Diego Varini - Calcio e letteratura

Un percorso di lettura

 

Sul rapporto fra calcio e letteratura, vasta – pressoché sterminata – sarebbe la mappa dei percorsi possibili: se è vero che del pallone, traguardato e raccontato nelle sue più diverse valenze e applicazioni (psicologiche, antropologiche, filosofiche, sociali, politiche) hanno scritto in Italia lungo un secolo quasi tutti, dai romanzieri agli uomini di teatro, dai saggisti di costume ai professori in vena di divagazioni, senza contare il fior fiore dei poeti. Dal Leopardi lirico della canzone A un vincitore nel pallone (1821) – ma varrà segnalare che era sport diverso, giocato con le mani – al Saba di Cinque poesie sopra il gioco del calcio (1933-34), qualche volta il pallone si è affacciato persino sui margini del canone scolastico.

Limitandoci alla prosa, intendiamo qui proporre agli insegnanti un piccolo repertorio di autori e pagine trascelte nel panorama del secondo Novecento (con una proiezione, nel caso finale di Bonvissuto, su uno scrittore della nostra contemporaneità): in ottica didattica, la campionatura può offrirsi a un ventaglio di molteplici applicazioni concrete, che vanno dall'esame della nitida "lingua scientifica" di Primo Levi al pastiche neo-scapigliato di Gianni Brera, dalla struttura argomentativa paradossale del "malpensante" Umberto Eco, agli inserti di gergalità e idioletto intarsiati nell'afflato epico di Arpino e nelle pagine della scrupolosa storiografia ‘pallonara’ di Ghirelli.

La varietà di stili che si prestano all’analisi da parte del docente e della classe, conferma per altro l’utilità didattica di un approccio alla lingua del giornalismo sportivo, da sempre contrassegnato da una forte inventività e creatività, un vero e proprio laboratorio (si pensi al grande impiego di metafore che caratterizza il migliore cronismo sportivo), collettore e mescidatore di termini di diversa provenienza (con grande utiulizzo dalle lingue settoriali e tecniche).

 

Brano 1 – Una partita "allegorica" di Primo Levi

 

Nel mezzo del libro che racconta le vicende del suo ritorno a casa dalla prigionia nei campi di sterminio nazisti, Primo Levi introduce il resoconto di una bizzarra e alquanto stralunata partita di calcio: il memorabile incontro di pallone viene raccontato, fra le pagine de La tregua (1963), nel capitolo che reca per titolo Victory Day. L'episodio assume il rilievo di un apologo filosofico, cioè funziona come un breve racconto attraverso il quale lo scrittore veicola deliberatamente una specie di monito o insegnamento (ciò che il linguaggio di tutti i giorni usa designare, in termini colloquiali, con l'espressione "morale della favola"). La sostanza dell'episodio calcistico narrato, la sua intonazione filosofica, non viene resa esplicita da Primo Levi, che sceglie di affidarsi alla capacità del lettore di decifrare il senso racchiuso in maniera criptica (cioè nascosta) entro la pagina: suggerita in termini sfumati, la proverbiale morale della favola – sembra dirci lo scrittore – è che il mondo è, per definizione, sempre "assurdo", cioè dominato da una tragica e disperante mancanza di saldezza e fondamento razionale.

Il tema dell'assurdo occupa un posto fondamentale – sarà opportuno ricordare – in una porzione decisiva del pensiero filosofico del Novecento, quella porzione coincidente con il vasto arcipelago delle cosiddette "filosofie dell'esistenza" (diversamente indicate, in alternativa, attraverso la categoria storiografica "esistenzialismo"). In termini filosofici, l'esistenzialismo si inscrive nell'alveo della grande tradizione dello scetticismo: una linea di pensiero antica, che nasce in Grecia con Pirrone di Elide (nel IV sec. a.C.) e si proietta idealmente, nella modernità del primo Ottocento, fino a Giacomo Leopardi (autore molto meditato, nella sua esperienza privata di lettore, da Primo Levi). Radicalmente scettico sulla possibilità di ripristinare una conciliazione tra etica e storia, tra razionalità e destino, ogni esistenzialista interroga sempre l'esperienza umana come un'avventura in cui l'individuo viene "gettato" (come dire, depositato) in un mondo dominato dal capriccio indecifrabile del caso. L'atto del pensare equivale, in termini filosofici, a prendere coscienza del dubbio insanabile che riguarda il senso complessivo dell'esistere: l'esperienza umana è strutturalmente "assurda", in concreto anche per Levi, anzitutto se non c'è modo di ricondurre a una spiegazione razionale le scaturigini della ferocia e dell'odio, che ha prodotto nel Novecento la carneficina di due guerre mondiali e che approda all'orrore assoluto dell'Olocausto (la macchina dello sterminio messa a punto, nel sistema pianificato di Auschwitz, dal regime nazista contro sei milioni di ebrei).

