Partiamo da due obsolescenze culturali evidenziate in alcuni critici che si sono occupati di L’ora di tutti,[1] romanzo edito da Feltrinelli nella collana «I Contemporanei» con cui Maria Corti vince il Premio Crotone1963.[2]
La prima è quella di accostare L’ora di tutti all’Antologia di Spoon River solo perché in entrambi i libri sono gli stessi morti a raccontarsi. Legame troppo labile, rispetto ai distinguo ben più consistenti. Se i concisi epitaffi di Edgar Lee Masters rivelano l’urgenza del defunto di definirsi in pochi versi e trasudano di soprusi umani, familiari o sociali, in L’ora di tutti ci sono quattro uomini e una donna che post mortem inanellano cinque confessioni in prosa, una per ciascuno dei cinque capitoli: forme brevi che, seppure connesse, sono perfettamente autonome. Le prime tre testimonianze appaiono temporalmente parallele, quelle di Colangelo, di Zurlo e di Idrusa, ma i tre punti di vista differenti sulle stesse concitate giornate che precedono la conquista turca di Otranto (28 luglio-14 agosto 1480) divergono leggermente, creando un effetto di rifrazione poli-prospettica.
Gli ultimi due testimoni, Nachira e Aloise de Marco, si succedono invece in progressione cronologica fino alla riconquista della città da parte di Alfonso d’Aragona. Come è evidente, siamo lontani dell’Antologia di Spoon River e una delle differenze maggiori viene rilevata da Maria Bellonci, allorché nota come non ci sia «nessuna cadenza funebre in questo romanzo di morti, nel quale, al contrario, fermenta decantandosi nella narrazione, un senso di vita piena e continuativa».[3] E, quel senso vitale dell’esistenza, vorremmo aggiungere, avvolge tutti, perfino i turchi invasori che sono «giovani», amanti del «mangiare» e di «tutta la vita in generale».[4]
La seconda interpretazione critica sviante è la definizione di romanzo storico. Troppo smaliziata Maria Corti per avventurarsi con L’ora di tutti in un genere letterario, che all’inizio degli anni Sessanta molti suoi cari amici considerano in odore di cadavere, a cominciare da Umberto Eco e Giorgio Manganelli. Più facile pensare che la Corti mirasse a giocare proprio sulla decomposizione del romanzo storico, per scommettere su un nuovo scarto dalla norma. Quale?
A dar fuoco all’immaginazione della scrittrice c’è la lettura di Marcel Schwob, Vies imaginaires (1896), tradotto in Italia nel 1946 da Irene Brin e nuovamente da Maria Teresa Escoffier per Longanesi nel 1954. Un libro pionieristico di biografie sintetiche e fittizie.
Che la Corti riconosca in Schwob un maestro e un modello è riscontrabile in una citazione di La signora di Otranto in cui la signora è proprio la cattedrale, un racconto metaletterario che dobbiamo considerare indispensabile per la comprensione di L’ora di tutti: «come scrisse Marcel Schwob “l’arte si pone dalla parte opposta delle idee generali, non descrive che l’individuale, non desidera che l’unico. Non classifica; sclassifica”».[5]
La citazione è estrapolata dalla Prefazione di Vite immaginarie e la scelta di quel passo ci dice che dal narratore francese la Corti attinge la differenza fra le «idee generali», quelle che abitano ad esempio i grandi eventi della Storia, e l’assoluta unicità di una foglia d’albero che non può avere le stesse nervature, le stesse sfumature di colore o le stesse punture d’insetti di un’altra foglia, come Marcel Schwob stesso chiarisce in quel punto del suo libro. Del resto, vengono trattati con la stessa dignità letteraria in Vies imaginaires ciascuno dei ventitré percorsi di vita, sia che si tratti di personaggi storici come Paolo Uccello, sia che si narri di donne dall’ignoto destino come Katherine, merlettaia nella Parigi del Quattrocento.
