Cinzia Ruozzi - Sbagliando s’inventa: Il libro degli errori di Gianni Rodari

 

Quando Rodari scrive la Grammatica della fantasia [1973][1] ha già maturato alcune importanti riflessioni sul tema dell’errore linguistico come opportunità di invenzione creativa e di esplorazione della lingua. Infatti in uno dei capitoli della Grammatica della fantasia Rodari scrive:

 

Se battendo a macchina un articolo, mi capita di scrivere «Lamponia» per «Lapponia», ecco scoperto un nuovo paese profumato e boschereccio che sarebbe un peccato espellere dalle mappe del possibile con l’apposita gomma; meglio esplorarlo, da turisti della fantasia. Se un bambino scrive nel suo quaderno “l’ago di Garda” ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguirne l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo «ago» importantissimo, segnato anche sulla carta dell’Italia. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?[2]

 

Già nel 1964 nella collana “Libri per ragazzi” di Einaudi, illustrata con i disegni di Bruno Munari,[3] Rodari aveva pubblicato Il libro degli errori, una raccolta di filastrocche, canzoni e racconti brevi per un totale di 90 testi, in cui elabora la sua ‘poetica dell’errore’. Rodari cercherà di dimostrare che l’errore ortografico, se ben considerato, può dare luogo a ogni sorta di storie comiche e istruttive, non prive di risvolti ideologici.

I testi sono raggruppati in tre parti: Errori in rosso, Errori in blu, Trovate l’errore, a cui si aggiunge un’ultima ‘canzone’ intitolata Il paese senza errori. Sono 35 i componimenti che vi confluiscono da giornali e periodici (in particolare «il Pioniere dell’Unità» e «Noi donne») a riprova dell’incessante attività giornalistica che Rodari svolgerà dal 1945 al 1980.

Rodari ne annuncia il progetto in una lettera a Giulio Bollati del 23 novembre 1962:

 

Ti piacerebbe Il Libro degli errori, tutto sugli errori, dagli errori di ortografia, grammatica, sintassi? Ogni pagina dovrebbe recare l’errore vero e proprio, cioè il quaderno infantile che lo documenta e sotto la filastrocca, il raccontino o il dialoghetto che lo illustra e celebra: So che nelle scuole vanno in cerca di schedari ortografici, questo ne farebbe uno originale.[4]

 

Che in ogni errore si nasconda la possibilità di una storia, Rodari lo aveva già sperimentato nella raccolta in versi Filastrocche in cielo e in terra, edita presso Einaudi nel 1960 e ripubblicata nel 1972, dove troviamo favole a rovescio, componimenti poetici sugli errori, sulla punteggiatura come nell’esempio della filastrocca L’ago di Garda:

 

C’era una volta un lago, e uno scolaro

Un po’ somaro, un po’ mago,

con un piccolo apostrofo

lo trasformò in un ago.

«Oh, guarda, guarda-

la gente diceva

-l’ago di Garda!»

«Un ago importante:

è segnato perfino sull’atlante».

«Dicono che è pescoso.

Il fatto è misterioso:

dove staranno i pesci, nella cruna?»

«E dove si specchierà la luna?»

«Sulla punta si pungerà,

si farà male…»

«Ho letto che ci naviga un battello».

«Sarà piuttosto un ditale».

Da tante critiche punto sul vivo

mago distratto cancellò l’errore,

ma lo fece con tanta furia

che, per colmo d’ingiuria,

si rovesciò l’inchiostro

formando un lago nero e senza apostrofo.[5]

 

Il libro degli errori nasce in un contesto in cui sono da poco cominciati gli studi di linguistica descrittiva e funzionale e le ricerche applicate delle maestre e dei maestri del “Movimento di Cooperazione Educativa” per migliorare la pratica dell’educazione linguistica. Nel 1963 Tullio De Mauro pubblica Storia linguistica dell’Italia unita. Sempre nel ’63 l’amico di Rodari, il maestro Mario Lodi, pubblica C’è speranza se questo accade al Vho. Nello stesso anno entra in vigore la riforma della scuola media unica che estende l’obbligo scolastico fino ai 14 anni di età. 