Ragionando come un esistenzialista, anche Levi considera ne La tregua il mondo in termini di spaesamento assoluto: la vita gli appare allora simile all'attraversamento di un paesaggio estraneo, nell'interminabile attesa di qualcosa che, mentre il tempo inesorabilmente trascorre, all'orizzonte incombe (non per nulla, in questa chiave funziona a metà Novecento uno dei massimi capolavori del teatro novecentesco, Aspettando Godot del drammaturgo irlandese Samuel Beckett, profondamente intriso di lieviti esistenzialisti). Misteriosa l'origine della vita, ogni individuo sa, in termini esistenzialisti, unicamente di dover (presto o tardi) morire: l'esistenza finisce col somigliare, da questa prospettiva, a una sospensione carica di angoscia (una tregua, appunto, suggerisce Levi nel titolo) fra il "non esserci ancora" (prima della nascita) e il "non esserci più" (una volta morti).

Alla disperazione implicita in questa condizione di precarietà impalpabile, gli esseri umani applicano da sempre una specie di rimedio anestetico, cioè il gioco. La pratica antropologica dell'immergersi nel gioco ha i caratteri di quel "divertimento" (divertissement) che, nel Seicento, un grande logico come Cartesio (René Descartes) rifiutava in quanto forma tipicissima di alienazione: il gioco (nei termini polemici delineati da Cartesio) come espediente per distrarsi e pensare ad altro, di fronte all'impossibilità di trovare risposte alle domande fondamentali poste dalla filosofia sul senso della vita. Non distante da una simile prospettiva, anche Primo Levi guarda all'episodio della partita di calcio – nella pagina de La tregua che qui riproponiamo – in una luce filosofica: per minatori polacchi ed ex–deportati italiani di Auschwitz, la sfida o rivincita al pallone sul campo ai margini della città è un modo di "pensare ad altro". Il racconto prende un'intonazione allegorica: la pianificazione della partita nasce come risposta alla noia e all'angoscia; nella partita ogni giocatore riversa l'espressione della propria vitalità compressa e ritrovata. Il tempo del gioco è sempre un tempo assoluto, cioè sottratto alla misurabilità degli orologi: un tempo a parte, fuori dalla storia e dal ritmo delle normali incombenze quotidiane. Proprio perché il tempo normale della quotidianità viene messo fra parentesi o cancellato, la contesa calcistica fra le due squadre potrebbe durare all'infinito: la interrompe, sul finale del pomeriggio, solo un evento metereologico banale, una pioggerellina che all'improvviso prende a trasformarsi in nubifragio. E, nel tornare a piedi in fretta verso l'accampamento, Levi contrae una polmonite che rischierà di innescare conseguenze fatali per il suo corpo debilitato dall'esperienza terribile del lager nazista. Nato da un desiderio di spensieratezza e scanzonata evasione, il pomeriggio rischia in definitiva di tradursi in catastrofe: in un mondo condizionato dalla girandola del caso, le sorti individuali non possono che cambiare inarrestabilmente, di continuo, in un'alternanza incessante fra la speranza e il lutto, alla maniera esatta in cui il cielo – sembra dire Levi – si rasserena o si oscura per il modificarsi accidentale del tempo atmosferico.

 

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Assurda deve sembrare del resto anche a Levi – nel riconsiderarla, trascorsi ormai quasi vent'anni, freddamente a distanza (in un libro come La tregua, che lavora sulla sedimentazione della memoria) – anzitutto l'euforia condivisa da polacchi e italiani a ridosso della notizia dall'annuncio della resa tedesca (8 maggio 1945): la Germania, vittima di un disastro militare, ha finalmente piegato la testa (una settimana dopo il suicidio di Adolf Hitler, il 30 aprile 1945, nel bunker di Berlino), eppure il crollo dell'esercito nazista può apparire, osservato in diretta dall'inquieta prospettiva dei due rispettivi gruppi umani di "calciatori", una strana e dissonante forma di vittoria (in latino l'aggettivo absurdum significa in effetti, originariamente, 'stridulo, discordante').