La scelta della scrittrice di avventurarsi nella finzione biografica (che oggi chiameremmo biofiction), inseguendo infimi destini di pescatori e popolane, comunque unici e irripetibili, è decisamente innovativa, se pensiamo che su questo stesso genere letterario si cimenteranno pochi anni dopo alcuni grandi scrittori, da Rodolfo Wilcock con La sinagoga degli iconoclasti (1972) all’Enciclopedia dei morti (1983) di Danilo Kiš, dalle Vite di uomini non illustri (1993) di Giuseppe Pontiggia a La letteratura nazista in America (1996) di Roberto Bolaño, per citarne solo alcuni. Ognuno di questi libri racconta di uomini e donna anonimi e sconosciuti, impensabili come voci di un dizionario biografico, eppure trasformati dalle pagine narrative in vite uniche e senza uguali.
Ora, nel romanzo della Corti le biografie fittizie di personaggi storici minori o di miseri pescatori s’intersecano in quell’«ora in cui» ciascuno è chiamato a «dare prova di sé», come dirà don Felice Ayerbo d’Aragon. Quell’ora fatidica «a noi l’hanno portata i turchi».[6]
Non è l’ora della morte, e lo dimostrano i decessi distanziati temporalmente di ognuno dei cinque testimoni; è, invece, l’ora della verità, quella fatidica in cui ciascuno ha la possibilità di ordire la traiettoria della propria esistenza in modo inconfondibile e di distinguersi irrevocabilmente dal destino di un altro. Come le foglie di Marcel Schwob.
Basterebbe un passo estrapolato dal racconto di Zurlo a esemplificarlo: «Ricordo ancora quel pescatore Colangelo […]; morì dopo aver fatto strage di un mucchio di turchi, senza una parola. Così possono comportarsi uomini umili, caduti nella rete di un grande destino».[7]
Anche gli ottocento otrantini privi dei denari necessari al riscatto dopo la cattura turca («se avevamo denari, restavamo cristiani e restavamo vivi»),[8] sceglieranno di non «morire da stupidi»,[9] cioè rinnegando le proprie idee e il proprio senso di appartenenza, benché questa resistenza ‘umana’ sia «messa in ombra dall’interpretazione mistica e martirologica»[10] impressa dall’arcivescovo Serafino: questo innesca nell’ultimo capitolo un ritorno all’ordine, ai privilegi e ai soprusi delle scale gerarchiche.
Quanto detto finora libera il romanzo anche da un possibile terzo equivoco interpretativo, quello di una poetica neorealistica, visto che quest’ultima privilegia nel dopoguerra l’osservazione oggettiva della realtà e non il racconto ‘finzionale’, e preferisce eludere le responsabilità individuali dei personaggi, che qui invece disegnano traiettorie singolari per ogni destino, a vantaggio solo di un popolo corale cantore della propria storia.
Compare in veste di personaggio nel romanzo anche la cattedrale di Otranto, vero scrigno di storie orali e di fantasmi «che vagano nella memoria dei secoli»,[11] e lo sarà anche in La signora di Otranto, laddove prendono vita le stesse presenze ectoplastiche dei morti, che «di tanto in tanto battono un colpo sulla superficie del reale alla maniera di un artista su una lastra di rame, sino a ricavarne una propria forma corporea: così l’epos popolare otrantino poté arrivare a dare loro dei tratti individuali precisi oltre che dei nomi: Primaldo, Colangelo, la casta Idrusa e via di seguito. Poi qualche scrittore inventò per loro una nuova personalità».[12]
Ora, quello «scrittore» attratto dal fascino oscuro delle storie minute, pensate e tramandate oralmente ma mai scritte, è proprio lei, Maria Corti: «Ecco la povera Idrusa, per esempio: al posto della sua linda e bianca castità le hanno infuso amore, tradimento, disperazione, un ininterrotto vivere».[13]
In effetti, la Corti riesce a infondere al personaggio una vita finzionale del tutto nuova, ma il quesito è come riesca a farlo. Proviamo a capirlo, ripartendo da una confessione che la scrittrice, ricordando Montaigne, aveva fatto alla sottoscritta nel libro intervista Dialogo in pubblico, cioè quella di vedere «più differenza fra un essere umano e un altro che fra due animali di specie diversa. Quindi la vita interior-sentimentale di ognuno di noi è folgorante solo per lui».[14] Questa convinzione sta alla base della scelta di Maria Corti di abbandonare in uno stipetto dalla casa milanese le sue primissime prove narrative (Masseria di S. Damiano rielaborata in La leggenda di domani)[15] affette dal «tallone di Achille dell’autobiografismo».[16]
Eppure, parte di quelle pagine così personali, in cui si racconta la fuga dal collegio di una ragazzina nel Salento, diventeranno cava estrattiva preziosa per immaginare le inquietudini di Idrusa, a cominciare dalla memoria cinetica della stessa Corti adolescente, messa in collegio a dieci anni dopo la morte della madre: c’è lo spostamento dell’ago sulla tela, i movimenti fra camera e finestra che sembrano coniati sugli spazi claustrali delle Marcelline di Milano e c’è la stessa mestizia e prostrazione nati dal senso di solitudine e di diversità di cui Maria Corti parla diffusamente in Dialogo in pubblico.
