Cristina Nesi - Pier Paolo Pasolini e il tema della contraddizione

 

Da sempre studioso dei rapporti fra cinema e letteratura e docente in Sorbonne, Paolo Desogus collabora da anni con il Centro Studi Pasolini di Casarsa, dove ha organizzato il convegno del 2021 sul rapporto fra Pasolini e Gramsci e quello del 2023 sui rapporti fra Pasolini e Fortini. A Bologna ha ricevuto dalla Cineteca il Premio Pasolini nel 2015 e nel 2023 il Premio Sormani a Torino per il volume Laboratorio Pasolini.

La sua ultima pubblicazione, In difesa dell’umano (La nave di Teseo, 2025) si concentra sul tema della contraddizione che, già anticipato dal sottotitolo Pasolini tra passione e ideologia, domina l’intero iter artistico e intellettuale di Pasolini e dalle riflessioni teoriche alle potenzialità stilistiche e linguistiche Desogus prende in esame gli aspetti metaletterari dell’intero corpus pasoliniano.

Per capire quanto la contraddizione sia nodale, basterebbe ripensare all’uso insistito dell’ossimoro in Le ceneri di Gramsci (1957), il momento più alto della produzione letteraria di Pasolini: «Lo scandalo del contraddirmi, / dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere».

Fortini sarà il primo a riconoscere questa tematica come centrale in tutta l’opera di Pasolini, ma ridimensionandone la portata dialettica, in quanto tutto si sarebbe risolto a suo dire nel gioco retorico della sineciosi, cioè di un’antitesi in cui due contrari sono legati da uno stesso soggetto oppure da uno stesso verbo, depotenziandone così l’opposizione: «i termini dell’antitesi cessano di esser percepiti come contraddittori»[1] dirà in Attraverso Pasolini. In questa coesistenza di contrari la poesia di Pasolini arriverebbe per Fortini al limite del manierismo, giungendo a unire gesti e stili fra loro assai diversi che finirebbero, comunque, per compenetrarsi.

Tutto questo perché in Fortini la forma è una sintesi possibile, ma ancor più perché il dissidio con Pasolini radica in un conflitto «più vasto, che proprio negli anni Cinquanta contrappose due tra le voci più ingombranti del pensiero dialettico europeo: da un lato, Lukács — autore di costante riferimento per Fortini, come testimoniano i saggi di Verifica dei poteri — e, dall’altro, Adorno»,[2] che invece sarà sempre una stella polare per Pasolini, in virtù del fatto che è stato uno dei pochi marxisti che ha preso in esame l’irrazionale. In La conciliazione sforzata, testo di riferimento imprescindibile per Pasolini, Adorno sottolinea quanto le società di massa omogenizzi tutto in un'unità falsa e alienante, escludendo le scorie, le differenze, gli strappi insiti invece nella realtà.

Ponendosi dal punto di vista della totalità, Lukács al contrario resta insensibile alle incrinature, alle ombre della ragione, ai desideri frustrati, alle angosce, alla fisicità del singolo, tutti elementi da cui nasceva, a detta di Adorno, la più alta letteratura della modernità. Per questo Adorno ritiene che il Significato attuale del realismo critico del filosofo ungherese cada nel dogmatismo, quando rifiuta le opere letterarie, che non si adatterebbero alla formula del realismo socialista.

Sappiamo che altri critici hanno utilizzato il tema della contraddizione come un grimaldello per trasformare Pasolini in un apripista della stagione postmoderna, se per postmodernità intendiamo il culto del frammento (laddove per contraltare dialettico Pasolini ha invece un desiderio sopito di totalità), dell’estetica, di una impulsività corporea, fisica, passionale legata al presente e quindi svincolata dalla storia. In questo modo si è costruito un ‘mito Pasolini’ ad uso e consumo del mercato, declinato a piacere in un ‘Pasolini profetico’, capace di incarnare la verità nella propria corporeità e di dirla con sfrenata necessità, oppure in un ‘Pasolini anarchico’, a dispetto dell’equiparazione che lui stesso faceva fra l’anarchia e il potere fascista (se «La sola vera anarchia è quella del potere» come in Salò o le 120 giornate di Sodoma), o infine in quel mito che alimenta la liturgia necrofila sul Pasolini assassinato.

