Claudia Mizzotti - «Il mondo di adesso è fatto di cose diverse non vuole ricordare quelle di prima» (1)

Leggere a scuola per recuperare un passato scomodo (2)

 

Nel titolo di questo contributo ricorrono due versi di Fabio Pusterla, dai Frammenti di Truganini, una serie componimenti pubblicati per la prima volta nel 2021 e poi inseriti nella raccolta Tremalume del 2022. Le cose «di prima», quelle che non si vogliono ricordare, sono le violenze coloniali, di cui è simbolo Truganini, l’ultima aborigena della Tasmania, sopravvissuta al genocidio del suo popolo per mano dei coloni inglesi.

Sulla necessità di non obliterare le pagine più scomode del nostro passato nazionale Luigi Zoja, nel suo saggio Narrare l’Italia, scrive che «Non manca di onore un paese sconfitto in guerra, ma quello che compie crimini e non fa autocritica. […] Non esistono classifiche ufficiali della rispettabilità dei popoli. Il riconoscere gli errori però ne fa parte».[1] Mi accingo a illustrare percorsi di lettura svolti a scuola intorno a un passato, quello coloniale, a lungo oggetto di un’amnesia selettiva, di una rimozione, ma credo che anche da questo, cioè dal coraggio di far luce sulle ombre del passato e di affrontarle, dipenda l’onorabilità di un Paese e del suo sistema di istruzione, soprattutto se per farlo ope legis sono state introdotte delle cornici istituzionali: mi riferisco all’insegnamento trasversale di educazione civica[2] e all’attività di orientamento.[3] Nelle linee guida di educazione civica, in particolare, è richiesto di soffermarsi sul concetto di l’identità collettiva nazionale,[4] in cui non poco peso ha il retaggio storico coloniale; quanto all’orientamento, il suo scopo è anche quello di sviluppare l’identità individuale in divenire, in un contesto di crescente complessità che si giova di coordinate storico culturali per affrancarsi da un miope presentismo.

Sulla presenza di percorsi postcoloniali nelle programmazioni didattiche, Emanuele Zinato, in un intervento dello scorso 22 maggio 2024[5] nell’ambito di una riflessione a più voci innescata dalla pubblicazione del volume Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, Milano, 2024) di Mimmo Cangiano,[6] osserva che:

 

In una scuola e in una università sempre più aziendalizzate, i professori sono ormai letteralmente “parlati” dalle neolingua neoliberista (merito, competenze, facilitatore, talenti, competizione, soft skills, Pcto, Tutor, orientamento, Terze missioni, eccellenza, innovazione) ma trovano un risarcimento alla loro subalternità nell’“inclusività” o – in ambito umanistico – nella “libertà” di costruire insegnamenti e progetti di taglio interculturale, incentrati sulle diversità, sul queer, sul postcoloniale.

 

Questa considerazione mi pare avere una certa consonanza con un passaggio dell’ultimo romanzo di Alessandro Piperno, Aria di famiglia: il protagonista, il professor Sacerdoti, è un francesista sottoposto a un procedimento disciplinare dalla Commissione paritetica dell’ateneo in cui insegna per aver citato un passo di Flaubert dai toni decisamente misogini; la sua accusatrice è Teresa Ghinassi, un’ex allieva che ha costruito la sua brillante carriera accademica sotto la bandiera della valorizzazione di ogni possibile diversità:

 

Ponderose pubblicazioni erudite e un’attitudine al presenzialismo accademico le avevano garantito un nome nei cosiddetti gender studies. Non c’era niente nel suo atteggiamento che non mi suscitasse irritazione. A cominciare dal trattamento riservato agli studenti. M’infastidiva che desse loro del tu, che li chiamasse per nome: “Noemi”, “Giulio”, “Cristina”, come se fossero ancora alle elementari. E che, sorvolando sui doveri, si battesse per i loro diritti. Ovviamente i suoi corsi andavano per la maggiore, soprattutto quelli sul postcolonialismo. E non solo perché distribuiva voti alti con generosità criminale, ma perché sapeva rassicurare e blandire i poveri di spirito. Le sue lezioni alternavano il tono edificante della predica all’enfasi del comizio. Aveva un particolare talento nel ridurre i classici letterari ad alfieri della grande battaglia allo status quo. Dei libri – la preziosa materia di cui sono fatti, la cura per renderli prelibati – se ne infischiava. Ad avvincerla erano le vite eroiche e disgraziate degli autori (in realtà, si trattava soprattutto di autrici), la loro capacità di precorrere i tempi, l’ostinazione con cui avevano saputo ribellarsi al potere costituito imposto dalla cultura ufficiale.[7]

 

In verità, sul pericolo di un’implicita collaborazione del postcoloniale all’affermazione del neocolonialismo già Gayatri Chakravorty Spivack, un quarto di secolo fa, segnalava che «non è affatto un segreto che il multiculturalismo liberal sia determinato dalle necessità dei capitalismi transnazionali contemporanei. È un’importante mossa di pubbliche relazioni nella conquista apparente del consenso delle nazioni in via di sviluppo al progetto dominante della finanziarizzazione del globo».[8]

In questo scenario insidioso, in cui occuparsi di postcoloniale a scuola porge il fianco a una critica di opportunismo, di sfoggio autoassolutorio di buone intenzioni, come si deve comportare un insegnante nella sua attività di mediazione culturale? Deve forse adeguarsi alle posizioni «contro l’impegno» espresse da Walter Siti, rassegnandosi al fatto che «tutti i romanzi che aspirano a fare del bene sono per definizione dei cattivi romanzi» perché «le due ambizioni sono antitetiche»,[9] avverando l’aforisma di Gide secondo cui «Con i buoni sentimenti si fanno brutti libri»?[10] Deve prendere le distanze da «un nuovo engagement basato su un contenutismo prevalente sulle ragioni della forma, organizzato in nuclei tematici che si prestano a diventare nuovi e prevedibili cliché, rivolti alla difesa delle minoranze e degli oppressi»?[11] Deve ignorare il «valore d’uso della letteratura»,[12] che non è solo esperienza estetica, ma anche medium conoscitivo, stante la formidabile capacità, propria dei dispositivi letterari narrativi, di creare esperienze vicarie di situazioni lontane dalla quotidianità, e di dare così un contributo decisivo e non fungibile alla comprensione del mondo e alla immaginazione di alternative alla realtà, soprattutto quando la lettura si svolge all’interno di una comunità ermeneutica, aperta a negoziarne i significati? Deve diffidare della ormai copiosa saggistica che dimostra quanto le storie siano geneticamente connaturate alla nostra specie,[13] con tutte le implicazioni pedagogiche e didattiche del caso?

Anche se queste domande sono retoriche, le risposte sono tutt’altro che semplici e scontate; mi sono mossa con prudenza e circospezione, evitando eccessi e improvvisazioni, secondo il  precetto aristotelico della mesòtes. E chiamare in causa Aristotele, del resto, non mi pare fuori luogo in relazione alla questione sollevata, ossia se attraverso la letteratura e la lettura si possano/debbano perseguire fini educativi in senso morale, oltre che estetico. Mi riferisco naturalmente al neoaristotelismo di Martha Nussbaum, ben rappresentato nei saggi della fine del secolo scorso e raccolti, in traduzione italiana, nei volumi (eloquenti fin dal titolo) Giustizia poetica e Coltivare l’umanità.[14]

Da più di dieci anni, nonostante il timore di qualche legittimo processo alle mie buone intenzioni e consapevole del rischio di cadere nella trappola del neo-orientalismo,[15] di dover semplificare le questioni (ma spero non di banalizzarle), nell’ambito di percorsi di lettura nell’Estremo contemporaneo nel triennio conclusivo della Scuola Secondaria di II grado, inserisco letture che, oltre a fornire un saggio delle principali tendenze della letteratura circostante, affrontano la questione postcoloniale.[16]

So di essere in buona compagnia almeno dal 2009, anno in cui è stato pubblicato Il lontano presente,[17] di cui segnalo una nuova edizione del 2020 liberamente disponibile in rete[18] ma priva purtroppo dell’antologia di testi letterari fondamentale per il nostro lavoro. Le autrici, Anna Di Sapio e Marina Medi, suggerivano l’uso del testo letterario nella didattica della storia per affrontare lo studio della colonizzazione italiana, trascurata dai manuali scolastici di storia,[19] all’epoca ancora impenetrabili alle acquisizioni della ricerca storiografica più recente, non solo a causa dello spazio ridotto dedicato alle vicende coloniali italiane, ma soprattutto per la difficoltà di tematizzare un argomento che viene fatto affiorare in modo carsico ed evenemenziale nei libri di testo, che mantengono un impianto rigidamente cronologico sequenziale dei fatti, ignorando le implicazioni di lungo periodo e con scarso riguardo, poi, al fenomeno della decolonizzazione, che, nel caso dell’Italia, presenta alcune significative peculiarità, dato che l’impero coloniale italiano è travolto dagli sviluppi del Secondo conflitto mondiale. Come, del resto, peculiare è stata anche la storia della colonizzazione italiana, tardiva e oggetto di una lettura autoassolutoria tendente a configurare un colonialismo cattivo (quello di regime) ben distinto da un colonialismo buono (quello liberale).[20]

Sulla lettura distorta e sulla rimozione del nostro passato coloniale, che la scuola deve contrastare, ci sono testi molto spendibili anche in aula: Italiani brava gente?[21] di Angelo Del Boca è diventato ormai un classico e si caratterizza per un grande rigore scientifico derivante dagli studi imponenti dell’autore pubblicati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ma segnalo anche il più recente, militante fin dal titolo, Noi però gli abbiamo fatto le strade di Francesco Filippi, che scrive:

 

Tutti i momenti «importanti» del Paese sono stati letti e riletti nel corso del tempo.

Anzi no, quasi tutti.

C’è un aspetto della storia italiana che, nel lungo periodo di memoria preso in esame, non è stato sostanzialmente ripreso a livello pubblico per favorirne l’interpretazione, per far nascere una nuova consapevolezza collettiva o anche solo per farne un’arma retorica del dibattito politico quotidiano.

Si tratta del colonialismo italiano. […]

A cavallo degli anni Duemila molte opere di storiche e storici hanno contribuito ad accelerare la diffusione e soprattutto l’approfondimento scientifico di un dibattito fondamentale per l’evoluzione del rapporto tra storia e memoria in Italia. Si sono moltiplicati i saggi tematici e sono giunti al grande pubblico i testi di scrittori e intellettuali provenienti dalle ex colonie o che hanno legami familiari e affettivi con quelle realtà.

Eppure sembra che questo passato non sia ancora entrato stabilmente nel vivere comune della società italiana. Il dibattito sull’eredità coloniale, che altri Paesi occidentali hanno intrapreso, per lo più costretti dalle proprie vicende sociali già da molto tempo e a volte con risultati non troppo incoraggianti, in Italia è ancora solo embrionale.[22]

 

Le indagini storiografiche più aggiornate corrodono il fascino ambiguo del sapere nostalgico, “retrotopico” per dirla con Bauman,[23] che rimuove, si rifugia in forme di idealizzazione e non è affatto incline a un’analisi approfondita, come osserva Antonio Pascale:

 

Il sapere nostalgico rimuove il passato e al suo posto fa capolino un surrogato idealizzato. Ogni idealizzazione è generata, si sa, da una rimozione. […] Rimuovendo durezze e asperità al loro posto sono spuntate immagini di copertura, e tutte fortemente idealizzate e pubblicizzate. Il sapere nostalgico è dunque un inquinante perché tende a formare un mondo passato perfetto e puro. […] Al sapere nostalgico manca l’analisi. Tuttavia, anzi, proprio per questo ha il vantaggio di piacere al grande pubblico.[24]

 

Penso che anche attraverso gli strumenti dell’educazione letteraria si possa restituire complessità a una questione troppo a lungo trascurata individuando letture a margine del canone scolastico, secondo uno stile contrappuntistico, che permetta, tra le altre cose, di frequentare anche opere di autori afrodiscendenti.

Quanto alla legittimità della «invasione di campo», secondo la definizione di Giorgio Van Straten,[25] cioè della possibilità di utilizzare i testi letterari come fonti che arricchiscono, complicano, problematizzano e inverano la ricostruzione del passato, non mancano interventi molto significativi, che corroborano le osservazioni, limitate alla didattica della storia, di Maurizio Gusso[26] già riportate nel volume di Di Sapio e Medi,[27] ma sul rapporto fra letteratura e storia non approfondisco in questa sede la riflessione teorica[28] e passo senz’altro alla dimensione della pratica didattica. Escluderò le opere pubblicate prima del 2009 (già considerate dalle due autrici menzionate), concentrando l’attenzione su quelle pubblicate dopo il 2010 e fino ad oggi. I testi che presenterò sono stati oggetto di esperienze di apprendimento situato, che hanno sposato la prospettiva di Giuliana Benvenuti, autrice nel 2012 di un importante studio sul romanzo neostorico italiano: «Il romanzo oggi svolge una “funzione suppletiva” rispetto alla carenza di «coscienza storica» per fornire di senso un presente disorientato, per curare traumi, per far riemergere memorie neglette, per accedere a nuove forme di mitopoiesi»,[29] perché «quando si apre la scena ai subalterni, Storia e Letteratura diventano territori dai confini incerti».[30]

Le piste di lavoro esplorate sono state le seguenti e per ciascuna sarà illustrato un percorso di lavoro:

 

  • narrazioni di autori italiani sulle colonie, con una selezione di testi sull’attentato a Graziani;
  • narrazioni di autori afrodiscendenti, con un focus sull’ironia di Kaha Mohamed Aden;
  • le narrazioni sulle truppe coloniali;
  • qualche verso, per riflettere.

 

Scrittori italiani che tornano nelle colonie

 

Negli ultimi anni si sono moltiplicati i romanzi in cui scrittori italiani propongono una lettura alternativa e documentata dei fatti delle colonie:[31] a titolo esemplificativo, i gialli di Carlo Lucarelli e più recentemente di Giorgio Ballario, i romanzi che intersecano i piani temporali di passato e presente come Una pioggia bruciante di Franca Cavagnoli, uno dei primi che contempla l’uso di gas nella campagna d’Etiopia, Sangue giusto di Francesca Melandri o il recentissimo romanzo Le invisibili di Elena Rausa, su cui tornerò. Ho lavorato nelle classi su due opere, in particolare, intorno a cui ho svolto le prime attività di ricerca azione sul postcoloniale, due romanzi africani usciti dalla fucina creativa del collettivo Wu Ming, prima Timira[32], poi Point Lenana,[33] che corrispondono a un’idea precisa di letteratura, che si rintraccia già nei testi teorici che precedono l’uscita dei romanzi postcoloniali (New italian epic e La salvezza di Euridice)[34] e che si ritrova poi nel pamphlet del 2014 intitolato Utile per iscopo?[35] di Giovanni Cattabriga-Wu Ming 2, di cui riporto qualche passaggio chiave.

I romanzi storici che cercano il consenso, l’accordo, la pacificazione nazionale, la rimozione dei conflitti, la narrazione condivisa sono destinati a fallire. Non si può fare letteratura impunemente.[36]

Un romanzo storico del quarto tipo non ha il vero per oggetto e nemmeno l’utile per iscopo. Il suo scopo è falsificare la narrazione dominante, mostrarne le stratificazioni, sostituire allo stereotipo il conflitto. Diventare pre-testo per altre ricerche. Non un contenitore di significati, ma un catalizzatore di interrogativi che non basta mai a sé stesso e che dunque non è utile di per sé. [37]

Proprio perché la sua verità consiste nel costruire una mappa semantica complessa, capace di aumentare la consapevolezza di chi legge e di spingerlo a percorrere nuovi sentieri, ecco che la storia della mappa, il making of, i segreti del suo funzionamento, diventano parte dell’opera stessa (ed è anche per questo che molti autori di romanzi storici, dopo aver messo in pensione il narratore onnisciente, finiscono per mettere se stessi sulla pagina, per raccontare come si è svolto il loro studio: penso a HHhH di Laurent Binet, a Limonov di Emmanuel Carrère, a Timira e Point Lenana del nostro collettivo, a Rivoluzionario di Passaggio di Paco Taibo II).

