Elisa Zimarri - Due libri sulla Shoah

 

Affrontando a scuola il tema della Shoah, può essere utile (o è piuttosto un imperativo etico categorico?) ricorrere a un approccio intersezionale, che permetta agli studenti non solo di imparare riguardo alla Shoah, ma anche dalla Shoah, e di applicare ciò che hanno imparato alla realtà contemporanea. Non si tratta, naturalmente, di trasmettere buoni sentimenti o giudizi preconfezionati, ma di attivare una ‘sensibilità dello sguardo’ (qualcosa che consenta di ‘vedere’, innanzitutto; e possibilmente di produrre empatia) verso le molteplici forme di discriminazione, talora macroscopiche, ma talora quasi invisibili, annidate nelle pieghe del pensiero abitudinario: le mille espressioni dell’ingiustizia, dell’iniquità, della negazione dei diritti umani elementari, oggetto di una sovraesposizione informativa che crea spesso assuefazione e indifferenza.

La lente dei diritti umani (e l’opportuna strumentazione analitica che le fa da corredo: la Storia come analisi dei rapporti di potere; la psicologia di massa; la sociologia ecc.) costituisce certamente uno strumento fondamentale per comprendere come un avvenimento quale la Shoah sia stato possibile, come abbia funzionato la propaganda e attraverso quali dinamiche i diritti delle persone ebree – e di altre minoranze – siano stati progressivamente eliminati. Ma per contribuire alla costruzione ‘empatica’ di questa consapevolezza può essere interessante per gli studenti scoprire e leggere vicende biografiche di persone che hanno vissuto nell'epoca storica della Shoah, subendone le ferite.

Grazie al lavoro accurato di storici e di archivisti, molte testimonianze orali, scritte o documentarie – vicende che sarebbero state destinate all'oblio - sono state restituite alla memoria collettiva.  È il caso delle biografie ricostruite nei due libri di cui si dà conto in questo intervento.

Il primo è La Matta di Piazza Giudia. Storia e memoria dell'ebrea romana Elena Di Porto, di Gaetano Petraglia. L’autore (che di mestiere è un archivista) permette di riscoprire la figura poco nota di una donna ebrea, una figura straordinaria e sui generis vissuta a Roma fino alla famosa razzia nazi-fascista del Ghetto nell’autunno del 1943, quando fu deportata ad Auschwitz, dove morì. Elena di Porto è probabilmente la stessa donna che Debenedetti chiama Celeste nella sua opera, 16 ottobre 1943. Probabilmente fu sempre Elena la donna corse al Portico d' Ottavia per avvisare, inascoltata, i suoi correligionari del pericolo incombente (secondo il racconto di Debenedetti).

Può essere interessante leggere questo volume all'interno di un progetto interdisciplinare che veda coinvolti diversi docenti, a partire da quello di Lettere e di Storia e filosofia perché il volume è ricco di dati storici dell'epoca.

Il secondo libro di cui qui si parla (Un uomo di poche parole, di Carlo Greppi), è la ricostruzione della biografia di Lorenzo, muratore coatto che grazie alla sua umanità contribuì alla salvezza di Primo Levi fornendogli cibo, vestiario e scrivendo per lui messaggi indirizzati ai familiari in Piemonte.  Lorenzo è ricordato da Primo Levi in diversi luoghi delle sue opere, a cominciare da Se questo è un uomo.

 

Libro 1

 

Gaetano Petraglia, La matta di piazza Giudia. Storia e memoria dell’ebrea romana Elena di Porto, Firenze, Giuntina, 2023.

 

 Classi di riferimento: IV – V anno di scuola secondaria superiore nell'ambito di un progetto interdisciplinare sulla Shoah

 

Il libro fa emergere la figura di una donna moderna e anticonformista vissuta agli inizi del '900 nel Ghetto di Roma. Il libro nasce da una ricerca archivistica in Basilicata effettuata una decina di anni fa da Gaetano Petraglia, funzionario archivista, incaricato di censire quattordici archivi comunali nella parte sud-occidentale della regione nella provincia di Potenza.  A Lagonegro ha così censito fascicoli intestati a confinati politici e a comuni cittadini, a internati ebrei. Si trattava soprattutto di stranieri polacchi, rumeni, ungheresi, austriaci in fuga dai loro paesi minacciati dall'avanzata nazista che tentavano, attraverso i porti italiani, di raggiungere la Palestina, gli Stati Uniti o il Sud America. Nel giugno 1940, all'entrata in guerra dell'Italia, erano rimasti bloccati sul suolo italico e il governo fascista, per ragioni di sicurezza interna e militare, ne aveva disposto l'internamento in piccoli comuni del Meridione. Uno dei fascicoli lì conservati riguardava un'ebrea romana: Elena Di Porto. Dal momento del ritrovamento del fascicolo l'autore ha iniziato un percorso di ricerca attraverso documenti scritti e testimonianze orali dirette e indirette per ricostruire la vicenda di Elena, un'umile donna del ghetto di Roma, maltrattata, emarginata, inviata per tre anni al confino in Basilicata e nelle Marche. Una figura viva nei racconti degli ebrei romani di piazza, ma avvolta dall'oblio della storia.

