Cinzia Spingola - Quando i luoghi raccontano la Storia

(e le storie), tra realtà, invenzione e memoria

Se è assodato che spazio e tempo sono coordinate indispensabili della storia come pure della lingua, che si nutre della loro unione indissolubile [1], altrettanto acclarata è la relazione che quelle categorie, bachtianamente interconnesse, hanno con gli universi finzionali della letteratura [2].

Cosa succede allora quando la letteratura ‘costruisce’ e rende ‘leggibili’ i luoghi della Storia, per esempio della prima e della seconda guerra mondiale o dei conflitti  balcanici, e li esplora attraverso l’esperienza reale o immaginaria di un protagonista, lo sguardo straniante di un reporter o la memoria che li rielabora? In questi casi quale ruolo svolge lo spazio che figurativizza sempre la temporalità? Cosa ci dice in più dei personaggi e delle storie che essi agiscono o subiscono [3]?

Prima di analizzare alcuni testi letterari che testimoniano la presenza attiva e non narrativamente esornativa dei luoghi, val la pena di gettare una rapida occhiata nel campo dell’arte.

Tra i molti che dipinsero da vicino i paesaggi ulcerati dalle guerre del primo Novecento, l’inglese Paul Nash è uno dei più visionari. Dalla sua pittura antimilitarista (Figg. 1-2) emerge con forza il trauma della guerra del 1914-18, capace da un lato di sconvolgere il territorio, dall’altro di allentare le difese della coscienza umana di fronte agli smottamenti tellurici causati dai moderni strumenti di morte: in definitiva di alterare in profondità il modo di guardare, pensare e rappresentare i luoghi.

Se il paesaggio è una costruzione culturale complessa, individuale e sociale insieme [4], soggetta, secondo Ceserani, a profonde trasformazioni nei momenti di crisi epocali [5], al pari del più noto Otto Dix (Fig. 3), Nash ha colto i dirompenti cambiamenti provocati nel territorio dalla distruttività bellica e ha saputo raffigurare con straordinaria intensità il paesaggio geografico e al contempo psichico di una generazione che, sotto i colpi dei bombardamenti e dei gas, si percepì fragile e impotente sia nel chiuso delle trincee, sia negli esterni degli assalti e dei riposizionamenti, in rotta con la realtà naturale [6]. La sua pittura, dalla quale emergono gli effetti perturbanti dello shock, esemplifica la tesi di Joachim Ritter secondo il quale il paesaggio è «natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento» [7].

In Stiamo facendo il nuovo mondo del 1918, colto da una prospettiva disforica, il paesaggio esplicita l’indicibile violenza della Storia: falsato nei colori, esso ha l’aspetto di una landa vaiolata, popolata soltanto da monconi di alberi, spettrali presenze di un mondo disanimato, stremato dal sangue dei combattenti e rischiarato da un sole sinistro, distante da ciò che avviene sotto il cielo.

In altri casi è una luna straniata e dal robusto impatto emotivo a confermare la disfatta degli uomini e la metamorfosi della natura. In Totes Meer (Dead Sea), realizzato negli anni della seconda guerra mondiale, per esempio, Nash restituisce il movimento ondoso del mare attraverso un cimitero di lamiere ritorte, spoglie di una battaglia aerea senza sopravvissuti.   

A differenza di Joe Sacco, che ha disegnato realisticamente le ustioni collettive del primo giorno di battaglia lungo la Somme e dei conflitti balcanici [8], Nash scansa ogni rappresentazione naturalistica, pone in primo piano la propria percezione dei luoghi e dà prova di una potente ispirazione visionaria.

L’effetto dei suoi dipinti sugli osservatori non è molto dissimile, a ben guardare, da quello prodotto da “Soldati morti parlano (Fig. 7), una fotografia di grandi dimensioni (altezza 2,5 m, larghezza 4 m) del canadese Jeff Wall.

Nonostante la connotazione mimetica del paesaggio sfigurato e pietroso, anche questa immagine è una ricostruzione finzionale, realizzata nello studio dell’artista nel 1992, a sei anni di distanza dall’imboscata afghana (1986) ai danni di tredici soldati russi. Le vittime, disseminate lungo il versante di una collina disastrata da una delle tante folli guerre della seconda metà del Novecento, sembrano immerse in una surreale atmosfera «conviviale e cameratesca» [9], che accomuna in un unico disgraziato destino i morti, i moribondi e i rifiuti materiali della guerra.

Ora, si possono o no condividere le perplessità di Susan Sontag sulla possibilità odierna della funzione educativa delle fotografie che mostrano il dolore degli altri, tuttavia non si può escludere che, in presenza di una narrazione ‘che faccia capire’ [10], immagini come quella di Wall possano ancora avere sull’osservatore accorto un inaspettato esito conoscitivo e critico. Risultati formativi potrebbero derivare allo stesso modo da certe rappresentazioni di paesaggi urbani (Figg. 8-9), deturpati da assedi più o meno recenti e divenuti nelle scritture letterarie scenari cronotopici, motori di storie individuali e collettive, al pari di tanti spazi naturali.

A testimoniare che, come suggerisce Franco Moretti «quel che succede dipende dal dove succede» [11], si potrebbero interpellare tra mille: il sergente Rigoni Stern (1953) che, passo dopo passo nella neve, dalla pianura russa cerca di tornare a “baita”; il partigiano Milton, che frange la simbiosi con il paesaggio langarolo incalzato dalla sua ‘febbricitante’ [12] inchiesta amorosa e privata (1963); oppure Ida Ramundo e la gatta Rossella, i cui destini trovano il loro compimento nella topografia immiserita e devastata di San Lorenzo e di Pietralata, nella Roma preda della guerra e della storia di Morante (1973).

