Elisa Zimarri - Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli

Un percorso di lettura a scuola

 

Classi di riferimento: IV – V anno di scuola secondaria superiore

 

Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di Carlo Levi la casa editrice Einaudi ha ripubblicato Cristo si è fermato ad Eboli in una nuova edizione, disponibile da maggio 2025. Ѐ un libro che ha goduto in passato di una certa fortuna scolastico-didattica e alcune pagine famose continuano ad essere presenti in antologie del biennio e del triennio. Il cinquantenario potrebbe essere tuttavia l’occasione per riproporre una lettura integrale del capolavoro di Carlo Levi.

Come è noto, il libro tratta della società chiusa, arcaica, segnata dalla povertà (esclusa non solo dal processo del Moderno, ma dalla Storia stessa) che Levi conobbe nel suo periodo di confino trascorso in paesi sperduti della Lucania. Nel macrocontesto della programmazione didattica, il libro è ascrivibile ai testi di testimonianza stesi per ricordare eventi drammatici legati alla Guerra o alla Resistenza, al confino o alla prigionia, come Mai tardi di Nuto Revelli, I più non ritornano di Eugenio Corti e Fuga in Italia di Mario Soldati. In terra lucana il pittore–intellettuale torinese venne a contatto con una realtà profondamente ‘altra’ cui egli si accostò con una curiosità e un interesse che richiamano quelli dell’antropologia e dell’etnologia scientifica. Il carattere stilisticamente e contenutisticamente composito del libro (difficilmente classificabile in un genere codificato), capace di coniugare storia, descrittività sperimentale, anedottica e vita vissuta, ne fanno un testo particolarmente interessante sul piano delle potenzialità didattiche. 

Carlo Levi ricostruì un quadro di realtà tenuto fino ad allora in ombra. La pubblicazione contribuì a far conoscere ai lettori italiani del dopoguerra la realtà di vita della Basilicata degli anni '30. La rilettura oggi del romanzo si può affiancare ad approfondimenti storici molteplici. Basti, tra i tanti possibili, al fenomeno del brigantaggio, che – come testimonia Carlo Levi – a distanza di decenni dai fatti (quando, all'indomani dell'unificazione italiana, molte popolazioni del Sud si ribellarono contro lo Stato oppressivo dei Piemontesi) fu trasformato dai contadini lucani in una vera e propria epopea. L’opera si può poi naturalmente iscrivere in quella rinascita della ‘questione meridionale’ che, tra il “Politecnico” di Vittorini e la figura di Rocco Scotellaro (1923-1953), fu un aspetto importante della cultura italiana dell’immediato dopoguerra.

 

Il libro scritto in prima persona trae spunto dall'esperienza vissuta da Carlo Levi, torinese di nascita, durante il suo confino per attività antifascista in Lucania (Basilicata), prima a Grassano e  successivamente ad Aliano (Gagliano nella narrazione dello scrittore), dall'estate del ' 35 alla primavera del '36. Amico degli intellettuali antifascisti Piero Gobetti e Carlo e Nello Rosselli, tra il 1931 e il 1933 Carlo Levi, che si affermò ancora molto giovane come pittore di fama europea, era spesso a Parigi: ciò gli aveva consentito di stabilire contatti tra gli antifascisti torinesi in clandestinità e i fuoriusciti italiani in Francia, assumendo una leadership di fatto nella cospirazione antifascista torinese. Arrestato una prima volta nel 1934, fu rilasciato e sottoposto a un provvedimento restrittivo della libertà di circolazione. A un anno di distanza fu nuovamente fermato e condannato a tre anni di confino. Nell'agosto del 1935 arrivò a Grassano (Matera) nelle vesti di medico, pittore, intellettuale antifascista e non ancora scrittore. A settembre venne trasferito ad Aliano, sempre nel Materano, dove rimase per otto mesi fino al 26 maggio 1936. I provvedimenti di clemenza adottati dal governo fascista per celebrare la proclamazione dell'Impero, avvenuta dopo la conquista dell'Abissinnia lo rimisero in libertà nel maggio 1936. Secondo una nota d’autore contenuta nel manoscritto autografo del testo (su cui vd. infra) il libro fu scritto tra il dicembre 1943 e il luglio 1944 a Firenze, dove Levi viveva nascosto (il capoluogo toscano fu liberato dagli alleati soltanto nella piena estate del ’44). Fu pubblicato da Einaudi nel settembre 1945.

