Cinzia Ruozzi - La Resistenza taciuta

Partigiane e scrittrici protagoniste di una ‘storia minore’

 

(a Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani, detenuta nel carcere di Evin a Teheran, premio Nobel per la pace 2023)

 

Qual è il significato profondo del nostro lavoro quotidiano di insegnanti di Letteratura? E come cambia il lavoro di un insegnante nel momento in cui irrompe una guerra alle porte di casa nostra? Sono queste le domande da cui è nato il percorso didattico sulla Resistenza e le donne.

Il primo interrogativo accompagna la nostra azione di docenti tutti i giorni, ma diventa tanto più cogente quando un evento drammatico come la guerra, ‘la guerra che torna’, secondo una espressione di Carlo Rosselli nei Quaderni di Giustizia e Libertà, entra a forza nelle nostre vite e nelle nostre classi, se non fosse altro perché a un certo punto sono cominciati ad arrivare gli studenti ucraini. In quei momenti l’insegnante si trova difronte ad un bivio: aprire le porte e lasciar entrare la storia, oppure continuare a seguire il programma come se niente fosse?  Io credo che sia in quei frangenti che l’insegnante può far capire ai suoi studenti quanto la letteratura sia quell’insostituibile nutrimento per l’interiorità e per la comprensione della realtà di cui parla Calvino ne Il midollo del leone[1], qualcosa di utile e necessario per sé e non di inutile, anacronistico e polveroso. Come la letteratura possa provocare una ‘tensione conoscitiva’ e aprire degli interrogativi, sgretolare una visione univoca del mondo e strapparci dal nostro egotismo. Nell’era del singolo come scrive Francesca Rigotti dove essere «individui non basta più, ognuno è singolo e dunque originale e speciale alla ricerca di una felicità su misura, personalizzata e non personale, in una crescente e pericolosa indifferenza verso l’ineguaglianza»[2], la letteratura svolge ancora il suo compito di aprirci alla comprensione degli altri esseri umani, ci dà l’opportunità di abitare le menti altrui, di confrontarci, anche identificarci con punti di vista diversi e persino contrapposti. È il fenomeno che Bachtin ha definito polifonia del testo.  Leggere e conoscere delle storie di vita, ad esempio pagine di diari, biografie, testimonianze piace molto ai nostri giovani. Paradossalmente più aumenta l’allontanamento dalla realtà effettuale come accade nel mondo dei social, più i nostri studenti sono affamati di storie vere, storie di vita. Del resto il ritorno al realismo pervade anche il clima culturale di questi ultimi vent’anni (film, serie televisive, romanzi del neo-neorealismo). L’importante è non isolare la scrittura letteraria, non chiuderla in se stessa, ma umanizzarla e vitalizzarla nella molteplicità di rapporti che la legano alla complessità del reale e alla varietà della vita. Nel caso del tema della guerra, le singole storie intrecciano la Grande Storia del passato e del presente. Inoltre l’interdisciplinarità del tema è un terreno di grande interesse che consente di superare il rischio dell’isolamento dei testi contenuto in un approccio tecnicistico, ma di correlare la testualità a piani diversi: la storia, le arti figurative, il cinema, il clima culturale, la geografia e la fisicità dei luoghi, la biografia, come ben suggeriscono Gino Ruozzi e Gino Tellini, curatori del volume Didattica della letteratura italiana[3].

Le nuove tendenze della ricerca storica recuperano un’idea di storia come narrazione sia in termini di scelte stilistiche sia, soprattutto, attraverso una costruzione del racconto che mutua dalla letteratura una modalità di rappresentazione dove si riscopre il ruolo della soggettività. Coniugare le storie con la Storia significa porre al centro il nesso individuale-collettivo e - come fa notare Giovanni de Luna nel volume Invasione di campo. Quando la letteratura racconta la storia[4] - questa presenza dell’Io avvicina lo storico allo scrittore. Un filone di ricerca che in ambito italiano è molto legato agli studi sulla storia delle donne.  Partire dunque dal tema della guerra ci consente di affrontare uno dei periodi ritenuti fondamentali per la nostra storia politica e letteraria e cioè il periodo della guerra civile dal ‘43 al ‘45. A cominciare dall’esperienza della Resistenza maturarono opere letterarie di grande valore non solo per le qualità letterarie ma per i temi universali che affrontano: Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, 1947, L’ Agnese va a morire di Renata Viganò, 1948, Il Partigiano Johnny, 1968 e Una questione privata, 1963 di Beppe Fenoglio, I piccoli maestri di Luigi Meneghello,1964, Se non ora quando? di Primo Levi, 1982. Tuttavia in quel periodo chiave della storia repubblicana resta spesso in ombra, sia in ambito letterario che storiografico, il ruolo svolto dalle donne. Per affrontare questo argomento e colmare questa lacuna è necessario che l’insegnante proponga un micro-canone di opere di generi diversi che mettano in rilievo il valore della memoria e del racconto personale.  Si tratta di opere che per lo più non sono presenti nei manuali scolastici; tuttavia, parlare della Resistenza delle donne non significa solo parlare del passato prossimo ma del presente, della coraggiosa e tenace Resistenza di tante donne oggi in diverse parti del mondo.