Elena Di Porto era nata a Roma l'11 novembre 1912 da Angelo e Grazia Astrologo. Era bassa di statura, di corporatura robusta, occhi scuri, folte sopracciglia, capelli lunghi e crespi, aveva un carattere aperto, socievole, era molto altruista e generosa, ma per i suoi comportamenti e per le reazioni istintive era considerata sopra le righe e “un tantino stramba”, di certo si discostava del tutto dal prototipo femminile dell'epoca.

In base alla legge del 14 febbraio del 1904 era previsto l'internamento su indicazione di parenti, tutori o polizia per i soggetti cosiddetti ‘’alienati’, che pur non essendo affetti da disturbi mentali patologicamente classificabili, potessero nuocere alla società con atteggiamenti comportamentali antisociali e anormali, tanto da risultare “di pubblico scandalo”.  L'alcolismo, la prostituzione, il vagabondaggio, la superstizione, l'oltraggio all'autorità, la cattiva educazione erano tutte ragioni valide per rinchiudere un individuo in manicomio. Il concetto di pericolosità sociale si inasprì con elementi di controllo poliziesco e si legò alla politica demografica e «alla lotta per la salute fisica della razza», che Mussolini proclamò nel maggio 1927 con il discorso dell'Ascensione.

Così Elena fu internata a quindici anni e mezzo a Santa Maria della Pietà (l'ospedale psichiatrico romano) come “pazza morale” e “degenerata”, con la diagnosi specifica di “epilessia psicotica”. Lì verrà rinchiusa altre tre volte, la seconda per “immoralità costituzionale”. Nel novembre 1930 a pochi mesi dalle dimissioni dal manicomio si sposò con Cesare Di Porto, ebbe due figli e si separò dal marito agli inizi degli anni '30. Nel febbraio 1934 fu ricoverata per la terza volta con le stesse motivazioni su ordine del Commissariato di Pubblica Sicurezza di San Lorenzo. Al momento della dimissione dal manicomio nella primavera del 1934, separata dal marito, tornò a vivere nella casa natale al numero 1 di via del Portico di Ottavia, all'angolo con via Costaguti, in pieno Ghetto.

L’edificio è una costruzione molto particolare, ancor oggi ben riconoscibile: un palazzo del Quattrocento sulla cui facciata è reimpiegata un'iscrizione romana marmorea a lettere capitali, sulla cui porta d'ingresso sono murati parti di un bassorilievo in pietra con motivi di caccia e una testa di leone: forse parti di un sarcofago romano. Qui si sentivano i richiami giudaico- romaneschi degli stracciaroli e dei robivecchi, le donne sull'uscio di casa rammendavano o “capavano[1]” i carciofi. Intorno c'erano le botteghe artigiane di sarti, orefici, gli empori alimentari, le botteghe di stoffe, si sentiva il profumo dei fritti e dei dolci. Negli anni precedenti l'approvazione dei provvedimenti razziali dell'autunno 1938 Elena praticava il commercio ambulante come diversi membri della sua famiglia. Chi aveva un banco di chincaglierie, chi vendeva calze e maglieria al mercato, chi era “urtista[2]” e vendeva cartoline e ricordi di Roma ai soldati di passaggio alla Stazione Termini di ritorno dal fronte, chi praticava la vendita ambulante di dolciumi. La famiglia Di Porto faceva parte di quella schiera di venditori ambulanti ebrei descritti da Debenedetti in 16 ottobre 1943: un'umanità dolente, caciarona e vitale, che riempiva le strade di Roma avviandosi verso le proprie postazioni per guadagnarsi la giornata. Petraglia approfondisce attraverso la citazione e ricostruzione di precisi episodi aspetti della complessa e interessante personalità di Elena.

A fine aprile 1934 entrò all'interno dell'osteria “Delle Tartarughe”, attigua alla fontana omonima al civico 7 di Piazza Paganica, e dopo una discussione aggredì con un temperino il coniuge che l'aveva presa a pugni e strattonata per i capelli. Il marito perdeva le giornate all'osteria e minacciava di tenere per sé i figli, e così Elena quel giorno aveva deciso di affrontarlo in pubblico. Al processo penale conseguente il fatto nel marzo 1935, non le fu riconosciuta alcuna attenuante, neppure una presunta infermità mentale. Nel luglio 1938 il Giornale d'Italia pubblicò il “Manifesto degli scienziati razzisti” e nell'agosto 1938 gli ebrei italiani furono costretti a denunciare la loro appartenenza alla razza ebraica in occasione di un apposito censimento.  Intanto Elena in pantaloni, in bicicletta faceva il giro di cinema, teatri, luoghi di ritrovo degli ebrei romani per segnalare l'arrivo dei fascisti tra il Ghetto, piazza Venezia, Largo di Torre Argentina, via Astalli, via Arenula. C'è un aspetto particolare della vita di Elena che è stato tramandato dalla famiglia Di Porto e dai racconti di piazza: la passione per la boxe, ma mancano documenti e riscontri precisi in merito. Non è improbabile che la donna avesse contatti con le palestre locali e che, prima delle leggi razziali, vi avesse introdotto giovani ebrei per prepararli a reagire in caso di scontro fisico con i fascisti.