L'opera, al momento della sua pubblicazione, alimentò un dibattito di natura sia ideologica che estetica all'interno della Sinistra italiana, tanto da fare dell’autore un protagonista di primo piano della cultura di quegli anni. Anche se assimilato dai contemporanei alla narrativa neorealista, il Cristo è invece intessuto di materiale antropologico  e si avvicina di più alle indagini etnologiche condotte da Ernesto De Martino (1908-1961) sul mondo agricolo  del Sud Italia e sulla sopravvivenza di ancestrali rituali magico protettivi e terapeutici. Una vicinanza di interessi e sensibilità, quella tra Levi e De Martino, che trovò nella cosiddetta ‘collana viola’ di Einaudi (voluta da Cesare Pavese) un importante coagulo (Il mondo magico, una delle opere più celebri di De Martino, fu pubblicata da Einaudi nel 1948). Per ambedue il confronto con la Lucania si tradusse nella scrittura di un'esperienza di solidarietà umana e di curiosità per quel mondo contadino, remoto e ancestrale, interpretato e vissuto nel rispetto della sua profonda alterità. De Martino descrive un mondo chiuso nel dolore, lontano dallo Stato e dallo sviluppo, in cui persistono i fenomeni della magia, della lamentazione, della possessione e degli eventi rituali legati alle feste popolari. In una spedizione in Lucania nel 1952 De Martino mise in pratica le informazioni contenute in Cristo si è fermato a Eboli concernenti la magia e le usò come una guida verificata e specificata sul campo dagli studi etnografici. Sia Levi che De Martino delineano un mondo magico intessuto di compartecipazione affettiva e da una indistinta continuità tra uomo e natura, in cui sofferenza, morte, malattia e amore sono accomunati dal lessico esperienziale del romanziere e dell'etnologo.

 

Carlo Levi veniva da una città industriale come Torino e si trovò a vivere in una terra oscura e immobile, percorsa da presenze magiche e superstizioni, tra persone e animali che scontavano con “vuota pazienza”[1] e “ostinata rassegnazione” sofferenze senza peccato, né redenzione. Una terra che era sempre stata attraversata da conquistatori, nemici o visitatori incompensivi.

Il romanzo è al contempo un memoriale dell'anno di confino e un documento delle difficili condizioni di vita e di emarginazione del meridione, visti con un atteggiamento complesso, in cui la partecipazione umana si mescola con il distacco quasi scientifico dell’osservatore. Il titolo, per la sua suggestione evocativa, ha contribuito non poco al successo del libro: la civiltà non è mai arrivata qui, in un mondo serrato nel dolore e negli usi. Un mondo negato alla Storia e allo Stato, ma si è fermata a Eboli, soltanto a pochi chilometri dal mare campano, “dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania” e dove l'universo culturale contadino è ancora pagano, se si intende il cristianesimo come manifestazione culturale a istituzionale strettamente annodata al processo di sviluppo della civiltà europea. Il romanzo è stato scritto negli anni della Resistenza e del Neorealismo quando il genere romanzo doveva rispondere a obiettivi di impegno civile e politico. Ѐ un tratto che bene si manifesta nel ritratto impietoso della società meridionale, dove allo sfruttamento dei contadini corrisponde il ceto retrivo e culturalmente depresso dei “luigini”,[2] termine destinato a diventare un vero e proprio idealtipo sociologico: quello di una piccola borghesia meridionale parassitaria, ignorante e priva di intraprendenza, nella quale Levi vede l’espressione storicamente più significativa del mancato sviluppo economico-civile del Sud, rimasto escluso da quel processo che la borghesia europea (in questo senso forza sociale ‘progressiva’) aveva promosso durante l’età moderna.