 

Micro-canone letterario: presenza delle donne nella narrativa della Resistenza

Un romanzo: L’Agnese va a morire [1948] di Renata Viganò.

Una biografia: La Sibilla. Vita di Joyce Lussu [2022] di Silvia Ballestra.

Un diario di guerra: I giorni veri [1963] di Giovanna Zangrandi.

Un memoriale: La guerra non ha un volto di donna [2005-2017] di Svetlana Aleksievič.

 

La nascita di una letteratura legata alla guerra di liberazione fu dovuta principalmente alla necessità di mantenere viva questa straordinaria quanto durissima esperienza personale e collettiva. Calvino descrive bene le dimensioni del fenomeno nella notissima Prefazione all’edizione del ’64 de Il sentiero dei nidi di ragno.

 

   L’essere usciti da un’esperienza-guerra, guerra civile-che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari, drammatiche, avventurose […] ci muovevamo in un multicolore universo di storie.[5]

 

Calvino vedeva in quella stagione letteraria un quadro omogeneo e coeso di narrazioni, una sorta di macrotesto, mentre Maria Corti nell’Introduzione a I Piccoli maestri[6] individuava nella letteratura resistenziale tre filoni principali in cui prevalgono generi letterari diversi: 1) cronache e memorie, con molta resa documentaria e pochissima invenzione 2) libri di memorie 3) vera e propria narrativa sulla guerra partigiana.

Attualmente la critica scorge in quell’universo di narrazioni una varietà di soluzioni non più riconducibili a un’unità. Ad esempio nella Prefazione (Una lieve colomba) alla raccolta di Racconti della Resistenza[7] a cura di Gabriele Pedullà, l’autore analizza il complesso fenomeno della narrativa resistenziale e individua alcuni criteri di classificazione: le famiglie, l’appartenenza geografica, le differenze politiche, Io noi loro.

Uno dei temi più importanti e dibattuti fra quelli finora discussi dai critici è il ruolo delle donne nella lotta partigiana. Scrive Anna Bravo, tra le prime studiose - insieme ad Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina e Marina Addis Saba - della partecipazione delle donne alla Resistenza. «Con la significativa eccezione delle enclaves di alto prestigio e potere, quindi ruoli apicali, non esistono nella Resistenza compiti o settori in cui non compaiono le donne»[8]. Ma nell’immediato dopoguerra la storiografia ha trascurato il loro ruolo e studiato la lotta armata in termini completamente maschili. Solo negli anni Settanta la storiografia ha cominciato a dare importanza all’attività femminile nella Resistenza e a registrare testimonianze, storie, episodi che avevano come protagoniste le donne. Questo cambiamento radicale di prospettiva è dovuto allo sforzo di giovani storiche femministe e alla spinta del Movimento delle donne nato negli stessi anni, nonché alla spinta di alcune delle protagoniste della Resistenza, come Renata Viganò e Ada Gobetti. Di Ada Gobetti ricordiamo la sua opera Diario partigiano[9], un diario di guerra basato sugli appunti presi dall’autrice in un inglese criptico dal ’43 al ‘45 mentre combatteva in Piemonte al fianco del figlio Paolo. Il recente saggio di Benedetta Tobagi [Link1] La Resistenza delle donne [2022][10] Vincitore del Premio Campiello ha finalmente colmato la lacuna storiografica, ricostruendo attraverso una miriade di storie raccolte in Archivi storici locali, il ruolo delle donne nella guerra partigiana in tutti i suoi aspetti.