Di fronte a certe rappresentazioni di paesaggi terribili e seducenti, osservati da punti di vista sovrastanti come nell’euforico dipinto di Tullio Crali (Fig.10), è legittimo domandarsi cosa ‘mostri’ la letteratura, che si serve delle parole e di un alto tasso di figuralità per rendere memorabili le storie, visto che il suo interesse va prima di tutto allo “spazio vissuto” [13] e ai paesaggi umani, «veri e propri palinsesti […] che recano in sé la memoria degli eventi, dei soggetti, delle storie» [14].

Se Dix rappresenta la claustrofobica Lens attraverso gli sguardi terrorizzati degli esseri umani bombardati dall’alto (Fig. 11), come e con quali esiti la letteratura ci restituisce, per esempio, la topografia delle città balcaniche in cui gli spazi rasoterra degli assediati sono stati dominati per lunghi anni dalle alture degli assedianti [15]?

In classe questi sconfinamenti interdisciplinari possono offrire qualche embrionale spunto di riflessione per accostarsi alla molteplicità degli spazi della letteratura legata alle guerre e, soprattutto, per interrogarsi sulla loro funzione conoscitiva.

Il percorso che segue si articola in tre tappe (Fig. 12); i testi esemplificativi sono tutti in prosa [16]

 

1. Paesaggi da paura: la prima guerra mondiale

 

La paura è un racconto scritto nel 1921 da Federico De Roberto. Visti i tempi didattici sempre più risicati, con la sua trentina di pagine si presta a un approfondimento attraverso la comparazione contrappuntistica con altri testi maturati in aree ideologicamente ed emotivamente divergenti. Tra l’altro Marinetti e Ungaretti, talvolta anche Lussu, Sbarbaro e Rebora, il quale consente di lavorare sull’incomunicabilità dell’esperienza bellica [17], sono autori trattati in tutti gli indirizzi scolastici, e possono dunque arricchire le riflessioni della classe con punti di vista e con generi che qui mancano.

De Roberto non ha realmente combattuto, ma compensa l’inesperienza «con una speciale visionarietà» che gli consente di superare il cronachismo dei memorialisti e «di calarsi alla radice stessa» della guerra [18]. Anche se lo scrittore non è mai stato un pacifista, per i sentimenti che suscita nel lettore posto di fronte all’insensatezza della morte di tante giovani vite, il suo racconto potrebbe essere accostato alla pittura di Nash e di Dix.

La storia, narrata privilegiando i dialoghi nelle parlate regionali dei soldati, è scarna e dura come la natura alpina, che nel racconto ha un ruolo comprimario. La quiete del presidio affidato al tenente Alfani è rotta dagli spari nemici contro una postazione rocciosa da cui dipende la sicurezza delle retrovie. Il tenente è costretto a inviare i propri soldati fuori, uno dopo l'altro, nel tentativo di raggiungere il posto di guardia da piantonare con costanza. Usciti allo scoperto, a turno, i giovani fanti cadono come birilli, con una prevedibilità meccanica che sgomenta. Con l’aumentare dei morti, colpiti da cecchini ungheresi, nella trincea italiana cresce la paura, anche se nessuno osa disobbedire al comando. Arrivato il suo momento, però, fallito il tentativo del tenente di contattare i superiori per salvare la vita dei pochi superstiti, il soldato Morana, già decorato per il suo valore, si rifiuta di eseguire l’ordine e, per evitare la morte che lo attende «accovacciata lassù» [19], sceglie piuttosto di suicidarsi.

Tutti gli elementi narrativi si raccordano al paesaggio inospitale che anticipa, accompagna ed enfatizza l’epilogo. Leggiamo qualche passaggio dell’incipit:

 

Nell'orrore della guerra, l'orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell'Inferno. Non una macchia d’albero, non un filo d’erba tranne che nel fondo delle vallate: laggiù un caotico cumulo di rupi e di sassi, l’ossatura della terra messa a nudo, scarnificata, dislogata e rotta. Gran parte delle trincee s’erano dovute aprire spaccando il vivo masso, a furia di mine; il monte delle schegge aveva dato il materiale per i muretti e il pietrisco era servito a riempire i sacchi-a terra. L’acqua mancava del tutto e doveva essere trasportata a schiena di mulo, nelle ghirbe, insieme ai viveri. [20].


In un luogo così spaventoso poteva essere salvaguardato il diritto all’esistenza di quegli uomini? Il progressivo peggioramento del clima che accompagna lo sviluppo drammatico della vicenda non lascia dubbi: alla nebbia, che fa sparire «i particolari del sinistro paesaggio» [21], limitando ogni visione panoramica, si aggiungono prima i nuvoloni, che coprono il cielo e oscurano il sole incarcerando lo sguardo nell’asfittico reticolo della trincea, infine la pioggia, le cui «grosse gocce che parevano lagrime» [22] rigano il volto del soldato Morana nel momento del suo inutile sacrificio.

Analogamente ad altri memorialisti, tra cui il Lussu di Un anno sull’Altipiano [23], De Roberto sembra dirci che in quel frangente storico il paesaggio ha perso ogni aura idillica di romantica memoria [24] e che, in ultima analisi, la Grande Guerra ha provocato una frattura profonda nel rapporto dell’uomo con la natura e nella percezione del suo fascino [25].

