Cristina Nesi - Congedarsi da Napoli

Nei giorni della rivolta di piazza Tahrir al Cairo, Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle, fotografo conosciutissimo a Napoli con il soprannome di Mexico, sceglie di raccontare la rivolta dall’ottica delle donne, inviando al «Corriere del Mezzogiorno» tutte le foto che riesce a salvare dai sequestri dei militari: 

Sono stato più volte portato, durante la notte, al cospetto di ufficiali dell'esercito, militari e forze speciali di sicurezza. Mi hanno interrogato, perquisito, hanno voluto vedere le foto; fortunatamente la situazione era calma in piazza. Io avevo pensato di raccontare la storia di questa rivolta al femminile, quindi avevo molte foto di donne, bambini e famiglie accampate con le tende in piazza. Mi hanno obbligato a cancellare le foto, e mi è andata bene che non si sono presi la macchina. [1] 

Dopo la conversione all’Islam del 2005, Mexico ha deciso di vivere in Egitto, lasciando la Napoli da sempre frequentata, quella dei caffè di piazza Dante, della libreria Pironti, della vita che pullula in piazza Garibaldi con i nordafricani, gli homeless, i drogati e i rifiuti debordati dai cassonetti. 
È il poligono della vita randagia di Grand Hotel Ferrovia, [2] una raccolta di foto scattate da una Laika, che afferra in bianco e nero i tanti corpi accasciati su una panchina, persi in surrogati di paradio, immersi in spazi notturni deserti. Una Napoli sfatta, abusata, catturata da un obbiettivo mantenuto ad altezza d’uomo, quando non ribassato per cogliere prospettive più marginali. Sempre pudico, comunque. Attento a non urtare le altrui sensibilità. Attento a non farsi notare. Perché ogni dimenticata presenza ha un nome, ogni rifugio di cartone sul ciglio del marciapiede o in fondo a un vicolo ha sotto un viso ben conosciuto. 
Sono storie umane colte nel caos del traffico diurno o negli improvvisati sudari notturni, che acuiscono visivamente solitudine e perdizione, ma sono sempre storie condivise da frequentazioni quotidiane e dalla lunga militanza di Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle sulla strada, cui rimane aderente come una seconda pelle. Con un’intimità, non dissimile da quella del fotografo Eugene Smith, incollato al su Country Doctor e a quei pazienti di campagna, accuditi con tenacia giorno su giorno.
Dunque, immagini mai oggettivanti o distaccate, perfettamente in equilibrio, senza sbavature emotive, secondo un senso nitido dell’ordine, che le cose sembrano avere. Un mondo circoscritto, recintato dai margini dell’obbiettivo, un mondo a sé, in cui l’ostinazione degli uomini nel continuare a vivere riempie tutto lo spazio visivo. Ed esige tutta l’attenzione.
Divenuto letterariamente celebre grazie al romanzo Napoli Ferrovia [3], Mexico (sia pure ribattezzato Caracas, come la sua città natale) in quelle strade è di casa. Così, quando Ermanno Rea, ritornato nella sua città per presiedere il Premio Napoli (dal 2002 al 2006), esplicita il desiderio di riscoprire le strade frequentate da bambino e i luoghi degli incontri intellettuali della prima maturità, ripercorrendoli a piedi, attentamente, passo dopo passo, 
Caracas accetta di accompagnarlo. 
S’innesca subito un gioco di specchi fra gli spazi della memoria e la dimensione presente dei vicoli, degli slarghi, delle piazze, una dimensione alterata purtroppo dalle speranze violentate, dalla genuflessione inerme alla camorra, dall’insensato destino di uno scalo ferroviario divenuto ultima destinazione e non più apertura sul resto del mondo. 
Pur avendo una sua agenzia fotografica, l’Equipage, e arrotondando con le copertine di «Napolicity» o con dei progetti grafici per alcune grandi case editrici, Quintavalle (Caracas) rimane un irregolare. Lo è per la storia di emigrazione che gli sta alle spalle, per un passato da naziskin, per scelte letterarie e filosofiche: lui, cultore di Mishima e delle arti marziali. E lo è al punto, da non avere neppure una residenza stabile. 
Dunque, un moderno e singolarissimo Virgilio, adatto come pochi altri a coinvolge nella sua militanza fra gli ultimi della terra la «vecchia cariatide comunista», che Rea sente di essere diventato. Due realtà antitetiche, che si fronteggiano in uno incedere peripatetico fra i vicoli notturni della ferrovia centrale. 
Eppure, a dispetto della divaricazione, notte su notte i due poli si avvicinano, fino al punto che il narratore in prima persona e il personaggio reale con cui interloquisce («Chi mi conosce sa che non mi sono inventato nulla. Figurarsi un personaggio come Caracas!» [4]) sentono di avere in comune così tante affinità, da rendere ambigua ogni linea di demarcazione: a cominciare dall’amore per la città e dall’impellente desiderio di abbandonarla, dall’invaghimento per Rosa La Rosa, fino al comune passato da fotoreporter. Tre elementi avvinti dalla medesima immobilità, inscindibile e mortale, che stringe la Fotografia al suo referente, Rosa alla sua dose quotidiana di eroina e Napoli alla sua espropriazione e agli abbandoni.
Con una lussuosa Rolleiflex, regalatagli dal padre in età giovanile, Ermanno Rea aveva fermato in un primo scatto il bacio alla moglie in lacrime di un emigrante, pronto a imbarcarsi a Napoli per l’Argentina, e aveva cominciato a percepire il proprio «senso visivo, fenomenologico del mondo» [5] e, con lui, il desiderio impossibile di inglobare Napoli e il suo mondo denudato:

E cominciai a fotografare la città, modella perfettamente disinibita del dolore e della gioia, sempre piena di scorci ineffabili, di volti intensamente espressivi, di situazioni paradossali [...]. Ogni fotografia costituiva un passo avanti nel processo di conoscenza di me stesso attraverso la città. O forse la città svestita, penetrata, scandagliata dai miei occhi insaziabili. [6]

Il senso profondo della sfida sta proprio nello sguardo del testimone oculare, che modifica con il suo occhio l’oggetto osservato, Napoli appunto, e inconsapevolmente anche la propria stratificata densità di oggetto narrativo, che vi si specchia. 

«Perché me ne andai? Caracas sorride. «Se non lo sai tu!» lo lo so e non lo so. Vi sono domande che rifuggono ogni risposta perché la loro vocazione è di crescere su se stesse, dilatarsi nel tempo, ridefinirsi in una successione continua di variazioni e aggiustamenti: fu giusto? fu un guadagno? fu una necessità? Forse è arrivato il momento di non girare la testa dall'altra parte. [7]

In presa diretta sulle pagine dei diari, notte dopo notte, Rea annota tutto come un cronista di strada scrupoloso: sequenze di episodi, figure silenti, immagini singolari. Ad unirle, in modo rapsodico c’è solo la «sconfinata ragnatela siderale» [8] della ferrovia, dove Caracas, simile a un astronauta, cerca impaziente di «scoprire nuovi mondi» [9] e dove Rea caparbiamente si ostina a portare a termine un viaggio iniziatico, mosso nei suoi primi passi con Mistero napoletano e interrotto con La dismissione
Procede su un continuo rimando tra percorso interiore e descrizione esterna, fra rivisitazione dei commerci del padre in piazza Mercato, che prima della guerra traeva linfa dall’annesso molo Carmine, e il «furto del mare», causato dalla speculazione edilizia e dal malaffare. La discesa tra i gironi infernali di piazza Garibaldi, Porta Capuana, piazza Principe Umberto, via Carrera Grande, via Tristano Caracciolo, il Vasto, corso Garibaldi, borgo Sant’Antonio Abate e la Duchesca avviene seguendo una «topografia proibita», [10]in cui «non c’è notte senza un’ammuina, senza una cerimonia di sangue con tanto di strepiti e maledizioni». [11] 
Se ‘narrare’ significava far parlare senza commenti i fatti, i gesti, le azioni dei personaggi - almeno secondo la definizione di György Lukács - la scrittura di Rea segue altre strade: preferisce ‘descrivere’ le inquietudini degli spazi che, quasi fossero corpi, accolgono con sensualità, si lasciano contaminare o respingono con ripugnanza; preferisce addentrarsi nei grovigli più contorti e assurdi della proliferazione del mondo, privilegiare l’esattezza e allo stesso tempo il mistero degli oggetti, che integri, feriti o pieni di cicatrici sprigionano stupore, timore, perplessità.