 

Comincia la Resistenza

 

L’inizio della Resistenza diede alle donne un’occasione importante per partecipare alla vita pubblica, rompere il silenzio e l’oppressione subiti per tanti anni durante il fascismo e uscire dal ruolo che era stato loro affibbiato di madri e spose dal fascismo e dalla Chiesa. Ricordiamo inoltre che durante il fascismo, il regime aveva limitato al 10% la presenza delle donne negli uffici pubblici e privati.

La prima grande azione compiuta spontaneamente dalle donne all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre ‘43 fu quella di aiutare, rivestire, sfamare e nascondere i soldati sbandati che fuggivano dal fronte e dalle caserme. È il momento in cui il Paese si spacca e le donne irrompono nella storia.

Così ricorda Dorina Storchi di Reggio Emilia, che divenuta partigiana prenderà il nome di Lina:

 

    Ospitammo e vestimmo ignoti, accompagnammo coloro che avevano paura ad andar da soli, aiutammo chi era sprovvisto di denaro e che doveva raggiungere la propria casa. Questi era tutta gente reduce dai campi di concentramento o dagli eserciti.[11]

 

È la più grande azione di salvataggio collettivo della storia d’Italia, a lungo rimossa dalla narrazione storiografica. È paragonabile all’impresa di Dunkirk, con la differenza che le donne non le aveva convocate nessuno, ma si mobilitarono spontaneamente, senza alcuna indicazione ufficiale, in tutti i territori italiani dal centro al Nord, dovunque fossero presenti le truppe naziste. Questo tratto di volontarietà e generosità emerge anche dai racconti delle donne russe di La guerra non ha un volto di donna di Svetlana Aleksievič[12], che ha raccolto centinaia di testimonianze di donne, le quali hanno partecipato come volontarie al secondo conflitto mondiale.

 

Perché lo hanno fatto?

 

«È stata una cosa naturale. Ho fatto quello che c’era da fare». Così rispondono tante donne, decenni dopo nel rievocare quel momento. Sono donne che in larghissima parte non s’erano interessate mai di politica, appartenenti a diverse classi sociali, dalla borghesia ai ceti proletari, hanno vissuto i bombardamenti e la fame, covando magari il dolore per un figlio, un marito, un fratello, un padre, dispersi o uccisi al fronte. Accade così e basta. Sono tantissime le donne che dichiarano di aver messo a disposizione la propria abitazione anche dopo il decreto del 9 ottobre ‘43 che puniva con la morte chiunque prestasse aiuto ai soldati alleati, ai disertori, agli evasi dai campi di prigionia. Quasi tutte dichiarano di «non aver fatto nulla di importante» o di «aver fatto solo questo». Un comportamento che Anna Bravo definisce maternage di massa.

L’ex partigiana Renata Viganò ha descritto il sentire di queste donne umili, defilate, senza cultura politica ma generose e coraggiose nella figura della grossa contadina di mezz’età, protagonista del suo romanzo L’Agnese va a morire che non a caso i partigiani chiamano Mamma Agnese.

Il passaggio dal maternage alla Resistenza organizzata avviene con la creazione dei Gruppi di difesa della donna (GDD) che si propongono agli articoli 1 e 2 i seguenti obiettivi: Art 1: dirigere le masse femminili verso la lotta di liberazione nazionale, farle partecipare attivamente e coscientemente a questa lotta 2) Portare la donna a un piano di parità rispetto all’uomo nel campo giuridico, economico e politico potenziando e valorizzando le sue funzioni specifiche come donna. Le donne svolsero numerose attività di sostegno e affiancamento alle bande partigiane. Trasportarono ordini, armi e ordigni, nascosero, sfamarono e curarono i partigiani feriti, compiti che possono risultare riduttivi e ancillari ma che potevano costare la vita, e tuttavia compiti fondamentali perché nessun movimento di resistenza può esistere senza un sostegno nel territorio. Ma le donne fecero anche propaganda politica, entrarono nelle bande in montagna e parteciparono ad azioni militari e di sabotaggio. Confessa Teresa Mattei, (gappista tra Roma e Firenze, una delle 21 donne- su 551 membri-eletta nell’Assemblea Costituente nel 1946) «L’unica volta che ho messo il rossetto in vita mia è stato per mettere una bomba[13] [LINK 2]

 

La Resistenza taciuta

 