Sui polacchi grava presto la minaccia di un alleato militare (l'esercito dell'Unione Sovietica) che diventerà in breve – nella lunga stagione della Guerra fredda (1947–1989) – una presenza invadente e dispotica (dopo l'annessione della Polonia nella sfera di influenza comunista sovietica, e la riduzione di sovranità del paese ratificata dagli accordi russo–americani di Yalta). Quanto al gruppo di prigionieri italiani, del quale Primo Levi è parte, i suoi componenti convivono con i traumi e le ferite indelebili della deportazione. Il loro status giuridico è, esso stesso, ambiguo: cittadini di una nazione straniera (in quanto anagraficamente italiani), gli ex–deportati hanno cessato di essere prigionieri dei loro aguzzini tedeschi, eppure non possono tornare a casa (in una patria italiana che si era resa complice – a partire dalle famigerate leggi razziali del 1938 – della loro deportazione, e che si è fatta dunque ai loro occhi ostile e matrigna). Non prigionieri, né davvero uomini liberi, Levi e gli ex–deportati italiani si trovano insomma in una specie di terra di nessuno: destinati ad essere trascinati ancora in giro, per complessivi nove mesi (dal gennaio all'ottobre 1945), in una peregrinazione attraverso le frontiere e i diversi paesi dell'Europa orientale, scandita da soste di lentezza esasperante lungo un tracciato indecifrabile che sembra tendere sempre di più lontano dall'Italia (anziché puntare diritto verso casa).

Non certo casualmente, anche la partita raccontata ne La tregua si svolge in un luogo dislocato all'estrema periferia di una periferia, per così dire in una specie di periferia al quadrato: se Bogucice (il quartiere in cui gli ex–deportati sono stati ammassati e alloggiati) si trova ai margini della città polacca di Katowice, la partita – scrive Levi – avviene «su un campo di periferia piuttosto lontano da Bogucice». In questo "altrove" dalle tinte fosche, il racconto della partita è insieme corretto dall'intonazione elegiaca con cui il chimico–scrittore Levi osserva situazioni e comportamenti nel segno della curiosità (il valore umanistico della curiositas), con l'occhio freddo e paziente di uno scienziato.

Due esemplari descrizioni di tipi umani si accampano in stretta successione al centro della pagina: il "portiere da incubo" ingaggiato furbescamente (in barba agli accordi presi) dai minatori polacchi, e il capitano russo che si incarica del ruolo di arbitro della partita. Del portiere polacco, svagato eppure inesorabile asso "paratutto", lo scrittore coglie l'apparenza spiazzante e inafferrabile giocando su tre elementi: le «movenze indolenti da apache» (che introducono il riferimento decontestualizzato a un indiano d'America); la mobilità fulminea («prensile e appiccicosa») del suo corpo, che rimanda a quello della chiocciola (animale oggetto di fascino ricorrente, nell'opera di Levi, in quanto simbolo congiunto di aggressività e orgoglioso riserbo); il vezzo di tenere «ostentatamente una mano in tasca per tutto l'incontro», con il quale il portiere polacco sembra atteggiarsi alla maniera di un gentleman, sul modello di qualche estremo difensore inglese dei tempi pionieristici, occhieggiato forse al cinema o tra le pagine di qualche giornale illustrato, agli albori dell'invenzione di uno sport chiamato calcio. Quanto al capitano dell'esercito russo (prigioniero in generale di una propria folle vanità narcisistica, e per conseguenza del tutto inoperante, «inconcreto» ispettore delle cucine di Bogucice), nell'inseguire le bizzarrie e intemperanze del suo comportamento, Levi trasforma la partita in una sorta di gag teatrale o di balletto astratto, «degno di un comico di gran scuola»: muovendosi per il campo «con un interesse di natura misteriosa, forse estetico, forse metafisico», l'arbitro si attribuisce il diritto di invadere, condizionare, interrompere le fasi di gioco «con un divertimento folle e inesauribile». In filigrana, forte è la tentazione di pensare all'immagine "teologico–filosofica" di un Dio creatore che gioca a pallone con il mondo (l'arbitro, non per nulla, «si comportava sul campo – scrive Levi – come il Padrone dopo Dio»): una raffigurazione che affonda le radici nella tradizione ebraica, così presente – anche per immediate ragioni familiari – nella sensibilità e nella formazione culturale di Levi.