Questi ultimi circolavano ansiosi di sorprendere chi leggesse la stampa cattolica contro la quale era in corso una campagna in particolare contro “L'Osservatore Romano”, la voce più forte del dissenso e della polemica. La vera e propria campagna contro i lettori dell'“Osservatore Romano” si verificò all'inizio di maggio 1940 quando fu impedita la vendita del giornale e avvennero spedizioni punitive in molte parti della città ad opera di diversi gruppi rionali fascisti.

La sera del 14 maggio 1940 in via Santa Maria del Pianto Elena aveva visto tre borghesi che picchiavano un vecchio che portava l'“Osservatore Romano” in tasca ed era intervenuta in sua difesa, invitandoli a lasciarlo andare. A questo punto i fascisti l'avevano insultata ed aggredita.

 Uno l'aveva afferrata e stretta alla gola, ma Elena, sentendosi soffocare, aveva cercato di liberarsi graffiandolo in viso. La donna era già nota alla Questura per scontri con i fascisti del rione e, per evitare ritorsioni e incidenti, dopo questo episodio fu deciso di trattenerla per qualche giorno.

Il 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra, mentre Mussolini arringava la folla dal balcone di palazzo Venezia annunciando la dichiarazione di guerra, al Portico di Ottavia la polizia arrestava numerosi ebrei romani tra cui Elena Di Porto. Il fermo di Elena avvenne nell'ambito di una serie di provvedimenti di pubblica sicurezza disposti in vista dell'entrata in guerra, sulla base dell'anagrafe delle persone sospette in linea politica istituita dal 1929 e degli elenchi di coloro che, nella contingenza bellica, potessero risultare pericolosi in via politica e per l'ordine pubblico. Un aspetto importante del lavoro di Petraglia è la ricostruzione del suo arresto e della sua detenzione.

Per i civili italiani fu disposto l'internamento in campi o piccoli paesi lontani dalle residenze abituali, il cosiddetto internamento libero. Dopo il suo arresto Elena fu così rinchiusa nel carcere di Regina Coeli e qualche giorno dopo internata a Lagonegro in provincia di Potenza in domicilio coatto, da lì cambiò diversi domicili nella zona potentina e marchigiana. Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo decretò la fine del regime.  Su disposizione del Ministero dell'interno del nuovo governo, tutti i confinati e gli internati furono prosciolti e poterono tornare a casa. 

Elena fu liberata il 9 agosto e il giorno dopo l'armistizio, il 9 settembre, si trovava verso sera nei dintorni di Torre Argentina ai limiti del Ghetto e, secondo quanto comunicato dalla Pubblica sicurezza, era alla testa di un centinaio di ebrei che tentarono l'assalto a due armerie della zona.

In via Monterone asportarono 70 fucili e numerose munizioni e in piazza Cairoli la folla tentò di scassinare la serranda dell'armeria Casciano, ma intervenne la forza pubblica e i militari della Divisione Sassari. L'irruzione fu bloccata e la folla dispersa. Dopo questi fatti fu fermata solo Elena, rinchiusa in camera di sicurezza al commissariato di S. Eustachio e tradotta a Regina Coeli dove rimase fino al 28 settembre. L'ipotesi di ricostruzione dell'evento non è al momento suffragata da evidenze documentali, ma potrebbe essersi trattato non di un atto spontaneo, ma promosso da gruppi antifascisti della zona del ghetto o di Trastevere con i quali Elena avrebbe avuto legami come fiancheggiatrice.

Elena fu scarcerata il 28 settembre lo stesso giorno in cui gli ebrei romani consegnarono l'oro a Kappler e Petraglia ritiene che la donna nera e scarmigliata descritta da Debenedetti in 16 Ottobre 1943 accorsa ad avvisare gli Ebrei di Roma dell'arrivo dei tedeschi alla vigilia del 16 ottobre 1943 fosse proprio Elena.

L'opera di Debenedetti è una cronaca, non un romanzo, ha un valore storico, documentario, stilistico, religioso poiché l'autore intese registrare fatti realmente accaduti, popolati di protagonisti reali, disse che erano le pagine di un anonimo, come l'anonimo che racconta la vita di Cola di Rienzo. Forse l'autore confuse il nome o celò volontariamente l’identità di Elena dietro il nome di ‘Celeste’, molto comune tra le ebree romane. Nel racconto di Debenedetti appare nera, scarmigliata, ha gli occhi spiritati, vestiti ridotti a stracci, agitata e frenetica, mette le mani sul capo dei bambini per proteggerli, sceneggia tragicamente facendosi venire le lacrime agli occhi come faceva d'abitudine anche Elena. Celeste abita in Trastevere e non si sa dove vivesse Elena al momento della razzia, ma per certo, al momento della retata, il marito Cesare e i figli si trovavano in Via della Lungaretta a Trastevere. Data la sua presenza nei giorni dell'armistizio e nell'assalto dell'armeria Casciano non si può escludere che avesse avuto modo di apprendere il pericolo forse da un carabiniere come afferma Debenetti: «la povera diavola che parla tartagliando. La creatura portata nel Ghetto dal vento del Destino. Misteriosa e tragica, è il messo della tragedia greca, è la figurazione omerica della Notte che percorre il cielo e lo veste del suo mantello […]».