Non a caso nella conclusione di Torneranno i prati (2014), film non privo di sequenze liriche e di musiche struggenti [26], liberamente ispirato a La paura e utile perciò al confronto contrastivo con il racconto, Ermanno Olmi [27], amico e vicino di casa di Rigoni Stern, ci avverte con amarezza che dopo la guerra i prati torneranno a consolare di nuovo i vivi, ma i morti saranno dimenticati [28].

 

2. La memoria dei partigiani contro la paura: verso la riappropriazione dei paesaggi

 

Paura sul sentiero, di Calvino, è un racconto breve di notevole valore letterario [29], fa parte della raccolta Ultimo viene il corvo ed è in grado di dialogare con i grandi romanzi “partigiani” di Calvino, Meneghello e Fenoglio, grazie alla sua visione antiretorica dell’epopea resistenziale. Scegliere questa prospettiva tra tante possibili [30], aiuta a cogliere il mutamento che le dinamiche di movimento della guerra partigiana e le sue connotazioni etiche imprimono alla sua compiuta rappresentazione. Boschi e montagne, sostituti metonimici della libertà, in virtù del loro rapporto simbiotico con i partigiani e della conoscenza palmare che essi ne hanno [31], divengono ‘spazi vissuti’, luoghi della riconciliazione uomo-natura.

La fabula è semplice; il punto di vista appartiene a Binda, un giovane partigiano che fa la staffetta e, appunto, conosce i boschi come le sue tasche; ciò gli consente di attraversarli nottetempo per consegnare messaggi vitali alle bande:

 

Era un duro e solitario compito il suo […]. Ma era anche il suo compito naturale, di lui che non si perdeva nei boschi, che conosceva tutti i sentieri, percorsi fin da bambino conducendo le capre, andando per legna o per fieno, di lui che non s’azzoppava e non si spellava i piedi su e giù per quei sassi come tanti partigiani saliti dalla città e dalla marina. [32]

 

Durante una pericolosa quanto necessaria missione notturna, però, il ragazzo è braccato dalla paura che anima il paesaggio familiare di minacciose presenze nemiche, di mine in movimento «come enormi ragni sotterranei» e di oscuri segnali che gli rendono alieno l’ambiente: «Il sonno e il buio mettevano maschere tetre ai tronchi ed ai cespugli» [33]. Alla «bestia […] svegliata dal fondo di regioni bambine», che gli sta aggrappata al collo «come una scimmia», Binda fatica a resistere, ma tra «accettazione controllata e cedimenti» [34] riesce a tener testa al deragliamento emotivo che lo spaesamento bellico gli provoca, grazie alla memoria personale dei luoghi ora mostruosamente deformati:

 

Un castagno dal tronco cavo, un lichene celeste su una pietra, lo spiazzo nudo d’una carbonaia, quinte di uno scenario spaesato e uniforme, s’animavano in lui radicate ai ricordi più remoti: una capra scappata, una faina stanata, la sottana alzata a una ragazza. E a questi s’aggiungevano i ricordi nuovi, della guerra fatta nei suoi posti, continuazione della sua storia: gioco, lavoro, caccia diventati guerra: odore di spari al ponte di Loreto, salvataggi giù per i cespugli del pendio, prati minati gravidi di morte. [35]

 

Binda, saldo nella sua superiorità morale, alla fine raggiunge sano e salvo i compagni, ma l’epilogo lascia intendere che nelle sue trasferte il ragazzo dovrà ancora fronteggiare la paura. Proprio perché insiste sulla sua complicata gestione [36], affidata alla memoria spaziale che dà «continuità alla storia biografica» di Binda [37], il racconto è la riprova che con la «fusione tra paesaggio e persone» [38] la Resistenza ha restituito umanità allo spazio violato dai nazi-fascisti.

Sulla funzione dei ricordi, che legano tempo e spazio, storia e geografia, alla dimensione esistenziale [39], è prezioso il racconto Ritorno sul Don [40], scritto vent’anni dopo Il sergente nella neve, rivisitato con esiti interessanti dal teatro di Paolini e di Corsini [41]. Qui Mario Rigoni Stern, visceralmente legato ai territori vissuti [42] e alla memoria del trauma, narra il suo viaggio degli anni Settanta sui luoghi della carneficina dell’ARMIR e del passato [43]. Lo scrittore scrive infatti che l’ossessione memoriale talvolta, mentre era a lavoro, trasformava «il nero dell’inchiostro sulla pagina» nella «colonna in ritirata nella steppa» [44].

A conferma che per un individuo, come per Binda, la continuità personale nel tempo è garantita dalla sua rappresentazione nello spazio, Ritorno sul Don esperisce «un rapporto con uno spazio geografico che è anche il rapporto con una dimensione psichica» [45]. In questo modo, attraverso la rivisitazione dei luoghi della storia e in particolare di Nikolajewka (26 gennaio 1943), la memoria traumatica di Rigoni Stern si trasforma in memoria narrativa «per i morti e per i vivi», che «attutisce gli aspetti più dirompenti e distruttivi» degli eventi dolorosi [46]. Non a caso, mentre nell’incipit del racconto lo scrittore sosta sulla malinconia che lo isolava dagli altri all’arrivo della prima neve, nell’epilogo invece scrive:

 

Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita. [47]

 

Eugenio Borgna potrebbe parlarci a lungo della nostalgia «come necessaria rielaborazione di ciò che è stato doloroso […], per ridare dinamismo al presente e al passato» e per collocare quelle esperienze esistenziali - spazio-temporalmente definite - in un orizzonte di senso, personale e collettivo, da donare al futuro [48].