 

[…] Mi pare piuttosto che l’odierna fame sia una fame di testimonianze, di punti di vista sul mondo, di voci. In conclusione, se dovessi sintetizzare tutto questo riscrivendo le tre famose coordinate manzoniane, direi che gli oggetti narrativi storici del quarto tipo avranno l’archivio come soggetto, la fiction come strumento e la testimonianza come scopo.[38]

 

Tornando a Timira e Point Lenana, si tratta in entrambi in casi di non-fiction novel, incentrate sulle figure rispettivamente di Isabella Marincola e di Felice Benuzzi; le due opere nascono dalla collaborazione di un membro del collettivo, Wu Ming 2 per Timira e Wu Ming 1 nel caso di Point Lenana, con altri autori (rispettivamente Anthar Mohamed e Roberto Santachiara) e, coerentemente con la poetica che caratterizza il collettivo (cioè usare il romanzo storico come una mappa che si sovrappone al presente e ci consente di orientarci, tanto più utile quanto più osserva la realtà da un punto di vista “sghembo”, inconsueto), esse condividono alcuni significativi aspetti formali:

 

  • la presenza di un ricco corredo paratestuale, con particolare riferimento alla sezione Titoli di coda, alla fine della narrazione, in cui gli autori riversano riflessioni, note bibliografiche e riferimenti vari all’archivio, con la possibilità per il lettore di verificare e risignificare;
  • la prospettiva meta-narrativa, autofinzionale, per la quale gli autori diventano testimoni del loro gesto creativo e della visione del mondo che esprimono, così da coinvolgere il lettore nella genesi della narrazione, spettatore partecipe dell’opera nel suo farsi;
  • la transmedialità che consente all’opera di estendersi oltre la pagina attraverso una serie di media assai diversificati.[39]

 

Timira e Point Lenana sono opere sperimentali, ma di grande leggibilità, che possono essere proposte in lettura integrale a studenti dell’ultimo anno della scuola Secondaria di II grado,[40] provvisti delle conoscenze storiche relative alle vicende coloniali italiane. Accanto, tuttavia, alla lettura integrale d’opera, i romanzi ben si prestano anche alla costruzione di percorsi antologici, considerata la struttura non lineare del racconto, nel quale si possono facilmente isolare alcuni passaggi narrativi.

Timira, che si caratterizza anche per il carattere di intersezionalità, è un romanzo meticcio che mescola memoria e documenti d’archivio, invenzione letteraria e verità storica, scritto a sei mani da un trio narrante altrettanto meticcio: un’attrice italosomala di ottantacinque anni, un plurilaureato di Mogadiscio con due cittadinanze e un cantastorie italiano dal nome cinese».[41] L’attrice è Timira, ovvero Isabella Marincola, di madre somala e padre italiano, una figlia del madamato, cittadina italiana, sorella di Giorgio, giovane martire partigiano, e madre di Antar, il plurilaureato emigrato in Italia per fuggire dalla dittatura di Siad Barre.

Wu Ming 2, il cantastorie, ha messo ordine nel mare magnum della loro odissea tra Italia e Somalia, narrando, con rigore e creatività al tempo stesso, vicende che vanno dagli anni Venti del Novecento al 26 ottobre 2011, data della Lettera intermittente n.4 che chiude il romanzo con il racconto della morte di Isabella e della decisione dei superstiti, Antar e Wu Ming 2, di farla continuare a vivere nelle pagine di un libro dalla gestazione molto lunga: nove anni ci sono voluti per portare a termine l’impresa. Timira è «un esperimento di convivenza, di società multietnica. Che a parole sembra sempre bellissima ma invece è figlia di un duro lavoro, di tanta pazienza e impegno. […] Ci siamo parlati, ci siamo capiti, ci siamo rispettati: quello che serve per unire culture e punti di vista diversi».[42]

Isabella Marincola/Timira Hassan, africana di nascita ed europea di educazione, una nera che traduce il greco e il latino, troppo scura per non essere guardata con razzismo in Italia e troppo chiara per non essere vista con sospetto in Somalia, ragazza a Roma, donna matura a Mogadiscio, anziana a Bologna, incarna le contraddizioni dei tempi che ha attraversato, porta il peso della storia sulle sue spalle, dimostra l’impossibilità di vantare un’appartenenza di cui farsi scudo, percorre i sentieri tortuosi della ricerca infruttuosa di un’identità collettiva, monolitica e rassicurante. Isabella-Timira non è un personaggio lineare nelle sue scelte, spesso impulsive, non sempre condivisibili, perché non è la protagonista di una fiction: non può quindi semplicemente gratificare il lettore, anzi sembra impegnata in un’operazione costante di frustrazione delle attese, ma è proprio questo quid inafferrabile che la rende unica e vera.

 

Il racconto dell’attentato a Graziani

Oltre alla lettura integrale o antologica di un’opera significativa, può essere organizzato un percorso di letture intorno a un episodio chiave per smascherare il carattere violento e prevaricatore del colonialismo italiano. Ho scelto un episodio celeberrimo, quello dell’attentato al viceré Graziani. Questa la ricostruzione di Angelo Del Boca:

 

Il 19 febbraio 1937, in seguito a un attentato alla vita del viceré d’Etiopia, maresciallo Rodolfo Graziani, alcune migliaia di italiani, civili e militari, uscivano dalle loro case e dalle loro caserme e davano inizio alla più furiosa e sanguinosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto.

Armati di randelli, di mazze, di spranghe di ferro, abbattevano chiunque – uomo, donna, vecchio o bambino – incontravano sul loro cammino nella città-foresta di Addis Abeba.

E poiché era stabilito che la strage durasse 3 giorni, e l’uso dei randelli si era rivelato troppo faticoso, già dal secondo giorno si ricorreva a metodi più sbrigativi ed efficaci.

Il più praticato era quello di cospargere una capanna di benzina e poi di incendiarla, con dentro tutti i suoi occupanti, lanciando una bomba a mano.

Nessuno ha mai stilato un bilancio preciso degli etiopici che sono stati uccisi dal 19 al 21 febbraio 1937. Si va da un minimo di 1400 a un massimo di 30 mila, a seconda delle fonti.

Le migliaia di italiani che hanno partecipato alla strage di tanti innocenti, che nulla avevano a che fare con l’attentato, non hanno mai pagato per i loro delitti. Non sono mai stati inquisiti. Non hanno fatto un solo giorno di prigione.

Dopo l’estenuante mattanza, sono tornati alle loro case e alle loro caserme, come se nulla fosse accaduto. Chi aveva famiglia in città ha continuato, senza problemi, senza sentimenti di colpa, a gestire i propri affari, ad accarezzare i figli, a fare all’amore. Come se in quei tre giorni di sangue il suo forsennato impegno nell’uccidere fosse stata la cosa più naturale, più ammirevole.[43]

 

Come se non bastasse, di lì a qualche mese, tra il 20 e il 29 maggio, in risposta all’attentato, dato che il viceré stesso riteneva che il clero copta sostenesse la resistenza etiope, venne commesso «il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia»[44] per mano del generale Pietro Maletti, agli ordini di Graziani, ma con il consenso del ministro dell’Africa italiana, Alessandro Lessona, e dello stesso Mussolini: nel suo rapporto al Duce, Graziani comunica un numero di morti, 449, notevolmente inferiore alle stime degli storici, per i quali il numero dei trucidati sarebbe tra i 1.800 e i 2.200, fra cui il capo della comunità, il vescovo abuna Petros.[45]

Nessuna informazione delle rappresaglie filtra dagli organi di informazione del tempo[46] e, come è prevedibile, nemmeno dai racconti e dai romanzi coloniali scritti all’epoca con lo scopo di contribuire alla propaganda elaborando una precisa, rassicurante e allettante immagine dell’Africa e della vita delle colonie. Non potrebbe essere altrimenti, dato che Francesco Casales, autore di una storia del romanzo coloniale, lo definisce «un costrutto narrativo di ambientazione extra metropolitana storicamente localizzato in un rapporto di potere coloniale, impegnato a rappresentare un rapporto di potere coloniale secondo la prospettiva univoca dei dominatori»,[47] sottolineando, fra le caratteristiche fondamentali del genere, la strutturazione razzista dell’avvicendamento narrativo, la volontà pedagogica e l’organicità al potere politico. Ricordo che dal 1926 esisteva anche un periodico,[48] intitolato «Esotica»[49], finalizzato alla diffusione di narrazioni coloniali, diretto da quel Mario Dei Gaslini che aveva appena vinto con Piccolo amore beduino[50] la prima edizione del concorso per il miglior romanzo coloniale, iniziativa voluta dal Duce per sostenere «la missione degli scrittori, affinché si facciano portatori del nuovo tipo di civiltà italiana e siano artefici di quello che si può chiamare imperialismo spirituale».[51]

Dunque, se la letteratura coloniale fu «marginale e inevitabilmente scadente»,[52] seriale oltreché specializzata nell’omissione dei fatti salienti e tragicamente caratterizzanti le vicende coloniali italiane, le contronarrazioni postcoloniali recenti, rispetto all’episodio specifico del massacro di Addis Abeba dopo l’attentato a Graziani, non mancano, e non solo nei romanzi che possiamo etichettare come postcoloniali.

Il confronto fra le fonti letterarie può partire da Point Lenana, che molto spazio dedica a Rodolfo Graziani,[53] al generale che già si è distinto in Nord Africa nella cosiddetta «campagna di pacificazione» del Fezzan[54] e che diventa viceré nel Corno d’Africa in sostituzione di Badoglio, rimpatriato nel maggio del ’36 con gratifiche straordinarie per il successo della guerra di conquista. Riporto solo qualche passaggio chiave:

 

Nel febbraio 1937, per festeggiare la recente nascita del principe di Napoli (quello che sarà il mancato Vittorio Emanuele IV), Graziani organizza una cerimonia nel Piccolo Ghebbì, il palazzo imperiale, ora residenza del viceré. Invita gli esponenti di spicco della comunità italiana e i notabili amhara che hanno fatto atto di sottomissione all’Italia. Non solo: annuncia che, per l’occasione, donerà un tallero a ogni povero e invalido della città.

– Capito che roba?

– Gli italiani sì che son brava gente.

La mattina del 19 febbraio, nel cortile del palazzo affluisce una triste torma di derelitti. Graziani, in piedi sulla scalinata e attorniato da lacchè bianchi e neri, distribuisce magnanimo l’elemosina. Non può sapere che tra i mendicanti si sono infiltrati due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom. Sotto i mantelli logori, tengono pronte svariate bombe a mano. Mezz’ora dopo mezzogiorno, Abraham e Mogus lanciano sette o otto bombe verso la scalinata, uccidendo quattro italiani e tre abissini, e ferendo una cinquantina di presenti, in primis lo stesso Graziani. Le bombe esplodono alle sue spalle, non muore, ma è colpito da più di trecento schegge. Gli italiani sparano a casaccio sulla folla. Nella confusione, i due attentatori riescono a fuggire.

Il viceré, privo di sensi, viene portato nell’ospedale Italica Gens. […] Nel mentre, in città si scatena un pogrom, un’abnorme rappresaglia contro la popolazione locale. Addis Abeba è messa a ferro e fuoco da orde di italiani, le vittime saranno migliaia. Naturalmente, i morti ammazzati non hanno a che fare con l’attentato: si tratta semplicemente di dare una lezione ai negri. Testimoni dichiareranno che gli aguzzini, mentre scorrazzano per le vie, uccidono persone inermi e incendiano tucul, gridano a mo’ di slogan: – Civiltà italiana! L’inviato del «Corriere della Sera» Ciro Poggiali assiste alla rappresaglia e ne scrive sul suo diario, che verrà pubblicato solo nel 1972: «Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio [frusta di nervo di bue, N.d.R.] come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente.»

Di giorno Poggiali scrive quel che gli è permesso scrivere, ma di sera, in segreto, scrive la verità.[55]

 

Il passo è interessante anche perché chiama in causa Ciro Poggiali, reticente nei suoi scritti pubblicati sulla stampa asservita al regime, ma lucido osservatore nel suo diario personale che venne pubblicato solo nel 1971.[56]

Anche il romanzo di Francesca Melandri pubblicato nel 2017, candidato a Premio Strega l’anno successivo ma escluso dalla cinquina, dedica molto spazio a Rodolfo Graziani, sulla scia delle polemiche, allora particolarmente accese (e per la verità ancora non sopite), legate al mausoleo eretto in suo onore nel 2012 ad Affile. L’intreccio del romanzo corre su due piani temporali: quello dell’occupazione dell’Etiopia e quello delle disavventure di un giovane migrante, giunto dall’Etiopia in Italia attraverso il deserto, l’inferno della Libia, la traversata del Mediterraneo, le traversie infinite nella burocrazia italiana. Uno dei personaggi principali della trama è Attilio Profeti, camicia nera, funzionario del regime nell’AOI, in particolare collaboratore di Lidio Cipriani (uno dei firmatari del Manifesto della Razza del 1938); rientra ad Addis Abeba quando il peggio è già accaduto ma la penna di Francesca Melandri così racconta quello che si palesa ai suoi occhi:

Dalla città-foresta si levava un fumo quasi profumato. Le bacche dure degli eucalipti scoppiavano diffondendo il loro aroma. I tucul di paglia e legno, cosparsi di benzina, s’incendiavano come zolfanelli. Chi scappava fuori era accolto da fucili, baionette e bastoni.

Per tre giorni e tre notti le camicie nere schiacciarono teste di anziani sotto le scarpe, fracassarono schiene a bastonate. Alle donne fecero cose che ne ridussero il ventre a brandelli, prima di buttarle giù dai camion dentro i fossati. Condussero a frustate dozzine di uomini dentro recinti come armenti al macello, dove li finirono con mazze e bastoni; solo ai più resistenti concessero una fucilata. Entrarono nelle case, frugarono sotto i letti, nessun posto era sicuro. I corpi si accumularono in mezzo alle strade, nei crocevia, davanti alle chiese. Ancora una volta per le vie di Addis Abeba il sangue scorreva, in rivoletti allegri assorbiti dalla polvere solo dopo ore. Interi quartieri di tucul, botteghe e piccoli orti finirono per assomigliare a crateri di un vulcano. Gli umidi tronchi degli eucalipti sibilarono fumando balsamici per giorni interi.