16 Ottobre 1943 è un testo fondamentale per capire cosa rappresentò quel giorno nella memoria dell'ebraismo della Capitale e nella memoria del Paese, Debenedetti rientrò a Roma nel settembre 1944, pubblicò l'opera nel 1945, non pensando alla stesura di un saggio storico (e infatti non cita mai le fonti di cui si è servito), ma proponendola come una raccolta di testimonianze dirette, alle quale si vuole dare voce. Nel 1947 Sartre fece tradurre il libro per “Temps Modernes”. Come affermò Moravia “Debenedetti riesce a darci tutto ciò che avremmo potuto aspettarci da uno scrittore della famiglia di Defoe e Manzoni: sgomento della ragione di fronte alla furia irrazionale, carità religiosa, pietà storica, strazio esistenziale”.

Nel 1943 Rosina Di Veroli aveva 20 anni e abitava al numero 13 di Via Portico d'Ottavia. Rosina ha raccontato alla Shoah Foundation, in un'intervista dell'8 giugno 1998, di aver visto passare sotto le finestre di casa sua all'alba di sabato 16 ottobre proprio Elena che urlava: “Ebrei! Scappate, scappate ebrei”.  Altre testimonianze confermano la veridicità del fatto.

La famiglia Ceccarelli, proprietaria del ristorante Gigetto, fu svegliata dal trambusto e dalle grida della piazza e, sbirciando dalle imposte socchiuse del numero 21 proprio accanto alle rovine del Portico di Ottavia, vide arrivare i camion tedeschi.  Secondo le testimonianze di Armando e Franco Ceccarelli rese il 10 aprile 2015 Elena la matta fu spinta dove erano concentrati i camion verso il teatro di Marcello mentre cercava di ribellarsi e un tedesco che le stava dando dei colpi alla schiena con il calcio del fucile.

Diverse testimonianze permettono di ricostruire la successione degli eventi di ciò che successe alla donna il 16 ottobre 1943. Probabilmente uscì di casa all'alba per rifornirsi di sigarette da vendere al mercato nero, in strada seppe del rastrellamento. Prima corse dai figli a Trastevere e poi al Portico d'Ottavia per avvisare il resto della famiglia e tutti quelli che poteva. In piazza Giudia vide la cognata catturata con i nipoti e si consegnò spontaneamente per seguirli.  Alle 14 la retata era conclusa e gli ebrei romani catturati furono condotti al Collegio Militare, presso il carcere di Regina Coeli. All'alba del 18 ottobre gli ebrei romani vennero caricati a scaglioni su camion condotti alla stazione Tiburtina e da lì trasferiti su un convoglio di 28 carri che trasportava circa 1000 ebrei tra uomini, donne, bambini diretti al Brennero. Dai documenti conservati presso il museo e l'archivio di Auschwitz risulta che 47 donne non assassinate all'arrivo furono immesse nel campo con numeri di matricola compresi tra 66172 e 66218. Tuttavia, l'immatricolazione di Elena è considerata dubbia da Liliana Di Porto[3] e non è quindi certo se superò la selezione iniziale del 23 ottobre e fu immatricolata o fu eliminata all'arrivo. I documenti a disposizione compresi quelli degli archivi di Auschwitz e di Bad Arolsen non conservano nulla sulla sua sorte. All'inizio del 1947 la questura di Roma confermò ufficialmente che era stata deportata in seguito al rastrellamento del 16 ottobre e non aveva più fatto ritorno. I documenti raccolti dal colonnello Massimo Adolfo Vitale, direttore del Comitato Ricerche Deportati Ebrei a partire dal 1946 e oggi conservati al Centro di Documentazione Ebraica di Milano certificano il fatto che Elena avesse preventivamente avvertito dell'arrivo dei nazi- fascisti.

Da Debenedetti in poi la letteratura e il cinema italiani hanno dimostrato una certa fascinazione per la figura della matta del Ghetto. A cominciare dal personaggio di Rosa interpretato da Paola Borboni ne L'oro di Roma di Carlo Lizzani. La donna nella sceneggiatura originale del film, temendo il rastrellamento degli ebrei maschi irrompe come una pazza nel Tempio durante la raccolta dell'oro urlando di terrore. Un'altra opera in cui è presente la figura della folle ebrea è La Storia di Elsa Morante in cui compare il personaggio di Vilma:

 

Una ragazza invecchiata tratta là in giro come una mentecatta. I muscoli del suo corpo erano sempre inquieti, e lo sguardo, invece, estatico, troppo luminoso. […] Da qualche tempo Vilma, attraverso i suoi giri quotidiani di faticante, riportava nel Ghetto delle informazioni strane e inaudite, che le altre donne rifiutavano come fantasie del suo cervello […]Affermava di aver udito lei stessa, da un sottoufficiale dei Carabinieri, che secondo la legge dei tedeschi gli ebrei erano pidocchi, e andavano tutti sterminati […]Dicono che alla vigilia di quel giorno, Venerdì 15 ottobre sul far della sera, Vilma fosse accorsa piangente e trafelata nel piccolo quartiere giudio, chiamando a gran voce dal basso le famiglie, che a quell'ora stavano raccolte in casa per la preghiera del Sabato. Come un'aralda stracciona, correndo in pianto per le straducciole, essa scongiurava tutti quanti di fuggire […] perché l'ora della strage (da lei preannunciata tante volte) era venuta, e sull'alba i tedeschi arriverebbero con i camion: e la sua Signora aveva perfino veduto le liste dei nomi...Non pochi si affacciarono alle finestrelle, ai suoi gridi, e alcuni scesero giù dabbasso ai portoni; ma nessuno le credette.