 

Brano 2 – Il football leggendario dei pionieri

 

Trattando una scombinata partita di calcio come materia allegorica, Primo Levi innesta nel racconto della sfida calcistica tra polacchi e italiani all'interno de La tregua i colori di un'epica sorridente e giocosa. Ma la nascita del calcio in quanto disciplina sportiva, con le sue istituzioni e le sue regole, rimanda su altre basi davvero – tra la fine dell'Ottocento (il primo torneo nazionale ebbe luogo, in Italia, nel 1896) e i primi anni del Novecento – a un tempo arcaico e perduto, carico di elementi favolistici. Si incaricò di scriverne per primo una storia documentata e paziente, nell'immediato secondo dopoguerra del Novecento, un giornalista politico di brillante e vivace cultura, il napoletano Antonio Ghirelli (1922–2012): nella sua Storia del calcio in Italia, uscita per la prima volta nel 1954, fatti e vicende relativi alle origini di quello che diventerà nell'arco di pochi decenni lo sport nazionale degli italiani, oggetto di una passione capillare e fenomeno variopinto di costume, appaiono come tessere di un affresco narrativo che restituisce, per frammenti, il clima "sentimentale" di un'epoca ormai immersa in una distanza temporale (già all'altezza di quei primi anni Cinquanta) tendenzialmente inafferrabile per la memoria, in ragione dei mutamenti intervenuti nel tessuto vivo della società e delle abitudini quotidiane.

 

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Per raccontare le origini del calcio italiano, Ghirelli rivolge le sue attenzioni e indagini anzitutto al fondo delle emeroteche, il luogo fisico deputato alla conservazione di quotidiani e altra stampa periodica: in esse, lo scrittore sarà andato a immergersi preliminarmente, cercando fonti documentarie da attingere e passare al vaglio. Ma nelle collezioni delle emeroteche, ammesso sia rimasta traccia (cosa tutt'altro che scontata) di pubblicazioni simili spesso a effimeri "fogli volanti", di quelle vicende calcistiche degli anni pionieristici Ghirelli scopre con sconcerto che si rischierebbe di conoscere «poco o nulla»: la cosa suona, esaminata a posteriori, in qualche modo paradossale e bizzarra, anche dal punto di vista di una storia del costume e linguaggio giornalistico, se è vero che il pallone rappresenterà poi lungo tutto il Novecento (e in parte ancora oggi) un propellente enorme per il consumo di carta stampata e per le tirature dei giornali, che al calcio non mancheranno di dedicare sempre uno spazio massiccio.

Su un giornale genovese scomparso e dimenticato che si chiamava "Il Caffaro", e che ha un nome dal fascino sottilmente evocativo perché rimanda con la sua testata al primo grande storico e annalista della Repubblica di Genova (Caffaro, diplomatico e scrittore, vissuto a cavallo tra XI e XII secolo), Ghirelli ripercorre divertitamente il modo in cui «un'esibizione dell'Andrea Doria» (antenata di una delle due squadre cittadine, la Sampdoria) diventa a fine Ottocento l'occasione per erudire i lettori del "Caffaro" sulle regole e il funzionamento del nuovo sport importato dall'Inghilterra (chiamato non per nulla, con termine anglofono, football: con tale anglicismo l'estensore dell'articolo incorniciava, in termini di compiaciuto snobismo, la fresca importazione di una moda nuova). Per Ghirelli, i tempi in cui un giornale era chiamato a dover spiegare ai suoi lettori – partendo da un immaginario "livello zero" – le regole di una partita di calcio sembrano lontani, in qualche modo, quanto le vicende della Genova medievale. Il calcio si è fatto, nel giro di pochi decenni, una sorta di liturgia laica domenicale; e ne viene, al modo di un corollario, quasi l'idea diffusa che la percezione delle sue regole abbia qualcosa di auto–intuitivo, subito evidente. Naturalmente, non è mai così (come, del resto, non lo è per nessun gioco): eppure il rileggere le righe in cui un giornalista di fine Ottocento spiega ai suoi lettori che cosa è un goal, come è fatto un campo o quali sono le dimensioni di una porta di gioco, consente a Ghirelli di proiettare uno sguardo "straniato" sul rettangolo di gioco (cioè di descriverlo, nel segno di quella tecnica retorica chiamata "straniamento", come se ognuno provasse a focalizzare un oggetto per la prima volta, senza aver mai intercettato prima nulla di simile o di riconducibile ai suoi significati).

