la protagonista infelice dell'opera giovanile di Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta [24], non a caso, esperta della passione d'amore delle donne.
La storia celebra il nobile e fiero animo di Ghismunda, donna consapevole dei propri diritti, protesa a difendere la propria autonomia e il proprio diritto all'amore e per questo pronta a sfidare, non solo le grette convenzioni sociali, ma persino l'ira del padre e, pur di sostenere con eroismo le ragioni della forza dell'amore, va incontro con fierezza al suicidio.
La vicenda di questo 'triangolo amoroso' particolare, che ha per protagonisti il principe Tancredi, la figlia Ghismunda e il suo amante Guiscardo, è tributaria di una «materia ben identificata negli archivi della cultura classica e romanza: quella relativa all'amore-passione che, combinato con l'avversa fortuna, porta gli amanti alla morte; quella che partendo dalle Heroides ovidiane, arriva fino a Paolo e Francesca, passando attraverso Tristano e Isotta» [25]. La grandezza di questo personaggio femminile si manifesta in modo inequivocabile attraverso l'abilità dialettica con cui tiene testa ai ragionamenti del padre. Infatti Ghismunda, a differenza di Lisabetta e di Andreuola, reprime il pianto anche nel frangente più drammatico, ovvero quando il padre di lei, Tancredi, le rivela di aver scoperto la relazione della giovane con Guiscardo, uomo di «vilissima condizione», e per questo si appresta a punire il giovane con la morte:
Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con meravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo [26].
Ghismunda si pone subito come una eroina tragica: lo statuario comportamento e le razionali argomentazioni, sostenute a difesa della sua scelta, degne di una vera regina dell'ars loquendi et dictandi la ritraggono come un personaggio di nobile e alto sentire. Le lacrime per lei sono segno di debolezza e di umiliazione, per questo propende per un dolore altero e decoroso da contrapporre all'insensata autorità paterna.
Anche quando le viene consegnata la coppa con il cuore dell'amato, la donna, che non ha rinunciato al proposito di infliggersi la morte, si china sul cuore per piangere, ma questo gesto è condotto con nobile discrezione e riservatezza, senza abbandono irrazionale all'emozione, quindi senza tradire il suo temperamento fiero:
E così detto, non altramenti che se una fonte d'acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lacrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. […] La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttasi gli occhi, disse: " O molto caro amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia" [27].
Sul personaggio del padre di Ghismonda, Tancredi, si è soffermata l'attenzione di molta della critica letteraria che, nell'eccessiva manifestazione di affetto e nel comportamento ambiguo e ossessivamente geloso vi ha ravvisato una inconscia passione incestuosa per la figlia [28]. Ed è proprio il pianto del padre che spesso nel corso della novella viene evocato.
Ma le lacrime di Tancredi sono ambigue e contraddittorie, sono le lacrime di un uomo moralmente debole, che non rinuncia ad essere spietato pur di rivendicare il diritto al suo patologico amore paterno fatto di possesso e gelosia. Tancredi piange dinanzi a Guiscardo, sorpreso dinanzi al misfatto («Guiscardo, così come era nel vestimento di cuoio impacciato, fu preso sa due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come vide, quasi piagnendo disse…») e di nuovo piange davanti a Ghismunda, allorché le confessa di esser venuto a conoscenza della relazione dei due amanti: «Tancredi […] nella camera n'andò della figliuola: dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire […] e tutto questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul battuto». Il pianto di Tancredi è ambivalente, ben superiore e di altra natura rispetto all'amore disinteressato e affettuoso di un padre per la figlia e denota tutta la debolezza morale di questo uomo. Attraverso il pianto il padre, temendo che Ghismunda si tolga la vita, cerca poi di farsi perdonare dalla figlia di aver ucciso l'amato Guiscardo: «Temendo di quello che sopravenne, presto nella camera della figliuola […] e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo ne' termini ne' quali era, cominciò dolorosamente a piagnere». Queste lacrime non risparmieranno le accuse di Ghismunda al padre per essere egli stesso la causa di quella inutile tragedia. L'unica grazia che la donna chiede al principe è quella di avere sepoltura insieme al suo amante; solo così quell'amore vissuto segretamente e segretamente scoperto potrà avere il diritto di essere conosciuto e apertamente onorato da tutti. Solo dinanzi alla coraggiosa determinazione di Ghismunda di porre fine alla sua vita Tancredi versa lacrime amare e sincere che non solo non lasciano preferir parola ma che palesano ormai il senso di colpa che lo condannerà a vivere un'esistenza tristissima:
L'angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze […]. Così doloroso fine ebbe l'amore di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete:li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto della sua crudeltà…ammenduni in un medesimo sepolcro gli fe'seppellire [29].