 

3. Quando la guerra ‘inselvatichisce’ le città

 

Nel 2000, a Marco Paolini che gli chiedeva se nel Sergente nella neve aveva voluto evitare di scrivere qualcosa, Rigoni Stern rispose di no, che aveva sempre narrato tutto:

 

Ho raccontato di come sono entrato nell’isba, ma ho raccontato anche di quando ho trovato le donne e i bambini morti nella neve. E io passavo e c’era vento, un freddo, e c’erano questi corpi nudi lì nella neve, e il vento con la neve che li levigava, ed erano bambini, erano donne. E io li ho visti passando e ho girato lo sguardo, e ho scritto mi giro per non vederli, ma ho aggiunto, loro ci sono anche se non guardo. [49]

 

Memori del monito di Sontag, leggere a scuola i paesaggi sconvolti dalle guerre nella ex Jugoslavia pone non poche difficoltà. Rigoni Stern, sempre attento ai recuperi dell’umano nelle sue narrazioni memoriali [50], ci aiuta a precisarne qualcuna; una è questa: in modo più ampio di quanto era già avvenuto nel secondo conflitto mondiale, gli spazi martoriati dalle guerre sono per lo più urbani, affollati di vittime in gran parte civili, come i bambini e le donne incontrati da Rigoni nelle pianure russe. La seconda difficoltà riguarda l’efferatezza di quegli eventi, presente in forme più o meno mimetiche in tante delle scritture giornalistiche e letterarie coeve. Eppure, guardati dagli schermi televisivi anche da noi occidentali, quei paesaggi deturpati ‘c’erano’, ma allo stesso tempo ‘non c’erano’, straniati dal mediatico effetto di irrealtà. Per di più ci erano alieni, distanziati semplicisticamente come prodotti ineliminabili dell’atavica barbarie etnica e religiosa dei popoli slavi. Per queste ragioni oggi molti di quei luoghi all’apparenza innocenti e belli occultano nelle proprie viscere quel che resta - «senza lapidi né croci» - degli eccidi segreti delle guerre europee del Novecento. Viviamo in «paesaggi contaminati», scrive Martin Pollack,

 

per cui dobbiamo essere sempre pronti, lavorando nei campi o in un bosco, facendo un’escursione, a imbatterci in qualcosa che a prima vista non riusciamo a decifrare. E che a uno sguardo più ravvicinato si rivela una testimonianza della storia recente. Me lo aspetto sempre, quando sono seduto nella mia biblioteca e guardo sui miei frutteti e sui campi dietro di essi. [51]

 

Motivo ulteriore per leggere (o rileggere) le scritture legate a quei conflitti, come si fece sul finire degli anni Novanta con Balkan Express di Slavenka Drakulić, che entrò quasi subito nelle edizioni scolastiche [52], senza trascurare nella scelta le emersioni balcaniche nella narrativa circostante [53]. Nel romanzo Gli ultimi ragazzi del secolo, che lo stesso Alessandro Bertante definisce autofiction, per esempio, gli strascichi del conflitto balcanico si alternano ai capitoli portanti sulla insidiosa formazione di una generazione cresciuta negli anni della Milano da bere, tra consumismo, tivù private e droghe. Nelle prime pagine il narratore e un amico, turisti in Croazia a guerra appena conclusa, nel 1996, sono sollecitati da tre ragazzi bosniaci a lasciare la costa:

 

In questo posto non servite a niente. Questa è una vacanza al mare, in un luogo turistico qualsiasi, ne avrete già fatte tante. Andate a Sarajevo, andate e guardate quello che è successo durante questi anni feroci, guardate quello che ci è rimasto dopo la guerra civile. Guardate le ferite delle persone, i quartieri distrutti, l’ombra nera dei roghi, i crateri nelle strade, i volti dei bambini, gli orfani senza casa, ogni cosa dovete guardare. Noi […] abbiamo bisogno dei vostri occhi. [54]

 

Per riuscire a far ‘vedere’ agli studenti l’umanità oltraggiata che sta dietro e dentro le braci ardenti dei Balcani, quali testi leggere, anche solo per frammenti esemplari? Quali scritture possono attivare la sonda per leggere criticamente le trasformazioni storiche nel rapporto uomo-natura o per guardare con solidarietà le ulcerazioni dei paesaggi bellici attuali, per esempio di quelli siriani [55]? 

In un passo di Maschere per un massacro [56], Paolo Rumiz, giornalista e scrittore interessato alla ricostruzione delle cause degli eventi, ci descrive i paesaggi balcanici colti anche attraverso l’olfatto:

 

Mostar sapeva di resina e cenere; Belgrado di tetro smog solforoso; Zagabria di erba e polvere; Sarajevo con l’assedio era diventata rancida. Di fronte a un’onda di marea che – abbattendo minareti, campanili e case – pareggiò il terreno e spazzò via i paesaggi urbani, anche l’odore divenne importante per distinguere e capire le città. A Knin sentivi il rosmarino e il montone […]. Dubrovnik, anche sotto i cannoni aveva sempre profumo di mare. Ma la croata Vukovar era davvero qualcosa di speciale, era diversa da tutte le altre. Vukovar sapeva di morte. […] Migliaia di morti, un deserto di macerie. Ma nessuno, tranne i testimoni di quelle ore, seppe dell’immenso silenzio, nel quale persino l’acqua lenta del Danubio faceva rumore, traversando il nulla della pianura. […] Non era Nagasaki, non era Dresda: era l’omicidio rituale di una città. [57]

 

Proprio Rumiz, insistendo sulle categorie di ‘urbanità’ e ‘ruralità’ applicate ai conflitti economici esplosi nei Balcani, ribalta il mito resistenziale «secondo cui chi sta in alto, nei boschi, alla fine vince» [58], e aiuta a interpretare in questa prospettiva i cambiamenti nella percezione dei paesaggi slavi, segnati dagli interminabili assedi urbani e dagli esodi estenuanti dei profughi in entrata o in uscita dalle città.