 

 Evidentemente Morante è debitrice nella costruzione del personaggio a 16 0ttobre 1943 di Giacomo Debenedetti, come lei stessa confermava nelle note in coda all'opera e come è stato messo in luce da Monica Zanardo[4] nel suo studio fondamentale sui manoscritti della scrittrice.

 

Libro 2

 

Carlo Greppi, Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo, Bari-Roma, Laterza, 2023

 

Classi di riferimento: IV – V anno di scuola secondaria superiore nell'ambito di un progetto interdisciplinare sulla Shoah

 

Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo è un libro di Carlo Greppi, edito da Laterza. Si tratta di un' approfondita ricerca documentaria che ricostruisce la  biografia di Lorenzo, l'uomo che contribuì alla salvezza di Primo Levi portandogli delle zuppe e  delle brodaglie tutti i giorni per sei mesi.  Egli era un “lavoratore civile”, per questo viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III- Monowitz ed era piemontese, originario di Fossano nel Cuneese. Levi ne scrisse delicatamente in “Se questo è un uomo, in Lilìt e altri racconti e in due passi de I sommersi e i salvati, ma sempre omettendone il cognome. Come scrisse Primo Levi: Lorenzo taciturno, povero, burrascoso e quasi analfabeta, «era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo»[5].

La nascita di Lorenzo, avvenuta l'11 settembre 1904 è registrata all'Ufficio di stato civile di Fossano con il cognome Perone, tuttavia Lorenzo si firmò sempre Perrone con due “r” probabilmente per l'inflessione dialettale data al cognome Perùn di cui veniva marcata la “r” fino a raddoppiarla.

Come è dettagliatamente ricostruito da Carlo Greppi, negli anni Trenta Lorenzo attraversò più volte il Colle delle Finestre e i valichi del contrabbando, andando in Francia a lavorare illegalmente in Costa Azzura, a Tolone, a Embrun.  La frontiera tra il nord- ovest dell'Italia e il sud-est della Francia tra gli anni Venti e Trenta era percorsa da pastori e battuta da colporteurs, venditori ambulanti, da ammaestratori di marmotte per le fiere di paese, da cavié, i raccoglitori di capelli (che compravano i dalle contadine per rivenderli a Parigi, ai fabbricanti di parrucche per l'alta borghesia), da bottai e da venditori di maglie di lana. Dopo il lavoro in Francia, nel 1942 il muradur di Fossano giunse ad Auschwitz dove avrebbe lavorato al cantiere della Buna, fondata nell'ottobre di quell'anno con l'obiettivo di produrre la BUNA (una gomma sintetica, acronimo di Butadien – Natrium- Prozes), benzina sintetica, coloranti, e sottoprodotti del carbone. Lorenzo arrivò al Lager I come lavoratore straniero che manteneva un Auweis, un documento d'identità che distingueva i robotcyni cudzoziemscy, i lavoratori stranieri, da un Häftling, un prigioniero. Il trasferimento in Polonia avvenne con la ditta italiana “G. Beotti”: le tre cartoline spedite da Lorenzo e conservate nell'archivio Primo Levi recano nell'intestazione il nome dell'azienda. Non si sa se nelle mansioni ricorrenti in Francia si qualificasse come semplice muratore, come terrasier – colui che nei cantieri scavava le fondamenta- come tagliapietre, tailleurs de pierre o come sciuers de long, segantino-taglialegna nei cantieri ferroviari.  In Polonia sarà semplicemente ‘maurer’, muratore.  La sua vita si sarebbe incrociata con quella di Primo Levi che, fattosi partigiano, tradito da un collaborazionista e catturato il 13 dicembre 1943 in «una spettrale alba di neve»[6] all'albergo Ristoro di Amay, in Valle d'Aosta, insieme a due amiche ebree torinesi, Luciana Nissim e Vanda Maestro e ad Aldo Piacenza, venne condotto ad Aosta e successivamente trasferito al campo di Fossoli. Martedì 22 febbraio 1944 iniziò il suo viaggio di deportazione. Da Fossoli, dopo cinque giorni, arrivò ad Auschwitz, ventidue mesi dopo l'arrivo di Lorenzo. Dei seicentocinquanta uomini, donne, bambini, anziani che erano stati caricati sul convoglio di Levi nel febbraio 1944 solo novantasei entrarono ad Auschwitz, gli altri furono immediatamente assassinati. I sopravvisuti iniziarono una lotta per la vita contro la fame, il freddo, il lavoro, le botte e il rischio di «morire di scarpe». Come ha raccontato Levi nel programma televisivo Sorgente di vita nel 1983:

 

Chi era sensibile alle infezioni moriva di scarpe, di ferite infettate ai piedi che non guarivano più. I piedi gonfiavano, più gonfiavano e più facevano attrito nelle scarpe; si finiva con l'andare all’ospedale, ma all'ospedale non erano ammessi come malattia, i piedi gonfi. Era troppo comune e chi aveva i piedi gonfi andava in camera a gas.