La «diffidenza» dalla quale l'ambiente calcistico degli albori è circondato sembra alimentarsi di due ragioni distinte: da una parte essa riflette un sospetto istintivo verso ogni pratica nuova, cioè un riflesso di psicologia sociale che ha l'aria di riprodursi potenzialmente nei campi più diversi e in qualunque tempo (la novità, qualunque novità, come elemento da rifiutare in quanto "non familiare" e per qualche verso insomma perturbante). Ma, dall'altra parte, tale diffusa diffidenza si innesta fondamentalmente sulla consapevolezza del carattere originariamente esclusivo di uno sport raccolto attorno alla passione di pochi cultori danarosi («italiani o inglesi che fossero»): in un contesto dal quale la folla cittadina avverte di sentirsi, per ragioni di censo e cultura, esclusa. In questo senso, la dislocazione dei primi campi di gioco «ai margini della città» segnala una specie di volontà aristocratica dei praticanti di raccogliersi e riconoscersi in uno spazio protetto (la sede periferica funziona, in concreto, come un marchio di nobilitazione). Alla luce di questa premessa, che fa del calcio degli albori uno sport confinato (fra Liguria e Piemonte, le sue regioni italiane di prima importazione) alla passione di una schiera selezionata di facoltosi "eletti", Ghirelli incornicia il suo efficace excursus documentario, su aspetti topografici e socio–economici legati al mondo dei «footballers», con una gustosa rievocazione di sapore picaresco. Con la formula «si racconta» (modellata, in una specie di divertito omaggio allo storico latino Tito Livio, sul latino traditur: la celebre formula impersonale "si tramanda", usata spesso nei libri Ab urbe condita per immergersi nei primi tempi arcaici della storia di Roma), Ghirelli segnala che le origini dei campionati calcistici sono esse stesse immerse in un alone di leggenda: i pezzi di verità documentaria e le storie rielaborate dalla fantasia si mescolano in una sovrapposizione indistinta. Il «curioso aneddoto» della compagine calcistica (il glorioso Genoa), vittima di un fraintendimento ferroviario nell'indovinare la stazione giusta e costretta a pernottare alla buona fortunosamente in un «ristorante con stallatico», rimanda un clima scanzonato da membri di un'attempata consorteria di collegiali londinesi in gita (idealmente nel solco delle austere e prestigiose Cambridge e Oxford), anteriore alla «forma larvata di professionismo» destinata ad affermarsi negli anni successivi.

 

Brani 3 e 4 – Da Arpino a Brera: su una doppia sfida con l'Argentina

 

Due pagine di epica calcistica moderna. Sono quelle che, all'interno di questo breve percorso, riproponiamo attraverso le pagine di un grande romanziere, Giovanni Arpino (1929–1988), per molti anni inviato speciale del quotidiano torinese "La stampa", e di un estroso giornalista sportivo affascinato per una vita dalla letteratura e dal romanzo, Gianni Brera (1919–1992). I due piccoli lacerti di lettura che qui proponiamo si pongono idealmente in dialogo, quasi come i due episodi di un immaginario dittico, anche perché riguardano – a una distanza temporale di otto anni – due sfide calcistiche fra Italia e Argentina, interne rispettivamente ai Mondiali "tedeschi" del 1974 e a quelli "spagnoli" del 1982. Catastrofici, per l'Italia, i primi; coronati da un indimenticabile successo, i secondi. Alla disfatta del 1974, Arpino dedica (nel 1977, tre anni dopo) uno strano (un po' incompreso) romanzo – Azzurro tenebra – che, nel quadro del Novecento letterario italiano, costituisce un episodio singolare e abbastanza inusuale di narrazione romanzesca applicata integralmente a un tema calcistico. Affascinato dalla livida luce che si proietta su una disfatta sportiva, Arpino rielabora il racconto di quella vicenda in una chiave sospesa tra la cronaca e la libera rielaborazione fantastica: i personaggi che gravitano attorno al campo di gioco sono cambiati talora di nome, oppure indicati con nomignoli simili in fondo a quegli epiteti formulari di cui faceva largo uso nell'antichità il poeta Omero, sempre restando tuttavia riconoscibili facilmente per un tratto o un suggerimento attinto dalla cronaca (per fare un esempio: il "numero dieci" degli azzurri, Gianni Rivera, indicato per antonomasia attraverso la contrazione confidenziale di un suo celebre soprannome, "il Golden boy").

La piccola disfatta dei mondiali tedeschi è in fondo una pagina di cronaca o storia del presente: all'epoca in cui il libro vide le stampe tutti se la ricordavano bene, e forse proprio in ragione di tale premessa versare pagine sul mesto bilancio sportivo di quella sconfitta appare decisione per qualche verso dispettosa o bizzarra, come se Arpino accettasse una sfida paradossale e ingrata, sottilmente masochistica (farsi cantore del disastro, anziché celebratore di un luminoso ed esemplare trionfo). Materia riccamente narrativa – sembra dire Arpino – è sempre, in generale, la sconfitta; materia più ricca in fondo di venature psicologiche, di colori malinconici, di una dignità che rifulge orgogliosa e intatta nell'accettazione composta di un risultato sfortunato o infausto. Ai bordi del campo, un'altra domanda viene parallelamente avanti: perché soffrire, davanti a un avvenimento sportivo, in una maniera così straziante e razionalmente imperscrutabile?