L’interiorità di Idrusa, lontana anni luce dalla casta popolana otrantina, diventa talmente complessa da percepire sotto «una luna di gesso»[17] il grande mare del niente, frutto della dissoluzione dei nessi fra oggetti e uomini, fra tempo e spazio:
Ecco, io, Antonio, Manuel, le sedie della mia casa, il mio cortile, il secchio della cisterna, eravamo tutti in una rete, c’era anche don Felice, che camminava con la pancia in fuori sui tappeti della sala, c’erano i candelabri del palazzo, c’era tutto; ma bastava prendere un capo del filo, tirarlo ed ecco che scivolavamo ciascuno per conto suo in un grande mare; era così dunque? A uno non restava niente?[18]
Non manca in questa giovane popolana la «voglia di vivere fra gli alberi», che era la stessa di Maria adolescente, né l’amore per il mare e per la Natura salentina, dove la Corti trascorreva le estati con il padre ingegnere impegnato a costruire la strada litoranea, né è dissimile il piacere di camminare «come i ragazzini, quando vanno soli per la via, e presi dalla meraviglia di essere al mondo, fanno lunghi giri inutili».[19] E c’è la stessa abitudine di distendersi sulla spiaggia di Rocamatura a Otranto. Chissà, forse anche la stessa consuetudine di chiedere ai gigli selvatici: «Come si fa ad essere felici?».[20]
Il tema della felicità ossessionerà la Corti per tutta la vita, al punto da diventare un campo semantico frequente in tanti dei suoi testi, compresi quelli di più alta speculazione scientifica, come La felicità mentale (1983) su Cavalcante e Dante, opera che attinge alla «nozione aristotelica di makaria (cioè la felicità che viene all’uomo dalla contemplazione intellettuale del Vero)».[21]
Dal pensiero filosofico medievale viene mutuata la ricerca di una felicità ‘naturale’, che muove dall’indagine razionale, comune a tutti gli uomini, anche ai non cristiani, e che affonda le radici nel De summo bono del filosofo averroista Boezio di Dacia (XIII secolo), testo basilare per la Quaestio de felicitate dedicata da Giacomo da Pistoia a Guido Cavalcanti.