Le Camicie Nere avevano dilagato per Addis Abeba con il sangue denso di hashish, alcol e khat forniti dai superiori, che però già dopo poche ore non furono più necessari perché non c’è sostanza psicotropa più efficace del permesso di esercitare violenza senza limitazioni. […] Neanche i funzionari ministeriali, arrivati a guerra finita senza aver mai imbracciato un fucile, ebbero bisogno di intossicanti: dagli uffici ai piani alti si misero a fare il tiro al bersaglio su ogni pelle scura, a ogni colpo andato a segno esultavano con mogli e impiegati come a un gol della squadra di calcio cittadina. Certo, ci furono anche italiani che non parteciparono al massacro. Qualcuno offrì rifugio agli abissini che fuggivano braccati dalle squadre di camicie nere, che nascosero in casa fingendo fossero parenti della donna con cui condividevano il letto. […] Molti testimoni sbigottiti si chiesero da quale buio demonio fossero posseduti i loro connazionali. Qualsiasi accenno all’accaduto fu però censurato dalla loro corrispondenza dai solerti sostituti di Attilio all’ufficio postale. In Italia nessun giornale, ovviamente, ne parlò. La rappresaglia ordinata da Rodolfo Graziani avvolse Addis Abeba in un buco nero da cui usciva solo un silenzio mortale.[57]

 

Proprio da quel «buco nero» prende le mosse il romanzo postcoloniale Le invisibili[58] di Elena Rausa, scrittrice sensibile alle grandi questioni della storia del Novecento.[59] L’opera ha l’intento dichiarato di «offrire una forma di riscatto, perché chi sceglie di raccontare storie inevitabilmente allarga l’immaginario di chi legge, restituendo visibilità a ciò che è stato cancellato»;[60] ricostruisce le vicende della famiglia Gargano, come affiorano nella memoria di Arturo, il protagonista, nato in Africa da Nicoletta e Vittorio, partito nel 1932 come civile con il miraggio di facili guadagni (uno di quelli che ha creduto nella favola del colonialismo demografico che aveva lo scopo di frenare l’emorragia di italiani verso le Americhe, dirottandoli verso l’Africa) e qui poi raggiunto dalla fidanzata. Vittorio è testimone del massacro di Addis Abeba, e questo è l’incipit del romanzo:

 

Addis Abeba, 19 febbraio 1937

A febbraio la città è in fiamme e il sangue tinge di rosso le acque dei fiumi, si raccolgono corpi di uomini come si raccolgono pesci avvelenati. Vittorio Gargano non ha mai visto tanto sangue prima d’ora, l’odore della morte invade le narici, il colore rubino non si leva dagli occhi neppure dietro alle palpebre chiuse, non c’è modo di scappare. Ha dimenticato che da bambino gli piacevano le storie antiche, più di tutte quelle in cui si dice del pugnale che uccide il fratello e il suo sangue bagna il solco che segna il perimetro su cui saranno edificate le mura, mentre il sopravvissuto posa senza pianto pietra su pietra. Così è e così sia: pensa a Romolo, pensa al bastone di Caino.

Febbraio dunque, e di notte. Portava agli occhi i lembi della camicia per tamponare il sudore che bruciava tra le palpebre – sudore e lacrime anche tra la lingua e il palato. Forse la febbre era tornata e quello che credeva di vedere era soltanto un sogno spaventoso. Si voltò rispondendo a un richiamo, ma alle sue spalle c’era solo il buio.

La mente, come una vecchia radio, restituiva le parole sussurrate con rabbia da sua madre al paese. Stringendola alle spalle si era reso conto di quanto era piccola. Non la stringeva mai e non s’aspettava che lei volesse levarsi di dosso il suo abbraccio proprio quando era sul punto di partire. Aveva giurato di tornare e adesso che la morte lo incalzava si sentiva mordere le viscere come un traditore.[61]

 

In quel bagno di sangue Vittorio ha reagito istintivamente alla violenza che ha visto esercitare da un italiano su Ekelé, su una giovane, inerme donna etiope: ha ucciso brutalmente l’aggressore, una situazione rovesciata, una sorta di risarcimento rispetto a quanto narrato in Tempo di uccidere da Flaiano, nel primo grande romanzo postcoloniale della nostra letteratura, il nostro Cuore di tenebra.[62]

 

Ekelé, statua di pietra, aveva smesso di tremare. Teneva ancora le nocche piantate sugli zigomi, ma spalancava i suoi occhi di orrore su quel che restava del suo aguzzino.

Questione di secondi: Vittorio ebbe il tempo di guardare il risultato della sua furia quanto bastava perché non passasse invano e la colpa rimanesse impressa nella mente, come infatti è poi stato. Ma nel silenzio, arrivò anche il suono rassicurante della corrente, che gli permise di tornare in sé, qualsiasi cosa volesse dire a quel punto tornare in sé. Si tirò in piedi, raggiunse il fiume con il fiato corto, finì carponi sulla sponda, poi in ginocchio e, per prima cosa, immerse le mani a conca, portò acqua al viso e dalle labbra passò il sapore ferroso del sangue dell’altro. Quindi si addentrò tanto da sentire il livello del fiume fino alla cintola.

La corrente lentissima fu la prima carezza dopo tanto tempo. Vi sprofondò con tutta la testa e, in quella specie di consolazione, che non poteva durare, gli sembrò di capire perché la parola fiume fosse femminile nella lingua di quelle genti. E, finalmente, pianse, come avrebbe pianto tra le braccia di sua madre.

Certi eventi si incistano in una parte così oscura dell’anima che non c’è cura e chi è toccato dal male non la cerca. Si sopravvive piegati e induriti come succede alle piante costrette da un muro o da un sasso a crescere annodate a sé stesse. Succede alle vittime come ai carnefici, perché il male è bestemmia e sacramento, affraterna e fa di due sorti un unico destino.[63]

 

Fino a qui l’attenzione si è concentrata su alcuni testi di autori italiani che mostrano consapevolezza delle responsabilità storiche dello Yekatit 12, ma Maaza Mengiste, scrittrice somala che dopo il colpo di stato del 1974 si è rifugiata in Nigeria, poi in Kenya e infine negli Stati Uniti dove vive attualmente, ha scritto un grande romanzo[64] epico e corale, Il Re ombra,[65] che ci permette di assumere il punto di vista della popolazione locale che ha subito l’occupazione. La ricostruzione narrativa pone al centro dell’azione le donne combattenti, che hanno contrastato attivamente l’esercito invasore; il titolo del romanzo si riferisce alla controfigura di Hailé Selassié, il musicista Minim, un sosia addestrato all’uopo che, mentre l’imperatore riparato in Inghilterra denunciava alla Società delle Nazioni gli orrori dei colonizzatori, si aggirava sui campi di battaglia spronando alla resistenza i suoi connazionali. Vengo alle poche, dense pagine dedicate al massacro di Addis Abeba, resistendo alla tentazione di dire molto altro su quest’opera straordinaria:

 

Non si parla d’altro: le implacabili ritorsioni seguite al tentato assassinio del viceré Rodolfo Graziani. I sospetti sono svaniti nel nulla. Sono state arrestate migliaia di persone. Violenti incendi hanno devastato Addis Abeba e perfino qualche città dell’altopiano, talora anche per tre giorni. Civili e soldati hanno avuto mano libera nel fare ciò che vogliono di qualunque etiope incrociato per strada. Lo Jan Meda e altri campi nei dintorni di Addis Abeba si stanno riempiendo di fosse comuni. Sui fiumi galleggiano cadaveri bruciati. Le prigioni sono strapiene e ogni base militare del paese ha ricevuto la richiesta di prelevare alcuni prigionieri e mandarli a morte. Autocarri carichi di prigionieri, uomini, donne e bambini, vanno e vengono sugli altopiani, diretti al campo di prigionia di Danane e altri luoghi non registrati sulle mappe.

Paura e paranoia aleggiano in tutte le basi militari. Le brutali rappresaglie di Graziani hanno messo in imbarazzo Roma. I particolari dei massacri vengono riportati dai giornali, sussurrati intorno ai bivacchi, nei caffè in Africa orientale e in Libia. E adesso, l’ultima voce è che i guerriglieri si stanno rafforzando. Aumentano di numero in seguito alle rappresaglie. La gente dei villaggi sostiene di aver visto l’imperatore. L’hanno visto sull’altopiano settentrionale, che radunava altre truppe.[66]

 

Intanto, l’imperatore a Bath non si dà pace:

 

La sua città sta bruciando. Il suo paese è in rovina. Il suo popolo viene spietatamente massacrato sia dai civili sia dai militari italiani. Perfino a quella distanza gli sembra di sentire l’odore del fumo. Di udire gli automezzi che trascinano corpi vivi legati con una corda fino a che muoiono. Alle sue spalle, sul davanzale di una finestra, le pagine del suo piccolo dizionario d’inglese svolazzano tra le parole che ha cercato per comunicare meglio tale orrore: paralizzante, terrificante, umiliante, traumatizzante, stupefacente. To kill: uccidere, sopprimere una vita, assassinare. Apparizioni spettrali lo hanno tormentato per tutta la notte, riconducendolo in Etiopia: Hailé Selassié, Jan Hoy, Teferi, ti stiamo aspettando. Dove sei andato? Teferi, Hailé Selassié, torna a casa. […]

I suoi combattenti si sono spostati piú all’interno fra i monti. Carlo Fucelli sta costruendo una strana, nuova prigione a Debarq, la sua base tronfia di artiglieria e rinforzi. Kidane è accampato nelle vicinanze. I suoi uomini continueranno a combattere col coraggio di sempre, ma hanno bisogno di armi, hanno bisogno del suo aiuto. Si chiedono dove siate, Maestà, Hailé Selassié, Teferi, dove siete?

E lui è qui: curvo sul suo apparecchio mentre Londra annuncia i massacri di Addis Abeba. Ma è anche là: rannicchiato fra pennacchi di fumo e grida, che si prepara ad attaccare il nemico che avanza. Non solo, è nella sua città che brucia, si aggira fra le case distrutte e le fosse comuni che quei macellai si sono lasciati alle spalle. A Bath, nella sua residenza chiamata Fairfield, l’imperatore Hailé Selassié non ha bisogno di aiuto per immaginare le capanne e le case devastate dal fuoco, gli alberi falcidiati dalle bombe, i campi di teff e di sorgo avvelenati e bruciati dai gas fumogeni. Ma non può immaginare ciò che gli italiani stanno facendo agli esseri umani, al suo popolo, i suoi sudditi, i figli di una generazione nata per edificare il paese.[67]

 

Mi colpisce, però, il fatto che in romanzi, che contrariamente a quelli fino a qui considerati non possiamo certo definire postcoloniali, l’eco dello sterminio di Addis Abeba si senta forte e chiaro. Segnalo solo due casi: il primo caso è quello del romanzo autofinzionale di Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata,[68] candidato al Premio Strega nel 2023, dedicato alla ricostruzione delle vicende dei suoi genitori naturali e alla storia del suo abbandono. Il padre ha combattuto in Africa, ma non ha partecipato alle azioni più tragiche della campagna d’Etiopia e questo reca sollievo alla narratrice:

 

Le date di nascita dei figli fanno sfumare con verosimile approssimazione la terrorizzante ipotesi che Giuseppe Di Pietro abbia partecipato all’invasione coloniale italiana in Africa, quella durante la quale il ventiseienne Indro Montanelli, comandante di un plotoncino di ascari imberbi, acquista regolarmente in sposa la dodicenne Bilena Fatuma, o Destà, un’altra di troppo fra le troppe bambine vendute dai padri, agli invasori o ad altri; e quella della carneficina di Addis Abeba («Nuovo Fiore», in amarico) quando, in neanche tre giorni (19-21 febbraio 1937) gli italiani, ormai gonfiati come tacchini dalla farneticante convinzione mussoliniana della propria superiorità razziale, per eccesso di reazione al lancio di granate etiopi contro il gruppetto di autorità italiane riunite intorno al viceré Rodolfo Graziani, falcidiano con sbalorditiva determinazione una stima finale di diciannovemila innocenti: bruciandoli vivi, impiccandoli, ammazzando donne e bambini con pugni, calci e manganellate, fucilandoli a freddo, secondo la prassi ormai consolidata dello squadrismo fascista, qui incarognita dal convincimento di trovarsi di fronte a una popolazione subumana.

Quasi certa, però, stando alla datazione deduttiva, la partecipazione del trentatreenne Giuseppe Di Pietro alle due cruciali battaglie nordafricane di El-Alamein, combattute lungo i bordi dell’enorme depressione paludosa di al-Qattara, diciottomila chilometri di fanghiglia salata, ciuffi di cannucce e altre erbacee perenni, sprofondati a centotrentatre metri sotto il livello del mare e perlustrati dagli occhi cristallini e ipnotici dei ghepardi.

La guerra è anch’essa progettata da Mussolini, il quale, non sentendosi sufficientemente appagato dall’espansione italiana in Etiopia e Libia, sposa il sogno nazista di strappare l’Egitto agli inglesi, per aprirsi una via maestra verso i Paesi petroliferi del Medio Oriente. In realtà, l’Egitto non è che un tassello della fantasia di dominio planetario che gira come un cane infernale nella mente di Hitler e che il Führer realizzerà con ogni mezzo (vite umane, non altro), per cercare di stringere Unione Sovietica e Inghilterra in una morsa. Il noto binomio di potere e soldi, ordinariamente rimpannucciato dalla suggestiva messa in scena dell’orgoglio nazionale, l’ininterrotto sciupio di vite umane sacrificate a un male ancora evidente, tridimensionale. Poi, la danza luciferina della finanza sostituirà quasi del tutto gli scontri novecenteschi, fatti di corpi, fino a ruotare sulle nostre teste una falce immateriale, mossa da fluttuazioni di mercato. A dare impulso al braccio del futuro oggi sono le trame e le risacche delle oscillazioni monetarie, e le vittime si accumulano ai lati della storia ufficiale, folgorate nel sonno.[69]

 

Il secondo esempio lo traggo dal romanzo di Nicoletta Verna I giorni di Vetro[70]. L’opera è riconducibile all’estetica del «romanzo storico antifascista», così come è stata delineata recentemente da Gianluigi Simonetti.[71] Nel passo che riporto si riferisce del contenuto delle due lettere che il capofamiglia, Primo Barbieri, partito con le Camicie Nere per la campagna d’Etiopia nel ’35, invia alla moglie. Primo in Africa ha combattuto in luoghi tristemente famosi e il suo destino si è incrociato con quello di Vetro, il protagonista eponimo del romanzo, che proprio nel giorno dell’attentato a Graziani, facendo scudo con il suo corpo al viceré, ha perso un occhio e guadagnato un soprannome e una medaglia d’oro.

 

La prima lettera arrivò dopo nove mesi. Diceva che la guerra l’avevano vinta, avevano sterminato i negri con le bombe sui guadi del Tacazzè e conquistato l’Amba Aradam. Lui aveva combattuto con le Camicie nere della III gennaio ed era rimasto nelle truppe coloniali a Addis Abeba, e stava bene ed era contento come una Pasqua. Nella busta c’erano cinquecento lire. Mia madre le baciò e le mise nella tasca del grembiale, e disse che dovevamo tutte essere orgogliose di nostro padre, e scese in piazza a sventolare la lettera urlando: – Ha vinto, ha vinto la guerra.

La seconda lettera arrivò dopo altri nove mesi. Mio padre raccontava dell’attentato al viceré d’Etiopia Graziani e si vantava di avere sterminato da solo cento negri, per rappresaglia, e assicurava che si era fatto tanti buoni amici e che pensava sempre a noi. Nella busta aveva messo una fotografia, con in fondo la firma «Barbieri Primo» piena di svolazzi. Era in piedi accanto a un cannone con la divisa e mia madre se lo mangiava con gli occhi, e sospirava che il Signore non aveva mai messo al mondo un uomo più bello di lui.[72]

 

Un secondo passo del romanzo di Verna racconta l’incontro fra Vetro e Graziani, entrambi ricoverati in ospedale per le ferite riportate nell’attentato:

 

L’incidente dell’occhio era capitato nei giorni dell’attentato al viceré Graziani. L’avevano operato all’ospedale degli italiani, ma Vetro sosteneva che con i ferri gli avevano spostato un nervo o un osso dentro al cervello, perché da lì in avanti gli erano presi dei dolori che non sapeva come rivoltarsi. Quando esplodevano si rinchiudeva in una stanza al buio, senza nessuno, e il tormento era tale che si lanciava urlando sui mobili o contro i muri e li colpiva con la testa per strapparsela dal collo, e allora dovevano andare a legarlo al letto con le catene e dargli la dormia.

