«Per caso, per puro caso», Sebastiano Vassalli s’imbatte nella storia del delitto Notarbartolo, che gli «capita addosso»[1] inaspettata, mentre legge la ristampa anastatica di un testo di Napoleone Colajanni. Nel regno della mafia.[2]
È il 1 febbraio 1893. Pochi fendenti di coltello sul treno per Palermo bastano a far precipitare il lettore nel gorgo di misteri finanziari e di banconote false emesse dal Banco di Sicilia, subito dopo l’allontanamento del suo direttore, Emanuele Notarbartolo, per decisione di Francesco Crispi. Richiamato in servizio dal marchese di Rudinì, nuovo presidente del Consiglio, Notarbartolo scopre gli ammanchi e ipotizza che il deputato filo-crispino Raffaele Palizzolo, consigliere d’amministrazione, abbia giocato in borsa i soldi dei risparmiatori per finanziare la campagna elettorale. Il Cigno, come tutti lo chiamano in virtù di una voce modulata e di certe movenze della figura, ha commesso il grossolano errore di accreditare la vincita sul suo conto, «anziché a un prestanome o a una società anonima»[3] e questa mancanza d’accortezza lo pone allo scoperto.
Una storia di tangenti e di mafia. Insomma, di iatture, che affondano le radici in quel lontano 1893, ma che distendono le fronde anche negli anni recenti della tangentopoli milanese o della strage di Capaci:
«Io iniziai a scrivere il libro nel 1991, molto prima che tutto ciò accadesse ma a volte la storia che racconti e che ti sembra anticipatrice, ti scavalca tuo malgrado».[4]
Per raccontare quel delitto, Vassalli abbandona per la prima volta le nebbie padane e le brume alpine per le terre assolate e riarse della Sicilia e accetta, cosa ancor più singolare, di tenere a freno «il piacere della scrittura» per poter «seguire lo sviluppo delle vicende, già sufficientemente complesse».[5]
Perché? Evidentemente quel delitto, che pure non offre grossi margini di libertà inventiva, gli consente di cogliere uno dei temi che più lo interessano: l’oblio volontario, tassello prezioso per scandagliare il tema ben più complesso del ‘carattere’ degli italiani. Se della mafia «cento anni fa si sapeva già tutto ... qui, è forse la caratteristica più eccelsa della nostra cultura e di noi italiani: l’arte di dimenticare». [6]
Erano tempi grevi, quelli di fine Ottocento, per la Sicilia e l’Italia, tanto è vero che pochi mesi dopo l’uccisione di Notarbartolo, le piazze di Valguarnera, Caltavuturo, Lercara, Pietraperzia, Gibellina Marineo si sarebbero macchiate di sangue per la repressione dei Fasci Siciliani.
A Marineo, dove il tributo per la conquista della dignità, del giusto salario, di migliori condizioni di vita avrebbe raggiunto ben quaranta morti, Vassalli ambienta il quarto capitolo del romanzo, raccontando con l’intensa plasticità di masse che si scontrano la morte di Saro, attraverso gli occhi quasi infantili della moglie Felicetta, prima impietrita dal dolore, poi resa dalle arti subdole di Palizzolo strumento di piacere per lui e per i suoi amici. Quelle pagine de Il Cigno sulla strage «sono tra le più realistiche e incisive della narrativa di sinistra»,[7] si sarebbe azzardato a dire Geno Pampaloni.
Ora, uno dei maggiori riferimenti morali e politici in Sicilia di quei moti popolari fu ancora una volta Colajanni con proposte di contratti agrari più equi e di una «socializzazione di tutti i mezzi di produzione»,[8] ma il Tribunale militare di Palermo non concedendo ragioni agli insorti avrebbe condannato, dopo un sommario processo vari membri del Comitato centrale dei Fasci, costringendo persino molti popolani, come Felicetta, a nascondersi per mesi per timore di venire arrestati.