Molte delle azioni compiute dalle donne sono tipiche della cosiddetta «resistenza civile», termine coniato dallo storico e politologo Jacques Sémelin per indicare la lotta dei civili non con le armi ma con altri mezzi. Grazie all’analisi di due studiose, Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, è stato coniato anche il termine «resistenza taciuta» per indicare il mancato riconoscimento del ruolo delle donne per molti anni. Mentre quella degli uomini è una resistenza celebrata e talvolta gridata al limite della retorica, quella delle donne è sofferta e taciuta. Nelle testimonianze e nei racconti delle donne è più facile che avvenga un processo di decostruzione retorica, dove si dà uguale spazio alle imprese riuscite e non riuscite, ai piccoli avvenimenti di ogni giorno, ai disagi e alle paure, ai personaggi famosi dell’antifascismo come a quei tanti che solo nella Resistenza si misero in luce.  

Leggendo le vite delle testimoni risaltano la spontaneità, la gratuità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e soffrire, il rispetto della verità e soprattutto la volontarietà della loro scelta.

 

Una letteratura minore

 

Al termine della guerra, la Resistenza assunse per molti partigiani, soprattutto i più giovani, il significato di iniziazione alla vita adulta, seppure in condizioni estreme. Basti pensare a Pin il protagonista-bambino de Il sentiero dei nidi di ragno. Di conseguenza gli storiografi diedero più importanza alle azioni militari, allo scontro diretto e armato con i fascisti e i tedeschi trascurando la Resistenza civile. La letteratura sulla Resistenza attinse a categorie interpretative dell’identità maschile escludendo gli atti compiuti dalle donne. Lo dimostra anche il fatto che le scrittrici che vollero pubblicare la loro esperienza partigiana trovarono molte difficoltà. La letteratura femminile sulla Resistenza fu considerata dalla critica una narrativa limitata e secondaria, di conseguenza tante donne hanno lasciato memoria pubblicando nei luoghi di residenza, spesso in provincia, presso piccoli editori locali. Una letteratura «minore» poco nota e poco diffusa.

 

 

 

 

Renata Viganò, L’Agnese va a morire (1948)

 

L’ Agnese va a morire [Link 3] rappresenta una eccezione nel quadro di emarginazione della presenza femminile nella Resistenza che dominò la storiografia e la letteratura del dopoguerra. Renata Viganò fu una delle poche donne, insieme ad Ada Gobetti, che riuscì ad inserirsi negli ambienti letterari più importanti, imponendosi come scrittrice e autentica testimone della lotta partigiana.

Renata Viganò nasce nel 1900, partecipa attivamente alla Resistenza combattendo nelle Brigate Garibaldine al fianco del marito Antonio Meluschi (autore del romanzo resistenziale La morte non costa niente) nelle Valli di Comacchio. Fu riconosciuta come partigiana con il grado di tenente (era riconosciuto come partigiano chi aveva portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio). Viganò aveva già pubblicato da giovanissima alcune raccolte di poesie, ma la sua consacrazione come scrittrice avviene con il romanzo L’Agnese va a morire, premio Viareggio 1948, un romanzo partigiano popolare che diviene ben presto «il romanzo ufficiale della Resistenza»[14]. Natalia Ginzburg plaude al romanzo e ne appoggia la pubblicazione, mentre Calvino dimentica di citare la Viganò nella seconda edizione al Sentiero dei nidi di ragno del ’64.

L’importanza del romanzo non consiste solo nel suo valore letterario ma soprattutto nel valore simbolico. In quanto una delle poche opere scritte da donne in quell’epoca, ci consegna una prospettiva diversa da cui sono osservati gi eventi grandi e piccoli della vita partigiana.

Altro aspetto essenziale è il carattere realistico dell’opera, che colloca l’Agnese a metà tra il documento e il romanzo. È documento in quanto aderisce quasi sempre a una realtà direttamente sperimentata dalla scrittrice, che fu la prima a sottolinearne la matrice realistica.