Anche in questa novella, collocata nella IV giornata, siamo al cospetto di un amore infelice e dal tragico epilogo, ma, a differenza di Ghismunda, che usa la forza della parola per affermare il proprio amore e rivendicare la libertà dell'eros, la protagonista, Lisabetta è una figura esile ed evanescente che consuma la propria vita nel pianto.
La storia, ispirata a una canzone popolare siciliana, è ambientata a Messina dove Lisabetta vive con i fratelli mercanti, che, per ragioni di interesse e convenienza sociale, pretendono di salvare l'onore della sorella uccidendone l'amante e distruggendo così il suo sogno d'amore e persino la sua tenera e giovane vita. Il matrimonio di Lisabetta con Lorenzo, un giovane di rango e posizione sociale inferiore sarebbe stato infatti disdicevole per una ricca famiglia di mercanti. Il tema della novella è quindi individuabile nel «pietoso, sconsolato appassire e morire del fiore dell'amore nel terreno indurito dall'assoluto dominio della 'ragion di mercatura'». La struttura della novella si articola in sequenze narrative in cui si alternano, come attori protagonisti, ora i fratelli ora Lisabetta; tali blocchi narrativi rimarcano, attraverso la mancanza di dialoghi fra la donna e i fratelli, la totale assenza di contatto affettivo e sottolineano la incomunicabilità fra la vittima e i carnefici. La distanza invalicabile, il silenzio che regna fra Lisabetta e i fratelli confina la giovane in una solitudine a cui solo la morte porrà fine. Lisabetta è un personaggio muto che esplica la tragedia del suo sentire in una muta ribellione , che trova sfogo solo nelle lagrime [30]. Il pianto, infatti, accompagna Lisabetta fin dal momento in cui i fratelli chiudono con lei ogni comunicazione verbale:
Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollecitamente i fratei domandadone, sì come colei a cui la dimora tanto gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto insistentemente, che l'uno de' fratelli disse: " Che vuol dir questo? che hai tu a far con Lorenzo, che tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene". Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse; e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava [31].
Il pianto della giovane conserva comunque diverse sfumature ed è espressione di uno stato d'animo di volta in volta diverso, che, come in un crescendo, procede dall'elegia al dramma della follia. Prima di conoscere la verità sulla scomparsa dell'amato Lorenzo, il servo con cui Lisabetta aveva intrapreso la relazione amorosa, il pianto della donna, reiterato di notte in notte, è un pianto accusatorio, che scaturisce dal pensiero ossessivo di essere stata abbandonata dall'amato. Questo stato di angoscia notturna evoca poi un sogno profetico, in cui Lorenzo le appare e le rivela di esser stato ucciso dai fratelli, indicando alla donna amata anche il luogo della sepoltura:
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava e essendosi alla fine piangendo addormentata, Lorenzo le apparve nel sonno […] e parvele che egli dicesse: "O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare …e me con le tue lagrime fieramente accusi" [32].
Se nella prima parte della narrazione le lacrime sono legate all'attesa sospettosa e sofferente della protagonista, ecco che il sogno spezza i timori per l'abbandono e trasforma quel pianto di sdegno in un pianto di infinito dolore: «La giovane, destatasi e dando fede alla visione, amaramente pianse».
Il dolore e il pianto trovano poi una tragica conferma nel reperimento del cadavere e dalla sottrazione della testa dell'amato, che come una reliquia Lisabetta porta con sé nella propria stanza:
«Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte».
Linguisticamente il dolore di Lisabetta è connotato dalla stessa dittologia di termini («amaramente pianse») che il narratore aveva usato per esprimere l'angoscia della donna al risveglio del sogno rivelatore e poi dinanzi al corpo senza vita dell'amato.
Nella parte finale della novella le lacrime acquistano un significato rituale: diventano segno instancabile e struggente della fedeltà e dell'amore di Lisabetta, che con acqua distillata dalle rose o dai fiori d'arancio insieme dal suo pianto, come una medievale dea Iside, [33] dà amorevolmente la vita alla pianta di basilico, cresciuta sulle spoglie dell'uomo amato:
E per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea [34].