 

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Soffrono, anzitutto, i giornalisti del seguito "azzurro": fra i quali lo scrittore Arpino, che si rappresenta dall'esterno – personaggio fra altri personaggi – autoassegnandosi il nomignolo "Arp". Con lui l'amico e collega Bibì (Bruno Bernardi, storico inviato de "La stampa" e storico complice delle trasferte di Arpino in veste di cronista calcistico); senza dire di tutti gli altri che, come uno sgomento e petulante coro di tragedia greca, commentano il soccombere della squadra italiana di fronte all'esuberanza argentina. Quando Arpino deve tratteggiare in poche linee questa assoluta predominanza dei blucelesti calciatori argentini, il primo correlato metaforico al quale fare appello sarebbe certo il tango: cioè il ballo che è un pezzo fondativo dell'identità nazionale argentina. Ma tale soluzione appare forse troppo ovvia, e Arpino la scarta risolutamente («non era tango»); ad essa, egli preferisce invece l'immagine dello scherzare irridente di un bambino con il genitore adulto (appoggiata a un fitto catalogo, cioè un'elencazione di verbi e sinonimi per rendere il senso tangibile di questo smaniare e di questa frenesia). La compagine azzurra è osservata come una specie di gigante (una specie di Gulliver, nell'omonimo romanzo settecentesco di Jonathan Swift) imprigionato da una schiera di nani (è un «nano», esuberante e irrefrenabile, anche il fuoriclasse René Houseman che fa scintille all'ala destra, e che getta gli avversari nella disperazione con le sue mille acrobazie). E il modo del campione argentino di infilzare il portiere italiano Dino Zoff (un «San Dino» colpito o martirizzato dalla freccia avversaria, come – nell'iconografia dei santi – un San Sebastiano alla colonna) chiama in causa «la grazia balistica» di uno sport tutto diverso, che ha qualcosa della malizia e sotto sotto del beffardo inganno, cioè il biliardo. L'ultimo campo metaforico al quale Arpino attinge riguarda la navigazione: la partita diventa insomma, con l'avanzare dei minuti, simile a una navigazione dentro un mare in tempesta. Gli spettatori–tifosi la osservano in preda a uno stato d'animo di disappunto, rassegnazione, impotenza. Quando il risultato volge al peggio, il tentativo di raddrizzare le sorti dell'incontro assume un carattere di agitazione volenterosa e farraginosa, generosamente sconclusionata, riversandosi in avanti a casaccio quasi come «naufraghi» che in preda al panico si gettino da una «zattera, all'avventuroso recupero» di se stessi o di qualcosa.

 

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Di un trionfo scrive invece all'indomani della sfida dell'82 con l'Argentina, sul quotidiano romano "La Repubblica", Gianni Brera: la didascalia in apertura «Barcellona, 29 giugno» (con il nome della città evidenziato, per giunta, in maiuscoletto) serve ad organizzare l'articolo come una specie di nota diaristica. Un diario tenuto in pubblico, nel quale Brera si riserva di prendere le cose alla lontana e svariare fra digressioni e associazioni libere di idee e pensieri. L'allenatore avversario Menotti (trionfatore, quattro anni prima, nei Mondiali che l'Argentina aveva giocato in casa) diventa un avversario da aspettare al varco: «impinguito» (cioè reso, fuor di metafora, un po' sbruffone e tronfio) dall'essere diventato – a dispetto del cognome italiano dei genitori – tipicamente un argentino, egli ha sfidato e irriso la tradizione calcistica italiana, imperniata su quel difensivismo spinto e quel gusto del gioco di rimessa (il proverbiale "contropiede") da lui schernito alla stregua di una pratica ormai obsoleta e ridicola. Se il virtuoso Niccolò Paganini, violinista inarrivabile e sublime, si negava orgogliosamente a una seconda esecuzione ("Paganini non ripete", è una formula scherzosa che il linguaggio comune ha fatto propria), Brera – nei termini di un oscuro vaticinio – preannuncia all'allenatore argentino che nemmeno l'Argentina di Menotti avrà in sorte di concedere il bis (rispetto ai vecchi trionfi di quattro anni prima): la Nemesi (nella mitologia greca, la dea della giustizia e della vendetta amministrata dalla giustizia) non mancherà di farlo pentire delle sue parole troppo cariche di tracotanza. Anche solo in questi pochi tratti, è evidente il passo virtuosistico della scrittura di Brera, quasi un "Paganini" del giornalismo sportivo: una scrittura en artiste, compiaciuta, istrionica, legata alla recitazione di un personaggio che il giornalista ha coltivato e costruito studiatamente attorno al proprio ruolo. Fumando e confabulando burbero in tribuna, come un fine intenditore che soppesa le fasi di gioco e insieme medita fra sé e sé (o, al limite, con il civile collega argentino, suo vicino di posto), Brera prende nota di piccoli fatti salienti che ineriscono alla partita e alle dinamiche piscologiche interne al rettangolo di gioco. Passando per frammenti di citazioni iperletterarie (l'avverbiale «chiotto chiotto», preso in prestito al Decameron di Boccaccio per intendere "in modo silente, di soppiatto"), giochi di figure retoriche comprensive anche di formule latine sclerotizzate (le «carognatine» di avversari «carognoni de sanguine»), arguzie sul filo dell'indecifrabile («un iddio che lascia la palla a Gentile», cioè un Dio del pallone, Maradona, che deve arrendersi a un semplice "pagano", cioè il terzino azzurro Claudio Gentile), Brera approda a una chiusura geometrica dell'articolo che, nel segno di una restaurata universale giustizia, attribuisce alla sorpresa di un risultato largamente inatteso (la vittoria degli italiani, dati perdenti alla vigilia) un valore di risarcimento e di edificante paradosso (gli argentini restano in fondo, anche per Brera, astrattamente «i migliori», ma questa superiorità andrebbe riaffermata umilmente sul campo, mettendo da parte per le prossime volte qualunque atteggiamento di insolente superbia). Dietro l'entusiasmo ben celato del tifoso, preme in Brera il gusto di confezionare un apologo esemplare e divertito su una specie di improvvida "arroganza punita".