Una mattina passò fuori dalla sua stanza il viceré in persona, ricoverato per via delle trecentocinquanta ferite che si era fatto nell’attentato. Domandò chi era a gridare cosí, e dichiarò che voleva vederlo. L’indomani si presentarono nel cortile dell’ospedale, tutti e due coperti di fasce. Avevano avuto un destino comune, fra i pochi italiani feriti nella strage. Graziani stabilí che, essendosi sacrificato per la patria, quel valoroso camerata doveva immediatamente riavere un occhio che paresse vero, e firmò di suo pugno una lettera per imbarcare Vetro verso l’Isvizzera, alla clinica dove avevano portato il Vate dopo che si era cecato a Fiume. Vetro gli s’inchinò di fronte, e giurò che gli avrebbe riservato per sempre un’indefessa fedeltà.

Arrivò in Isvizzera e l’occhio fasullo gli fu spedito direttamente dalle fabbriche di Murano. Uscí dalla sala operatoria che era piú bello di prima e gli diedero una medaglia d’oro, che subito s’appese alla divisa. Per via dei mal di testa e della vista lo dispensarono dal fronte, e fu rimesso al comando della legione Benito Mussolini a Forlí. Come prima cosa si mise alla ricerca di mio padre.[73]

 

Infine sul massacro di Addis Abeba proporrei agli studenti il graphic novel del cartoonist Emanuele Giacopetti dal titolo Il massacro di Addis Abeba. La memoria rimossa, pubblicato il 23 febbraio 2024, proprio in concomitanza con l’anniversario della strage;[74] le tavole descrivono efficacemente gli avvenimenti e un glossario di termini, locuzioni e acronimi completa la lettura e arricchisce il quadro storico.

Suggerisco poi di accostare alla lettura del romanzo grafico di Giacopetti alcune tavole di Bilbolbul, «uno dei più originali e curiosi personaggi del mondo italiano a fumetti, il primo autentico seriale realizzato nel nostro paese […] nato dall'estro surreale di Attilio Mussino»,[75] apparso sulle pagine del «Corriere dei piccoli» fin dal suo primo numero, uscito il 27 dicembre del 1908, e presente, per plasmare le coscienze delle nuove generazioni di italiani, fino al 1933, fino alla vigilia della campagna di Etiopia. Riporto le parole di Igiaba Scego sul personaggio che divenne tanto popolare ed entrò nelle case di tanti italiani:

 

Il fumetto rappresentava un bambino africano un po’ tonto che viveva letteralmente le metafore e i proverbi che incrociava nel suo cammino. Ed ecco che nel corso delle sue avventure si allungava, si accorciava, andava in pezzi, si rincollava e soprattutto cambiava spesso colore. Poteva diventare verde dalla rabbia, rosso di vergogna e così via. Quando tornava nero naturalmente rientrava nel suo stato di bambino tonto e ingenuo delle colonie. Le avventure di Bilbolbul erano ambientate in Africa. Ma non l’Africa reale, ma una sorta di giungla fiabesca ed arretrata dove tutto poteva succedere. Una terra piena di pericoli e magie che andava presto ricollocata nei binari della civilizzazione. Il personaggio era un perfetto figlio nella sua epoca storica. Bilbolbul era di fatto un sudditto coloniale, il “negretto” di Giolitti e per relazionarsi con lui si doveva usare una certa dose di pazienza e paternalismo, un po’ come gli ufficiali trattavano le truppe coloniali, gli ascari, con paternalismo e una buona (anzi cattiva) dose di frustrate. Bilbolbul era più una bestiolina che una persona. Una scimmietta mangiabanane che faceva le smorfie e faceva divertire i padroni bianchi. Ed anche il suo farsi metafora di fatto era un aderire completamente al volere di un sistema colonialista chiuso ad ogni speranza. […] Il personaggio di Mussino di fatto è stato (volente o nolente) una tappa preparatoria a quello sfacelo di razzismo e vanità imperiale voluta in seguito da Benito Mussolini.[76] 

 

Scrittori afrodiscendenti dalle ex colonie

Fino a qui mi sono occupata, con la significativa eccezione di Maaza Mengiste, della riscrittura delle vicende coloniali da parte di scrittori italiani, discendenti degli oppressori, quindi; ma sono ormai numerose le opere di autori e soprattutto di autrici[77] afrodiscendenti con origini nei paesi del Corno d’Africa che hanno arricchito con i loro libri e il loro sguardo decentrato il nostro immaginario sulle ex-colonie: ricordo almeno: dall’Etiopia Martha Nasibù[78] e Gabriella Ghermandi;[79] dall’Eritrea Vittorio Longhi;[80] dalla Somalia Shirin Ramzanali Fazel,[81] Garane Garane,[82] Ubah Cristina Ali Farah,[83] Saba Anglana[84] e naturalmente Igiaba Scego, dalla bibliografia ormai notevole[85], candidata anche allo Strega con il suo ultimo romanzo Cassandra a Mogadiscio.

Voglio però dedicare la mia attenzione in questa sede a Kaha Mohamed Aden, scrittrice italosomala scomparsa il 12 dicembre 2023. Nata a Mogadiscio nel 1966, a vent’anni lascia la Somalia sull’orlo della guerra civile. Suo padre, medico e noto esponente politico,[86] ministro della Sanità negli anni ’70, nella fase illuminata e progressista della Repubblica guidata da Siad Barre dopo il colpo di stato del 1969, divenuto quindi oppositore nella fase dell’involuzione nazionalistica, viene imprigionato nel 1982 e trattenuto in isolamento; infine riesce a raggiungere l’Italia nel 1989, ricongiungendosi con i figli, fra cui Kaha. Kaha dal 1987 ha vissuto e lavorato a Pavia, dove ha conseguito la laurea in Economia; ha collaborato alla rivista «Africa e Mediterraneo», è protagonista di un film documentario, La quarta via,[87] in cui, raccontando Mogadiscio, si sollecita un ripensamento di alcuni snodi della nostra storia nazionale. Aden ha pubblicato due libri: la silloge di racconti del 2010 Fra-intendimenti[88] e, nel 2019, Dalmar. La disfavola degli elefanti,[89] un’allegoria politica sull’eredità del colonialismo e sul clanismo. Segnalo che alcune pagine di entrambi i volumi sono adatte anche agli studenti della Secondaria di I grado, ma i testi si prestano anche a letture più avvertite, come testimoniano alcuni interventi critici che guidano nella scelta dei brani da sottoporre agli studenti e nell’interpretazione.

I racconti di Aden si caratterizzano per leggerezza e profondità, fin dal titolo: Fra-intendimenti, con quel trattino che separa il suffisso preposizionale, allude alla difficoltà di comunicare, che produce talvolta incomprensioni di cui sorridere e di cui si racconta, ma lascia spazio anche a una possibilità di intendersi e di capirsi reciprocamente (“fra” gli uni e gli altri) esiste. La scrittura è stata definita «sorridente»[90] per l’ironia che la caratterizza e attraverso la quale l’autrice «rivela le assurdità e le contraddizioni della società italiana congelandole con durezza icastica, ma astenendosi da giudizi e moralismi, ed evitando ogni sentenziosità».[91] L’ironia, del resto, è un’arma tagliente ed efficace, utilizzata anche da altri autori con background migratorio[92] perché è un’espressione contestuale che richiede, per consentirne la codificazione, la condivisione e il contemporaneo rovesciamento di codici sociali, politici, culturali. È insomma un reagente che sottolinea e fa riflettere sulle distanze, ma rifugge dal paternalismo e dal vittimismo, operando una piccola rivoluzione semantica. Come dichiara la scrittrice in un’intervista:

 

Nei miei racconti spesso mi piace evocare situazioni tese che, come capita anche nella vita, sono apparentemente senza soluzioni. In quei momenti, nella finzione o nella realtà, in cui si scornano i drammi della vita, per uscirne “viva” mi servo dell’ironia. Per me spesso l’ironia è uno strumento pungente per creare delle crepe in quei muri bui posti tra me e i mondi in cui presumo avere diritto di andare, lasciandomi inoltre la speranza che un’intelligenza generosa entri da quelle fessure. È anche un modo di mettere alcune questioni al loro posto senza lagnarmi né prendermi troppo sul serio o pensarmi al centro del mondo. Comunque trovo, e questo mi piace molto, che l’ironia sia un bel vestito presuntuoso in cui agghindarsi per andare al ballo dei disonesti.[93]

 

Ecco un assaggio minimo, tratto dal racconto intitolato Nonno Y. e il colore degli alleati:

 

Siamo in pausa pranzo. So che c’è un bar distante un chilometro dove fanno panini buoni, ma col cavolo che vado fin là! Mi infilo in questo bar di periferia, tutto di un plasticume marrone. Le sedie marrone-plastica, i tavoli marrone-plastica, perfino i panini surgelati mozzarella e pomodoro hanno una tinta marrone-plastica. Io ho bisogno soprattutto di un po’ di calduccio e di un cappuccino molto zuccherato. Entro nel bar, ordino un panino e un cappuccio, mi cerco un tavolo tutto per me dove posso spogliarmi di tutte le pecore e non so quali altri animali che mi porto addosso: via il cappotto, la sciarpa e infine uno dei due maglioni. Mi portano subito quello che ho chiesto. […] Come da manuale, il panino fa schifo, il cappuccio è buono, l'articolo che sto leggendo sul giornale è di L.P., quindi bello. Mi sto crogiolando in mezzo allo schifo, il buono e il bello quando arriva un signore grande e grosso, forse uno degli operai che lavora alla ristrutturazione dell'edificio in cui io stessa lavoro.

Mi chiede: "A che ora attacchi?"

Rispondo: "Alle due".

È l'una e quarantacinque: finiti il panino e il cappuccio. Penso: è meglio che mi diriga alla cassa se voglio arrivare puntuale in ufficio. Pago ed esco dal bar. Che noia, devo rinfilarmi tutte le cose che avevo addosso! Fuori dal bar, mentre mi rivesto tutta tremolante, vedo con la coda dell'occhio il signore di prima, piazzato davanti a un camion, con le braccia incrociate, che batte un piede. A guardarlo bene non credo che abbia freddo. Quell'omone, banalmente grasso, piú che altro sembra avere fretta. Be', io ho freddo e fretta quindi attraverso la strada.

"Ehi!" mi urla con un'espressione di chi chiede giustizia per un diritto violato. Di colpo mi blocco, perché di fronte ai diritti io mi fermo.

Io: Cosa c'è?

Lui: Non avevi detto che attacchi a lavorare alle due?

Io: Mancano dieci minuti.

Lui: Dove stai andando?

Io: Se non le dispiace, sono affari miei.

Lui: Quanto prendi?

Quando ha pronunciato quelle parole, ho capito di quale lavoro stava parlando. Così imbacuccata come gli sarà venuto in mente che faccio la prostituta? Credevo di indossare vestiti adatti ad altri tipi di lavori. Niente spacchi, niente trucco, niente tacchi, ma un turbinio di lana accatastata sopra una pelle nera, sarà questo ultimo indizio che fa venire certe idee in testa...

Il nero, cioè nessun colore. Apparentemente chiunque può pensare di dare sul nero una pennellata del colore che vuole. Il camionista mi dà una pennellata color prostituta. Qualche femminista illuminista, una di quelle che vogliono liberare le donne che secondo loro sono assolutamente povere, mi aveva dipinto come una ragazza soggiogata dagli uomini delle mie parti che, ovviamente, aveva bisogno urgente del suo aiuto.[94]

 

Dopo questa sezione in apertura, in cui la narrazione è collocata nel presente quotidiano, nel medesimo racconto Aden raggiunge quel «lontano presente» sottinteso e taciuto, nella Somalia in cui sono presenti gli italiani come coloni o come membri dell’AFIS (Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia), sulla quale l’autrice esprime il suo punto di vista attraverso la rievocazione di un episodio del passato familiare:

 

All'inizio degli anni Cinquanta, quando la Somalia era governata dell'AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia), nonno Y. si era messo in testa che le sue figlie - dopo una breve esperienza scolastica durante l'occupazione inglese - dovessero andare anche alla scuola italiana. Nell'amministrazione, che aveva lo scopo di guidare i somali a costruirsi uno stato democratico, spadroneggiavano ex funzionari del governo fascista. Quando l'Italia ha ottenuto dalle Nazioni Unite il mandato per formare, in dieci anni, "un governo democratico somalo" - operazione che all'Europa è costata secoli della sua storia! -, i politici italiani di allora si saranno (di certo) chiesti: "Chi mandiamo in quel paese remoto chiamato Somalia a gettare i semi della democrazia? Sicuramente quelli che hanno un minimo di conoscenza di quel paese!" Devono aver tirato un sospiro di sollievo quando si sono accorti di realizzare in un solo colpo la soluzione di due problemi: chi mandare in Somalia e come sistemare i funzionari del Ministero delle Colonie. Devono aver detto: "Via, via, mandiamoli lontano dalla vista della nostra piccola Repubblica Democratica Italiana! Dopotutto ha solo quattro anni, è troppo per lei subire la presenza di certi 'uomini'».[95]

 

Al tempo Nonno Y. voleva mandare le sue figlie, in particolare Aisha, la madre di Kaha, alla scuola italiana, e il funzionario dell’AFIS diede il consenso a una condizione: che Nonno Y. convincesse l’assemblea degli anziani, che oppose uno sdegnato rifiuto con questa motivazione: «Le figlie di Y. spianeranno a tutte le altre, quindi anche alle nostre figlie, una strada fuori dal nostro controllo, di malcostume. Sappiamo benissimo cosa sono le somale che frequentano gli italiani: semplici prostitute.»[96]

È evidente che dietro questa affermazione c’è un vissuto complesso, storicamente precisamente situato: la questione del madamato, lo stereotipo visto delle donne africane «carne da maschi»,[97] il diritto all’istruzione delle donne nella società patriarcale… Quel che conta è che Nonno Y. non si arrese e, con la determinante mediazione della moglie, ottenne quanto richiesto; conclude così la nipote scrittrice: «mandare alla scuola italiana le figlie di Y voleva dire mandare a scuola tutte. Dopo mia madre, ci sono andate anche le sue sorelle e, dopo un po’, una delle figlie del coordinatore di quella riunione».[98]

In Dalmar. La disfavola degli elefanti, Aden evoca gli orrori della guerra civile somala dei primi anni Novanta attraverso una favola per adulti, che narra la fuga di un branco di elefanti dalla minaccia di una guerra e il loro approdo su un’isola abitata solo da orsi e api che si sono divisi il territorio e non sono disposti a tollerare intrusioni. L’isola in questione è, fuor di metafora, la Somalia, lacerata dalla guerra fra i clan, terra insulare in omaggio a un libro scritto dal padre dell’autrice, La Somalia non è un’isola dei Caraibi,[99] in polemica con quanti, in Italia, nonostante i legami storici tra i due paesi, continuavano a ignorare la questione somala. Il termine ‘disfavola’ si giustifica con l’assenza del lieto fine, ma all’orecchio e alla mente evoca la distopia, l’utopia negativa, la rappresentazione di una situazione tragica che, nel caso specifico, è quella in cui il legame di sangue diventa l’alibi per cancellare ragione e memoria: l’elefantessa matriarca Idman dichiara, infatti: «Sto molto attenta a quelli che fanno tacere il passato perché molto probabilmente con loro si preannuncia un futuro privo di responsabilità».[100] E gli elefanti, a proposito dei reiterati tentativi di scacciarli, dicono: «Che pensiero sconcio! Lo sanno tutti che gli elefanti, nel loro errare, non conoscono fissa dimora. Qualcuno li deve informare che siamo eternamente, da sempre, in cammino. Non so se da queste parti siamo di passaggio o meno, ma di certo siamo in cammino».[101] Scrive Clotilde Barbarulli:

 

come strategia narrativa, l’autrice usa l’ironia non per prendere le distanze con il rischio di banalizzare, ma per sottolineare il conflitto tra opinioni correnti e valori diversi, invitando a porre interrogativi al passato e al presente, in un orizzonte di vecchi e nuovi fascismi.  Sollecita infatti una presa di posizione e di responsabilità per inquietare la visione veicolata dalla storia unica: considerando la memoria al servizio del futuro, si oppone così alla menzogna della Storia e contrasta l’amnesia programmata.[102]

 

Truppe coloniali: tiralleurs francesi e ascari italiani

 

Nelle classi mi sono avventurata spesso fra le pagine della più recente produzione narrativa di scrittori afrodiscendenti in Francia. Ai loro romanzi sono stati assegnati premi letterari prestigiosi, cosa che in Italia stenta ad avvenire, segno di un diverso grado di integrazione culturale su cui non mi soffermo qui. Il Prix Goncourt è stato assegnato nel 2016[103] a Leila Slimani, nata in Marocco,  e  nel 2021[104] a Mohamed Mbougar Sarr; anche nel 2024 il Premio Goncourt è andato a Kamel Daoud, di origine algerina, con Houris[105]; dello stesso autore, «un postcoloniale inquieto, che scombina le carte, movimenta i punti di vista reciproci tra ex colonizzatori ed ex colonizzati»,[106] a scuola ho proposto qualche anno fa la lettura del romanzo Il caso Meursault[107], in parallelo con Lo straniero di Camus, una riscrittura che mette in evidenza «le contraddizioni di un’Algeria indipendente, ma in un certo senso affezionata al suo martirio come la madre del protagonista».[108] Ma è significativo che il Prix Goncourt des lycéens, quello dei giovani lettori, sia stato conferito nel 2017 e nel 2018 a due autori di “seconda generazione”, rispettivamente a Alice Zeniter, nata in Francia da padre algerino, con L’arte di perdere[109] e a David Diop, nato in Francia da padre senegalese, con Fratelli d’anima[110], quest’ultimo vincitore anche del Premio Strega europeo nel 2019 e dell’International Booker Prize nel 2021: due storie postcoloniali travolgenti, che non possono lasciare indifferenti.  Fratelli d’anima, fra quelle citate, è l’opera su cui ho lavorato più fruttuosamente nelle classi negli ultimi anni: non voglio ripetere quello che del romanzo di Diop ho già avuto occasione di esprimere,[111] ma mi sento di raccomandarne la lettura nell’ultimo anno della Secondaria di II grado, con un’attenta mediazione didattica per i contenuti molto crudi dell’opera, che devono essere adeguatamente contestualizzati. La storia è quella di Alfa e Madeba, due «fratelli d’anima», due amici d’infanzia catapultati dal Senegal rurale alle trincee della Grande guerra: furono circa duecentomila i soldati reclutati nelle colonie per diventare «carne da cannone» tra le fila delle truppe francesi durante la Prima guerra mondiale e in tempi recenti la loro vicenda è stata posta all’attenzione dell’opinione pubblica non solo grazie al romanzo di Diop, ma anche attraverso opere cinematografiche.[112]

Lo sfruttamento a scopi militari dei corpi delle popolazioni colonizzate non è un’esclusiva della Francia. Come è noto, anche gli italiani avevano delle truppe coloniali, gli ascari, così chiamati dal termine arabo che significa soldato;[113] essi erano in gran parte d’origine eritrea (quindi cristiani e di lingua tigrina) e furono impiegati soprattutto nell’ambito della cosiddetta «campagna di pacificazione» della Libia, un autentico genocidio nel giudizio di Angelo Del Boca, lento e inesorabile (la guerra coloniale in Libia cominciò nel 1911 e finì nel 1943), di cui fu protagonista quel Rodolfo Graziani di cui mi sono già occupata.[114] Potrebbe essere dunque proposta la lettura parallela del romanzo di Diop e di un libro sorprendente: L’ascaro. Una storia anticoloniale[115] (questo è il titolo nella recentissima traduzione italiana curata da Uoldelul Chelati Dirar), scritto negli anni Venti del Novecento, in piena epoca fascista, da Ghebreyesus Hailu, un testo dai toni marcatamente critici verso il colonialismo italiano (è questa la probabile ragione che ne ha differito la prima pubblicazione nella lingua originale, il tigrino, fino al 1947). Se è vero che la storia la scrivono, o la tacciono, i vincitori, qui siamo di fronte a una contronarrazione straordinaria, che sovverte il canone imperialista in modo radicale e offre un punto di vista inedito raccontando la vicenda di Tequado, un ascaro appunto, secondo la prospettiva della realtà subalterna in cui era inserito il protagonista e determinando un effetto straniante non intenzionale, esemplare nel caso in cui volessimo dimostrare ai nostri studenti la forza conoscitiva della letteratura.

Come scrive nella Prefazione la scrittrice Maaza Mengiste:[116]

 

L’ascaro mostrando il razzismo e la crudeltà subite dagli ascari nell’esercito italiano, rompe decenni di silenzio e introduce i fatti cacofonici e strazianti del conflitto. Attraverso le emozioni contrastanti di Tequabo nel combattere i libici e, infine, il suo rifiuto di continuare a farlo, questo romanzo esile ma potente rimuove la lente che ha confinato le discussioni attorno a questa guerra; rifiuta il perimetro limitato di questa storia e invita a fare i conti con essa, chiedendoci di ascoltare. Nel racconto di Tequabo ci sono altre storie di ascari che non sono riusciti a condividere le loro memorie. Nelle sue parole possiamo sentire l'eco di coloro che non sono riusciti a trasformare in parole ciò che avevano vissuto, o che hanno parlato ad alta voce e con coraggio a orecchie sorde.[117]

 

Ma il pregio di quest’opera risiede anche nello stile. Hailu, infatti, è nato in un villaggio al sud dell’Eritrea nel 1906, ma ha studiato in seminari cattolici italiani; alunno particolarmente dotato, ha frequentato il Collegio etiopico in Vaticano dal 1924, dove ha conseguito la laurea in Filosofia nel 1932; ha poi proseguito i suoi studi presso la Pontificia Università Urbaniana, laureandosi in Teologia. Come osserva Dirar, il traduttore romanzo

 

L’ascaro è ambientato nell’ambito dell’Eritrea colonia italiana, in un quadro di discriminazione strutturale e di forti limitazioni alla formazione scolastica e alle opportunità di mobilità sociale per i cosiddetti sudditi coloniali. […] Il canale religioso, nel contesto coloniale, era una delle principali opportunità per i più motivati a conseguire un livello superiore di istruzione a diventare protagonisti a tutto tondo del loro tempo. La biografia di Abba Ghebreyesus è una significativa testimonianza di questo tipo di strategia, come attestano il brillante percorso di studi e l’assoluta padronanza della classicità ge'ez come di quella latina e greca, oltre alla versatilità nell'esprimersi brillantemente in tigrino, amarico, tigrè, italiano e francese.[118]

 

L’opera è pregevole dal punto di vista stilistico perché «classicità etiopica, classicità europea e cultura popolare rappresentano per lui [scil. Hailé] vasti contenitori di significati dai quali attingere con serena equidistanza. In altre parole manca nel suo approccio una divisione funzionale fra le culture»:[119] il testo alterna citazioni dotte e detti popolari e si caratterizza anche per il plurilinguismo, dato l’inserimento nel tigrino di termini italiani e arabi, senza tuttavia stabilire un’opposizione e una gerarchia fra lingua della razionalità e dell’emozione, rispettivamente a carico di oppressori/nemici e oppressi (ascari), perché le lingue si mescolano in modo naturale, al servizio dell’espressività, fuse grazie al continuo e intenso rimando alla cultura popolare, garantito dalla presenza di proverbi e da ripetizioni che rinviano alla dimensione dell’oralità.

Il terzo capitolo, intitolato Il luogo della battaglia e della sofferenza, quello più drammatico, che racconta la marcia nel deserto e poi lo scontro con il nemico, cioè con la resistenza libica, prende avvio con una citazione leopardiana.

 

Oh misero colui che in guerra è spento,

Non per li patri lidi e per la pia

Consorte e i figli cari,

ma da nemici altrui

Per altra gente, e non può dir morendo:

Alma terra natia,

La vita che mi desti ecco ti rendo.

Così scrisse Leopardi, un famoso poeta italiano. Sembrano versi composti proprio per questi ascari. Lasciati genitori, parenti e amici e dopo aver attraversato tanti mari eccoli giunti in questa terra desolata.[120]

 

Lo spregio per il corpo degli ascari da parte dell’esercito italiano è ben rappresentato a più riprese, come dimostra questo passo:

 

Dopo aver marciato per l'intera giornata, verso sera gli ascari allestirono l'accampamento. I piedi ustionati erano diventati simili a tizzoni bruciacchiati e, appena avuto un po' di respiro, iniziarono a ricoprirsi di vesciche piene di liquido. Lì dove si trovavano, sparpagliati a caso sulla sabbia senza alcun giaciglio e senza neanche togliersi le uniformi o sfilarsi le armature, giacquero immobili al suolo sperando che sopraggiungesse il sonno.

Al contrario, per gli ufficiali italiani, che avevano viaggiato tutto il giorno a dorso di mulo, furono piantate tende per proteggerli dall'umidità della notte e dalla sabbia, furono allestiti i letti e predisposta dell'acqua.

E a chi toccava svolgere questi compiti? Ovviamente ai figli di habesha, il cui destino è tribolare. E quegli altri perché non li aiutavano? Come recita il detto: «Se chiedi al servitore sveglio di preparare il letto, di contro risponde: 'Fammi luce!'» I servitori non avevano forse anche loro bisogno di sostegno e attenzione? Mentre quelli stavano seduti al centro della tenda davanti a una tavola imbandita e a una cena succulenta, chi è che stando eretto li serviva se non il povero figlio di habesha che aveva trascorso l'intera giornata a faticare eseguendo i loro ordini? E l'indomani? Chi è che al loro risveglio li attendeva solerte con i muli già caricati e i bagagli pronti? Ma ciò che tuttavia desta stupore è che al figlio di habesha scelto per servire l'europeo, che sia per preparargli il letto, cucinargli i pasti, pulirgli le armi o accendergli la sigaretta, pare di essersi innalzato fino al settimo cielo rispetto agli altri suoi commilitoni.[121]

 

Nella narrazione è inserito il discorso dell’ufficiale italiano che sprona gli ascari prima della battaglia:

 

Coraggio o nero ascaro d'Eritrea! Quelli contro cui desideri combattere non sono altro che pastori. Se ti spaventa il fatto che siano bianchi, non temere! Non sono come noi, non hanno cannoni, scarseggiano di munizioni, non hanno cannocchiali né mortai. Noi soli siamo i bianchi valorosi, noi, italiani, vostri signori. E ora forza, attaccali! Non averne paura! Se ci capiterà di trovare capre, cammelli, buoi, somari o pecore ve ne daremo da macellare per poi mangiarli. Ma guai a chi trova oro, argento o altri beni simili e li tiene per sé! Gli scorticherò le nude natiche davanti a tutti con cinquantacinque colpi di qurmasc. Mi avete sentito bene? A me spetta tutto il bottino! Io sono il vostro signore e tutto ciò che trovate dovete consegnarlo a me. Dovete sentirvi felici e orgogliosi di combattere sotto la bandiera dell'Italia. Noi, il Governo d'Italia, siamo potenti! Possediamo navi a vapore, cannoni, fucili, aeroplani e treni. Per queste ragioni dovete combattere valorosamente per noi! E ora urlate tutti insieme a me: Viva l'Italia! Viva il Re Emanuele!» E così concluse la sua arringa.[122]

 

Riporto infine alcuni passaggi del testo, dal capitolo terzo e dall’epilogo, che restituiscono a pieno la valenza politica anticoloniale dell’opera:

 

Il colonizzato, utilizzato a sua volta come strumento di colonizzazione altrui, era venuto fin qui non per trarre un beneficio per sé o per il proprio paese, ma per sottomettere invece questi conterranei che, anche se distanti, erano pur sempre figli d'Africa. Non manca chi sostiene che gli arabi sono nostri nemici sin dall'antichità, e che quindi non c'è nulla di male a sterminarli combattendo al fianco degli italiani. Ma chi afferma questo non è consapevole che ciò che sta facendo agli altri un giorno potrà capitare a lui? Se un giorno venissero a combattere guidati dagli italiani o dai francesi, non pensate che cercherebbero in ogni modo di vendicarsi? Non vi rendete conto che in questo modo si stanno ponendo le premesse per uno spargimento di sangue senza fine? Gli arabi, infatti, avrebbero insegnato ai propri figli e questi, ancora, ai loro figli.[123] 

 

Perché, allora, hai sempre paura e te ne stai sottomesso? Per questi bianchi sei un essere insignificante. Se ottieni una carica non te ne vergognare! Non levarti il cappello per omaggiarlo. Quando sei avanti con gli anni perché non ti trattano con gentilezza? Sembra quasi che credano tu discenda da un'altra specie animale e non che, come loro, anche tu sia nato da Adamo.

Tuttavia, noi siamo peggio di loro. Li consideriamo delle divinità al punto che se ci battono o ci umiliano quasi non ce ne accorgiamo. […] Se l'italiano ci umilia o ci percuote stiamo zitti; alcuni addirittura sembra che lo considerino un gesto d'amore. Ah, la nostra coscienza è morta. Gli italiani, come quando uccidono una zanzara, se mentre guidano le loro macchine si trovano di fronte un nero sulla strada passano oltre schiacciandolo senza prendersi il fastidio di fermarsi.

[…] Pur imbattendoci in tutto ciò, pur essendo colpiti da tutte queste disgrazie e non sapendo dove andare, dopo un lungo peregrinare ci troviamo sotto le armi, sotto servitù. L'italiano fa di noi ciò che vuole e proprio non ha alcuna paura di noi. «Persone senza padrone. Possano gli habesha essere persone senza padrone».[124]

 

Qualche verso, per riflettere

Infine, per rileggere l’esperienza storica del colonialismo con i suoi effetti di lungo periodo, non manca la possibilità di convocare la poesia contemporanea per dare il suo contributo alla riflessione e far risuonare corde davvero profonde. Segnalo due autori: Rahma Nur, nata a Mogadiscio, in Italia dal 1969, insegnante nella scuola primaria impegnata nell’educazione antirazzista, già vincitrice del concorso letterario Lingua Madre nel 2012, autrice di libri per ragazzi, ha raccolto le sue poesie in piccolo e prezioso volume dal titolo Il grido e il sussurro del 2022; Fabio Pusterla, che si è formato a Pavia alla scuola di Maria Corti, vive a Chiasso, è autore di Truganini, un libro postcoloniale.