In questo pianto però ancora non vi è dramma; la tragedia e la follia irrompono e hanno il loro tragico epilogo nella morte, allorché alla donna viene sottratta anche l'ultima reliquia di quell'amore: il vaso di basilico: «La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo adimandando, piagnendo si morì, e così il suo disaventurato amore ebbe termine».
Questa novella racconta la storia d'amore tra Andreuola, la bella e giovane figlia di messer Negro da Pontecarraro, ricco gentiluomo di Brescia, e Gabriotto, «uomo di bassa condizione».
I giovani si amano al di là di ogni differenza sociale ed economica, ma viste le condizioni di povertà del giovane si incontrano e si sposano in segreto con l'aiuto della fante di lei.
I sogni di entrambi sono i presagi della fine tragica del loro amore: Andreuola, infatti, racconta al giovane di aver sognato che mentre si trovava abbracciata al corpo dell'amato, una visione oscura e strana (in cui è facile intravedere lo spettro della morte) gli sottraeva il giovane. Gabriotto sorride e tranquillizza la giovane dicendole di non prestar fede ai sogni e che, se anche lui avesse dato credito al proprio non avrebbe voluto incontrala. Gabriotto svela così all'amata il suo sogno: in una selva stava cacciando una cerva che all'improvviso si trasformerà in un veltro terribile che gli azzanna la gola. Mentre i due si rivelano i sogni Gabriotto abbracciando Andreola le sospira:
"Oimé anima mia, aiutami ché io muoio" e così detto ricadde in terra sopra l'erba del pratello. Il che veggendo la giovane e lui caduto ritirandosi in grembo, quasi piangendo disse: "O signor mio dolce, o che ti senti tu?". Gabriotto non rispose, ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari di spazio passò della presente vita [35].
Da questo momento ha inizio il dolore della giovane ed il suo pianto lo esprime tutto:
Ella pianse assai, ed assi volte invano il chiamò; ma poi che pur s'accorse lui del tutto esser morto […] così lagrimosa come era e piena d'angoscia, andò la sua fante a chiamare, la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria ed il suo dolore le dimostrò [36].
La fanciulla, colta dalla disperazione più acuta, confida alla serva di volersi suicidare, ma viene persuasa di non commettere questo atto peccaminoso che la condannerebbe per sempre all'inferno. Si rifiuta anche però di lasciare il corpo dell'amato nel giardino nascondendo così il loro legame ai parenti, un legame che rivendica con la forza e il coraggio che solo il vero e disinteressato amore sanno dare:
Già Dio non voglia che così caro giovane e cotanto da me amato, e mio marito, io sofferi che a guisa d'un cane sia seppellito o nella strada in terra lasciato.[…]" E prestamente per una pezza di drappo di seta, la quale aveva in un suo forziere, la mandò; e venuta quella e in terra distesala, su il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la testa sopra un origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca. […] E così detto, da capo con abbondantissime lacrime sopra il viso gli si gettò e per lungo spazio pianse. […] Quell'anello medesimo, col quale da Gabriotto era stata sposata, del dito di lui, con pianto dicendo: "Caro mio signore, se la tua anima ora le mie lagrime vede e niuno conoscimento o sentimento dopo la partita di quella rimane a' corpi ricevi benignamente l'ultimo dono di colei la qual tu vivendo cotanto amasti" [37].
Ma la vicenda si complica ancora perché la ragazza nel trasportare il corpo a casa dai parenti viene vista dal podestà che l'accusa di omicidio. Sarà l'aiuto del padre di Andreuola, uomo di natura benigna ed amorevole, assai dverso dal padre di Ghismunda, che permetterà alla giovane di salvarsi dall'accusa e di ritirasi poi a vita monacale. La storia di questo amore non commuove solo i parenti, accorsi davanti al corpo esanime di Gabriotto, ma tutto il popolo della città che piange sincere lagrime e lo onora alla stregua di un nobile:
Eranvi in questo mezzo concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa aveano la novella e con tutte le sue rose, quivi non solamente da lei [Andreuola] e dalle parenti di lui fu pianto, ma pubblicamente da tutte le donne della città e da assai uomini, e non a guisa di plebeo ma di signore [38].
In questa novella il pianto connota sì il dolore, ma è un pianto elegiaco che esprime la lamentazione per la perdita di un uomo dall'animo generoso e ricorda il pianto della donna sulla tomba del poeta, toposdell'elegia latina. Come ebbe a dire Properzio: «sic mortis lacrimis vitae sanamus amores» (El. I, 7, v. 69).