 

Come quelli di tutti, gli zoccoli di Levi erano spaiati, enormi, rumorosi, sporchi di fango e di grasso da macchina. Secondo il regolamento assurdo di Auschwitz ciascun prigioniero doveva spalmare sulle proprie “scarpe” questo grasso e lucidarle. L'ispezione quotidiana iniziava dalle scarpe. A Monowitz i lavoratori civili italiani erano in una condizione assimilabile a quella dei coatti, anche se alcuni si erano presentati al lavoro in maniera spontanea, come probabilmente era il caso di Lorenzo. Tuttavia, con il passare dei mesi, questi lavoratori furono sempre più in difficoltà e alcuni tentarono la fuga. A partire dal loro incontro nel giugno del 1944 Lorenzo portò cibo a Primo Levi e ad Alberto Dalla Volta, tutti i giorni, malgrado i gravi rischi che questo comportava. Come scrive Levi ne Il ritorno di Lorenzo, pubblicato nel 1981 nella raccolta Lilìt: «Alberto e io eravamo stupiti di Lorenzo. Nell'ambiente violento ed abietto di Auschwitz, un uomo che aiutasse altri uomini per puro altruismo era incomprensibile, estraneo, come un salvatore venuto dal cielo: ma era un salvatore aggrondato con cui era difficile comunicare». Lorenzo è sempre descritto come molto silenzioso, lo scrittore affermò di non avere quasi mai parlato con lui. In un'intervista del luglio 1985, sollecitato dalla «Paris Review», lo scrittore precisò: «[Lorenzo]rifiutava i miei ringraziamenti. Quasi non rispondeva alle mie parole. Scrollava solo le spalle: prendi il pane, prendi lo zucchero. Resta in silenzio, non c'è bisogno di parlare». Queste sono quasi le uniche parole pronunciate e riportate nei testi pubblicati tra il 1947 e il 1986 e sopra ricordati. Altre parole di dialoghi secchi furono citate da Levi in un'intervista Tv poco prima di morire: «E io gli ho detto: 'guarda che rischi a parlare con me'. E lui ha detto: ' non me ne importa niente'. ‘Guarda che è pericoloso, ti metto nei guai ‘, e lui aveva risposto ‘Cosa me ne frega’».

 Il nome dell'azienda piacentina Beotti per la quale Lorenzo lavorava si trova sulle cartoline da lui spedite e conservate all'archivio Primo Levi. Come è testimoniato da molti documenti conservati presso gli Arolsen Archives[7], molti lavoratori civili dai margini di Auschwitz inviarono comunicazioni a casa e, probabilmente, molti altri scritti giacciono sconosciuti agli storici in qualche archivio familiare e nelle cantine di mezza Europa. Le braccia al servizio del Reich – uomini più o meno alfabetizzati- cercarono di continuare a comunicare con i propri cari, ma non risulta che Lorenzo avesse inviato lettere a casa. Scrisse tuttavia una volta per conto di Primo Levi.

Levi narra l’episodio nel racconto Un discepolo, contenuto in Lilìt:

 

A giugno [1944] con spaventosa incoscienza, e con la mediazione di un muratore 'libero' italiano, avevo scritto un messaggio per mia madre nascosta in Italia, indirizzandolo a Bianca. Avevo fatto questo come si ottempera a un rituale, senza veramente sperare in un successo.

 

La cartolina è datata 25 giugno, secondo il timbro delle poste di Auschwitz, e mittente risulta Perrone Lorenzo, Gruppo Italiano Ditta Beotti. Da Auschwitz arrivò all'amica carissima, non ebrea, Bianca Guidetti Serra, in via Montebello 15 a Torino. Bianca era del tutto ignara dell'enormità di Auschwitz e Levi affermò nel racconto Il giocoliere di non essersi reso conto di quanto quella lettera fosse rischiosa per l'incolumità del suo complice.

La cartolina arrivò così tra le mani di Ada della Torre, cugina di Primo e della madre Ester Luzzati, detta Rina. La lettera di risposta partì da Torino seguendo il tragitto inverso, e «venne agosto con un dono straordinario per me: una lettera, da casa fatto inaudito», come ricordò Levi stesso.

La madre si firmò Signora Lanza. Partirono altre due cartoline scritte dal pugno di Lorenzo e da lui firmate, proprio mentre un pacco di viveri e indumenti spedito da Bianca dall'ufficio postale di Sassi, paese precollinare alle porte di Torino, la cui ricevuta è datata 9 agosto, percorreva l'Europa verso Auschwitz. Nella prima lettera, scritta da Lorenzo il 20 agosto e spedita il giorno seguente, Primo comunicava che si trovava bene, «la salute si mantiene ottima anzi con la buona stagione mi trovo meglio». Affermava che la sua padronanza del tedesco stava crescendo e che era «un gran vantaggio per il lavoro». Il deportato cercava insomma di rassicurare la famiglia sul fatto che stava lavorando, ma le comunicazioni erano difficili («stai tranquilla sul mio conto cerca di farmi sapere delle notizie di tutti ed abbi come me tanto coraggio e tanta speranza e ricevi un cordiale saluto e un forte abbraccio da chi sempre ti ricorda tuo Lorenzo»). Così Bianca rintracciò la madre e Anna Maria, la sorella di Levi, comunicando la straordinaria notizia che Primo aveva scritto.