Emerge nell'opera il ritratto di un'Italia sconosciuta e c'è una finalità di denuncia che si riscontra soprattutto in alcune sezioni del volume, in particolare quella dedicata alla visita alla sorella o nelle pagine conclusive, di taglio più marcatamente saggistico, nelle quali si presenta l'analisi impietosa della questione meridionale. La Lucania appare una zona d'Italia immobile da secoli, tormentata dalla malaria, dall'insufficienza alimentare, da precarie condizioni igieniche, un'altra faccia dell'Italia negata o nascosta dalla propaganda fascista. L'obiettivo di divulgare quanto vide di persona indusse Carlo Levi a fornire alla sua testimonianza–documento un solido impianto realistico, tra reportage e cronaca. La sintassi chiara, lineare e la lingua piana senza il ricorso al dialetto che avrebbe limitato la comprensibilità del testo, immergono il lettore in un mondo magico e primitivo di credenze superstiziose, di tradizioni ancestrali. Lo scrittore osserva e descrive il mondo circostante con rispetto, sostanziale adesione, accettando e non giudicando e facendosene interprete. Le credenze e le pratiche magiche sono realtà quanto il lavoro nei campi: Giulia, la domestica “strega” che vive accanto al protagonista per mesi è una rappresentante di questa realtà inquietante e misteriosa. L'atteggiamento del narratore comporta di fatto l’accettazione della sua presenza da parte della comunità contadina di Gagliano (“Tu sei gaglianese ormai...Resta con noi contadini”). La sua sensibilità culturale e socio-politica gli hanno infatti consentito di capire la mentalità arcaica del paese, mentre i notabili del luogo, dal podestà, ai medici, a don Luigino, non mostrano altro che ostentazione di disprezzo.

Il confinato arriva al paese “scaricato” e “consegnato”, come un oggetto recapitato, in un contesto di spaesamento e alienazione senza alcuna preparazione pregressa. Appena arrivato a Gagliano, un paese che “non si vedeva arrivando” e che “ terminava nel vuoto”, quasi sospeso “ sullo stretto ciglione di due burroni”, il narratore è colpito dalla vista di drappi neri ovunque. Un drappello di persone ossequiose lo accolgono come uomo venuto dal Nord e portatore di una cultura sentita come superiore e richiedono il suo aiuto di uomo di scienza e di città per salvare un compaesano colpito da febbre malarica (“avevano saputo subito in Municipio del mio arrivo, e avevano sentito che io ero dottore”). Tutti lo trattano con rispetto e deferenza: entrano con timidezza nella casa che lo ospita, lo incontrano indossando il vestito buono e praticano il baciamano.

Nel paese si diffonde la sua fama di medico e pittore e molti si rivolgono a lui in cerca di cure e lo osservano con curiosità crescente. Levi evita di intrecciare rapporti con i notabili del paese, invischiati in meschini giochi di potere, mentre con i popolani e con la massa popolare entra in un rapporto di pudica confidenza. L'intellettuale illuminato che si sente a radicale distanza dal mondo contadino ne subisce la fascinazione e alla fine lo percepisce come sedimento arcaico e imperscrutabile che agisce sul fondo di ogni essere umano. Quando, amnistiato, si prepara a partire, Carlo Levi è colto da malinconia e sul treno che lo riporta a casa ripensa con “affettuosa angoscia” alla “nera civiltà” che ha appena abbandonato (sull’importanza dell’aggettivo, che segna il primo contatto con il paese, e che ritorna nella pagina conclusiva del libro vd. infra).

Levi stesso nella presentazione all'edizione del Cristo del 1963 afferma che “Cristo si è fermato ad Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità, [...] per diventare infine e apertamente racconto[...]”.[3]  Il manoscritto, composto tra il settembre 1943 e il 18 luglio 1944 nella casa di Annamaria Ichino, rimase lì per vent'anni, regalato dall'autore in segno di gratitudine per l'ospitalità ricevuta e fu acquistato nel 1962 dall'Università di Austin nell'ambito dell'Italian Project.[4] Dopo la pubblicazione nei “ Saggi” di Einaudi nel 1945, uscì una seconda edizione nel 1946 della stessa casa editrice, che ristamperà il romanzo nel 1947 e nel 1963, con una nota dell'autore all'editore. Il libro si muove secondo due direttrici: quella emotiva e psicologica su base irrazionale e quella saggistica documentaria di forte marcatura ideologica. Ѐ una discesa nella barbara innocenza della società contadina che disvela il suo diritto a continuare ad esistere nei modi che le sono propri da sempre e che affondano nel mito. Già in Paura e libertà (un saggio filosofico scritto nel 1939, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, ma pubblicato solo nel 1946, anche sull’onda del successo del Cristo) Levi aveva parlato, in termini riconducibili al concetto junghinao di ‘archetipo’, dell’“l'indistinto originario, comune agli uomini tutti” di cui ognuno di noi conserva in sé un barlume.