Se la definizione che dà Calvino di 'classico' è intramontabile: «classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire», la polifonia del Decameron fa sì che questo testo possa essere considerato un classico della letteratura. E ancora con Calvino possiamo affermare che «non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali […] tu potrai in seguito riconoscere i "tuoi classici". La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta» [39].
Pubblicato il 15/01/2013
Note:
[1]G. Savelli, Riso, in Lessico critico decameroniano, a c. di R. Bragantini – P. M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 498; p. 345.
[2]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Torino Einaudi, 1980, pp. 13-14.
[3]G. Barberi-Squarotti, La «cornice» del «Decameron» o il mito di Robinson, in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a G. Getto nel suo ventesimo anno di insegnamento universitario, Milano, Mursia, 1970, pp. 109-158, p. 111.
[4]Boccaccio si dilunga e indugia alquanto sulla manifestazione 'fisica' del morbo: Intr. «Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio pervenuti al numero di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale per operazione de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in un altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata […]. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a maschi e alle femmine parimente o nella anguinaia e sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come un uovo, e alcune più e altre meno, le quali i volgari nominavan gavaccioli. E delle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade a cui minute e spesse. E come il gavacciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a cui venieno […]. Nacque la paura». (G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, pp.14-16).
[5]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, p. 42.
[6]M. Picone, L'"amoroso sangue'': la quarta giornata, in Introduszione al Decameron, a c. di M. Picone - M. Mersica, Firenze, 2004, pp. 115-147; p. 115.
[7]V. Propp, Comicità e riso, Torino, Einaudi, 1997, p. 15.
[8]G. Getto,, Vite di forma e forme di vita, Brescia, Petrini, 1972, pp. 322; p. 282.
[9]Il Novellino a c. di Alberto Conte, Roma, Salerno Editrice, 2001.
[10]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 749.
[11]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 745.
[12]M. Picone, Leggiadri motti e pronte risposte: la sesta giornata, in Introduzione al Decameron, cit., pp.163-85, p. 181.
[13]T. Korneva, Legge norme e diritti delle donne nel "Decameron" di Boccaccio berlin.academia.edu/.../Legge_norme_e_diritti_delle_donne_nel_Decameron_di_Boccaccio, p. 13.
[14]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., pp. 733-734.
[15]F. Betti, Calandrino eroe sfortunato. Aspetti del realismo boccacciano, «Italica», LIV, 1977, pp. 512-520.
[16]Peter L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell'esistenza umana, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 25.
[17]G. Savelli, Riso, cit., p. 355.
[18]M. Picone, L'arte della beffa: l'ottava giornata, in Introduzione al "Decameron", a c. di M. Picone - M. Mersica, Firenze, 2004, pp. 203-225, p. 213.
[19]F. Tateo, Giovanni Boccaccio, in Storia generale della Letteratura Italiana, a c. di N. Bosellino - W. Pedullà, II, Milano, Federico Motta, 2004, p. 529.
[20]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 918.
[21]G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, cit., pp. 993-994.
[22]Ivi, p. 1005.
[23]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 1046.
[24]G. Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio a c. di V. Branca, V, Milano, Mondadori, 1974
[25]M. Picone, L'"amoroso sangue": la quarta giornata in Introduzione al "Decameron", a c. di M. Picone - M. Mersica, Firenze, 2004, pp. 115-137, p. 120.
[26]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 478.
[27]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., pp. 484-485.
[28]C. Muscetta, Giovanni Boccaccio e i novellieri, in Il Trecento. Storia della letteratura italiana, a c. di E. Cecchi-N. Sapegno, Garzanti, Milano, pp. 420-421.
[29]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 486.
[30]C. Segre, I silenzi di Lisabetta, i silenzi di Boccaccio, in Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del «Decameron», a c. di M. Lavagetto, Parma, Pratiche, 1983, pp. 75-85.
[31]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, p. 529.
[32]Ibidem.
[33]Secondo il mito egizio la dea Iside ricompose e resuscitò con il pianto il corpo del marito Osiride. www.ovo.com/mitologia-egiziana.
[34]G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, cit., p. 531.
[35]G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, pp. 539-540.
[36]Ivi, p. 540.
[37]Ivi, p. 541.
[38]Ivi, pp. 544-545.
[39]I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Arnoldo Mondadori, 1991, pp. 13-15.