L’espatrio forzato di migliaia di bosniaci, condensato in quello della famiglia Jurišić, ci è narrato in modo magistrale dallo scrittore croato-bosniaco Miljenko Jergović nel racconto Il viaggio [59]. Il senso di perdita di Sarajevo diviene manifestamente  bruciante nell’incontro con una città estranea:

 

La città restò da qualche parte indietro, mentre davanti agli Jurišić si apriva lo spettacolo di un mondo senza assedio. Il vecchio e la vecchia stavano zitti con gli occhi persi nel vuoto, la figlia indicava una quercia al nipotino e diceva: “quella è una quercia”, poi un pino e diceva: “quello è un pino”, poi una mucca e diceva: “quella è una mucca”, poi il mare e diceva: “quello è il mare”. Il piccolo faceva cerchi col naso pigiato contro il vetro. A Spalato gli dice: “questa è Spalato”, e lui: “e Sarajevo dov’è?”. Allora ritornò la voce al vecchio: “Sarajevo è là dov’era prima, solo che noi non ci siamo più”. [60]

 

La ringhiosa identità nazionalista, che dilagò dalle geografie rurali, è contrapposta allo spirito multiculturale di Sarajevo, di Sebrenica e delle altre città bosniache, la cui ‘urbanità’ sopravvisse al fuoco e allo strazio quotidiano [61]. Una conferma di questa efficace analisi emerge da Sarajevo, mon amour, l’intervista di Florence La Bruyère al generale serbo Divjak [62], che rimase a organizzare la difesa della città di fondovalle negli anni dell’implacabile accerchiamento. Per il generale fu il calore di Sarajevo con i suoi bar, i suoi teatri, i suoi bazar, i suoi tram e le sue biblioteche, a mostrare alla lunga la superiorità morale degli assediati e la grettezza dei nemici, forti soltanto di montagne e boschi, di fango e silenzio.

Sono proprio i paesaggi in fiamme delle biblioteche di Sarajevo, bombardate in spregio alla sua cultura e alla sua civiltà, a comparire in un altro dei disperati racconti di Jergović, il quale ha imparato a proprie spese che negli anni della violenza di tutti contro tutti l’esistenza si riduce a «una valigia sempre pronta» in un mondo senza patria [63]:  

 

Sopra la testa senti un sibilo, passa qualche istante e poi laggiù, da qualche parte in città, si scaraventa il boato […] Se il fuoco è lento, pigro, è la casa di un poveraccio. Se prende la forma di una grossa sfera bluastra, allora è qualche ben arredato loft elegante, rivestito in legno laccato. […]. Se le fiamme si impennano repentine, selvagge e dissolute come i capelli di Farrah Fawcett per poi svanire più repentine ancora lasciando al vento sfoglie di cenere plananti sopra la città, tu sai che poco prima è andata a fuoco una qualche biblioteca privata. E quando in tredici mesi di bombardamenti ne hai viste molte di queste torce giocose, pensi che un tempo Sarajevo si ergeva sui libri. [64]

 

Per questo, quando vengono prese e sfregiate dai fratelli nemici, le città appaiono inselvatichite, derubate della loro stessa “urbanità” e trasfigurate in «foreste», come avviene con Mostar nell’acuta percezione del polacco Wojciech Tochman, al quale il solo pensiero «di addentrarsi in quella foresta» fa accapponare la pelle [65].

 

3a. Il ponte nello scempio balcanico

 

Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme […]. Tutto ciò che questa nostra vita esprime – pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri – tutto tende verso l’altra sponda …». [66]

 

Centrale nella letteratura epica dello scrittore bosniaco Ivo Andrić, il ponte, simbolo della civiltà balcanica problematica ma aperta alla pluralità di culture, lingue, storie e religioni, è l’elemento su cui si condensano la percezione e la memoria dell’esperienza traumatica delle guerre degli anni Novanta. La scomparsa di un ponte dal paesaggio consueto mette a repentaglio il riconoscimento collettivo dei luoghi e perfino la continuità delle singole storie biografiche e familiari. Per sviluppare quest’ultimo aspetto del percorso, in classe si potrebbe proporre l’esempio relativo al secolare ponte di pietra di Mostar, abbattuto dai croati il 9 novembre del 1993. Slavenka Drakulić, che non si era mai affrettata prima di allora a visitare il ponte, scrive:

 

Il ponte è crollato martedì […]. Era una bella giornata di sole, come quando mio padre visitò Mostar. L’Adriatico non è lontano […]. Le prime bombe erano cadute sul ponte già il lunedì pomeriggio. Forse era già malconcio, così è bastata un’unica bomba per finirlo. O forse è stato un incidente. I racconti dei testimoni parlano di un crollo rapido: alle 10 e mezzo del mattino, il ponte semplicemente rovinò. […] cerco di immaginare il suono del Ponte Vecchio che crolla. Un ponte come quello non si limita a sparire, il suo crollo deve aver fatto un rumore come quello di un breve e violento terremoto, un rumore come a Mostar non si è mai sentito. Il rumore di un vecchio albero che si spacca in due, un suono cupo seguito da un lungo silenzio. Poi il fiume si è inghiottito il ponte in un solo boccone. [67]