Eppure nel presentare Il Libro degli errori, Rodari sembra quasi giustificare una scelta tanto rivoluzionaria, da rischiare di non essere ancora pienamente compresa nemmeno negli ambienti della pedagogia innovativa. È un atteggiamento dell’autore che bene traspare nell’introduzione, intitolata Tra noi padri, dove Rodari presenta il proprio curriculum di scolaro, maestro, e ‘fabbricante di giocattoli’ (filastrocche e favolette) nonché di padre. Il testo dell’Introduzione è chiarissimo: Rodari pone una questione di metodo e di didattica, non pone una questione di legittimità di quegli apprendimenti. Qui risiede uno dei più grossi equivoci relativo a Il Libro degli errori e in buona parte all’intera opera rodariana: il Rodari facile, il Rodari anti-grammatica e anti-regole, il Rodari che sostituisce l’apprendimento vero con i giochini. Rodari dice l’esatto contrario di ciò che gli viene attribuito da troppi interpreti superficiali e identifica il problema nel “come” e non nel “cosa”. Imparare la grammatica giocando funziona e rende padroni dell’uso della parola, mentre non funziona il ricorso alla noia e alla paura. 

Gli errori una volta si segnavano col rosso e col blu. Adesso sono in genere sottolineati con la penna rossa. A volte quando sono molti fanno l’effetto di tante ferite sul foglio. Una ferita che dal foglio sembra protrarsi verso lo sguardo di chi guarda. È̀ per questo forse che un bambino, appena può, nasconde il foglio o lo dimentica. «Sono andato bene o male?» chiede preoccupato. Gli interessa la valutazione finale, non le correzioni, non capire dove ha sbagliato. Ha imparato la lezione della scuola: dare valore solo al risultato finale e non al percorso di apprendimento che ogni allievo deve compiere a partire dalle sue condizioni iniziali.

Rodari ribalta l’etica del sacrifico e del dolore diffuse nella scuola tra gli insegnanti come condizioni necessarie dell’imparare e pone al centro l’utilità di giocare con l’errore. Come scrive Federico Batini nel volume La felice impresa. Letture e commenti delle opere di Gianni Rodari: «gli errori svelano meccanismi di ragionamento, gli errori svelano malintesi, gli errori aprono ad altre possibilità, gli errori non vanno eliminati: vanno accolti, soppesati, smontati, compresi e usati».[6]

Gli insegnanti sanno bene e lo sanno anche gli studenti che molto spesso l’errore si ripresenta e viene ripetuto, umiliando lo studente e disorientando l’insegnante «Ma come non hai ancora capito?»  Soprattutto quelli che fanno molti errori tendono a dimenticarli e a non conoscerli. Un primo passo allora sarebbe quello della consapevolezza: riconoscerli e riflettere individualmente e collettivamente sul perché si sbaglia.

La tematica dell’errore e del come lavorare a scuola si può estendere anche alla riflessione di Howard Gardner, che distingue tra due opzioni di fondo: i rischi del comprendere e il compromesso delle risposte corrette. Ciò che la scuola chiede allo studente, dice Gardner, è di rispondere correttamente a domande di cui si sa già prima la risposta, domande che non sono neppure domande, perché si sa già tutto quello che si cerca di sapere (domande scontate, ragionamenti già fatti dall’insegnante o dal libro, definiti dallo studioso Heinz von Foerster domande illegittime); la realtà invece pone continuamente domande legittime, la cui risposta è tutt’altro che scontata, ma questo comporta il rischio di uno sforzo, la ricerca di qualcosa, la messa in moto del ragionamento e della curiosità. Rodari risponde a suo modo a questa domanda generale di senso e di pensiero critico con il richiamo alla creatività.

Il libro degli errori inizia con la filastrocca Per colpa di un accento, dove Rodari illustra la prima modalità di trattamento dell’errore, più volte ripresa nel libro: la meta diventa la metà e non si arriva più, il pero diventa un però e non dà frutti, il cucu senza l’accento non canta più.