 

  Mi ritrovai alla fine della guerra con un’immensità di cose da dire e con il dovere e l’amore di dirle: cose nutrite da una esperienza unica e da una avvincente passione, che mentre rendevano difficile un calmo rientro nell’esistenza normale, mi accendevano lo spirito ad un perenne ricordo che forniva continuo materiale al mio bagaglio letterario e poetico.[15]

 

È̀ un romanzo in quanto la figura di Agnese non è realmente esistita. È la sintesi di tante donne conosciute dalla Viganò, una sorta di mosaico delle biografie di numerose protagoniste: semplici donne vissute di duro lavoro, in famiglie povere senza nessuna coscienza politica, che parteciparono alla lotta di liberazione. Una generazione di partigiane sconosciute alla quali la Viganò diede voce, molto prima che di loro si occupasse la storiografia. La scelta compiuta dalla Viganò è chiara: raccontare la Resistenza a partire da fatti realmente accaduti secondo una tipologia letteraria definita «memorialistica di finzione».

 

La Resistenza rappresenta la fusione tra paesaggio e persone

 

Il valore documentale del romanzo è dato dalla registrazione fedele dei luoghi e dei paesaggi in cui si svolge la vicenda. Del resto, l’inclinazione a documentare i luoghi e i paesaggi è una tendenza comune a molte opere resistenziali, pensiamo per esempio a Il partigiano Johnny di Fenoglio. «La Resistenza rappresenta la fusione tra paesaggio e persone»[16], scrive Calvino nella ricordata Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, perché fuori dal suo ambiente il partigiano non avrebbe scampo di fronte alla superiorità numerica e militare del nemico. È la conoscenza capillare del territorio, sono le sue radici che ne garantiscono la sussistenza. Anche se la Viganò non specificò i nomi dei luoghi, come ha osservato Sebastiano Vassalli, «il paesaggio è quasi sempre sfumato, indeterminato, nebbioso simbolicamente sospeso tra acqua e cielo»[17], tuttavia si riconoscono i luoghi delle Valli di Comacchio, che fu una zona di lunghi periodi di lotta tra tedeschi e partigiani.

Andrea Battistini ha esaminato la trasposizione letteraria che Viganò fece del paesaggio reale e degli elementi naturali: «i partigiani dovettero combattere, oltre che contro soldati feroci e disumani, contro un altro avversario naturale non meno impegnativo, i luoghi avversi delle valli di Comacchio,[18] ciò ne esalta ancora di più il sacrificio. Nella rappresentazione del paesaggio l’intenzionalità mimetica si accompagna dunque a un’operazione retorica in quanto vuol convincere della superiorità etica, della grandezza morale dei partigiani, ne esalta il valore, i meriti e soprattutto il sacrificio.

 

Un mondo ostile di natura e di uomini: le Valli di Comacchio

 

Come sottolinea Andrea Battistini in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia- Romagna[19] lo spazio in cui agiscono i partigiani non è mai un paesaggio neutro, ma è quello sentito, vissuto ed evocato attraverso il ricordo e le emozioni.  Il paesaggio fa parte del cast dei personaggi e in certi momenti diviene uno degli attori principali tanto è dispotico e oppressivo il suo ruolo.  Così a livello linguistico l’ambiente è descritto con aggettivi che ne accentuano la forza inibente e il sentimento di angoscia.

La palude oppone un «fango vischioso come la colla»[20], l’acqua è «torbida e sporca», «viscida e calda» non certo fatta per spegnere la sete, «scura sconvolta, piena di erbe e di fango», da cui emana «un odore di mare guasto, di erbe disfatte nel fango», «l’odore morto degli stagni, odore di muri marci, di stracci bagnati, di muffa», «l’odore marcio dei morti». La stessa pioggia che vi cade «è torbida, opaca, dalle «gocce tiepide e pesanti che sembrano unte» cosicché la bicicletta della grossa Agnese «s’arenava nel fango».

Fissità e immobilità sono espresse anche linguisticamente con similitudini, di gran lunga maggioritarie rispetto alle metafore, come si conviene in una prosa di tipo realistico. «Fango vischioso come la colla»[21], «erbe che parevano bisce morte», «il sole che passava tra i gambi diritti, nudi come da un’inferriata». Descrizioni dal ritmo lento e faticoso (si direbbe oblomoviano) di un mondo senza vita, sterile e vuoto dove tutto evoca la morte, la decomposizione. Così come la natura presenta un volto asfittico, altrettanto il tempo è soffocante nella sua monotonia.

Le stagioni variano, ma il paesaggio rimane alienante: al sole dell’estate subentra la neve dell’inverno, ma la terra resta sempre inospitale, invivibile, nella sua cappa di afa o di gelo. I contorni svaniscono sia sotto il sole, sia sotto la neve, sia sotto la nebbia «con il suo grigio compatto spessore»,[22] «bianca, asciutta, morbida come una coltre». Gli uomini sono soggetti all’ambiente a una pressione uniforme e limitante che produce aberrazioni psicologiche, fino alla pazzia.