 

L’amalgama dei ricordi messi in gioco dal ritorno del bosniaco Predrag Matvejević a Mostar, sua città natale, ha un significativo riscontro sensoriale che dà corpo a un’identità ferita ma meno franta, grazie alla contemplazione di quel che rimane del fiume dopo lo sfregio del ponte:

 

L’entrata a Mostar mi ha scosso. Non ci venivo più da sette anni. Sapevo che metà della città era distrutta, ma non potevo credere che fosse proprio così. Sollevo da terra schegge di pietre, sbriciolate, sparpagliate. Tasto muri crepati e squarciati. Passo le dita su quelle superfici ruvide come fossero ferite. […] Mi sono fermato sulle travi che pendono dai cavi di ferro sulla Neretva, sopra le quali si può passare da una parte all’altra, nel punto dove c’era il nostro Vecchio ponte. Ci sono rimasto a lungo, guardando l’acqua. […] Quando avevo visto le prime immagini del ponte distrutto non ero certo se da una parte fosse rimasto il troncone monco o se invece l’intero ponte fosse andato perduto giù portandosi via anche quella zolla di terra erzegovese. Dalla parte sinistra, vedo, c’è ancora il moncone. La Neretva è rimasta esattamente com’era. [68]

 

Tutt’altro significato ha la visione del ponte di Mostar nel romanzo di Bertante: non coinvolto direttamente nella vicenda di quelle macerie storiche, geografiche e umane, il protagonista ammette la propria impotenza, che è stata ed è anche la nostra:

 

Il ponte di acciaio brunito costruito dai militari copre il vuoto lasciato dal mortaio. […] Dovrei ballare una danza per onorare la sua grandezza perduta […]. Ma non sono capace di fare queste cose. Hanno sparato al Vecchio, lo hanno mutilato e io sono qua immobile, impotente, sudato, con la barba lunga, in ciabatte di gomma e braghe corte a guardare senza un’ombra di cerimonioso rispetto l’acqua verde pura della Neretva scorrere sotto un ponte militare di acciaio che potrebbe essere ovunque, non importa il luogo. Non importa più. [69]

 

I luoghi della letteratura e noi

 

A leggere queste pagine sul «sabba di fine millennio» [70] viene la tentazione di sfumare il giudizio di Daniele Giglioli sui nostri anni senza trauma [71], mentre aumenta l’apprezzamento per la potenza immaginativa di Cormac Mccarthy che, attraverso la devastazione del paesaggio naturale e umano de La strada [72], ci mostra come potrebbe diventare il nostro mondo se soggiacesse alla legge dell’homo homini lupus [73], come è avvenuto in special modo nell’ultima delle guerre esaminate.

A scuola l’attenzione agli spazi vissuti colti dall'immaginazione che, pur con tutte le sue parzialità [74], dà accesso a sfere dell’esistenza e dell’esperienza precluse alla storiografia [75], può contribuire all’approfondimento didattico delle letture, aperte alla contaminazione degli altri linguaggi.

L’auspicio più grande è che, corroborata dalla consapevolezza della complessità delle scritture e delle loro interpretazioni, tale attenzione spinga gli studenti a ‘vedere’ e ad ‘agire’ il paesaggio contemporaneo, considerato che «dislocandoci nei “suoi” luoghi la letteratura drammaticamente esibisce i “nostri” luoghi» [76] e, in fin dei conti, la nostra umanità in questo ‘spaziotempo’ presente.

 

NOTE

[1] K. Schlögel, Leggere il tempo nello spazio, Mondadori, Milano 2009, p. 1; B. Westphal, Geocritica. Reale finzione spazio, Armando, Roma 2009.

[2] M. Bachtin, Estetica e romanzo [1975], Einaudi, Torino 1979; G. Alfano, Paesaggi mappe tracciati, Mondadori, Milano 2010, p. 33.

[3] Alberto Casadei ha osservato che «la narrazione della guerra non appare sostituibile da schematizzazioni strategiche o da descrizioni statistiche», perché per quanto impressionanti o imbarazzanti queste possano essere, «la guerra è molto più che un insieme di vicende militari e politiche». A. Casadei, La guerra, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 5-6 e, dello stesso autore, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma 2000.

[4] M. Jacob, Paesaggio e letteratura, Olschki, Firenze 2005.

[5] R. Ceserani, Rappresentazioni della guerra, in Milano da leggere. Leggere la guerra, a cura di B. Peroni, USR Lombardia, Milano 2006.

[6] W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi Torino 1981, p. 248.

[7] J. Ritter, Paesaggio, Guerini, Milano 1963.

[8] J. Sacco, La Grande Guerra. 1° luglio 1916: il primo giorno della battaglia della Somme. Un’opera panoramica, Rizzoli, Milano 2013. Dello stesso autore: Goražde. Area protetta, Mondadori, Milano 2006. Se Sacco non lascia trapelare alcun interesse per la contemplazione del paesaggio, esso traspare in Una storia (Fandango, Roma 2014) di Gipi. Analogamente a ciò che avviene nelle scritture di molti memorialisti, in questo graphic novel la natura è osservata sotto la duplice insegna della magnificenza e della crudeltà e i paesaggi del 1915-18 sono rivisitati da Silvano, un uomo in crisi cresciuto nei non-luoghi del nostro presente, attraverso la storia di un antenato.

[9]  S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 118-121.