In una parodia dell’imperativo di D’Azeglio, «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»,[9]attribuita da De Roberto al duca d’Oragua (uno dei suoi Viceré), rimane il ritratto impietoso della spregiudicatezza clientelare. A incarnarla, storicamente, il corresponsabile della repressione di quei moti popolari: Francesco Crispi,
Il Cigno esibisce una struttura allusiva al viaggio dantesco nei tre regni (Inferno 1893-’94, Purgatorio1896-’99, Paradiso 1901-’04) e la tripartizione, della durata di 5 giornate per sezione, srotola ventisette anni di storia italiana, più l’aggiunta teatrale di un Epilogo, che porta la data del 2 febbraio 1920.
È una vicenda degna «di essere raccontata dal nostro Pirandello o addirittura dal grande Verga» come recita nell’Epilogo un personaggio comparso dal nulla, il professor Paternò, mentre indica agli altri membri del Circolo il protagonista protervo e infantile, crudele e pavido di quella grottesca storia, ormai ridotto a un anonimo «omino» di bassa statura, vestito secondo la moda del secolo passato.
A lettura ultimata si ha l’impressione che lo scrittore abbia voluto ispirarsi a un feuilleton, costruito con rischio calcolato e con «bravura».[10] Basterebbe a provarlo quell’unico spiraglio di dolente meditazione sulla corruzione, sulle ambiguità e sulle violenze, che la politica necessariamente porta con sé, affidato a un Crispi ottantenne, estromesso dal potere, in balia delle infermiere e ormai lontano dalle utopie della giovinezza garibaldina o dall’impegno rivoluzionario nell’attentato a Napoleone III. Quel capitolo dimostra la ricchezza di toni di un romanzo che, dopo la tragicità dei primi capitoli, si muove quasi sempre su ritmi comicamente melodrammatici o grotteschi, al punto da raccontare ai lettori anche i dialoghi in bagno fra Palazzolo, intento a svuotarsi l’intestino, e i suoi sicari o clienti.
La struttura tripartita sul modello dantesco non ha, dunque, come posta in gioco una progressione salvifica, ma un addentrarsi sempre più nella vertigine della finzione, a partire dal momento in cui Notarbartolo pensa, prima che don Piddu facci di lignu e Peppi Lauriano lo scannino con un coltello da pane, «che la “sua” Sicilia era un Paradiso, dove la gente avrebbe potuto vivere felice se non ci fosse stato, acquattato da qualche parte, tra i mentastri e le salvie, un serpente velenosissimo: forse, quello stesso serpente di cui si parla nella Genesi, che tentò i progenitori»,[11] facendoli precipitare nell’inferno terrestre, ammorbato proprio dal loro peccato e poi dal crimine di Caino.
Il groviglio maligno infetta anche la prosa, che così rende tangibile sulla pagina l’ipocrisia più perversa. Ne nascono characteres, profilati attraverso lacerti di discorsi, che all’inizio hanno il realismo di virulenti scoppi di bile e poi, a poco a poco, la malizia di frasi che volutamente nascondono e volutamente esibiscono, oppure di parole che non coincidono con il pensiero:
«la ragione è condannata a perdersi in un labirinto di sofismi dove l’essere e l’apparire, il bene e il male, il lecito e l’illecito sono intrecciati così strettamente tra di loro da non poter essere divisi, e comunque sono solo astrazioni».[12]
Così, se nell’Inferno la cruda descrizione della mattanza di Notarbartolo e dei ribelli di Marineo ha una sua chiarezza perché, in fin dei conti, le morti violente tracciano una netta linea di sangue fra il bene e il male, nel Purgatorio tutto prende a confondersi, a cominciare dalla collocazione fuori posto di uno dei guardiani infernali, quel Cerbero, che all’Albergo dei poveri di Milano richiama «bruscamente alla realtà» gli ospiti assonnati. Fra questi c’è Salvatore Cancelli, testimone nel processo, e qualche altro barbún o struns mal cagà o bastard: «Mannaia lu cunnutu! – sbotta Salvatore in risposta – Vaffangulu!».[13] Una scrittura, insomma, irta di sollecitazioni e di svariati registri, più adatti a un Inferno, che a un Purgatorio.