Ci sono poi gli errori buoni come quello che capita a Giocondo Corcontento, che è benvoluto da tutti perché egli “si arabia” sempre con una b sola e «in grazia di un errore di ortografia vive con tutti in pace e in allegria»

Un’altra valenza educativa che si nasconde dietro la valorizzazione creativa dell’errore ai fini didattici è la capacità dell’insegnante di accettare l’imprevisto e di saperlo sfruttare a vantaggio della classe e di se stesso. L’imprevisto nella scuola è parte dell’esperienza quotidiana, perché è quello che succede davvero in una realtà di incontri e relazioni. Non a caso l’imprevisto è diventato anche un topos letterario dei racconti di scuola. Per esempio l’inaspettato ingresso in classe di un moscone, che con il suo ronzio catalizza l’attenzione di tutti gli alunni - come racconta il giornalista Giovanni Mosca rievocando la giovanile esperienza di maestro nei suoi Ricordi di scuola (1940) - [7]diventa l’occasione per conquistarsi la classe, la famigerata 5C, abbattendo il moscone con una fionda sottratta al capo banda. Non diversamente succede con la biscia nera, oggetto di superstizione delle donne sarde, che si intrufola nell’aula e viene catturata della maestra Maria Giacobbe, confinata a insegnare in Barbagia, suscitando l’ammirazione degli alunni per la sua audacia.[8]

Gli imprevisti possono essere occasioni positive: come quella di rallentare il ritmo, di rimodulare e reinventare i rapporti ordinari tra insegnante e allievo; anche se spesso una concezione rigida di ‘programmazione scolastica’ può portare a negare proprio la risorsa della sorpresa e a considerare ogni imprevisto, ogni scarto dal percorso tracciato, come un errore. Ma vorrà forse dire qualcosa il fatto che ‘errore’ derivi etimologicamente dal latino error, in cui l’idea dello sbaglio deriva per effetto secondario da quella primaria di ‘vagare’, percorrere liberamente vie traverse.

La letteratura umanistica e rinascimentale ci ha consegnato grandi personaggi di cavalieri erranti che nel loro vagare senza meta fanno incontri straordinari, inseguono sogni e fanciulle, commettono anche sbagli tremendi come Orlando nella sua pazzia, ma non per questo vengono giudicati negativamente dall’autore, non per questo vengono sanzionati con la matita rossa. L’errore-erranza non è dunque necessariamente una calamità o una colpa da sanzionare, ma può essere l’occasione di un’esperienza di “rottura” che interrompe la routine passivizzante della scuola. Una di quelle esperienze di avventura di cui un autorevole pedagogista, Piero Bertolini, sottolinea l’importanza nel percorso di formazione.

A volte poi gli errori non sono errori, come impara il professor Grammaticus a sue spese, quando in un viaggio in treno prova a correggere alcuni operai meridionali, emigrati all’estero, suoi compagni di scompartimento. «Io ho andato in Germania nel 1958, dice uno di loro, io andato in Belgio nelle miniere di carbone, aggiunge un altro».[9]

Sentendo più volte il verbo “andare” così bistrattato, il professore sbotta e spiega che si tratta di un uso regionale tipico di tanti italiani del Sud ma il verbo andare in quanto verbo intransitivo richiede l’ausiliare ‘essere’. Ma dopo un momento di silenzio, uno degli operai si fa coraggio e timidamente risponde:

 

-Sarà come dice lei, signore. Lei deve aver studiato molto. Io ha fatto la seconda elementare, ma già allora dovevo guardare più alle pecore che ai libri. Il verbo andare sarà quella cosa che dice lei.

-Un verbo intransitivo.

-Ecco, sarà un verbo intransitivo, una cosa importantissima, non discuto. Ma a me sembra un verbo triste, molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d’altri… Lasciare la famiglia, i bambini.

Il professor Grammaticus cominciò a balbettare.

-Certo… Veramente… Insomma, però… Comunque si dice sono andato e non ho andato. Ci vuole il verbo «essere»: io sono, tu sei, egli è…

-Eh-, disse l’emigrante, sorridendo con gentilezza, -io sono, noi siamo!...Lo sa dove siamo noi, con tutto il verbo essere e con tutto il cuore? Siamo sempre al paese, anche se abbiamo andato in Germania e in Francia. Siamo sempre là, e là vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare e belle case per abitare.

E guardava il professor Grammaticus con i suoi occhi buoni e puliti. E il professor Grammaticus aveva una gran voglia di darsi dei pugni in testa. E intanto borbottava tra sé: - Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli errori nei verbi… Ma gli errori più grossi sono nelle cose!.[10]

 

In un semplice raccontino, Rodari condensa il dibattito di quegli anni e si inserisce nella temperie del suo tempo, facendo emergere la dimensione politica del suo impegno letterario che riflette sull’ingiustizia e sulle diseguaglianze sociali.