Alla componente saggistica del Cristo si collega la denuncia dell'autore delle colpe intrinseche della gestione statuale e governativa che ha sempre esercitato violenza sul popolo contadino attraverso la corrotta amministrazione politica locale affidata a una piccola borghesia fisicamente e moralmente degenerata a cui lo Stao permette di perpetuare soprusi e angherie di tradizione feudale. Le rivolte periodiche che hanno segnato la storia di queste terre, non hanno mai sortito “rivoluzioni”, ma hanno soltanto espresso una volontà di giustizia elementare. Non a caso il periodo del brigantaggio postunitario è vissuto dai Gaglianesi come un momento ‘alto’ della loro storia: “la sola guerra senza ordine militare, senza speranza” che rimaneva “in cima al cuore di tutti, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito”. Un fenomeno che Levi non può che condannare, ma che interpreta come il naturale tentativo della civiltà contadina di difendersi “contro la Storia e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti”.

Natalia Ginzburg sottolineò l'inclinazione pittorica di Levi e affermò che durante la lettura dell'opera ebbe “la sensazione […] che lui scrivendo non raccontasse, ma dipingesse e cantasse”.[5]

L'andamento periodale a segmenti paralleli conferisce alle immagini uno spessore fisico e metafisico, documentario e mitico. Si veda una frase come “i ragazzi correvano, i cani abbaiavano, tutto era in movimento”, dove l'uso dell'imperfetto e del presente storico bloccano la vicenda nel tempo cristallizzato, monotomo e uniforme proprio del subconscio. Il lessico è composto di termini spesso ricorrenti che si caricano di sfumature diverse e schiudono ogni evento al doppio senso che la fantasia contadina attribuisce al tutto circostante. Al suo interno gli aggettivi a maggior frequenza sono: nero, fosco, chiuso, fermo, remoto nelle loro varianti che non solo connotano l'aspetto e l'atteggiamento psicologico dei contadini ma attingono all'area semantica a cui attinge l'autore[6] nel parlare di sé: “Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori dal tempo...Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza di un albero...” (corsivi nostri). Il linguaggio allusivo si riflette in similitudini e metafore che risaltano in certi paesaggi: “Vennero le piogge, lunghe, abbondanti, senza fine: il paese si coprì di nebbie biancastre che stagnavano nelle valli: le cime dei colli sorgevano da quello sfatto biancore, come isole su un informe mare di noia. Le argille cominciarono a sciogliersi...grigi torrenti di terra in un mondo liquefatto”. Il ritratto dei personaggi si costruisce attraverso caratteristiche fisiche e interiori, come nel caso di Giulia, la strega contadina, la cui fisicità è resa dal ricorso a paragoni animali, che ne sottolineano il contatto profondo con il mistero biologico della natura, tra il balenio degli occhi neri e dei denti (“bianchissimi, potenti come quelli di un lupo”), una donna che aveva “una fredda sensualità, una oscura ironia, una crudeltà naturale ...”, “un'antichità più misteriosa e crudele”, “una consapevolezza passiva, senza pietà o giudizio morale”, che la rendeva “come le bestie, uno spirito della terra”.