 

Brano 5 – Sarcasmo anti–pallonaro: una memorabile stroncatura di Eco

 

Alla passione calcistica come valvola di sfogo di una fondamentale irrazionalità collettiva, uno scrittore e studioso per nulla incline al divertimento insito negli spettacoli sportivi, il semiologo Umberto Eco (1930–2016) dedica nel 1978 – a metà fra i disastrosi mondiali tedeschi e quelli del trionfo azzurro spagnolo – una specie di sapida stroncatura, venata di sarcasmo e divertita ferocia, nella sua celebre rubrica (intitolata "La bustina di Minerva) per il settimanale "L'Espresso".

 

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Aperto da un'abile mossa retorica autodifensiva, che attiene in termini tecnici al cosiddetto ethos del parlante (cioè alla sua credibilità rispetto agli interlocutori), Eco previene spassosamente una probabile contestazione di eventuali lettori «maligni e sospettosi»: giocando all'attacco, lo studioso dichiara subito la sua irrimediabile inadeguatezza rispetto ai ruoli che competono, dentro il rettangolo di gioco, ai compiti di ogni (sia pur dilettantesco) calciatore. Depotenziato con questo trucco retorico l'argomento ridicolo che un contraddittore minaccerebbe di tenere in serbo contro il suo discorso, Eco sposta il terreno nello spazio di un ragionamento paradossale che sembra modularsi su certi libelli satirici di gusto settecentesco e illuminista (tra Voltaire e Swift): se è vero che il tifo è attività sempre dissennata, sconsiderata, dispersiva e autodistruttiva, benissimo suonerà il fatto che – nell'appagarsi in tale aspirazione antisociale e scriteriata – i peggiori (in concreto: i più sciamannati) si immolino in un volontario sacrificio, liberando il consorzio umano dalla loro presenza. Il gusto comico di Eco si nutre di una spietatezza che esibisce la propria crudeltà e mancanza di pietas come un feroce vanto: ambiguamente, il ragionamento irride non solo gli sfrenamenti violenti di alcuni scalmanati, ma persino i generosi slanci di cercatori di moderne imprese muscolari o motorizzate. In un breve "catalogo confuso" (tale, in termini retorici, viene definito ogni accatastamento di elementi enumerati alla rinfusa), paracadutismo e alpinismo diventano il corrispettivo di "roulette russa" e altre condotte autodistruttive. La posizione di Eco osserva in sostanza il fenomeno sportivo da una distanza ironica, facendo propria una diffidenza culturalistica: in questo atteggiamento, il calcio e la mania del calcio (enfatizzata dall'immancabile affacciarsi quadriennale del Mondiale o Mundial) funzionano ai suoi occhi come una specie di sostanza oppiacea, arma di distrazione di massa, stupefacente legalizzato. Storditi dall'euforia calcistica, gli spettatori o tifosi proiettano sulle discussioni calcistiche le energie che il buon cittadino avrebbe motivo idealmente di incanalare verso l'esame di questioni riguardanti la sfera politica e il bene comune («la Cosa Pubblica», cioè la repubblica, lo stato). Abbandonandosi all'ubriacatura di una specie di festa collettiva, i tifosi dimenticano tutto: si lasciano alle spalle le preoccupazioni del terrorismo in agguato («finalmente qualcosa che non c'entra con le Brigate Rosse») ma poi insieme la certezza o il sospetto che teatro del Mundial sia, nel giugno 1978, un paese dilaniato e straziato da una dittatura sanguinaria, perfida, criminale (l'Argentina della "giunta militare" di Jorge Rafael Videla, salita al potere con un colpo di stato due anni prima, e pronta a trasformare la manifestazione calcistica in una straordinaria macchina di autolegittimazione propagandistica).