La soglia dell’asfissia morale si varca con il Paradiso, quando la prosa restituisce con grande abilità il sofisma di Palizzolo, che riesce ad autoscagionarsi, persuadendo perfino se stesso della sua innocenza, degna di un benefattore dell’umanità.
Forte dell’appoggio dello studioso del folklore Giovanni Pitré, che nega in Sicilia l’esistenza di una setta malavitosa e spende parole di vittimismo verso gli incompresi siciliani, e difeso a spada tratta dalla campagna innocentista dei Comitati pro-Sicilia e dal giornalista Edoardo Scarfoglio, che dalle pagine de «L’Ora» aveva parlato di una grande macchinazione giudiziaria contro Palazzolo, ordita dai socialisti «spioni di polizia, furfanti al soldo di una potenza straniera e di sicofanti da taverna o da lupanare»,[14] il Cigno finisce per ipotizzare nei meandri della sua mente un complotto che, colpendo lui, avrebbe mirato in realtà a destabilizzare lo Stato unitario e la monarchia.
L’assoluzione in Tribunale, seppur motivata dall’impossibilità dopo undici anni dal delitto di raccogliere prove esaurienti, viene accolta come un trionfo dai notabili siciliani, oltraggiati dalla stessa parola ‘mafia’:
«Forse i guai della Sicilia – pensa il giornalista giunto nel salotto dei duchi di Villarosa per intervistare il Cigno – sono causati da quest’immensa distanza che c’è qui tra le parole e le cose... Due mondi lontanissimi e completamente estranei!»[15]
Dopo il trionfo di folla che lo accoglie al suo ritorno a Palermo, Palizzolo si aspetta un futuro fulgido. Non sarà così. I siciliani, interessati solo a salvare «l’onore dell’isola»,[16] lo abbandoneranno al momento delle elezioni e lo lasceranno sprofondare nella dimenticanza:
«Questa non è la storia di un omicidio: è un fatto unico e irripetibile, la storia della rivolta dell’intera isola che riesce a far assolvere un delinquente. Anche se, liberatolo, lo dimentica subito, l’emargina, non lo elegge più in parlamento».[17]
Una vicenda degna «di essere raccontata dal nostro Pirandello o addirittura dal grande Verga» come recita nell’Epilogo un personaggio comparso dal nulla, il professor Paternò, mentre indica agli altri membri del Circolo il protagonista protervo e infantile, crudele e pavido di quella grottesca storia, ormai ridotto a un anonimo «omino» di bassa statura, vestito secondo la moda del secolo passato.
Al suo primo apparire nel 1993, Il Cigno accende una disputa sui quotidiani,[18] soprattutto in seguito alle provocatorie dichiarazioni di Vassalli che dice di aver voluto raccontare «quello stato d’animo misto d’orgoglio, solidarietà, campanilismo, omertà e chissà che altro ancora, che nel 1902 spinse i notabili palermitani e siciliani alla costituzione di un Comitato Pro Sicilia, che avrebbe fatto invalidare, grazie a un vizio di forma, degno del nostro contemporaneo giudice Carnevale, il processo di Bologna contro Palazzolo e Fontana, e che poi avrebbe fatto assolvere i due imputati in un successivo processo, in cui la mafia aveva ripreso il controllo di molti testimoni».[19] La vis polemica contro lo scrittore diventa ancora più accesa, quando in un altro articolo Vassalli lamenta il senso di «inappartenenza» degli intellettuali italiani allo Stato, un sentimento nato come equidistanza dal regime e dai suoi oppositori nel ventennio fascista. Questo divorzio li avrebbe portati, «a rivitalizzare le piccole patrie»,[20] come Sciascia, che anni prima non aveva risparmiato un j’accuse verso i magistrati palermitani.[21]
Vassalli lancia un ultimo un sasso dipinto, come è suo solito, a tinte accese:
«Io non credo nelle piccole patrie, la base di uno scrittore è la lingua. Ciò può anche significare trovarsi di fronte a un passato terribile e vergognoso, ma se non lo si capisce diventa molto difficile decifrare il presente».[22]
Pubblicato il 18/04/2012
Note:
[1]S. VASSALLI, Conversazione con Sebastiano Vassalli, in Scrittori a Verona, intervista di S. Tani, Verona, Il Riccio, 2001, p. 76.