Carlo Graziadio Levi nacque a Torino il 29 novembre 1902, la madre Annetta apparteneva alla famiglia benestante dei Treves, era sorella del neuropsichiatra Marco, allievo di Cesare Lombroso e sorella di Claudio Treves, giornalista e socialista piemontese. Il padre Ercole era un ottimo pittore dilettante, amico degli artisti della Scapigliatura milanese e di Pellizza da Volpedo. I genitori appartenevano alla media borghesia ebraica. Il padre era rappresentante di una ditta inglese di tessuti, non frequentava in modo assiduo la sinagoga ma riuniva i parenti davanti a una cena ebraica e alla lettura dell'Haggadah.[7] Tutte queste figure familiari contribuirono a formare la sua personalità. Il suo meridionalismo prese avvio negli anni Venti e coincise con il progetto di trasformazione democratica dello Stato elaborato dal mondo intellettuale gobettiano e antifascista nel primo dopoguerra. Grazie alla vasta cultura meridionalista, basata sul pensiero di Salvemini, Fiore, Fortunato, Dorso, Gramsci e Gobetti, Levi delineò l’ideale di un autogoverno del mondo contadino, capace di sollevarsi e autogestirsi e non subire più lo Stato estraneo e ostile.

Levi fu prima di tutto pittore e dopo gli insegnamenti del padre Ercole su alcune tecniche pittoriche cominciò a dipingere ininterrottamente. Nell'aprile 1923 fu invitato ad esporre un suo quadro il Ritratto del padre alla Quadriennale di Torino. Nello stesso anno conobbe, tramite Gobetti, il pittore Felice Casorati che si trasferì da Novara a Torino nella casa di via Mazzini in cu s'incontrarono giovani artisti tra cui Chessa, Galante, Menzio, Carrà e lo stesso Levi.

 

Come afferma Vanna Gazzola Stacchini:

 

Egli sentiva profondamente il legame con l'ebraismo dal punto di vista etico-sociale e storico, sebbene niente affatto dal punto di vista religioso. Apprezzava le tradizioni ebraiche e il senso della vita che in esso metaforicamente era contenuto e si rivelava; a quel bagaglio di tradizione era fortemente legata sua madre […]. Il padre fu invece contrario alle pratiche religiose ebraiche, talchè non fece circoncidere i figli e di conseguenza essi non avrebbero potuto adempiere ad altri doveri pubblici legati all'osservanza della tradizione ebraica, cioè il Bar mitzvah e il matrimonio religioso. Ma il bagaglio più sostanziale della coscienza ebraica non sparì mai in Levi e se non ereditò direttamente lo spirito religioso, ne accolse quel senso della vita che si era formato attraverso una storia religiosa [...].[8]

 

La sua posizione d'intellettuale, pittore e scrittore non fu condizionata dalla religione ebraica ma  come ebreo e come intellettuale europeo subì la coscienza della crisi della società europea. La perdita della libertà e la sua negazione legano Levi al mondo dei contadini del Sud, sottomessi e resi schiavi, a cui la libertà è negata, così l'artista come pittore e scrittore va alla ricerca della libertà. In quanto ebreo la ricerca della libertà è ricerca delle radici dell'uomo che nasce libero e che tale deve rimanere. L'uomo ha il diritto di essere libero per esserlo insieme agli altri e per gli altri. Cristo si è fermato a Eboli è il resoconto di un esilio in un certo senso evocativo del popolo ebraico che nell'esilio conosce se stesso. Il luogo dell'esilio è l'immensa solitudine del deserto. Levi definisce desolato il colle su cui sorge Grassanno, nelle sue parole “Grassano è bianco, in cima a un alto colle desolato come una Gerusalemme nella solitudine di un deserto”. La città Santa è la patria sognata in cui è dolce il ritorno, la saggezza dell'esilio è l'apertura all'altro e il rimanere coerenti con se stessi. Riconoscere il sé e riconoscere l'altro da sé. In quelle terre fuori dal tempo e dallo spazio Levi fa un viaggio interiore, un percorso di analisi per cercare e cercarsi. Tra gli spiriti del mondo contadino ritrova i segni di un passato biblico. L'artista attraverso l'arte, la pittura e la scrittura rende visibile e comprensibile ciò che non lo è e l'anima messianica conduce chi vive con noi alla libertà.