Le due voci poetiche possono davvero intrecciarsi a scuola in un dialogo a due voci, fra presente e passato, aprendo prospettive di confronto sulla complessità del mondo che ci circonda. E se in Rahma Nur, autrice afrodiscendente, il tema dell’identità e della violenza della storia è un’istanza che deriva dal vissuto, in Fabio Pusterla, ormai un classico fra i contemporanei considerata la militanza poetica di lungo corso (la prima raccolta, Concessione all’inverno[125], risale al 1985 e l’ultima, Tremalume[126], è uscita nel 2022) e vista la sua presenza nelle maggiori antologie di poeti del nostro tempo[127], è testimonianza dell’impegno civile di un poeta che spesso si addentra nel «bosco della storia»[128] per dare voce alla «folla sommersa»[129] andando alla ricerca di «sovrapposizioni»,[130] di relazioni significative che in modo imprevedibile stabiliscono legami fra i fatti del passato e il caos del presente. Fabio Pusterla si è interessato di postcoloniale anche scrivendo la prefazione di uno studio di Alceo Crivelli sul romanzo coloniale e postcoloniale uscito nel 2022,[131] ma soprattutto pubblicando nel 2021 Truganini,[132],  da cui ho tratto la citazione che dà il titolo al mio contributo.

L’occasione per proporre la lettura di Truganini a una classe dell’ultimo anno del percorso liceale è nata da un progetto di ricerca-azione, “Leggere la poesia contemporanea”, realizzato nel corso dello scorso anno scolastico presso il liceo A. Messedaglia di Verona in collaborazione con l’Università di Verona, grazie all’impegno dei proff. Massino Natale e Alessandra Zangrandi: le attività hanno coinvolto numerosi studenti delle scuole della città di Verona e si è concluso con la settimana di residenza del poeta, che incontrato gli studenti in più occasioni e si è confrontato con loro proprio a partire dalle suggestioni generate dalle letture delle sue poesie.

A Truganini e alla violenza dei coloni inglesi Pusterla dedica una suite di venti frammenti,[133] seguiti da quattro canzoni:[134] l’uscita con i versi di Pusterla dal perimetro delle vicende coloniali italiane di cui ho trattato fino a qui si giustifica non solo per il fatto che la cultura letteraria, storica e civile di Fabio Pusterla è certamente italiana, ma anche per la necessità di dare un respiro più ampio alla riflessione sui meccanismi culturali innescati dal fenomeno storico del colonialismo occidentale. Riporto il testo del Frammento 1, che ho usato per il titolo del mio contributo e da cui vorrei ricavare qualche pensiero per concludere.

 

Con ninnoli crestine

con paroline stucchevoli

tutto è stato distrutto

tutto è stato rubato.

 

Truganini non può dire io

Truganini non può ricordare nulla

perché io non esiste non è più neanche un altro

e la memoria è fuori corso senza parole

le cose della memoria non sarebbero riconoscibili

come cose vere tangibili.

 

Il mondo di adesso è fatto di cose diverse

non vuole ricordare quelle di prima.[135]

 

Conclusioni

 

Riprendendo gli ultimi versi del testo di Pusterla, come contrastare la volontà di dimenticare il passato nel mondo che invece ne è il suo prodotto? Come contrastare il sapere nostalgico, privo di analisi, un surrogato idealizzato dei fatti accaduti e figlio di un’ignoranza diffusa, un’ignoranza per decenni incoraggiata e non priva di implicazioni sociali e politiche e che concretamente ci determina ogni giorno?

Mi muovo sulla scia di quanto ha più volte sostenuto Giancarlo Alfano negli incontri di formazione dell’ADI-sd e nel suo volume dedicato alla prima guerra mondiale,[136] in cui ha dimostrato come il romanzo e la poesia abbiano rappresentato la continuità, se non la contaminazione, tra il tempo e gli spazi dei combattimenti e il tempo e gli spazi della pace. A proposito della persistenza del trauma nell’Occidente in tempo di pace,[137] ammesso che sia ancora lecito parlare di pace, Alfano a sua volta si ispira agli studi di Sergio Finzi,[138] che ha osservato come la nevrosi di guerra non colpisca solo combattenti o ex-combattenti, ma anche i loro discendenti, anche a decenni dal conflitto e benché non ne siano stati direttamente coinvolti.

Mi sembra che la rimozione, l’amnesia selettiva che riguarda la vicenda coloniale assegni alla letteratura un compito ben preciso: se il trauma accaduto è reale, ma non è vero, per tornare a essere avvertito e a esistere, per diventare dunque vero, assumendo pertinenza nella costituzione del soggetto così da orientarne le scelte, occorre che la finzione investita di affetto grazie al potente medium della letteratura faccia il suo lavoro nell’inconscio individuale e collettivo dei lettori. L’opera d’arte verbale può dare significato, rendere semantica la trasmissione dell’esperienza.

Ben vengano dunque quelle opere che ripristinano e inverano un quadro storico a dir poco lacunoso, quello delle vicende coloniali italiane, dando il loro contributo alla costruzione di un’identità italiana complessa, senza semplificazioni, fatta di luci e di ombre, ben vengano opere che decostruiscono, ad esempio, il mito degli «italiani brava gente», un comodo luogo comune che, non rettificato per generazioni, ha prodotto una conseguente deformazione culturale[139] che ha impedito a lungo l’assunzione di responsabilità collettive che non poco peso hanno avuto e continuano ad avere nella nostra realtà complessa, in cui affiorano continuamente.

Una volta ottenuta una certa consapevolezza dei fatti del passato anche attraverso la letteratura, rimane la questione più delicata, ossia diventare consapevoli di come questo passato di violenza e sopraffazione si rifletta nel presente (a costituire un «lontano presente», non a caso il titolo della prima monografia sulla didattica postcoloniale). Scrive Salvo Torre in saggio recente:

 

La società attuale è il risultato della storia della colonizzazione sotto molti aspetti. […] L'intero assetto politico sociale del pianeta è stato progressivamente trasformato dai movimenti di liberazione dei popoli colonizzati, che hanno dato vita a un percorso ancora in atto, che va ben oltre l'istituzione di stati indipendenti, riguarda dichiaratamente le possibilità future dell'umanità. […] Non si può separare l'esperienza della colonia da quella del paese colonizzatore, le due storie sono rimaste legate anche nell'ultimo cinquantennio nella formazione della società globalizzata e nel mantenimento delle gerarchie sociali, dei privilegi territoriali e di tutte le azioni di marginalizzazione operate dalle forme del potere moderno. Si tratta di un dibattito da cui emerge l'idea che l'esperienza coloniale non si sia mai conclusa e abbia disegnato il mondo attuale, che la colonia sia stata il luogo in cui è iniziata la modernità capitalista.[140]

 

I colonizzatori, italiani e non, hanno definito e imposto un modo di vedere gli spazi geografici, le gerarchie sociali, i rapporti di potere, le relazioni economiche che perdura anche dopo la fine del dominio militare e politico, anche dopo la decolonizzazione storica; l’ordine coloniale caratterizza la modernità e persiste nel contesto postcoloniale, definito postcoloniale non tanto e non solo in quanto cronologicamente successivo al colonialismo storico, ma con riferimento a quanto «esso continua a produrre nelle forme di neocolonialismo e globalizzazione neoliberista»[141].

Ripercorre le vicende coloniali attraverso la lettura di opere narrative, dunque, non colma solo lacune nella conoscenza di quanto è accaduto facendo affiorare vicende storiche lontane, dimenticate, rimosse, ma anche contribuisce alla consapevolezza di ciò che sta accadendo, rendendo possibile un’alternativa che possa ridisegnare gli spazi, non tanto fisici, ma epistemologici e mentali, spazi che Teresa Fiore ha definito[142] pre-occupati, cioè ingombri di stereotipi e pregiudizi, posture intellettuali che nella nostra coscienza rispondono ad automatismi indotti e che hanno origine sconosciuta, incerta, dubbia.

È finito il colonialismo, non la colonialità, il lato oscuro della modernità occidentale, cioè «l’idea per la quale tutto ciò che differisce dalla visione eurocentrica del mondo è inferiore, marginale, irrilevante o pericoloso».[143] Colonialità e modernità formano un’endiadi. La prospettiva, che aspira a coniugare teoria e prassi, è quella del pensiero decoloniale, nato alla fine degli anni ’90 del secolo scorso in America latina, ma con non pochi elementi di convergenza con il pensiero meridiano di Franco Cassano.[144] L’obiettivo didattico, in linea con il pensiero decoloniale nato dopo la fine della Guerra fredda, potrebbe essere quello di aiutare le nuove generazioni a comprendere che ci troviamo in un tempo e in uno spazio ancora dipendenti dall’esperienza coloniale e di agevolare un ripensamento della modernità attraverso una cultura critica, che metta in discussione la narrazione dominante.

Il nostro mondo è stato costruito sullo sfruttamento e sulla marginalizzazione, con un atteggiamento di tipo predatorio non solo verso i nostri simili, ma anche verso le risorse del pianeta.[145] Le culture considerate inferiori o minoritarie sono stare cancellate o ignorate o travolte da processi di acculturazione e questo, nel lungo periodo, ha determinato e continua a determinare una crisi dei rapporti fra centro dominante e periferia subalterna del sistema mondo. Il pensiero decoloniale propone di immaginarci oltre i nostri limiti storici, di collocarci in un tempo e in uno spazio sociale differenti da quelli attuali, spazi non ancora costruiti ma che aspirano a creare un mondo liberato dalle forme di oppressione attraverso un percorso aperto e sperimentale[146] a cui la scuola può certamente partecipare.

 

 


[1] L. Zoja, Narrare l’Italia. Dal vertice del Mondo al Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 2024, p. 15.

[2] L’insegnamento trasversale di educazione civica è stato introdotto dalla Legge 92/2019.

[3] Le linee guida per l’orientamento sono contenute nel D.M. 22 dicembre 2022 (ma cfr. già la Direttiva ministeriale n. 487/97).

[4] Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica sono contenute nel Decreto ministeriale n. 183 del 7 settembre 2024 che individua fra gli obiettivi di apprendimento quello di «ricostruire il percorso storico del formarsi dell'identità della nazione italiana» e individua fra i principi a fondamento dell’educazione civica quello di «rafforzare […] la coscienza di una comune identità italiana come parte, peraltro, della civiltà europea ed occidentale e della sua storia».

[5] E. Zinato, Particolarismo identitario e impotenza trasformativa. Considerazioni sul libro di Mimmo Cangiano, in https://laletteraturaenoi.it/2024/05/22/particolarismo-identitario-e-impotenza-trasformativa-considerazioni-sul-libro-di-mimmo-cangiano/ (ultima consultazione 25.11.2024). Sulla questione del postcoloniale nelle aule, Zinato si era già soffermato agli albori del fenomeno: E. Zinato, Una scuola postcoloniale?, in «Allegoria», n. 55, gennaio-giugno 2006, pp. 231-241.

[6] M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, nottetempo, Milano 2024.

[7] A. Piperno, Aria di famiglia, Mondadori, Milano, 2024, p. 24.

[8] G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale (1999), trad. it. di A. D’Ottavio, Meltemi, Roma, 2004, pp. 418-419.

[9] La citazione da David Laevitt è posta in esergo a W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli, Milano, 2021, p. 7.

[10] Per una riflessione ampia sul tema del rapporto fra etica ed estetica che la battuta di Gide evoca, si vedano gli atti del convegno Compalit del 2021 in G. Carrara, L. Neri (a cura di) Con i buoni sentimenti si fanno brutti libri? Etiche, estetiche e problemi della rappresentazione, Ledizioni, Milano, 2022, disponibile in https://air.unimi.it/bitstream/2434/952261/2/Con-i-Buoni-Sentimenti_web.pdf (ultima consultazione 25.11.2024).

[11] C. Lombardi, ‘Disimpegnati’ e ‘moralisti’. Etica, estetica e responsabilità nelle finzioni contemporanee della Storia, in G. Carrara e L. Neri (a cura di) Con i buoni sentimenti si fanno brutti libri? Etiche, estetiche e problemi della rappresentazione,, Ledizioni, Milano, 2022, pp. 367-380, in https://books.openedition.org/ledizioni/15163 (ultima consultazione 25.11. 2024).

[12] Su questa espressione si vedano, ad esempio, M. Macé, La lettura nella vita. Modi di leggere, modi di essere, Loescher, Torino, 2016 e S. Giusti e N. Tonelli, Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento, Loescher, Torino, 2021.

[13] Cfr. fra i titoli più recenti M. Cometa, Letteratura e darwinismo, Carocci, Roma, 2018; A. Casadei, Biologia della letteratura, Il Saggiatore, Milano, 2018; S. Calabrese, Neuronarrazioni, Editrice Bibliografica, Milano, 2020; M. Barenghi, Poetici primati, Quodlibet, Macerata, 2020; J. Gottschall, Il lato oscuro delle storie, Bollati e Boringhieri, Torino, 2022; P. Brooks, Sedotti dalle storie, Carocci, Roma, 2023.

[14] M. C. Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteratura e vita civile, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2012 (c 1995) e Ead., Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 20219 (c1997).

[15] Come è noto, la tesi di fondo dei saggi di Edward Said Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 2017 (c1978) e Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2023 (c2003), peraltro anticipate da altri (ad esempio Frantz Fanon), sono state fatte oggetto di critiche costruttive, da Gayatri Spivak, da Homi Bhabba, da Ania Loomba a partire dagli anni Novanta del Novecento (sulla questione, cfr. M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo, Meltemi, Roma 2021 (c2005) e A. Crivelli, La letteratura coloniale e postcoloniale in Italia. Dal romanzo di propaganda coloniale alle contronarrazioni postcoloniali, Meltemi, Roma, 2022, pp. 24-44).

[16] Non prendo in esame in questo intervento la recente letteratura postcoloniale per l’infanzia, ossia le letture che possono essere proposte negli ordini inferiori di scuola, ma consiglio la consultazione del volume di Anna Finozzi La letteratura postcoloniale italiana per l’infanzia (2010-2022). Lingua spazio colore, Franco Cesati Editore, Firenze, 2023.

[17] A. Di Sapio e M. Medi, Il lontano presente: l’esperienza coloniale italiana. Storia e letteratura fra passato e presente, EMI, Bologna, 2009.

[18] A. Di Sapio e M. Medi, Il colonialismo italiano in Africa tra passato e presente, 2020, in https://www.storieinrete.org/storie_wp/?p=20580 sul portale IRIS - Insegnamento e ricerca interdisciplinare di storia (ultima consultazione 25.11.2024).

[19] Le autrici hanno svolto un’indagine sui testi di storia: ivi p. 229 e ss.

[20] V. Deplano e A. Pes, Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni, Carocci, Roma, 2024, p. 137.

[21] A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 202415 (c 2005), in particolare i capp. 3-5 e 7-10.

[22] F. Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade, Bollati Boringhieri, Torino, 2021, pp. 10-11.

[23] Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, Roma-Bari, 2017.

[24] A. Pascale, Opinioni (democratiche?), in A. Pascale – L. Rastello, Democrazia: cosa può fare uno scrittore?, Torino, Codice edizioni, 2011, p. 17.

[25] G. Van Straten, Invasione di campo. Quando la letteratura racconta la storia, Laterza, Roma-Bari, 2023.

[26] M. Gusso, Il laboratorio delle fonti letterarie, in P. Bernardi (a cura di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, UTET, Torino, 2006, pp. 150-165.

[27] A. Di Sapio e M. Medi, Il lontano presente…, cit., pp. 20-21.