Certo, rimane in Idrusa la certezza che la felicità è fugace («felici si è solo per qualche attimo, e in un modo del tutto imprevisto»);[22] solo il cosmo conserva un suo misterioso ordine, come traspare dalla digressione di Zurlo: «infiniti corpi in movimento» dotati di «una perfetta armonia che invano cercavo sulla terra».[23]
Non dimentichiamo che «felicità» viene dalla parola greca φύω (creare, generare, produrre) e che da questa prende vita anche φύσις, cioè Natura. Se partiamo da qui, diventa più comprensibile ciò che dice un personaggio, che non a caso si chiama Don Felice: «Io qui a Otranto ho trovato la felicità», affermazione che è motivata non solo dall’innamoramento per Idrusa, ma anche dal suo occuparsi, pur nel marasma di quei giorni di guerra, «delle cose che contano a distanza; guardate, per esempio, la bellezza sparsa qui attorno in questo tramonto».[24]
Ora, nonostante la scrittrice conceda tanto di sé sia a Idrusa, che a Don Felice che a Zurlo, L’ora di tutti non è una proiezione autobiografica e, per quanto se ne alimenti, non è affetta dal «tallone di Achille dell’autobiografismo».[25]
Per capirlo, basterebbe un semplice carotaggio sulle pagine, a partire da quell’inaspettato gesto finale di Idrusa di sfilare il pugnale a un soldato turco e conficcarselo nel petto, come Perpetua che guida «lei stessa alla sua gola la mano tremante del gladiatore novizio»[26] nella Passio SS. Perpetuae et Felicitatis, un testo tradotto dalla Corti su «Libera Voce» nel 1947. È un testo latino in prosa singolarissimo proprio perché segue il racconto di una donna.
Quel diario intimo e raro, giunto dall’antichità, ispira alla scrittrice anche il gioco polifonico delle cinque voci (che già nella Passio erano tre) e l’intersecarsi di più punti di vista, oltre a mutuare la rivelazione di una vita interiore che non risparmia i sogni di Perpetua, motivo per cui anche il mondo onirico di Idrusa affiora nel romanzo, insieme alla percezione di sentirsi dissimile da tutte le altre donne:
Io non sono come le altre. Le altre sono meglio di me ma a me la loro non pare vita. Di che cosa sono contente? Solo di vivere. Io così non sono contenta per niente. E questo non riesco a mettere insieme, che loro sono meglio di me e che l’idea di essere una di loro mi dà la voglia di buttarmi giù da Malepasso.[27]
La bellezza straordinaria della donna rifulge fin dall’incipit del capitolo incentrato sull’acconciatura dei suoi capelli, strumento primario di seduzione delle sirene insieme al canto, e sull’inquietudine che spesso la spinge fino all’insenatura mortale del Malepasso, tra Santa Cesarea e il canale di Otranto, dove le sirene stanno «appollaiate sugli alti scogli a picco sul mare dai quali ancora oggi sembra di sentire il richiamo dell’abisso»;[28] tant’è che lì annega Basilio nel Canto delle sirene (romanzo/saggio pubblicato da Maria Corti nel 1989).
Incarnata sotto mentite spoglie nella bella Idrusa, la sirena è un ibrido marino con coda bicaudata.
È una figura su cui si proiettano le ataviche paure popolane e che appare rappresentata anche sul pavimento della Cattedrale, mentre bisogna aspettare il mondo laico del Quattrocento – come chiarisce la stessa Corti in una intervista a Fiona Diwan – «perché la sirena torni in auge come simbolo intellettuale positivo. Sul frontespizio dei primi libri appare la sua figura, simbolo di vastità degli orizzonti conoscitivi. […] Seguire la sirena che è in noi vuol dire qualcosa di molto profondo: significa seguire l’inconscio, realizzare la nostra realtà interiore, arrivare al Sé senza lasciarsi sviare e distrarre da figli, marito, famiglia, tutto quel quotidiano a cui la donna ha sempre dovuto obbedire».[29]
Proprio nella stratificazione geologica sta il merito maggiore del romanzo de L’ora di tutti, che riesce a solidificare in una lastra marmorea screziata tante diverse componenti (l’autobiografia, l’attenzione sociologica a un territorio amato come il Salento, le competenze da storica della lingua, gli studi scientifici sulle sirene medievali e rinascimentali, gli studi di filosofia morale), perché l’operazione creativa ha richiamato a sé tutte le parti con «infinite associazioni e modificazioni, […] infiniti ludi combinatori, dilettevoli o terrificanti»[30] e ogni granello che compone quel marmo è ormai indistinguibile.