[10]  Ivi, p. 86.

[11] F. Moretti, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Einaudi, Torino 1997.

[12] Cfr. A. Della Rovere, Dialogo con Enrico Palandri, Edizioni Saecula, Vicenza 2015, p. 80.

[13] P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003.

[14] P. Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani, Milano 2014.

[15] K. Schlögel, Op. cit., pp. 37-43.

[16] Sulla letteratura legata alle guerre si vedano V. Vianello (a cura di), Attraversare il Novecento tra ideologie di guerra e utopie di pace, Aracne, Roma 2017; A. Casadei, La guerra, cit.; G. Pedullà G. (a cura di), Racconti della Resistenza, Einaudi, Torino 2005; A. Scurati, Guerra, Donzelli, Roma 2007.

[17]  Sul «trauma muto»  cfr. A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba, Bompiani, Milano 1998.

[18] G. Pedullà, Introduzione a La paura e altri racconti di guerra, Garzanti, Milano 2015.

[19] F. De Roberto, La paura, in Romanzi novelle e saggi, a cura di C. A. Madrignani, Mondadori, Milano 1984, p. 1583.

[20] F. De Roberto, Op. cit., p. 1559.

[21] Ivi, p. 1580.

[22] Ivi, p. 1584.

[23] A. Casadei, La guerra, cit., pp. 56-59.

[24] A proposito di Un anno sull’altipiano, per esempio, Gian Mario Anselmi scrive: «Tutto si svolge tra valli, monti, boschi: tramonti, albe, notti, geli invernali e calure estive sono proprio quelli della montagna ma la guerra ne stravolge i connotati familiari […], tutto è rideclinato in senso antidillico dalla guerra». G. M. Anselmi, Montagna, in G. M. Anselmi-G. Ruozzi (a cura di), Luoghi della letteratura italiana, Mondadori, Milano 2003, p. 256.

[25] M. Giancotti, Paesaggi del trauma, Bompiani, Milano 2017. Il saggio offre molti spunti e un’ampia e preziosa campionatura di testi. Sempre sul tema del paesaggio M. Giancotti ha curato il volume A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013.

[26] In particolare Tu ca nun chiagne, scritta da E. De Curtis-L. Bovio nel 1915.

[27] Si veda Torneranno i prati e li coltiveremo, interessante intervista a Ermanno Olmi a cura di F. Pontiggia, in «MicroMega», n. 9, 2014.

[28]    Nel caso si volesse approfondire questa pista, la visita scolastica al set di Torneranno i prati, lasciato intatto e inserito nei luoghi della memoria di Asiago, potrebbe dare qualche esito formativo non scontato. Cfr. S. Frigo, I luoghi di Mario Rigoni Stern, Mazzanti, Venezia 2015.

[29] B. Falcetto, «Io ai racconti tengo più che a qualsiasi romanzo possa scrivere». Sull’elaborazione di Ultimo viene il corvo, in «Chroniques italiennes», n. 75/76, nn. 1-2, 2005, p. 122.

[30] Il suggerimento è di M. Giancotti, Op. cit.

[31]  C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico [1962], Adelphi, Milano 2005.

[32]  I. Calvino, Paura sul sentiero, in Ultimo viene il corvo [1949], Mondadori, Milano 1994, p. 119.

[33]  Ivi, p. 249.

[34]  B. Falcetto, Op. cit., p. 122.

[35]  I. Calvino, Op. cit., p. 120.

[36]  B. Falcetto, Op. cit., p. 122.

[37]  M. Giancotti, Op. cit., p. 143.

[38]  I. Calvino, Introduzione, Il sentiero dei nidi di ragno [1947], Einaudi, Torino 1964.

[39] G. Alfano, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Franco Cesati, Firenze 2014. p. 165.

[40] M. Rigoni Stern, Ritorno sul Don, Einaudi, Torino 1973. Per l’approfondimento si vedano G. Mendicino, Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri, Priuli & Verlucca, Torino 2016 e G. Mendicino-A. Tomba (a cura di), Le nevi di Mario Rigoni Stern, Decor, Vicenza 2012.

[41] M. Paolini, Il sergente, con DVD, Einaudi, Torino 2008. La trasposizione teatrale di Stefano Corsini è reperibile in rete.

[42]  M. Isnenghi, Le guerre di Mario, in «Venetica», a. XXIII, n. 20/2009, p. 38.

[43]  E. Affinati, La responsabilità del sottufficiale, in «Venetica», a. XXIII, n. 20/2009.

[44] M. Rigoni Stern, Ritorno sul Don, cit., p. 129.

[45] G. Alfano, Op. cit., p. 165.

[46] P. Violi, Paesaggi della memoria, cit., p. 43.

[47] M. Rigoni Stern, Op. cit., p. 167. Non è un caso che nelle sue opere successive Rigoni abbia recuperato la dimensione vitale e “salvatica” della natura e della montagna. Si veda G. M. Anselmi, Montagna, cit., p. 267. Sulla finestra che mette in relazione osservatore e paesaggio, invece, cfr. G. Bertone, L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, Interlinea, Novara 2000.

[48] E. Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi, Torino 2018, p. 79.

[49] C. Mazzacurati-M. Paolini (a cura di), Mario Rigoni Stern. Ritratti, Biblioteca dell’immagine, Pordenone 2001, pp. 53-54.

[50] M. Isnenghi, Op. cit.

[51] M. Pollack, Paesaggi contaminati, Keller, Trento 2016, pp. 137-138.

[52] S. Dakulić, Balkan Express, Einaudi, Torino 1997.