Come ha affermato Levi stesso: «Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo». Così Levi ne I sommersi e i salvati sintetizza le concause che permisero a qualcuno di uscirne. Nel capitolo intitolato Comunicare ricorda che l'isolamento dal mondo e in generale la comunicazione «mancata e scarsa» faceva soffrire gli internati, e che «il non soffrire, l'accettare l'eclissi della parola, era un sintomo infausto: segnalava l'approssimarsi dell'indifferenza definitiva».

Il contributo di Lorenzo al contatto con il mondo perduto. Fu decisivo, dunque, quanto i litri di zuppa portati a Primo e ad Alberto: «So che è stato uno dei fattori che mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho detto prima, ognuno di noi superstiti è per più versi un'eccezione; cosa che noi stessi, per esorcizzare il passato, tendiamo a dimenticare»[8].

 Come afferma Levi inVizio di forma, il male non contagiava chiunque e ovunque, laggiù c'è chi aveva «la ragione, la pietà, la pazienza, il coraggio per combatterlo. Tra il grigio brillava qualcosa si poteva trovare “l'altro capo del filo”, una persona amica»[9].

Come Levi raccontò ne L'ultimo Natale di guerra, arrivò un pacco dall'Italia mandato dalla sorella Anna Maria e dalla madre Rina attraverso una catena di amici, il cui ultimo anello era Lorenzo Perrone. Il pacco conteneva cioccolato autarchico, biscotti e latte in polvere e così, con quel dono che lo aveva raggiunto, non si sentiva più solo e aveva stabilito un legame con il mondo di  fuori.

Come ha ben ricostruito Greppi l'arrivo del pacco è testimoniato dalla terza e ultima cartolina scritta e spedita da Lorenzo il 1° novembre del 1944, e giunta a destinazione a Bianca Guidetti Serra, nella quale si parla al plurale:

 

Carissima Abiamo finalmente ricevuto quanto da tempo attendevo poi immaginare che gioia la salute si mantiene buona malgrado i primi freddi e il morale stabile ti prego di informare la famiglia dellavolta di brescia ti prego sempre sempre ti sogno notti intiere di te e la nostra casa e la nostra vita come era e speriamo sara ancora Dio voglia che ci possiamo ritrovarci presto ti prego ti far tanto che puoi perche io o tanta fiduccia in te e ricevi un cordiale saluto da chi sempre ti ricorda tuo affezionatissimo [sic].

                                                                      Lorenzo. Addio

                                                                              ciau

 

Il 21 Gennaio 1945, sei giorni prima dell'arrivo dell'Armata Rossa, Lorenzo lasciò Auschwitz. Come racconta Levi ne Il ritorno di Lorenzo lasciò Monowitz in fretta e furia perché «sapeva che i russi stavano per arrivare, ma di loro aveva paura. Forse non a torto: se li avesse aspettati sarebbe rientrato in Italia molto più tardi, come infatti successe a noi». Aveva con sé una carta ferroviaria con indicate le stazioni fino ad Auschwitz, camminava di notte, puntava verso il Brennero, si orientava con le stelle. Mangiava patate rubate nei campi, dormiva nei fienili, si fermava nei villaggi facendo qualche lavoretto da muratore e poi ripartiva. Camminò per quattro mesi. Arrivò In Italia via Tarvisio il 17 aprile 1942.  Aveva l'indirizzo della madre di Levi e, così, andò da lei a Torino, non sapeva mentire e, subito, le disse che si doveva rassegnare e non illudersi perché gli ebrei di Auschwitz erano morti tutti, nelle camere a gas, sul lavoro, uccisi dai tedeschi in fuga ed aveva inoltre saputo dai compagni che, al momento dell'evacuazione di Auschwitz, Primo era ammalato.

Quando arrivò a casa a Fossano la madre quando lo vide, non lo riconobbe e gli disse in dialetto: «Còsa vol chiel?» . E lui rispose: «Ma Mama, son Lurenz».

Era tornato, ma non tornato veramente: Lorenzo non disse a nessuno cosa vide e cosa fece ad Auschwitz, viveva come capitava, quasi non mangiava più, era preda dell'alcool e di un silenzio impenetrabile. 

Come ha ricostruito Greppi forse a fine ottobre e sicuramente entro il 3 novembre 1945 Levi andò a Fossano a cercare Lorenzo - questo era un suo obiettivo - essendo sopravvissuto voleva rivedere chi aveva contribuito alla sua salvezza.  In quell'occasione gli portò un oggetto simbolico in regalo, si trattava di una maglia fatta ai ferri, bianca, di lana di capra, con un bordo rosso sul collo. Quella maglia ricordava quella che gli donò ad Auschwitz e gli salvò la vita.  Lorenzo la conservò fino alla morte, probabilmente senza mai indossarla. Come successivamente affermò Levi, lo trovò stanco «di una stanchezza senza ritorno». Non faceva più il muratore, girava per i cascinali con un carrettino a raccogliere ferri vecchi come rigattiere, non voleva regole, padroni, orari, spendeva quello che guadagnava all'osteria, sentiva il mondo in rovina e non gli interessava più vivere, era un uomo molto sensibile e dopo Auschwitz molto infelice. Pronunciava Auschwitz “Au- Schuiss” e aveva una vaga idea geografica di dove fosse, però ne aveva conosciuto la realtà. Levi cercò di aiutarlo in ogni modo, ma tutto fu vano.  Quando Se questo è un uomo fu dato alle stampe l'11 ottobre del 1947 e gli arrivarono le prime copie, subito, ne portò una a Lorenzo. Quella copia è andata perduta e, purtroppo, non sappiamo se contenesse una dedica particolare.