Ci piace immaginare che il giudizio di Cesare Segre su L’ora di tutti come il «capolavoro» di Maria Corti[31] sia un giudizio espresso da chi più di altri l’ha conosciuta, perché suo compagno di vita per molti anni, e da chi pensa alla felice sintonia che in questo libro la scrittrice riesce a raggiungere fra le polarità distòniche, e spesso inconciliabili, che sentiva di avere dentro di sé al punto da chiamarle evangelicamente ‘Maria’ e ‘Marta’: la prima dedita alla scrittura e dotata di attività inventiva e contemplativa, la seconda dedita ad attività teorico-critiche e fornita di senso pratico costruttivo e di acume scientifico. Grazie a quest’ultima sarebbe nato dentro l’Università di Pavia il Centro manoscritti di autori moderni e contemporanei.
Un libro felice, dunque, L’ora di tutti per quanto felici si sia solo «per qualche attimo».[32]
In chiusura, ci preme soffermarci a considerare alcuni elementi sottesi alla fase avantestuale dell’opera.
Il primo è l’influenza di una lettura, consigliata a Maria Corti da due amici ispanisti salentini, Vittorio Bodini e Oreste Macrì: La hora de todos y la fortuna con seso (1636) di Francisco de Quevedo y Villegas. La Corti mutua il titolo proprio da quel libro ed è un’affinità, quella fra il poeta barocco e la studiosa, rafforzata dalla comune passione per la cultura medievale, tant’è che nelle sue fantasie morali anche lo spagnolo si ferma spesso sui lapidari. L’ora fatale non coincide neppure in Quevedo con il momento della morte, anche se nello scrittore spagnolo collima con l’arrivo del disinganno, di un disvelamento del reale dirompente quanto una diga in piena.
Il secondo elemento è lo studio del Quattrocento napoletano. Con ogni probabilità, il raffinato nobile Zurlo è ispirato al poeta dell’Accademia Pontaniana Pietro Iacopo De Jennaro, nominato commissario generale delle terre di Bari e Otranto, che però avrebbe raggiunto solo nel 1481 come egli stesso narra nell’Opera de li huomini illustri sopra de le medaglie (1504), dunque molto mesi dopo la presa turca di Otranto.
Il De Jennaro è ben conosciuto da Maria Corti, che nel 1954 aveva pubblicato Le tre redazioni della "Pastorale",[33] ma non è l’unico intellettuale studiato per addentrarsi nella cultura di fine Quattrocento. Un primo spunto per la stesura di L’ora di tutti nasce, infatti, come racconta la studiosa/scrittrice in Dialogo in pubblico, dai suoi «studi sul Sannazaro e sulla cultura napoletana tra il XV e il XVI secolo. E leggendo le poesie del Caracciolo o del Galeota incontravo qua e là le celebrazioni delle gesta dei pescatori otrantini».[34]
Si aggiungano a ciò le letture delle «cronache locali di quel periodo, le cronache degli ambasciatori veneziani, i documenti d’archivio di Napoli. Ho persino studiato i costumi dell’epoca e la tecnica degli assedi. Ho fatto anche delle ricerche di carattere letterario sui poeti petrarcheschi di Napoli, alcuni dei quali furono governatori di Otranto. Questo mi è servito per rendere la psicologia dei personaggi storici. Per quelli popolani ho preferito uno studio dal vivo: i pescatori e le donne di Otranto non sono cambiati molto “dentro”, dai loro lontani progenitori».[35] Nelle parole che danno l’avvio al romanzo scopriamo, del resto, che ancora oggi quei popolani rivelano «uno sguardo asciutto, ereditato da generazioni di otrantini vissuti in attesa dello scirocco e della tramontana, per regolare su di essi pensieri e faccende».[36]
La terza componente avantestuale, forse la più importante, è quella sospinta dall’incognita linguistica: come far parlare un semplice pescatore come Colangelo? con quale lingua un raffinato e colto nobile napoletano qual è Zurlo può raccontarsi? e, ancora, come possono esprimersi in una lingua italiana comprensibile ai lettori di oggi i tanti personaggi quattrocenteschi che affollano il quarto capitolo, il più corale?