 

Brano 6 – Il tifo come liturgia mistica: la Roma giallorossa di Sandro Bonvissuto

 

L'ultimo passaggio di questo percorso su calcio e letteratura coinvolge il libro felicissimo di uno scrittore contemporaneo, il romano Sandro Bonvissuto (1970). Nel suo recente La gioia fa parecchio rumore (2020), a metà fra romanzo autobiografico e riflessione saggistica, Bonvissuto scolpisce il legame identitario e viscerale, il rapporto di fedeltà assoluta che lega Roma e i suoi abitanti alla principale squadra cittadina (tifosi della Lazio sono a Roma – è cosa nota – con poche eccezioni soprattutto gli abitanti dei quartieri benestanti di Prati e Parioli, al di là del seguito raccolto invece diffusamente nel territorio dei paesi limitrofi).

 

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Il racconto di Bonvissuto è insieme la rievocazione di una stagione ormai lontana, nella quale – ancora nei primi anni Ottanta del Novecento – impossibile sarebbe stato immaginare l'odierna moltiplicazione di immagini e informazioni in tempo reale, in uno stato di perenne iperconnessione fra gli angoli più distanti della penisola italiana, del continente europeo, del pianeta. A un tempo immerso nella lentezza e qualche volta in una specie di torpore, guarda lo scrittore ripensando a una fase della nostra vicenda collettiva nazionale in cui la settimana sembrava imperniare il suo baricentro segreto intorno al rito delle partite domenicali di serie A, rigorosamente tutte in simultanea la domenica pomeriggio (e rilanciate sulle onde dei canali radiofonici, prima ancora che dalle sparute emittenti locali private, dalla fortunata trasmissione "Tutto il calcio minuto per minuto" del primo canale radiofonico nazionale). Attorno alla radio, Bonvissuto vede raccogliersi – nello spazio divertitamente nostalgico della propria memoria – le tappe di una passione che, attraverso il legame affettivo con la Roma, i suoi campioni, le sue maglie, il suo simbolo – afferma un legame di complicità e di affetti tra le generazioni, quasi passando intatto di nipote in figlio (o creando solidarietà e cementando amicizie, fra strada e strada, caseggiato e caseggiato). Inutile, per lo scrittore, indagare razionalmente dentro le radici di una pulsione amorosa che si sottrae alle spiegazioni razionali. Ma carico di stupore resta per Bonvissuto riflettere sulla natura paradossale di un legame che si alimenta in primo luogo di sconfitte, delusioni, interminabili sofferenze: quasi nutrendosi di questa sfuggente "impossibilità di vincere" (certificata, negli anni, da intere sequenze di illusioni presto svanite e atroci disinganni) come dell'unico vero blasone. All'angoscia procurata dalle sorti altalenanti e sempre traballanti dell'amata Roma, Bonvissuto applica – nella pagina che qui abbiamo accluso – riferimenti antichi, che chiamano in causa una dantesca e petrarchesca «accidia perpetua», sorta di indecifrabile paralisi della volontà implicita nella «malinconica mestizia di ogni vero tifoso romanista». Ma poi insieme una serrata (autoironica) descrizione di sintomi fisici – orripilazione, tachicardia, dispnea – che sembra richiamare divertitamente, in un colto scrittore dei nostri giorni, i versi di Guido Cavalcanti, razionalista di fine Duecento, sulla capacità mortifera esercitata dal sentimento amoroso nell'espropriare di volontà e forze chiunque cada vittima di tale misteriosa passione. Nel mondo raccontato da Bonvissuto, illuminato dalle accensioni di una passione totalizzante e sottratto al dominio di qualunque logica, tutto può apparire continuamente sottosopra: «durante le partite guardavamo la radio e ascoltavamo la televisione».

 

18 ottobre 2021