 

Non si salva il singolo ma la comunità tutta intera, secondo la morale ebraica: “un solo essere umano nel suo insieme rappresenta l'intera creazione”. Come ha affermato Bronzini:[9]

 

In fondo i contadini e i luigini di Gagliano gli riconoscevano una rappresentanza divina chiamandolo col titolo sacerdotale e, in genere onorifico di Don (Don Carlo). L'attrazione del primitivo e del magico, accompagnata da un profondo impulso di rigetto, che si farà sentire a distanza, fa parte della inclinazione che la religione giudaica prescriveva per le sfere irrazionali di vita, pensiero e azione. In Lucania, dove giunse da medico neofito, ricco di scienza ma privo di pratica, Levi fu mago e taumaturgo (e tale la gente lo voleva) più che medico istituzionale. In effetti egli, operando come operò, svolgeva (e aveva l'habitus di svolgere) la funzione del medico filosofo, che nel medioevo era per lo più riservata ad arabi ed ebrei. L'inclinazione per le scienze occulte e per le religioni orientali spunta e cresce da questa radice culturale”.

 

Il confino è una delimitazione, di fatto un carcere, se pure von circoscritto da mura e sbarre, ma da precipizi e calanchi. Qualche anno dopo l’esperienza del confino, nel 1941, Levi scrisse alla sorella Lelle, trasferitasi a Napoli con il marito, che se avesse voluto vivere al Sud avrebbe dovuto intraprendere un viaggio di “ritorno profondissimo all'indistinto originario”, per non rimanere “una visitatrice incomprensiva”.[10]

 

Cristo si è fermato a Eboli è costellato dai ritratti delle donne lucane: un universo femminile variegato di streghe, serve, mogli e contadine, tutte lontane dal desiderio di emancipazione femminile. Eppure, come osserva lo scrittore, Aliano era un paese fondato sul matriarcato, molti uomini emigravano in America in cerca di fortuna e non facevano ritorno, cosicché le donne, rimaste in paese, cercavano altri compagni e facevano altri figli. Scrive Levi:

 

l'autorità delle madri è sovrana, in paese ci restano molte più donne che uomini: chi siano i padri non può avere un'importanza così gelosa: il sentimento d'onore si disgiunge da quello di paternità, il regime è matriarcale.

 

Le scene collettive sono evocative d'immagini nella sua mente (“Stavano l'una vicino all'altra, parlavano tutte insieme, come uccelli. Fingevano di non guardarmi: ma ogni tanto sotto i veli i loro occhi neri si voltavano rapidi e curiosi dalla mia parte, e subito fuggivano, come animali del bosco”). Le individualità femminili non erano distinte ma sembravano uno stormo perchè tutte erano vestite allo stesso modo, indossavano un velo intorno al viso, una camicetta bianca, una gonna scura e larga a campana lunga a mezza gamba e uno stivaletto alto. I loro gesti erano sgraziati, non femminili (“Non mi parevano donne, ma soldati di uno strano esercito, o piuttosto una flotta di barche tondeggianti e oscure, pronte a prendere tutte insieme il vento nelle piccole vele bianche”). Non ricoprivano ruoli all'interno della comunità contadina e non si distinguevano per attività o mestieri particolari eccetto le streghe. C'erano oggetti, formule e riti magici per ogni occasione che Levi riteneva innocui ma psicologicamente salutari. Aliano era piena di streghe: donne che non seguivano la rigida morale, avevano figli illegittimi, conoscevano formule magiche per provocare malattie e morti, per togliere il malocchio e per fare innamorare. Tra queste si distingue Giulia Venere, “la Santarcangelese” perchè era originaria di Santarcangelo, “quel paese bianco, di là dall'Agri”. Era la domestica di Levi, aveva quarantuno anni ed aveva avuto, tra parti e aborti, diciassette gravidanze, da quindici padri diversi. Giulia è collegata a un'anfora, simbolo arcaico del femminile contenitore del segreto della vita. Il visivo conservava un'antica bellezza e un'eredità animalesca: il suo grande corpo e i denti bianchi come quelli di un lupo le conferivano un'aria feroce e la testa piccola e ovale, come quella di un serpente, attribuiva alla donna l'immagine di una furbizia silenziosa e un carattere diffidente. Ha la crudeltà naturale e necessaria delle bestie selvagge e il lupo e il serpente, a cui è viene associata dallo scrittore, ne rafforzano l'immagine malefica. Nella magia lucana il serpente è un essere sacro che incanta e affascina animali e persone, il suo alito è velenoso e il suo sguardo incanta la preda. Giulia appare come una sorta di sciamana (“Era, come le bestie, uno spirito della terra”) e divenne per Levi una presenza familiare insieme al cane Barone (“Questi due esseri, la strega e Barone, furono i compagni abituali della mia vita”).