Per dimostrare come tutte queste definizioni abbiano svilito il faticoso lavoro intellettuale che invece esiste, Desogus riparte dal giovane Pasolini e ne ripercorre tutta la processualità storica, dimostrando, anche sulla base di indagini che hanno condotto a scoperte originali, come il poeta e regista non fosse un autore con un «bagaglio ideologico-politico piuttosto leggero»,[3] secondo la celebre definizione di Fortini, né un intellettuale senza teoria e senza filosofia, come hanno sostenuto Pier Vincenzo Mengaldo e Walter Siti.

Dalle sue ricerche d’archivio emerge che Pasolini si sarebbe iscritto nel 1945 a Bologna proprio a Filosofia, dopo la prima laurea discussa con una tesi su Pascoli, e che avrebbe chiesto nel 1947 una tesi a Felice Battaglia, studioso in quegli anni dell’esistenzialismo.[4] La tesi di Pasolini avrebbe dovuto sviscerare proprio i rapporti fra l’esistenzialismo e le poetiche contemporanee.[5]

Dunque, già nell’immediato dopoguerra Pasolini affronta degli studi universitari di filosofia, seppure non conclusi, cui si aggiungono solide letture della tradizione umanistica coltivate nell’intero itinerario poetico, intellettuale ed esistenziale: da Dante a Leopardi, da Gramsci alle ricerche antropologiche di de Martino fino allo studio, in ambito europeo, di Marx, Freud, Marcuse, Horkheimer, Benjamin, Adorno.

Per dimostrare in che modo queste radici culturali inneschino le riflessioni teoriche e i laboratori di Pasolini, Desogus scende in analisi testuali, di cui riportiamo uno studio di caso a titolo di esemplificazione. A partire da un termine che si manifesta all’altezza cronologica del 1947, il ‘regresso’ (attinto probabilmente dalla psicoanalisi), Pasolini si accosta alla ‘con-passionalità’ di Gramsci. Regresso è, per Pasolini, l’abbandono della propria posizione di borghese per avvicinarsi alla realtà dei contadini e degli ultimi. L’analisi di Desogus parte da un racconto scritto fra il  1947-48, Stefano, e pubblicato su «Botteghe Oscure» del 1951, per poi essere inserito nell’edizione ampliata del 1972 di Ragazzi di vita.

L’Io narrante va a trovare a casa l’amico Stefano che è malato e dice: «mi sentivo quasi entrare nel meccanismo della privazione a cui quel ragazzo era fisicamente e quotidianamente condannato». 

Nei contadini Pasolini scopre non un’età aurea, né un’innocenza primigenia, ma ‘la contraddizione’ più marcata fra privazione e desiderio, fra necessità e bisogni, e quindi spera di riuscire ad osservarla meglio. In chi sta ai margini e si oppone al mondo intravede una strada più accessibile per cogliere le lacerazioni umane di una lotta, che interessa tutti gli individui di qualsiasi classe sociale. Una lotta eterna. Non a caso in Petrolio questa contraddizione inconciliabile viene definita con il termine hegeliano di «cattiva infinità».

Se Gramsci studiava i fatti linguistici per cogliere i rapporti di forza delle varie componenti sociali, Pasolini nel racconto osserva, gramscianamente, il dialetto della madre di Stefano, che ha in sé la stratificazione secolare del sottoproletariato di Casarsa. E questo è uno dei meriti di Paolo Desogus, quello cioè di ricostruire la genesi di un’impostazione teorica partendo prima di tutto dalla lingua. Se in Poesie a Casarza (pubblicate nel 1942) il dialetto entrava solo nell’esperienza intima dell’autore, nelle opere del dopoguerra Pasolini ne scopre la dimensione storico-politica e lo farà proprio grazie a Gramsci.

Seguendo il filo rosso delle riflessioni linguistiche sul dialetto (1942-1955), poi sulla lingua (1953-1964) e sul plurilinguismo dantesco in La mortaccia (1959-61), Desogus segue la traiettoria del percorso pasoliniano fino al momento in cui lo scrittore si rende conto che i suoi ragazzi di vita non usano più il loro dialetto, ma una lingua che accoglie termini convenzionali: quelli del miracolo economico. La borghesia è diventata egemonica e ha imposto una lingua tecnologica a tutti.