[28] Ho già espresso il mio punto di vista negli interventi che ho dedicato alle opere letterarie legate alla storia delle migrazioni degli italiani, nella quale andrebbe ricompreso anche il colonialismo demografico: cfr. ad esempio C. Mizzotti, L’Italia terra di partenza e di arrivi: leggere le migrazioni di ieri e di oggi, in “Nuova Secondaria”, anno XLI, n. 9 (maggio 2024), pp. 120-136.

[29] G. Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano, Roma, Carocci, 2012, p.43-44.

[30] Così F. Sossi al Seminario “La letteratura coloniale e postcoloniale italiana”, Bologna 19 gennaio 2010.

[31] F. Cavagnoli, Una pioggia bruciante, Frassinelli, Milano, 2000; D. Longo, Un mattino a Irgalem, Feltrinelli, Milano, 2019 (c 2001); A. Camilleri, La presa di Macallè, Sellerio, Palermo, 2003 e Id., Il nipote del negus, Sellerio, Palermo, 2010; C. Lucarelli, L’ottava vibrazione, Einaudi, Torino, 2008; Id., Albergo Italia, Einaudi, Torino, 2014, Id., Il tempo delle iene, Einaudi, 2015 e Id., Bell’abissina, Mondadori, Milano, 2022 (cfr. C. Milanesi, Carlo Lucarelli e l’Eritrea. Il giallo storico: una chiave narrativa per interrogare l’attualità del passato coloniale rimosso, in L’Africa nella letteratura italiana (post)coloniale. Memoria, percezioni, rappresentazioni, Cesati, Firenze, 2022, pp. 93-106); G. Ballario, L’equivoco del sangue, Edizioni del Capricorno, Torino, 2024 (settima indagine del colonnello Morosini di stanza a Massaua, inaugurata nel 2010); G. Calligarich, La malinconia dei Crusich, Bompiani, Milano, 2016; G. Caminito, La grande A, Giunti, Firenze, 2016; F. Melandri, Sangue giusto, Bompiani, Milano, 2017 (sugli ultimi due romanzi cfr. S. Contarini, Alterità africane nella letteratura italiana coloniale e postcoloniale, in L’Africa nella letteratura italiana (post)coloniale. Memoria, percezioni, rappresentazioni, Cesati, Firenze, 2022, pp. 61-77); L. Panella, M.Cosentino e D. Dodaro, I fantasmi dell’impero, Sellerio, Palermo, 2017; E. Rausa, Le invisibili, Neri Pozza, Vicenza, 2024.

[32] Wu Ming 2 e Anthar Mohamed, Timira, Einaudi, Torino, 2012.

[33] Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, Point Lenana, Einaudi, Torino, 2013.

[34] Cfr. Wu Ming 1, New Italian Epic 3.0 Memorandum 1993-2008 e Wu Ming 2, La salvezza di Euridice in Wu Ming, New Italian Epic, Einaudi, 2009 disponibili all’indirizzo https://www.wumingfoundation.com/italiano/NIE3_Euridice.pdf (ultima consultazione 25.11.2024).

[35] Wu Ming 2, L’utile per iscopo? La funzione del romanzo storico in una società di retromaniaci, Rimini, Guaraldi, 2014.

[36] Ivi p. 19.

[37] Ivi p. 27.

[38] Ivi pp. 31-32.

[39] Dichiarano gli autori di Timira nella citata intervista: «la storia di Isabella - e di suo fratello Giorgio, l'unico partigiano italo-somalo della Resistenza - tracima dalle pagine del nostro libro e incrocia anche altre narrazioni, coinvolge altri autori, altri linguaggi e media. Prima di Timira c'è Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola, 1923-1945 di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio. Poi c'è lo spettacolo Basta uno sparo, che Wu Ming 2 ha tratto da quel libro, con la collaborazione dei musicisti Egle Sommacal, Stefano Pilia (dei Massimo Volume), Paul Pieretto e Federico Oppi (di A Classic Education). Quindi c'è il cortometraggio Quale Razza, girato da Aureliano Amadei (Venti sigarette) intervistando Isabella. Poi c'è il reading Timira di Tamara Bartolini e chissà cos'altro ci riserverà il futuro».

[40] A tal proposito si segnalano i materiali didattici ora reperibili sul canale youtube del Liceo scientifico A. Messedaglia di Verona (https://www.youtube.com/@MessedagliaWeb/videos), in particolare la registrazione degli incontri degli autori stessi con le scolaresche e le produzioni multimediali realizzate dagli studenti coinvolti nelle iniziative (1 febbraio 2013 per Timira e 23 maggio 2013 per Point Lenana).

[41] La citazione è tratta da un contributo ad opera di Wu Ming in data 8 febbraio 2012 che si legge sul sito del collettivo in http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=7036 (ultima consultazione 25.11.2024)

[42] La dichiarazione di Wu Ming 2 sta in M. Vincenzi, Partigiani, esuli e ribelli, la nostra storia in una donna, “La Repubblica”, 1° giugno 2012.

[43] Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? … cit., pp. 7-9. Cfr. anche Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, 2008, p. 201 e ss. e Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, prefazione di Angelo Del Boca, Laterza, 2008, passim (in particolare pp. 248-250). Sull’episodio specifico, G. Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-37, in «Italia contemporanea», 1975, n.118 pp. 3-38 (ora disponibile all’indirizzo https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1975_118-121_01.pdf ultima consultazione 25.11.2024) e, più recentemente, il volume Ian Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, Rizzoli, Milano, 2018.

[44] P. Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia, Laterza, Roma-Bari, 2020.

[45] A parte gli studi pionieristici di Angelo del Boca (Gli italiani in Africa Orientale, III, La caduta dell’impero, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 88-106), il volume di Borruso e il contributo di Giorgio Rochat citati in precedenti note, l’insabbiamento della strage di Debre Libanos ha nascosto all’opinione pubblica i fatti che solo negli ultimi anni sono diventati di dominio pubblico: si vedano, ad esempio, gli articoli di A. Tornielli, Sterminate quei monaci. Firmato: il viceré Graziani, in «La Stampa», 18 maggio 2016; A. Riccardi, Il più grande massacro di cristiani in Africa... per mano italiana nel 1937, in «Sette», 14 ottobre 2016; G.A. Stella, E Graziani massacrò i monaci etiopi, in «Corriere della Sera», 17 febbraio 2017; A. Riccardi, Ricordare con gesti concreti il massacro dei monaci etiopi, in «Corriere della Sera», 6 marzo 2017; A. Beltrami, Etiopia. Debre Libanos, gli 80 anni di un eccidio senza scuse, in «Avvenire», 12 maggio 2017. Si segnala anche il docu-film di Antonello Carvigliani Debre Libanos, Reteblu Spa, 2016, disponibile per la visione all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=eUYDzBi-w3k (ultima consultazione 25.11.2024).

[46] Nel marzo del 1937, nel mese successivo all’attentato al viceré, «La lettura» del «Corriere della sera», che pure aveva un numero cospicuo di inviati di guerra come si può verificare all’indirizzo https://italiacoloniale.com/2020/02/06/gli-inviati-di-guerra-per-la-campagna-detiopia-del-1935/ ,  anziché informare i suoi lettori sulla strage seguita all’attentato, pubblica un ampio articolo firmato con l’eteronimo «Civis» dal titolo La civilizzazione di Addis Abeba (pp. 204-210), che si può leggere con gli studenti all’indirizzo http://emeroteca.braidense.it/eva/sfoglia_articolo.php?IDTestata=47&CodScheda=134&SearchString=la%20lettura&SearchField=titolo&PageRec=25&PageSel=1&PB=1&CodVolume=2246&CodFascicolo=11732&CodArticolo=239794 (ultime consultazioni 25.11.2024).

[47] F. Casales, Raccontare l’Oltremare. Storia del romanzo coloniale italiano (1913-1943), Le Monnier – Mondadori Education, Milano, 2023, p. 3.

[48] Fra i titoli della stampa periodica impegnata nella costruzione di una coscienza collettiva ricordo: «L’Italia coloniale» (1900-1904), «Rivista coloniale» (1906-1927). «Rivista delle colonie italiane» (1927-1934), «L’azione coloniale» (1931-1945), «L’Oltremare» (1927-1934). In sede didattica, il recupero e la consultazione di qualche fascicolo digitalizzato e la lettura di qualche articolo di dette riviste è assai utile per comprendere lo spirito con cui la nazione affrontò l’avventura coloniale, secondo una precisa regia politica a sostegno dell’imperialismo demografico.

[49] Esotica. Mensile di Letteratura e valorizzazione coloniale. Cronache d’arte e di vita (1926-1927). Cfr. M. Venturini, Al di là del mare. Letteratura e giornalismo nell’Italia coloniale. 1920-1940, in «Revues et empires coloniaux», n. 12 (2017), disponibile all’indirizzo  http://journals.openedition.org/cliothemis/1041 (ultima consultazione 25.11.2024). La rivista si può sfogliare all’indirizzo http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/giornale/CFI0352753/1926/unico (ultima consultazione 25.11.2024).

[50] M. Dei Gaslini, Piccolo amore beduino, L’eroica, Milano, 1926.

[51] L. Ricci, La lingua dell’impero. Comunicazione, letteratura e propaganda nell’età del colonialismo italiano, Carocci, Roma, 2008, p. 108.

[52] Ivi, p. 154. Ma giudizi articolati sulla mediocrità del risultato artistico della letteratura coloniale sono presenti anche in G. Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Sellerio, Palermo, 2004; M. Pagliara, Il romanzo coloniale. Tra imperialismo e rimorso, Roma, Laterza, 2001. Polemiche e giudizi incerti e negativi coevi sono riportati da A. Crivelli, La letteratura coloniale e postcoloniale, cit., pp. 140 e ss., in cui si riferisce anche quanto emerso dal Referendum sulla letteratura coloniale italiana, lanciato dalla rivista «L’azione Coloniale» (Anno I, n.1, 15 gennaio 1931, p.4).

[53] Ricordo che dal 2012 il Comune di Affile (con un finanziamento della Regione Lazio) ha fatto erigere un Memoriale per onorare Graziani, pluricriminale di guerra (in Libia, Etiopia e poi da repubblichino nella repressione antipartigiana) e collaborazionista dei nazisti.

[54] Wu Ming1 e R. Santachiara, Point Lenana, cit., pp. 201-202.

[55] Wu Ming 1 e R. Santachiara, Point Lenana, cit., pp. 262-264 passim.

[56] C. Poggiali, Diario AOI: 15 giugno 1936-4 ottobre 1937: gli appunti segreti dell'inviato del Corriere della sera, Longanesi, Milano, 1971. Adeguato spazio all’interpretazione del contenuto del diario è riservato nel volume L’Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo, a cura di Bianca Maria Carcangiu e Tekeste Negash, Carocci, Roma, 2007, ma si veda anche l’analisi di Ch. Burdett nell’articolo Nomos, identity and otherness: Ciro Poggiali's Diario AOI 1936–1937 and the representation of the italian colonial world, in Cambridge University Press 79 - 31 October 2011, pp. 329-349.

[57] F. Melandri, Sangue giusto, Rizzoli, Milano, 2017, pp. 394-395.

[58] E. Rausa, Le invisibili, Neri Pozza, Vicenza, 2024. Il romanzo testimonia l’interesse dell’autrice per il lontano presente, per il legame che si può individuare fra i fatti storici di un tempo lontano e le dinamiche migratorie del presente. Per inquadrare il romanzo, utile l’intervista resa dalla scrittrice a Mauro Reali in https://laricerca.loescher.it/parlando-con-elena-rausa-delle-sue-invisibili/ (ultima consultazione 25.11.2024).

[59] I due romanzi precedenti dell’autrice, Marta nella corrente (Neri Pozza, Vicenza 2014) e Ognuno riconosce i suoi (Neri Pozza, Vicenza 2018), narrano storie d’invenzione legate rispettivamente alla Shoah e agli Anni di piombo.

[60] Dall’intervista pubblicata sul sito della casa editrice Neri Pozza, all’indirizzo https://neripozza.it/blog/192/quattro-chiacchiere-con-elena-rausa  (ultima consultazione 25.11.2024).

[61] E. Rausa, Le invisibili, Neri Pozza, Vicenza 2024, p.7. Cfr. L’intervista rilasciata dall’autrice a RaiCultura all’indirizzo https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2024/08/Elena-Rausa-Le-invisibili-a659b615-a8fb-4fcf-b22c-fb16f9db351e.html (ultima consultazione 25.11.2024).

[62] Cfr. Silvia Lutzoni, Tra modernismo e modernità: il cuore di tenebra di Ennio Flaiano, in G. Baldassarri  (a cura di) I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), Adi editore, Roma, 2016, in https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2016/Lutzoni.pdf (ultima consultazione 25.11.2024).

[63] Ivi pp. 12-13.

[64] Segnalo la recensione al romanzo di I. Pasqualetto all’indirizzo https://www.doppiozero.com/maaza-mengiste-il-re-ombra (ultima consultazione 24 agosto 2024). È disponibile la registrazione della Lectio magistralis di Maaza Mengiste tenuta il 12 marzo 2024 per la Cattedra Virginia Woolf dell’Università di Siena (https://www.youtube.com/watch?v=nsv8RCd-nl8, ultima consultazione 25.11.2024).

[65] M. Megiste, Il Re Ombra, Einaudi, Torino, 2019.

[66] M. Mengiste, Il Re Ombra, cit., pp.260-261.

[67] Ivi, pp. 262-264.

[68] M.G. Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi, Torino, 2022.

[69] Ivi, pp. 66-67.

[70] N. Verna, I giorni di Vetro, Einaudi, Torino, 2024.

[71] G. Simonetti, La nuova estetica del romanzo antifascista, in «Tuttolibri», 19 ottobre 2024. In questa tipologia di romanzi rientra anche B. Salvioni, La Malnata, Einaudi, Torino, 2023, ambientato negli anni Trenta a Monza, ma i fatti della campagna d’Etiopia influiscono in modo significativo sull’intreccio.

[72] N. Verna, I giorni di Vetro, cit., pp. 63-64.

[73] Ivi, pp. 142-143.

[74] Si può scaricare liberamente all’indirizzo https://resistenzeincirenaica.com/2024/02/23/il-massacro-di-addis-abeba/ (ultima consultazione 25.11.2024). Si segnala anche Yekatit 12, romanzo grafico di Andrea Sestante (all’anagrafe Andrea Lelli) in corso di lavorazione incentrato sul complotto ordito dalla Resistenza etiope per assassinare il maresciallo Graziani e sulle successive rappresaglie. Nell’ambito del fumetto, ricordo anche gli albi di Volto nascosto, su cui ha scritto Luca Somigli, (Anti)imperialismo a fumetti. L’“avventura coloniale” in Volto Nascosto di Gianfranco Manfredi, in «Narrativa», 33-34 (2012), pp. 117-132, disponibile all’indirizzo http://journals.openedition.org/narrativa/1335 (ultima consultazione 25.11.2024).

[75] C. Gallo e B. Bonomi, Tutto cominciò con Bilbolbul, Perosini, Zevio, 2006, p. 42.

[76] I. Scego, Il caso Bilbolbul ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana, 14 novembre 2014 all’indirizzo https://www.nazioneindiana.com/2014/11/14/il-caso-bilbolbul-ovvero-la-necessita-di-una-decolonizzazione/ (ultima consultazione 25.11.2024).

[77] Da tempo queste scrittrici sono aggetto di studi; segnalo ad esempio M. Venturini, «Toccare il futuro». Scritture postcoloniali femminili, in Fuori centro. Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana, a c. di R. Derobertis, Roma, Aracne, 2010; Simona Cigliana, Terre madri e madre terra: identità, sostentamento, autorialità nelle scrittrici delle ex colonie italiane, in «Narrativa», 33-34 (2012), pp. 185-194, in http://journals.openedition.org/narrativa/1380 (ultima consultazione 25.11.2024).