Giulia è l'unica persona adulta del mondo contadino di Aliano a cui Levi fece un ritratto, infatti oltre a quelli di diversi bambini non esistono dipinti di uomini o donne del periodo di confino, sia perchè i contadini erano sempre al lavoro nei campi sia perchè secondo la credenza popolare un ritratto può sottrarre qualcosa alla persona ritratta, dalla quale il pittore assorbe il potere.

Diverse pagine dell'opera sono occupate dalle descrizioni dei bambini “pallidi, gialli per la malaria, con gli sguardi intenti, neri e vuoti”. Erano una ventina di ragazzini di diversa età, molto curiosi tanto da seguirlo dentro la sua casa dove imparavano a scrivere o provavano a dipingere. Discutevano tra di loro per chi avrebbe avuto l'onore di portargli la cassetta dei colori, il cavalletto e la tela per dingere en plein air. Quando vedevano i loro ritratti erano “orgogliosi di vedersi dipinti” come i bambini davanti allo specchio che identificano se stessi con l'immagine riflessa. In un passo del Cristo Levi li rappresenta “immersi in quel fuggente e misterioso mondo animale nel quale vivevano, come capre svelte e fugaci, i loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città, simili in tutti i paesi: i fruschi soli erano i loro compagni”.[11] Il mondo d'intimità che s'instaurava tra la popolazione lucana e gli animali e il rapporto molto particolare che avevano i bambini con la natura colpivano particolarmente Levi e ciò era connesso con la radice culturale ebraica in base alla quale attraverso l'intesa con la natura l'uomo perviene all'armonia con il mondo. Nel mondo contadino “tutto partecipa della divinità tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra...”. Il rapporto con gli animali non è inteso come una regressione o un gioco infantile, ma il contatto e la fusione con il mondo naturale ci riporta a una dimensione in cui possiamo dilatare il pensiero nell'universo dei simboli. Levi fece una serie di ritratti di bambini da soli o con i loro animali, agnelli, cani, capre, volpi. Uno di questi bambini è il capitano, figlio maggiore dell'albergatore Prisco, di cui Levi fu ospite. Era un ragazzo di tredici o quattordici anni, zoppo, piccolo di statura, molto astuto, dagli occhi “sfavillanti, sensuali insieme e furbissimi”. Un altro bambino che Levi ritrasse tra le pagine del romanzo fu Giovannino:

 

un ragazzo bianco e nero, con degli occhi rotondi e un viso stupito sotto il cappello da uomo, figlio di un pastore, che non si separava mai da una capra fulva, con gli occhi gialli, che lo seguiva dappertutto come un cagnolino. Quando veniva a casa mia con gli altri bambini, anche la capra Nennella entrava nella mia cucina, annusando, desiderosa di sale.[12]

 

Esisteva la credenza della doppia natura uomo-animale per cui c'era la donna-vacca, l'uomo -lupo, l'uomo – vacca, il cane Barone – leone e gli animali erano maiali con il volto da vecchi, scrofe che urlavano come ragazze paurose e capre dal sorriso maligno. Possono essere ritratti sia attraverso la scrittura che la pittura come esseri umani reali anche animali reali come il gufo Graziadio, il gatto Paolino, la capra Nennella, il cane Barone – Baruch. Il bambino più piccolo che lo seguiva era Antonio, il figlio della Paroccola, “aveva forse cinque anni, una grossa testa rotonda, col naso corto  e la bocca carnosa su un corpicino esile” ed era figlio della Paroccola così detta perchè “aveva un grosso testone, che la faceva assomigliare al bastone pastorale del parroco”. Una volta, racconta levi, un bambino lo osservò con attenzione e cercò d'imitarlo, era

 

un ragazzo di otto o dieci anni, Giovanni Fanelli, pallido, con dei grandi occhi neri e un collo lungo e sottile, dalla pelle bianca come quella di una donna, si era più degli altri entusiasnato per la pittura senza dirmi nulla, in segreto, si era messo a fare il pittore.[13]

 