Sappiamo che Pasolini avrebbe esposto le sue riflessioni metalinguistiche in una celebre conferenza milanese del dicembre 1964, riprodotta su «Rinascita».[6] Fra il pubblico anche Maria Corti e Cesare Segre, basiti e scettici. Desogus non si sofferma su questo punto, pur dicendo che quel saggio aveva suscitato molte polemiche. In effetti oltre all’intervento critico di Segre, nel corso del 1965, ci sarebbero state anche le prese di posizione di Arbasino, Moravia, Eco, Bianciardi, Calvino, Vittorini, Fortini, Dallamano, Citati, Ottieri, Gigli, Pedullà, Emanuelli, Pomilio, e Ferretti.

Comunque, la maturazione di questa consapevolezza porterà Pasolini già nel 1961 ad abbandonare la narrativa, per un diverso linguaggio artistico, quello cinematografico di Accattone, un linguaggio capace di offrire un’espressività legata non solo alla parola, ma soprattutto ai corpi e alla gestualità, cui si aggiunge il contrasto cromatico di un bianco accecante accostato a un nero intenso. Pasolini teorizzerà anche un proprio linguaggio per l’uso della macchina da presa, la ‘soggettiva libera indiretta’: l’obiettivo non coincide con lo sguardo del personaggio, come avviene nella soggettiva, ma ne segue lo sguardo per un po’ per poi allargarsi emotivamente alla visione del mondo circostante al personaggio e questa affinità fra sguardo del personaggio e sguardo del regista avrà a che fare, ancora una volta, con quel concetto di ‘regresso’ da cui Desogus era partito per il suo scandaglio del termine.

Per cogliere un’altra radice teorica feconda, In difesa dell’umano s’interroga su come si rimoduli nei film di Pasolini la concezione ‘figurale’ di Auerbach. Nella Commedia dantesca figure come Catone, personaggio romano che muore suicida sottraendosi a Cesare per rivendicare la propria libertà, trovano nell’oltretomba una forma più elevata di compimento del loro destino, in questo caso come custode della libertà dal peccato, accogliendo le anime in Purgatorio. Basandosi sulla tradizione esegetica medievale, che interpretava eventi e personaggi storici come prefigurazioni di eventi futuri, ugualmente reali seppure più elevati, questa visione viene riproposta nel film del 1963 La ricotta. Nelle parti in bianco e nero i borgatari sono figure concrete, nelle parti a colori, che riproducono fra l’altro due opere di Pontormo e Rosso Fiorentino, diventano ‘compimento espressivo’ del film, che il regista sta girando e quindi acquistano una dignità artistica che li pone su un piano più elevato seppure concreto e non di mera astrazione. 

Lo stesso Pasolini, autore di La mortaccia, dove la protagonista è la prostituta Teresa che compie un viaggio infernale nella modernità della ‘mutazione antropologica’, si sdoppierà nella Divina Mimesis in protagonista del viaggio e guida. Il primo è il Pasolini degli anni ’50 che auerbachianamente trova compimento figurale nel Pasolini della maturità, la guida, immersa nella ‘mutazione antropologica’.

Uno spazio consistente del saggio è riservato alla disquisizione sulla ‘parresia’, che per Michel Foucault era il parlar franco, ripreso da Marco Bazzocchi per spiegare l’ultimo Pasolini di Petrolio. Per Desogus Pasolini è, invece, così consapevole della mutazione del ruolo dell’intellettuale che sa quanto poco peso abbia ormai la parola pubblica di un poeta. Lo sa anche quando scrive Il romanzo delle stragi, il celebre articolo del «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974. Quel «Io so, ma non ho le prove» non riguarda una verità da dire pubblicamente, ma se la verità può generare un cambio di passo politico nella strategia della tensione. Pasolini è ormai consapevole dopo la morte di Mattei e la strage di Piazza Fontana di quanto un artista non abbia più presa sul reale. E lo è a un punto tale, da compiere il gesto estremo di dire che ‘non’ può dire. L’impegno non può tradursi in prassi.

 

 

 

 14 novembre 2025

 

 


[1] Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. 22.

[2] Marco Gatto, Una sineciosi ideologica. Pasolini, Fortini e la razionalità dialettica, in «Annali d’italianistica», n. 40, 2022, p. 251-261: 254.

[3] Franco Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. 150.

[4] Cfr. Paolo Desogus, In difesa dell’umano: Pasolini tra passione e ideologia, Milano, La nave di Teseo, 2025, pp. 18 e 30.

[5] Ivi, p. 56.

[6] P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche, in «Rinascita», a. XXI, n. 51, 26 dicembre 1964, pp. 19–22, poi in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 9–28: 9.