L’enigma linguistico trova soluzione grazie al sesto novellatore, quel convitato di pietra che è la cattedrale di Otranto con i suoi ossari delle 800 vittime e i bestiari lapidei. Questi ultimi sono il frutto della fantasia del monaco Pantaleone, capace di orchestrare in forma narrativa l’eterogenea polifonia culturale del canale di Otranto, dove s’intrecciano mitologie classiche e novellistica medievale, leggende arabe e fonti bibliche, epopee cavalleresche profane (come il Livre d’Artus) e immagini fantastiche. Tutto fiorisce visivamente sul pavimento[37] e ramifica in «tre enormi alberi della vita, fioriti» che raggiungono la soglia della Cappella dei Martiri, «dove ci sono Loro, che di solito dormono dietro i fragili vetri degli ossari. L’autore di questo libro dovrà giustificarsi di averli destati, condotti a quel lavorio della memoria che non sappiamo se per i morti sia più o meno struggente che per i vivi».[38]
Il risveglio dei morti nel presente («sono ancora Loro che abbiamo davanti»)[39] è elemento dirimente per risolvere l’assillo dei quesiti linguistici e consentire a tutti i personaggi di parlare nella lingua italiana dell’oggi, l’unica comprensibile ai lettori, seppure venata dal lessico professionale dei pescatori (la pesca con i «conzi grossi» o con i «conzi a pelo», le varie barche «galeotte, fuste e maoni») o da alcuni termini greco-saletini dei popolani (la nebbia «camila», la grandine «càlaza», il sangue «ghiema»), quando non ritmata nella sintassi dei nobili spagnoli su certe inversioni di tipo latineggiante e screziata nel lessico da lemmi toscani di tradizione petrarchesca.
Dunque, L’ora di tutti è volutamente ambientata nel presente e a confermarlo ci sono i tacchini ricordati da Colangelo, che pure muore prima della scoperta dell’America, o i pomodori di Idrusa o i cinquanta chilogrammi del filiforme arcivescovo Pendinelli, elementi inseriti ‘volutamente’ da una studiosa del Quattrocento,[40] qual era la Corti, per ricordare ai lettori che siamo di fronte a pescatori e donne della contemporaneità.
Ripubblicando nel 1974 il romanzo, nella collana Garzanti di «Letture per le Scuole Medie», la Corti offre altre preziose precisazioni in Perché questo libro?:
Si tratta allora di un romanzo storico? Nel senso tradizionale, no; vi è un contenuto storico, che è stato utilizzato in modo simbolico, come allegoria di qualcos’altro […] di ogni tipo di Resistenza.[41]
Anche Giacomo Debenedetti, consegnandole il Premio Crotone, aveva notato che lo spirito mostrato nel 1480 dagli otrantini durante l’assalto dei turchi era carico di un vissuto italiano recente e ‘viscerale’. E la Corti aveva ‘visceralmente’ aderito, insieme agli allievi di Antonio Banfi, alla Resistenza milanese, tant’è che mette in bocca al governatore Zurlo una considerazione non secondaria: «nelle grandi decisioni non si è mai proprio del tutto presenti, solo una parte di noi si muove a prenderle e non è sempre il cervello».[42]
L’attraversamento della storia serve a distanziarla, ma anche ad accostarla al nostro presente, come dimostrerebbe l’explict del romanzo, a detta di Claudio Varese, perché fornirebbe una sorta di chiave di lettura retrospettiva:[43] «Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?»[44]
In quest’ottica diventa essenziale anche la scelta di Otranto quale «luogo mentale»[45] per motivazioni antropologiche che la stessa Corti rivela in una intervista ad Alfredo Barberis:
La vita s’è come bloccata, laggiù, e quindi i pescatori d’oggi sono ancora enormemente simili a quelli del ‘400, perciò volendo dare un senso di una realtà umana odierna, ho potuto con facilità servirmi di una mediazione storica: non ho voluto fare un romanzo storico, ma esemplificare una realtà d’oggi.[46]
Concludiamo, ricordando che le difformità sociali e linguistiche di tutti i personaggi trovano una loro armonizzazione tonica proprio grazie alla memoria, che agisce né più, né meno che come la luce dorata che inonda i quadri del rinascimento veneto, imbevendo cioè di sé sia gli spazi naturali che le architetture cittadine, sia il mondo cencioso popolare, che i sofisticati spazi nobiliari: uomo, città e Natura si integrano con armonia e le distanze temporali si annullano, se la stessa luce (o la ‘memoria’ di ciascuno nel caso della Corti) fa scomparire le discrepanze storiche fra il ritratto del committente quattrocentesco, dunque contemporaneo al pittore, e i personaggi antichi delle scene evangeliche o del mondo classico. Di qui la scelta della Corti di servirsi del «lavorio della memoria» come l’unico capace di creare «un’atmosfera evocativa e lirica riflessa entro tutti i livelli dello stile».[47]
11 giugno 2024
[1] M. Corti, L’ora di tutti, Milano, Feltrinelli, 1962 (rist. 1963). Altre ed.: Milano, Garzanti, 1971; scelta, presentazione e note dell’autrice, Milano, Garzanti per le Scuole medie, 1974; Milano, Feltrinelli, 1977 (rist. 1983); introduzione e note a cura dell’autrice, Milano, Bompiani per le scuole superiori, 1989 (rist. 1991, 1992); Milano, I Grandi Tascabili Bompiani, 1991 (rist. feb. e lug. 1994, 1995); con un saggio di O. Macrì, Milano, Bompiani, 1991 (rist. 1996, 1997, 1999, 2001, 2002, 2003, 2004, 2006, 2008, 2009, 2013, 2017, 2019, 2021). Tutte le citazioni saranno dall’ultima ristampa del 2021, tranne dove diversamente indicato.
[2] Cfr. E.F. Accrocca, L’ora di tutti, «Il punto», 15 (1963), p. 26. Fra i giurati, oltre al presidente Giacomo De Benedetti, anche C. Emilio Gadda, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Bassani, Leonida Repaci, Alberto Moravia, Rosario Villari, Umberto Bosco, Pasquale Jozzi, Mario Sansone, Silvio Messinetti.
[3] M. Bellonci, Piccolo diario: Documenti e controdocumenti, «Il Punto», 8 (1963), p. 30 (in parte il testo viene ripubblicato in Pubblici segreti, Milano, Mondadori, 1965, pp. 439-440).
[4] M. Corti, L’ora di tutti, Milano, cit., p. 285.
[5] M. Corti, La signora di Otranto, «L’Albero», 61 - 62 (1979); rist. in Ead., Otranto allo specchio, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1990 era in Ead., Storie, prefazione di R. Luperini, Lecce, Piero Manni, 2000, p. 45.
[6] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 149.
[7] Ivi, p. 147.
[8] Ivi, p. 298.
[9] Ivi, p. 301.
[10] M. Corti, Perché questo libro?, in L’ora di tutti: scelta, presentazione e note dell’autrice, Milano, Garzanti, 1974, p. 8.
[11] M. Corti, La signora di Otranto, cit., p. 44.
[12] Ivi, p. 45.
[13] Ibidem.
[14] M. Corti, Dialogo in pubblico, Intervista di C. Nesi con una biografia aggiornata, Milano, Bompiani, 2006, p. 9.
[15] M. Corti, La leggenda di domani, a cura di C. Nesi, in Congedi primi e ultimi, a cura di R. Cremante e A. Stella, Novara, Interlinea, 2002, pp. 81-99 [numero monografico di «Autografo», 44 (2002) dedicato a documenti inediti di M. Corti]. La leggenda di domani vedrà le stampe in un volume postumo edito da Manni nel 2007, con premessa di C. Segre e postfazione di A. Longoni.