Aliano è su un dirupo scosceso circondato da calanchi e la Fossa del Bersagliere, il precipizio profondo così chiamato perchè vi fu buttato un bersagliere piemontese catturati dai briganti dopo essersi sperduto qui all'epoca del brigantaggio. Quel dirupo accoglie ancor oggi il visitatore come accolse Levi anni fa. Nel ricordo di chi lo conobbe in paese, Carlo Levi era molto curioso, voleva sapere del presente e del passato, andava dal barbiere ad ascoltare i signori che aspettavano il turno per la barba e cli raccontavano di munachicchi e di briganti e quando vedeva i vecchi seduti al sole faceva amicizia e chiedeva del passato. Si portava un taccuino dove annotava ciò che sentiva e vedeva, gli piacevano le storie della Madonna di Viaggiano, delle streghe, dei munachicchi. Raccoglieva materiali su usanze, giochi, passatempi della vita contadina come la passatella:

 

è il gioco più comune quaggiù: è il gioco dei contadini. Nei giorni di festa, nelle lunghe sere d'inverno, essi si trovano nelle grotte del vino a giocarla. Con una partita breve di carte si determina il vincitore, che è il Re della passatella e un suo aiutante. Il Re è il padrone della bottiglia, che tutti hanno pagato, e riempie i bicchieri a questo o a quello, secondo il suo arbitrio, restando a bocca asciutta chi gli pare”.[14]

 

L'autore costruisce consapevolmente una rappresentazione di tipo letterario, con riferimenti leggendari ed esplicativi che hanno un valore evocativo, un potere arcano e non scientifico. Attraverso la prosa Levi carica la realtà di valori culturali, morali, simbolici ed esistenziali che fanno affiorare dalle zone nascoste della realtà e dell'io una memoria remota di immagini mitiche che precedono la consapevolezza cosciente in consonanza con un mondo magico e primitivo, non ancora toccato dal progresso.

 

 

Bologna, 18 giugno 2025

 

 


[1]   Le  citazioni proposte si riferiscono al volume Oscar  di Cristo si è fermato a Eboli, nella ristampa del 1974.

[2]   Il termine “luigini” adottato dallo scrittore, riprende quello del podestà di Aliano, maestro elementare, Luigi Magalone, ma in realtà il suo nome era Luigi Garambone (1905-1960).

[3]   C. Levi, L'Autore all'Editore, in Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 2010, p. XIX.

[4]   M. A. Grignani (a cura di), Carlo Levi, L'invenzione della verità. Testi e intertesti per “Cristo si è fermato a Eboli” Edizioni dell'Orso, Alessandria 1998.

[5]   Natalia Ginzburg era legata a Levi attraverso il marito Leone Ginzburg, studioso e professore di letteratura russa e antifascista. Levi e Ginzburg erano collaboratori della rivista di Piero Gobetti, “La Rivoluzione liberale”. Leone fu e fondatore insieme a Levi del Movimento “Giustizia e Libertà”. Subì per la sua attività la prigione e il confino e morì nel carcere Regina Coeli a Roma nel 1944. 

[6]   Le  citazioni proposte si riferisceono al volume Oscar  di Cristo si è fermato a Eboli, nella ristampa del 1974.

[7]   L'Haggadah è un testo liturgico che si recita durante la cena di Pésach (la Pasqua ebraica) e tramanda il racconto dell'Esodo attraverso le generazioni. Secondo i rabbini la recitazione deve avvenire mentre è messa in tavola la cena che comprende la matzàh, il pane non lievitato e le erbe amare.

[8]   V. Gazzola Stacchini, Un'ipotesi di lettura sulle “forme di coscienza” di Carlo Levi, in L. Sacco (a cura di), Contadini e Luigini. Testi e disegni di Carlo Levi, Basilicata Editrice, Matera, 1975, pp. 32-3.

[9]   G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi. Da eroe stendhaliano a guerriero birmano, Dedalo, Bari 1996, pp. 68-9.

[10] G. De Donato, S. D'Amaro (a cura di) Un torinese del Sud. Carlo Levi, una biografia, Baldini &Castoldi, Milano 2001.

[11] Cristo, cit., p. 188.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 189.

[14] Ivi, p. 158.