Attraverso il tratteggio di queste figure di migranti Rodari ci ricorda che la scuola non è una possibilità per tutti e che la condizione di tutti gli usi della parola a tutti è ancora un cammino lungo, tutto da percorrere nell’Italia democratica. È lo stesso tema sul quale prenderà posizione, pochi anni dopo, anche don Milani in Lettera a un professoressa (1967) riassumendo il suo pensiero nella celebre espressione «è la lingua che ci fa eguali».

 

Nei testi compresi in Scuola di fantasia, raccolta di saggi e interventi sulla scuola, pubblicata postuma nel 1992 per Editori Riuniti, Rodari continua la sua riflessione sull’educazione linguistica al punto che possiamo dire che quanto Rodari era andato sperimentando anche grazie al suo rapporto costante con la scuola preparerà la nascita di una nuova pedagogia linguistica, che avrà il suo manifesto nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica del 1975.

L’attenzione di Rodari alla lingua risaliva a molti anni prima ed era maturata anche attraverso la conoscenza dell’opera di Antonio Gramsci, del quale aveva realizzato una recensione del primo volume dei Quaderni del carcere per la rivista letteraria «Adamo» nel 1948. Gramsci trova nella storia linguistica italiana la conferma della frattura tra élites e popolo e intorno al nesso lingua-società si sviluppa gran parte della sua riflessione sulle implicazioni politiche del linguaggio che lo avvicinano alle tesi di Graziadio Isaia Ascoli, il quale, in aperto contrasto con il pensiero di Alessandro Manzoni, rifiutava l’idea di imporre un modello linguistico uniforme che avrebbe dovuto plasmare la comunità dei parlanti. 

Ma Gramsci interessa a Rodari anche per la sua concezione integrale della cultura intesa come filosofia per la vita, pensiero per l’azione, che non evade mai dalla realtà sociale. È importante non dimenticare che prima di essere lo scrittore di favole e filastrocche e di racconti di invenzione celebri in Italia e nel mondo, Rodari fu sia un militante comunista che un giornalista e lo rimase per tutta la vita.

Per concludere giocare con le parole è un’attività molto seria, che aiuta i bambini a esplorare le possibilità del linguaggio, a impadronirsi delle regole, che stimola la loro libertà e incoraggia il loro anticonformismo. Come scrive Rodari in Il prefisso arbitrario, uno dei capitoli della Grammatica della fantasia: basta una s per trasformare un cannone in uno scannone che serve per disfare la guerra, anziché per farla. Dal prefisso all’utopia il passo è breve e un giorno, dice Rodari, «il senso dell’utopia verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista, l’udito, l’odorato, ecc. Nell’attesa di quel giorno tocca alle favole mantenerlo vivo e servirsene, per scrutare l’universo fantastico»[11].

 

 

 11 giugno 2024

 

 


[1] G. Rodari, La Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Torino, Einaudi, 1973.

[2] Ivi, p. 34.

[3] Bruno Munari fu uno dei più importanti illustratori insieme ad Altan e Luzzati dei libri di Rodari.

[4] Il testo della lettera in Notizie sui testi. Il libro degli errori, in G. Rodari, Opere, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 2020, p. 1672. 

[5] ID., Filastrocche in cielo e in terra, in Rodari, Opere, cit., p. 8.

[6] F. Batini, La felice impresa. Letture e commenti delle opere di Gianni Rodari a cura di Benedetta Aldinucci e Vanessa Roghi, Quaderni della ricerca, Torino, Loescher, 2021, p. 69.

[7] G. Mosca, Ricordi di scuola [1940], Milano, Rizzoli, 1968.

[8] L’episodio è raccontato in M. Giacobbe, Diario di una maestrina [1957], Nuoro, Il Maestrale, 2003.

[9], G. Rodari, Il libro degli errori, in Rodari, Opere cit., p. 117.

[10] Ivi, pp.117-118.

[11] G. Rodari, Manuale per inventare storie» in «Paese sera», 9-19 Febbraio 1962.