[53] G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell'Italia, Il Mulino, Bologna 2018. Negli ultimi anni sono molte le scritture dedicate ai conflitti bellici, si pensi per esempio ai reportages narrativi di Svetlana Aleksievič. Per la letteratura sulle guerre mondiali si ricordano E. Janezek, Le rondini di Montecassino, Guanda, Parma 2010 e E. Rasy, Le regole del fuoco, Rizzoli, Milano 2016; sui conflitti balcanici, più o meno centrali nelle vicende narrate, si rammentano i seguenti romanzi, differenti per valore letterario e per sostenibilità didattica: A. Ibrahimi, L’amore e gli stracci del tempo, Einaudi, Torino 2009; C. Usòn, La figlia, Sellerio, Palermo 2013; M. Énard, Zona, Rizzoli, Milano 2011; M. Ergović, Freelander, Zandonai, Trento 2010; M. Magini, Come fossi solo, Giunti, Firenze 2014; A. Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, Giunti, Firenze 2016.

[54] A. Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, cit. p. 13.

[55] D. Minoui, Gli angeli dei libri di Daraya, La nave di Teseo, Milano 2017.

[56] P. Rumiz, Maschere per un massacro [1996], Feltrinelli, Milano 2015. Nella prefazione al reportage che ha indagato i meccanismi della guerra balcanica, Claudio Magris ha scritto: «La guerra mette a nudo la verità degli uomini e insieme la deforma».

[57] P. Rumiz, Op. cit., pp. 95-96.

[58] Ivi, p. 133.

[59] M. Jergović, Il viaggio in Le Malboro di Sarajevo, Scheiwiller, Milano 2005. Storie altrettanto significative emergono dai paesaggi narrati in N. Janigro (a cura di), Casablanca serba. Racconti da Belgrado, Feltrinelli, Milano 2003; in AA. VV., L’altro accanto a noi, Mondadori, Milano 2009; in P. Agnetti, Inviati di pace. Storie delle guerre della porta accanto, De Agostini, Novara 1999.

[60] M. Jergović, Il viaggio, in Le Malboro di Sarajevo, cit., p. 102.

[61] Ciò vale anche per le città più piccole come Goražde, cfr. J. Sacco, Op. cit. e P. Rumiz, Op. cit., p. 136.

[62] J. Divjak, Sarajevo, mon amour, intervista a cura di Florence La Bruyère, Infinito, Modena 2007.

[63] C. Magris, Introduzione, in Le Malboro di Sarajevo, cit., p. 8; M. Jergović, La biblioteca, p. 123.

[64] M. Jergović, La biblioteca, in Le Malboro di Sarajevo, cit., p. 121.

[65] W. Tochman Come se mangiassi pietre, Keller, Trento 2010, p. 11.

[66] I. Andrić, I ponti in Racconti di Bosnia, a cura di Dunja Badnjevic Orazi, Newton, Roma 1995. L’autore de Il ponte sulla Drina (1945) nel 1961 è stato insignito con il Nobel per la letteratura.

[67] S. Drakulić, L’urlo del ponte di Mostar, in «La Stampa», 20 novembre 1993.

[68] P. Matvejević, Confini e frontiere. Fantasmi che non abbiamo saputo seppellire, Asterios, Trieste 2008, pp. 27, 33.

[69] A. Bertante, Op. cit., pp. 42-43.

[70] G. Zaccaria, Noi, criminali di guerra, Baldini &Castoldi, Milano 1994.

[71] D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata 2011.

[72] C. Maccarthy, La strada, Einaudi, Torino 2006.

[73] P. Cataldi, in R. Luperini, A. Ginzburg, P. Cataldi, Cormac Mccarthy, La strada (2006), «Allegoria», n. 63, gennaio-giugno 2017.

[74] G. Bachelard, La poetica dello spazio [1957], Dedalo, Bari 1999.

[75] E. Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 11/12.

[76] G. M. Anselmi-G. Ruozzi (a cura di), Luoghi della letteratura italiana, cit., p. XIV.

 

Pubblicato il 14 maggio 2019

Fotogallery

  • Figura 1

    Fig. 1 - P. Nash, Primavera in trincea. 1917, Imperial War Museum, London

  • Figura 2

    Fig. 2 - P. Nash, La strada Menin. 1919, Imperial War Museum, London

  • Figura 3

    Fig. 3 - O. Dix, La Guerra (Trittico), 1929-1932 Gemaldegalerie Neue Meister, Dresda

  • Figura 4

    Fig. 4 - P. Nash, We Are Making a New World, 1918, Imperial War Museum, London

  • Figura 5

    Fig. 5 - P. Nash, Totes Meer (Dead Sea), 1941, Tate Gallery, London

  • Figura 6

    Fig. 6 - J. Sacco, La Grande Guerra. 1° luglio 1916: il primo giorno della battaglia della Somme. Un’opera panoramica, Rizzoli, Milano 2013

  • Figura 7

    Fig. 7 - J. Wall, Dead Trooops Talk. A Vision After an Ambush of a Red Army Patrol Near Moqor, Afghanistan, Winter 1986

  • Figura 8

    Fig. 8 - Firenze, agosto 1944, Ponte abbattuto dai tedeschi

  • Figura 9

    Fig. 9 - J. Sacco, Goražde. Area protetta, 2006

  • Figura 10

    Fig. 10 - T. Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939 MART, Trento e Rovereto

  • Figura 11

    Fig. 11 - O. Dix, Il bombardamento di Lens, 1924, Collezione Van de Velde, Anversa