Anche nella raccolta di racconti Matrimonio in brigata pubblicata postuma nel 1976, poco dopo la scomparsa di Renata Viganò, la rappresentazione della natura insiste sugli ostacoli naturali come catalizzatore delle sofferenze dei partigiani.

 

    Un inverno torvo e violento aveva preso il posto dell’autunno, nel fango vischioso della palude s’incastrava la neve, e l’acqua immensa si ghiacciava argentea e brillante come un cielo lontano, chiaro e cupo insieme. Un paesaggio geometrico, devastato, deserto come si vede nei sogni. Silveira procedeva a fatica contro vento spingendo sui pedali gli zoccoli frusti. I copertoni pieni di pezze frusciavano sul fondo ineguale, e lei balzava malamente sul sellino, pareva talvolta che si dovesse rovesciare sulla riva d’erba dura e gialla punteggiata di neve sporca.[23]

 

I dati ambientali sono oggettivi e corrispondono alle reali condizioni di una zona depressa, ancora da bonificare. Dal punto di vista militare e strategico il trasferimento della guerra partigiana, dal più favorevole Appennino alla più esposta pianura padana, fece sorgere anche presso i comandi della Resistenza il problema della opportunità della «pianurizzazione» della guerriglia partigiana.

 

  Era tutta occhi e capelli bruni, e la chiamavano Nigrein. Faceva la staffetta in brigata, correva di continuo in bicicletta dall’una all’altra delle basi partigiane dislocate nelle case dei contadini in mezzo alla campagna. Le strade erano bianche, polverose e scoperte. Nella nuda sterminata pianura diventava difficile nascondersi, si passava ogni momento in mezzo ai tedeschi e ai fascisti, si varcano posti di blocco sui piccoli ponti e sui crocicchi. Eppure la guerriglia ardeva dovunque come un fuoco invisibile in un campo di stoppie, e spesso i nemici se ne accorgevano solo quando si scottavano i piedi.[24]

 

Nel vento e nelle tenebre: la nostra grande madre Langa

 

Anche nel ‘romanzo partigiano’ di Fenoglio il paesaggio assume il ruolo di un vero e proprio protagonista, diventa elemento concreto della lotta, fa parte della metamorfosi identitaria (l’elemento identitario è più marcato rispetto all’Agnese) al pari del linguaggio duro e secco. Si tratta di un paesaggio ben riconoscibile ma nello stesso tempo sottoposto a una radicale trasfigurazione figurale. Esiste dunque un prima e un dopo nella percezione del paesaggio.

 

Le aveva sempre pensate, le colline, come il naturale teatro del suo amore, per quel sentiero con Fulvia, con lei su quella cresta […] e invece gli era toccato di farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra.[25]

       

E ancora:

 

Erano venuti in tre divisioni, per setacciare tutto e tutti […] Non fu abilità nostra, né che loro [i tedeschi] fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa.[26]

 

Il ‘sistema’ paesaggio

 

Nel romanzo partigiano di Fenoglio e di Viganò siamo agli antipodi dell’idillio, dell’uso consolatorio del paesaggio. Gli elementi del paesaggio non solo risultano deformati e stravolti di per se stessi, ma contribuiscono allo sconvolgimento complessivo.

La pioggia e il fango.  La pioggia prostra e sferza la vegetazione, la pioggia appesantisce uomini e cose e soprattutto produce il fango che è sempre connotato come un nemico infido, fango trappolante, fango ‘trappoloso’ - ne Il partigiano Johnny di Fenoglio-, riconducibile al campo semantico del tradimento e dell’inganno.

La nebbia. La nebbia soffoca la pianura, tende a nascondere il paesaggio sottostante comportandosi a tutti gli effetti come un nemico, cancella il paesaggio, ovatta i suoni, nega lo spazio occupandolo interamente e lasciando come unica possibilità di orientamento o di disorientamento, come accade in un episodio dell’Agnese, il tatto e non l’udito. Le facoltà sensoriali devono quindi affinarsi, potenziarsi, diventare «radariche». Già presente nel Partigiano è il leitmotiv di Una questione privata.