[78] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza 2005. Cfr. A. Di Sapio e M. Medi, Il lontano presente, cit., pp. 86-90.

[79] G. Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma, 2021 (c 2007). Cfr. A. Di Sapio e M. Medi, Il lontano presente, cit., pp. 61-73.

[80] V. Longhi, Il colore del nome, Solferino, Milano, 2021.

[81] S. Ramzanali Fazel, Lontano da Mogadiscio, Datanews, Roma, 1994 (seconda edizione 2017); Nuvole sull’Equatore. Gli italiani dimenticati, Nerosubianco, Cuneo, 2010 (terza edizione 2017); Profumo di Unsi: fra Somalia e Italia, [s.l.] 2023. Cfr. A. Di Sapio e M. Medi, Il lontano presente, cit., pp. 53-61.

[82] G. Garane, Il latte è buono, Cosmo Iannone editore, Isernia, 2005. Cfr. A. Di Sapio e M. Medi, Il lontano presente, cit., pp.74-80.

[83] Sono ormai numerose le opere pubblicate: Madre piccola, 66thand2nd, Roma 2022 (c2007); Il comandante del fiume, 66thand2nd, Roma, 20222 (prima edizione 2014), Le stazioni della luna, 66thand2nd, Roma 2021; Le ceneri della fenice e altri racconti, hopefulmonster editore, Torino, 2022, oltre al lavoro di curatela a quattro mani con Claudia Durastanti Sciroccate. Storie di traverso da sud, Tamu edizioni, Napoli, 2023.

[84] S. Anglana, La signora Meraviglia, Sellerio, Palermo, 2024.

[85] I. Scego, Oltre Babilonia, Donzelli, Roma, 2008; La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano, 2010; Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, (con Rino Bianchi), Ediesse, Roma, 2014; Adua, Giunti, Firenze, 2015; La linea del colore, Milano, Bompiani, 2020; Figli dello stesso cielo, Piemme, Milano, 2021; Cassandra a Mogadiscio, Milano, Bompiani, 2023. Scego ha partecipato a numerosi volumi collettivi (a partire da Pecore nere, Laterza, Roma-Bari, 2005) e progetti (ad esempio Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, effequ, Firenze, 2019.

[86] Mohamed Aden Sheikh è stato ministro del primo governo Barre e poi consigliere municipale della giunta comunale di Torino; nel suo libro memoriale La Somalia non è un’isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, Diabasis, Reggio Emilia, 2014 ripercorre la sua tormentata vicenda e scrive: «I miei figli hanno affrontato il loro trasferimento in Italia armati della capacità di pensare con la propria testa e della libertà di esprimere il proprio pensiero» (p. 225). Teresa Solis, in Due generazioni, due narrazioni. L’Italia postcoloniale in Mohamed Aden Sheikh e Kaha Mohamed Aden, in «Narrativa», n. 33-34 (2012), pp. 225-236, ora all’indirizzo https://journals.openedition.org/narrativa/1413 (ultima consultazione 25.11.2024), confronta le diverse prospettive di padre e figlia nel ricordo della terra d’origine e nella costruzione di una nuova vita in quella di arrivo.

[87] Simone BrioniGraziano ChiscuzzuErmanno Guida, La quarta via, cinqueesei film, 2010. Il progetto che ha condotto alla realizzazione della pellicola è illustrato in una pubblicazione bilingue Somalitalia. Cinque vie per Mogadiscio. Smalitalia. Five Roads to Mogadishu, Kimerafim, Roma 2012 ora all’indirizzo https://www.academia.edu/5109375/Brioni_S_ed_2012_Somalitalia_Quattro_vie_per_Mogadiscio_Somalitalia_Four_Roads_to_Mogadishu_trans_by_Alberto_Carpi_Roma_Kimerafilm (ultima consultazione 25.11.2024).  

[88] K. M. Aden, Fra-intendimenti, nottetempo, Milano, 2010. Segnalo alcuni studi critici reperibili online sull’opera: M. Jansen, Le cinque vie di Kaha: i colori dei “fra-intendimenti”, in «Narrativa», 33-34 (2012), pp. 237-248, ora disponibile all’indirizzo https://journals.openedition.org/narrativa/1418 (ultima consultazione 24 agosto 2024); S. Brioni, Doppia temporalità e doppia spazialità: il cronotopo dei Fra-intendimenti di Kaha Mohamed Aden, all’indirizzo https://sas-space.sas.ac.uk/6176/ (ultima consultazione 25.11.2024); H. Nohe, Diventare estranea e marginale. Rappresentazioni e autorappresentazioni del soggetto migrante in Fra-intendimenti (2010) di Kaha Mohamed Aden, in «apropos», n. 5 (2020), pp.88-105, all’indirizzo https://journals.sub.uni-hamburg.de/apropos/article/view/1598 (ultima consultazione 25.11.2024).

[89] K. M. Aden, Dalmar. La disfavola degli elefanti, Unicopli, Milano, 2019. Cfr. la registrazione dell’incontro di presentazione c/o la Casa delle donne di Milano del 23 febbraio 2023 all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=vHKI_6AtTGw (ultima consultazione 25.11.2024).

[90] I. Vivan, Una scrittura sorridente, in «Nigrizia», marzo 2024, pp. 72-73.

[91] Ibidem.

[92] Si veda ad esempio la silloge Pubblichiamoli a casa loro, a cura di M. Andreone e R. Taddeo, Ensamble, Roma, 2018, ma anche i primi lavori di Igiaba Scego e i romanzi di Amara Lakhous (il primo e più riuscito è Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, e/o, Roma, 2006).

[93] Lo stupore della parola nuova. Intervista a Kaha Mohamed Aden, pubblicata il 29 gennaio 2013, disponibile all’indirizzo https://www.societadelleletterate.it/2013/01/intervista-a-kaha-mohamed-aden/ (ultima consultazione 25.11.2024).

[94] K. M. Aden, Fra-intendimenti, cit., pp. 11-13.

[95] Ivi, pp. 14-15.

[96] Ivi, p. 20.

[97] Sul tema la bibliografia è ampia. Mi limito a segnalare il volume specifico di M. Boddi, Carne da maschi, donne africane nella narrativa imperialista, Aracne, Roma, 2023 e, sui temi dell’identità razziale nella contemporaneità con particolare attenzione per sfera del femminile, Il colore della nazione, a cura di G. Giuliani, Mondadori Education, Milano, 2015, che si concentra su televisione, cinema, arte e fumetto a partire dal Secondo dopoguerra e fino alla stretta contemporaneità.

[98] K. M. Aden, Fra-intendimenti, cit., p. 23.

[99] M. Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei Caraibi, cit., 2014.

[100] K. M. Aden, Dalmar, cit., p. 166.

[101] Ivi, p. 133.

[102] C. Barbarulli, recensione del 2 aprile 2020 all’indirizzo https://www.letteratemagazine.it/2020/04/02/la-disfavola-degli-elefanti/ (ultima consultazione 25.11.2024).

[103] Il romanzo vincitore, Ninna nanna (Rizzoli, Milano, 2017) non è incentrato su temi postcoloniali, mentre lo sono i più recenti, bellissimi Il paese degli altri (La nave di Teseo, Milano, 2020) e il seguito E noi balliamo (La nave di Teseo, Milano, 2022), una saga familiare in tre episodi (si attende l’uscita del terzo) originata dal matrimonio nel Secondo Dopoguerra fra l’alsaziana Mathilde e il marocchino Amin, nonni della scrittrice. Notevole la prospettiva rovesciata del primo episodio: non è Amin che si trasferisce in Francia, ma Mathilde che deve adattarsi alla vita in Marocco, un’europea che soffre l’estraneità rispetto a una cultura e a un mondo altri.

[104] M. Mbougar Sarr, La più recondita memoria degli uomini, E/O, Roma, 2022.

[105] K. Daoud, Houris, Gallimard, Paris, 2024.

[106] Cfr. S. Mobiglia, Il caso Mauresault e il caso Daoud, «L’indice dei libri del mese», 1 giugno 2016, ora all’indirizzo https://www.lindiceonline.com/scienze-umane/cultura-e-societa/caso-meursault-caso-daoud/ (ultima consultazione 25.11.2024).

[107] K. Daoud, Il caso Meursault, Bompiani, Milano, 2015.

[108] S. Mobiglia, Il caso Mauresault e il caso Daoud, cit.

[109] A. Zeniter, L’arte di perdere, Einaudi, Torino, 2018: il romanzo narra l’epopea di una famiglia durante e dopo la Guerra d’Algeria, una storia postcoloniale di cui segnalo la mia recensione all’indirizzo https://laletteraturaenoi.it/2019/01/18/tra-francia-e-algeria-seguendo-il-torrente-della-storia-larte-di-perdere-di-alice-zeniter/ (ultima consultazione 25.11.2024).

[110] D. Diop, Fratelli d’anima, Neri Pozza, Vicenza, 2018.

[111] C. Mizzotti, “Ogni cosa è duplice: ha una faccia buona e una cattiva”: David Diop, Fratelli d’anima”, in https://laletteraturaenoi.it/2019/06/14/ogni-cosa-e-duplice-ha-una-faccia-buona-e-una-cattiva-david-diop-fratelli-danima-neri-pozza-vicenza-2020/  (ultima consultazione 25.11.2024).

[112] Ne 2022, alla 75ₐ edizione del festival di Cannes, sono state presentate due pellicole che affrontano la violenza coloniale nella forma dell’arruolamento di ex-sudditi delle colonie nell’esercito francese: Tirailleurs di Mathieu Vadepied (ambientato durante la Grande Guerra, titolo italiano Io sono tuo padre) e Les Harkis di Philippe Faucon, ambientato durante la Guerra d’Algeria.

[113] Anche i tedeschi arruolarono truppe coloniali e una testimonianza narrativa è costituita dai romanzi Paradiso (Garzanti, Milano, 2007, poi La nave di Teseo, Milano, 2022) e soprattutto Voci in fuga (La nave di Teseo, Milano, 2022) del Premio Nobel 2021 di nazionalità tanzaniana, nato e cresciuto a Zanzibar, Abdulrazak Gurnah.

[114] Corre l’obbligo di segnalare il romanzo Il ritorno (Einaudi, Torino, 2017) dello scrittore americano di origini libiche Hisham Matar, attivo in ambito accademico e contributor di vari quotidiani e riviste di rilievo internazionale, vincitore del Premio Pulitzer 2017 per la sezione Biografia e Autobiografia: nel romanzo viene rievoca la figura del nonno Hamed che aveva lottato contro il colonialismo italiano, anche se protagonista dell’opera è il padre Jaballa è stato uno dei principali oppositori al regime di Gheddafi.

[115] G. Hailu, L’ascaro. Una storia anticoloniale, Tamu edizioni, Napoli, 2023.

[116] Mengiste, oltre al romanzo Il re ombra, ha scritto anche Lo sguardo del leone, Neri Pozza, Vicenza, 2010, sulla dittatura in Somalia.

[117] M. Mengiste, Prefazione, in G. Hailu, L’ascaro, cit., p. 11.

[118] Uoldelul Chelati Dirar, L’ascaro, una critica del colonialismo e una riflessione sulle contraddizioni dei colonizzati, in G. Hailu, L’ascaro, cit., p. 32.

[119] Ivi, p. 34.

[120] G. Hailu, L’ascaro, cit., p. 77. Segnalo che mi è parso di cogliere un chiaro rinvio a Manzoni nel momento in cui Tequabo, imbarcato, esce dal porto di Massaua e vede allontanarsi la sua terra e «sopraffatto improvvisamente dalle lacrime, si mise a mormorare: Addio terra mia natia che mi hai cresciuto sulle tue distese verdeggianti, sulle tue ambe apriche! Addio mie lande solitarie dove ho trascorso le notti, con il mio bestiame e i pastori» (ivi p. 68). Ma un certo Carducci mi sembra riecheggiare nelle pagine in cui si descrive il treno, rappresentato da una parte con connotati di «leone affamato», dall’altra di macchina sinistra (ivi pp. 64-65).

[121] Ivi pp. 80-81.

[122] Ivi, p. 83.

[123] Ivi, p. 85.

[124] Ivi, pp. 123-124.

[125] F. Pusterla, Concessione all’inverno. Poesie, Casagrande, Bellinzona 1985, su cui si veda D. Dalmas, Concessione all’inverno di Fabio Pusterla: una mossa d’apertura, in G. Baldassarri (a cura di) I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), Roma, Adi editore, 2016 all’indirizzo https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2016/DalmasConcessione.pdf (ultima consultazione 25.11.2024).

[126] Id., Tremalume, Marcos y Marcos, Milano, 2022.

[127] Cfr P. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 2021 (c1978); Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di G. Alfano (et al.), Sossella, Roma, 2005; D. Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi, Rizzoli, Milano, 2005; E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino, 2005; Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, a cura di A. Afribo, Carocci, Roma, 2007.

[128] L’espressione ricorre nella lirica Fili de pute, che si legge in F. Pusterla, Argéman, Marcos y Marcos, Milano, 2014.

[129] Folla sommersa è il titolo del libro di poesia del 2004 (Marcos y Marcos, Milano).

[130] Il termine è usato nella poesia Sovrapposizioni a Berlino, in F. Pusterla, Cenere, o terra, Marcos y Marcos, Milano, 2018.

[131] F. Pusterla, Prefazione, in A. Crivelli, La letteratura coloniale e postcoloniale in Italia, cit., pp. 8-11.

[132] F. Pusterla, Truganini, L’arcolaio, Forlì, 2021. Il testo è poi confluito in F. Pusterla, Tremalume, cit, p. 63 e ss, nella sezione della raccolta intitolata Cielo dei vinti.

[133] Si veda la recensione alle liriche pusterliane di Umberto Fiori, Fabio Pusterla: ma chi è Truganini?, all’indirizzo https://www.doppiozero.com/fabio-pusterla-ma-chi-e-truganini (ultima consultazione 25.11.2024).

[134] Canzone dei deserti e degli dei che fuggono senza voltarsi, Canzone dei cani in pericolo, Canzone delle acque ripide e Canzone delle acque che stanno ferme.

[135] F. Pusterla, Tremalume, cit, p.67.

[136] G. Alfano, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Casati, Firenze, 2014.

[137] Riprendo il titolo del romanzo di F. Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano, 2013.

[138] S. Finzi, Nevrosi di guerra in tempo di pace, Sossella, Roma, 2020.

[139] Cfr. L. Zoja, Narrare l’Italia, cit., p. 413.

[140] S. Torre, Il pensiero decoloniale, Utet, Torino, 2024, pp. IX-XI passim.

[141] R. Derobertis, Introduzione, in Fuori centro. Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana, a c. di R. Derobertis, Aracne, Roma, 2010, p. 9.

[142] T. Fiore, Spazi pre-occupati. Una rimappatura delle migrazioni transnazionali e delle eredità coloniali italiane, Le Monnier Università, Firenze 2021.

[143] B. De Sousa Santos, Decolonizzare la storia, Castelvecchi, Roma 2023, p. 12. Molto utile anche il volume recentemente tradotto W.D. Mignolo e C.E. Walsh, Decolonialità. Concetti, analisi, prassi, Castelvecchi, Roma 2024.

[144] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 20056.

[145] Cfr. L. Farrajoli, Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, Milano 2022.

[146] S. Torre, Il pensiero decoloniale, Utet, Torino 2024, pp. 15-16.