[16] Lettera a Terracini del 9 agosto 1947 edita in M. Corti, I vuoti del tempo, a cura di F. Caputo e A. Longoni, Milano, Bompiani, 2003, p. 205.
[17] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 267.
[18] Ivi, pp. 267-268.
[19] Ivi, p. 165.
[20] Ibidem.
[21] G. Palmieri, Intervista a Maria Corti, «Uomini e libri», 96 (1983), p. 58.
[22] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 205.
[23] Ivi, p. 157.
[24] Ivi, p. 137.
[25] Lettera a Terracini del 9 agosto 1947, in M. Corti, I vuoti del tempo, cit., p. 205.
[26] Passio SS. Perpetuae et Felicitati (dagli Acta Martyrum), versione di M. Corti, «Libera voce», 13 (1947), p. [3], poi su «L’Albero», 9-12 (1951). La citazione è tratta dalla ristampa in «L’Albero»: rivista dell’Accademia Salentina. Antologia (1949-1954), a cura di G. Pisanò, premessa di M. Corti, Milano, Bompiani, 1999, p. 55. In Dialogo in pubblico la Corti rivela che solo Elémire Zolla aveva colto l’accostamento del suicidio di Perpetua con quello di Idrusa (cit., p. 24).
[27] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 196.
[28] M. Trecca, Cantano ancora le sirene attenti, uomini, «Gazzetta del Mezzogiorno», 22 marzo 1989.
[29] M. F. Diwan, Ulisse, il mio canto ti sedurrà, «Grazia», 2508 (1989), p. 75.
[30] M. Corti, Metamorfosi delle strutture narrative nell’ultimo ventennio, in Gli strumenti di Ulisse: esplorazioni di Maria Corti, Atti del Convegno di studi Pavia (15-16 giugno 2022), Novara, Interlinea, 2023, p. 195.
[31] C. Segre, Premessa, in M. Corti, La leggenda di domani: racconto, San Cesario di Lecce, Manni, 2007, p. 7.
[32] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 205.
[33] Il saggio precede L’ora di tutti di qualche anno: M. Corti, Le tre redazioni della "Pastorale" di P.I. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell'"Arcadia", «Giornale storico della letteratura italiana», 395 (1954), pp. 305-351.
[34] M. Corti, Dialogo in pubblico, cit., p. 85.
[35] E. Fabiani, Ha visto i Turchi all’assedio di Otranto, «Gente», 6 (1963), p. 71.
[36] M. Corti, L’ora di tutti, cit. p. 9.
[37] «Caro don Pantaleone! tu scendevi nell’anno di grazia 1165 dal monastero basiliano di san Nicola di Càsole, dove avevi fatto la conoscenza coi bestiari, con le belle storie di Alessandro Magno, di re Artù, e ti inginocchiavi sul tuo pavimento: un po’ di tessere fra le mani ed ecco, a destra della porta dell’Eden, re Artù a cavallo, che lotta col gatto di Losanna; ecco Alessandro, vestito di porpora e incoronato alla maniera di Carlomagno, che si asside sul deretano di due grifoni accostati e graziosamente offre all’uno e all’ altro in pasto le palme della gloria», Ivi, pp. 11-12.
[38] M. Corti, Introduzione, in L’ora di tutti, cit., p. 12.
[39] Ibidem.
[40] Cfr. M. Corti, Dialogo in pubblico, cit., p. 85.
[41] M. Corti, Perché questo libro?, cit., pp. 6-7.
[42] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 114.
[43] Cfr. C. Varese, Maria Corti: da “L’ora di tutti” a “Il canto delle sirene”, «Studi novecenteschi», 38 (1989), p. 331.
[44] M. Corti, L’ora di tutti, cit., p. 335.
[45] Sui luoghi mentali si veda il saggio di M. Corti, La città come luogo mentale, «Strumenti critici», 71 (1993), pp. 1-18.
[46] A. Barberis, È tutto milanese il suo nuovo libro, «Il Giorno», 27 novembre 1963.
[47] M. Corti, Perché questo libro, cit., p. 11.