Ne nascono storie piene di dettagli reali, ma snodati a spirale sull’accumulo visivo: la distonia di una Ferrari parcheggiata di traverso in un vicolo, la fontana del carciofo «trappola onirica dal senso perennemente rotatorio» [12] dei napoletani, le strisce pedonali (apparente marginalità) ridotte a decorazione inutile, in dispregio alla condizione di disagio degli anziani impossibilitati ad attraversare, o le braccia penzoloni, il capo chino di Rosa La Rosa, corpo ormai inanimato al centro di una stanza. Tante angolature minute, parziali, tanti oggetti inanellati in successione, in una moltiplicazione di ripetizioni visive. Si guarda e poi si torna a guardare meglio, con accanimento, impossibilitati a mettere a fuoco l’insieme. 
Stessa disseminazione tocca all’udito e in modo particolare al dialetto, sporcato dalla volenza delle “a” spalancate come voragini, di “u” rauche e animalesche, di “b” strascicate come serpenti: un lessico stranito, maculato di droga e di degrado, distante da tutto ciò che è familiare.
Così, la scrittura di Rea si fa promiscua e polmonare, sintonizza il respiro dei vicoli dalle parole, assorbe l’energia statica capace di dare la scossa ai corpi, ingloba i luccichii degli sguardi spavaldi degli spacciatori, ferma le sventagliate di luce stroboscopica della «stella cometa» [13] che vive in casa La Rosa o del «lucente carbone» [14] della nigeriana Florence. «Inghiotte, metabolizza» [15] tutto ciò che racconta. Si muove, insomma, come la città, che «via via che integra lo straniero, lo divora», [16] via via che assorbe illegalità, se ne ammorba. 
E, alla fine, Napoli Ferrovia diviene qualcosa di più di un’esplorazione di spazi vissuti un tempo dallo scrittore e rivisitati nel momento presente, qualcosa che finisce per trasformare piazza Garibaldi, con le sue centodiciannove nazionalità diverse di immigrati, nel luogo premonitore di una mutazione biologica, di un sangue rinnovato. Una piazza-mondo, che consente al lettore di passeggiare, se non nel futuro, almeno ai suoi margini, una Babele cosmopolita e poliglotta, da cui ripartire, perché l’antica vocazione mercantile di Napoli lascia sperare che le difficoltà dell’integrazione siano superabili. Sogno, ha confessato Rea, una Napoli in cui i flussi migratori non siano più governati dalla camorra e che apra le sue porte ai «napoletani di remota e di recente anagrafe in modo illimitato, ma nel rispetto delle leggi». [17] Una città meticcia aperta a ogni dialogo interculturale.
Accumulo e ripetizione ossessiva ritmano la progressione narrativa fino al capitolo Il signor Odionapoli, dove il libro libera l’energia accumulata, virando verso un esito imprevedibile, un po’ come avviene nel Boléro con l’ingresso della tonalità di mi maggiore, dopo diciotto ripetizioni tutte inanellate nella medesima tonalità di do maggiore:

Via via che passano i giorni e accumulo appunti su appunti tra sobbalzi vari, lunghe pause e subitanee riprese (quasi il diario di una nevrosi), mi sembra di scorgere in maniera sempre più chiara dentro di me le linee di un disegno che si compie […] il fascino dell’estraneità, il piacere della non appartenenza, della condizione dello straniero, anzi di uomo senza nessuna patria. […] L’esilio come destino ineludibile, insomma. [18]

Comincia da questo momento il ‘congedo’ inevitabile da tutto e da tutti, con l’avvallo del ricordo di Luigi Compagnone, cui tutto il capitolo è dedicato: congedo dal Premio Napoli, dopo cinque anni di presidenza; abbandono della camera 509 dell’Hotel Santa Lucia, la villa dove era stata coltivata per anni l’amicizia con il pittore Paolo Ricci; emigrazione, [19] l’ultima e definitiva, dalla città natale sommersa dai rifiuti e dal suo territorio, divenuto ricettacolo di tutti gli scarichi inquinanti:

io non sento di appartenere più a questa comunità. Tra noi, tra me e le città, è accaduto qualcosa di irrevocabile che rende impossibile ogni iportesi di ritorno: sarebbe come votarmi a una tragica infelicità. Ormai io sono uno straniero, anzi un rinnegato che si è fatto straniero. [20]

La costatazione è quella di un radicale cambiamento storico, che consiste non in un evento traumatico, ma proprio dall’umiliante ’sciopero degli eventi’, come lo avrebbe chiamato Jean Baudrillard. La città non ha più niente da raccontare: né la guerra, né l’industrializzazione, né la modernizzazione tecnologica. Il trauma più grande è quello di non averne, di affogare nell’apatia, nell’indifferenza. Così, il congedo non lascia fuori proprio nessuno, neppure l’«aria angelica e soccorritrice» dell’amico fotografo che lo accompagna, così simile nello sguardo mansueto all’altro amico comunista Luigi Incoronato, capace di accendersi dello stesso furore missionario di Caracas nel raccontare i fagotti di stracci addormentati negli angoli umidi della Scala a San Potito [21] e nel profferire la sua dichiarazione d’amore alla città, pur rappresentandola come luogo senza speranza, abitato da tanti Lazzari piagati: 

Una volta gli dissi: forse tu sei effettivamente lui, reincarnatosi in un nazi per autopunizione. Comunque sei lui [22]

Nel corpo a corpo nevrotico fra l’Io narrante e i suoi alter ego, si interrompe quel sentimento parallelo, che ha guidato la sintonia fino a quel momento: Caracas scompare nel nulla, decide d’improvviso «di dissociarsi dal racconto, di uscire dal gioco, trasformando di colpo un libro-verità in un libro-fantasia se non in un libro-menzogna. Non potevano esserci dubbi su come erano andate le cose. Superato il primo momento di emozione, e forse di entusiasmo, non si era più riconosciuto nel personaggio. […] Scomparendo, era come se Caracas mi avesse defraudato di ogni concretezza, ridotto a pura macchina di sogni: proprio me, che per tutta la vita ho cercato disperatamente di rincorrere la realtà, di stargli addosso, di essere soltanto – ostinatamente – l’uomo delle ‘cose vere’». [23]
Allo scrittore-testimone, fragile e incerto, quale identità può rimanere, se non quella della contrapposizione in corpore, che non disdegna di incarnarsi nel corpo delle vittime per eccellenza, quelle ebraiche, innescando un’indagine su una ‘presunta’ origine ebrea del cognome Rea. Per pura supposizione si sceglie, insomma, di appartenere alle vittime, e di controbattere, così, la negazione da parte di Caracas dell’olocausto e dei forni crematori. A un vuoto, si risponde con un eccesso di pieno. Ma si sa, – ce lo ha insegnato Cioran - «una sola cosa importa: apprendere a essere perdenti».