Caterina, sorella di Lorenzo, identificava il fratello con il suo lavoro che rappresentava la parte non corrotta di lui e così conservò di lui solo le poche fotografie e i documenti di lavoro.  Distrusse e fece sparire la gamella di stagno della zuppa, la maglia di lana di capra e i libri (tra cui la copia di Se questo è un uomo). Alla fine, anche le lettere di Levi, i cui contenuti testimoniavano gli intenti autodistruttivi di Lorenzo vennero distrutte da qualche membro della famiglia poco dopo la sua morte. Tra il 1950 e 1951 le sue condizioni di alcolista e tubercolotico peggiorarono sempre di più.  Durante il periodo di ricovero ospedaliero Levi lo andò a trovare ogni settimana.

Lorenzo morì il 30 aprile 1952. Sulla sua morte è cruciale la testimonianza scritta che don Carlo Lenta, cappellano dell'Ospedale di Fossano rilasciò per la pratica di Yad Vashem[10]. Lorenzo Perone morì nell'ospedale di Savigliano, ebbe sepoltura civile a Fossano il 2 maggio. Quando arrivò la salma proveniente da Savigliano davanti alla Chiesa di S. Giorgio in Via Garibaldi a Fossano, Primo Levi prese la parola, per ringraziare pubblicamente l'uomo ricordato nei sui scritti come “Il signor Lorenzo”, che gli aveva salvato la vita quando tra il giugno e il dicembre del 1944 era nel campo di Buna- Monowitz (Auschwitz III). Si sa che Primo Levi pronunciò in quell'occasione un discorso di poche parole che non sono state registrate e trascritte con precisione. Si sa che disse tra l'altro: «Credo che se oggi sono vivo lo devo a Lorenzo”.

Negli anni '60 Levi continuò a mantenere un legame morale con Lorenzo, andando a Fossano per incontrarne i familiari.

Lo scrittore ritornò sulla storia di Lorenzo nella versione teatrale di Se questo è un uomo, del 1966/67, ne Il ritorno di Lorenzo del 1981, ne I sommersi e i salvati del 1986 e in numerose interviste, soprattutto negli anni '80.

 Un anno prima di morire in un'intervista rilasciata a Rosenfeld, che fu successivamente inserita nella documentazione per lo Yad Vashem, lo scrittore affermò che «Lorenzo aveva aiutato altri due o tre prigionieri, non italiani: un francese, un polacco e via discorrendo». Nell'articolo in origine intitolato Nomi e leggende dello scoiattolo, uscito su “La Stampa” nel 1980, Levi rivelò per la prima volta il cognome di Lorenzo, ma solo con l'intervista a Bocca del 1985, anno in cui uscì il volume L'altrui mestiere, con il racconto intitolato Lo scoiattolo, si sarebbe avuta la certezza che parlava proprio di lui.

 

 

 21 dicembre 2023

 


[1]   Capare nel significato di scegliere, mondare detto della verdura, del riso è voce dell'uso centro- meridionale

[2]   Il termine urtista sinonimo di peromante o ricordaro indica a Roma il venditore di souvenir per la strada e deriva dal piccolo urto dato ai pellegrini e ai viandanti per attrarre la loro attenzione con la cassetta detta schifetto piena di Santi, papi, Madonne e portata al collo con una cinghia di tela.

[3]   L. Picciotto, Il Libro della Memoria. Gli Ebrei deportati dall'Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 1991.

[4]          M. Zanardo, Il poeta e la grazia. Una lettura dei manoscritti della “Storia” di Elsa Morante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017

[5]   P. Levi, Se questo è un uomo, in Idem, Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, vol.  I, p. 235.

[6]   P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere, cit., p. 141 (assente nell'edizione del 1947).

[7]   Gli Archivi di Arolsen sono un centro internazionale di documentazione, informazione, ricerca sulla persecuzione nazista, il lavoro forzato, la Shoah nella Germania nazista e nelle regioni occupate. Ha sede a Bad Arolsen, in Germania. L'archivio contiene circa 30 milioni di documenti.

[8]   “I sommersi e i salvati “ in “ Opere complete, II, p. 1210

[9]   Intervista a Primo Levi 27 gennaio 1983

 

[10] Yad Vashem è l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme ed uno dei suoi compiti assegnati è quello di rendere omaggio e commemorare i Giusti per le Nazioni, uomini e donne non ebrei, che rischiarono la vita senza interesse personale per salvare anche solo un ebreo. Per avviare la pratica di accertamento dei requisiti di nomina e del successivo riconoscimento di Giusto è necessario redigere delle testimonianze attraverso delle indicazioni precise che devono essere inviate alla commissione di Yad Vashem per la valutazione.