[2]N. COLAJANNI, Nel regno della Mafia: dai Borboni ai Sabaudi, Palermo, Sandron, 1900 (rist. anastatica Soneria Mannelli, Rubbettino, 1984. Altra edizione: Bergamo, El Bagat, 1988). Colajanni, dopo la laurea in medicina, si dedicò a studi di antropologia criminale e fu deputato in Parlamento dal 1890. Anche il libro di E. MAGRI, Onorevole padrino: il delitto Notarbartolo,politici e mafiosi di cent’anni fa, Milano, Mondadori, 1992, ha costituito una fonte primaria per la ricostruzione di Vassalli.
[3]S. VASSALLI, Il Cigno, Torino, Einaudi, 1993, p. 7.
[4]S. VASSALLI, Letteratura e Mafia secondo Vassalli, intervista di E. Stefanelli, «L’Adige», 14 gennaio 1994.
[5]S. VASSALLI, Lo scandalo della mafia, «La Voce del Campo», 39 (1993), p. 7.
[6]S. VASSALLI, Conversazione con Sebastiano Vassalli, in Scrittori a Verona, cit., p. 76.
[7]G. PAMPALONI, Delitti d’epoca: Sicilia di fine Ottocento nel “Cigno” di Vassalli, «Il Giornale-Supplemento Lettere e Arti», 28 novembre 1993.
[8]N. COLAJANNI, Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, Palermo, Sandron,1994, p. 3.
[9]F. DE ROBERTO, I Viceré, Milano, Rizzoli, 1998, p. 413.
[10]L. BALDACCI, Il Cigno dalle ali insanguinate, «Corriere della Sera», 20 novembre 1993.
[11]S. VASSALLI, Il Cigno, cit., p. 11.
[12]Ivi, p. 162.
[13]Ivi, pp. 97-98.
[14]Ivi, p. 161.
[15]Ivi, p. 162.
[16]S. VASSALLI, Sogno di Mafia, intervista di S. Di Paola, «La Sicilia», 5 dicembre 1993.
[17]S. VASSALLI, La mafiosità è solo scalfita, intervista di C. Fotia, «L’Unità», 16 novembre 1993.
[18]Si vedano al riguardo, per citarne alcuni, gli articoli di L. Baldacci (Su mafia e potere Pirandello non taceva, «Corriere della Sera», 16 luglio 1993) e V. Consolo (Ma Sciascia codardo no, «Il Messaggero», 16 dicembre 1993).
[19]S. VASSALLI, Mi faccia il piacere, «La Repubblica», 12 dicembre 1993.
[20]S. VASSALLI, Italiani e no, «La Repubblica», 1 marzo 1994.
[21]L. SCIASCIA, I professionisti dell’antimafia, «Corriere della Sera», 10 gennaio 1987. Nella prima parte discuteva di un libro di Christopher Duggan sulla mafia durante il fascismo, sostenendo che l'antimafia può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile». Nella seconda parte portava ad esempio Paolo Borsellino, appena diventato procuratore di Marsala «per meriti antimafia», superando l’altro concorrente che invece aveva maturato un'anzianità maggiore. Il Coordinamento antimafia di Palermo (300 iscritti) avrebbe criticato Sciascia con un duro comunicato. Borsellino tornò su quell'episodio nel suo ultimo discorso pubblico la sera del 25 giugno 1992 alla Biblioteca comunale di Palermo, parlando dell'interminabile campagna di delegittimazione dei magistrati antimafia di Palermo: «Tutto cominciò con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia», scandì.
[22]S. VASSALLI, Racconto il mondo attraverso le storie vere, «Il Mattino», intervista di G. Picone, 11 novembre 1993.