Il buio, le tenebre. Come per la nebbia il buio presuppone staticità e negazione dello spazio visibile ma la deformazione metaforica ne esalta la materialità e il dinamismo: notte «corposa», «carne viva», «bassa e polposa», «catramosa», «collina brulicante di nero frappè» «gorgo di tenebra».

 

E Johnny entrò nel ghiaccio e nella tenebra, nella mainstream del vento: L’acciaio delle armi gli ustionava le mani, il vento lo spingeva da dietro con una mano intermittente, sprezzante e defenestrante, i piedi danzavano perigliosamente sul ghiaccio affiliato. Ma egli amò tutto quello, notte  e vento, buio e ghiaccio, e la lontananza e la meschinità della sua destinazione, perché tutti erano i vitali e solenni attributi della libertà.[27]

 

Il colore. Prevale un monocromatismo innaturale declinato su tonalità livide e opache .

Il vento. «Il vento è uno dei protagonisti- simbolo del Partigiano Johnny»[28].Il vento è di volta in volta definito «eterno», «nero», «furente», «demoniaco» e «sinistro». Il vento assume un carattere demoniaco: è un «vento-serpente» che si rigira a mordersi la coda. La personificazione del vento serve ad accentuare il potenziale cinetico, l’idea di movimento anche se nefasta e inimicale porta con sé un apporto dinamico di movimento e velocità che spinge alla lotta, anche al limite dell’irreale, come nel finale di Una questione privata.

La nebbia, il vento, la pioggia, il fango compongono un preciso sistema paesaggio in funzione oppositiva e nemica. La lotta del partigiano è anche lotta contro il paesaggio. Al tempo stesso è proprio davanti all’ostilità del paesaggio che prende corpo anche fisicamente la reazione e la resistenza di Johnny e di Milton, che si definisce e rafforza la loro identità. Il paesaggio però è un avversario degno e leale, con cui il combattimento è equo e morale (in un implicito confronto asimmetrico con il nemico storico).

 

Partì per le somme colline, verso la terra ancestrale che lo avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. […] Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra.[29]

 

La notte era un oceano. Un vento polare dai rittani di sinistra spazzava la sua strada, obbligandolo a resistergli con ogni sua forza per non essere catapultato nel fossato di destra. Tutto insieme, anche la morsa del freddo e la furia del vento e la cecità della notte, tutto concorse ad affondarlo in un altogridante orgoglio.- Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono l’unico passero[30].

 

In Fenoglio la valenza antagonistica degli elementi naturali già presente nel romanzo della Viganò viene sottolineata dal ricorso alle fonti letterarie più disparate, dall’epica classica (Iliade ed Odissea) alla Bibbia, alla letteratura angloamericana, al cinema.

Nel saggio Nel ghiaccio e nella tenebra. Paesaggio, corpo e identità nella narrativa di Beppe Fenoglio[31] Veronica Pesce analizza il rapporto tra paesaggio ed epica (assenza di psicologismo, prevalenza della similitudine sulla metafora per lo più originata dal mondo naturale, personificazione della natura, richiami lessicali ai testi omerici, presenza di epiteti).  Per il ruolo di primissimo piano che svolge l’epicizzazione, Alberto Casadei ha catalogato Il Partigiano come  «epica storica»[32].

Per dimostrare come il paesaggio, pur rispecchiando una situazione assolutamente oggettiva come quella delle Valli di Comacchio si pieghi nel romanzo L’ Agnese va a morire a intenti retorici, si può fare in classe un esercizio di tipo contrastivo e prendere un altro romanzo della Resistenza, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, ambientato in un contesto altrettanto ostile  e difficile, ma trasfigurato dalla cogenza del cronotopo di un altro genere letterario, quello del racconto di fiabe. Già dalla Prefazione emergono alcune considerazioni. A cominciare dalla connotazione referenziale dei luoghi. L’Appennino Ligure viene rielaborato in uno «scenario interamente straordinario e romanzesco». Scrive Calvino:

 

Il mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio, […] un paesaggio che nessuno aveva mai scritto davvero tranne Montale- sebbene egli fosse di un’altra Riviera-. […] Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare, occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone.[33]

 

Nella rappresentazione del paesaggio de Il sentiero dei nidi di ragno prevalgono gli spazi aperti, i luoghi che favoriscono gli incontri fortuiti secondo il cronotopo dell’avventura come l’osteria, la casa-postribolo della sorella, la bottega del ciabattino. Calvino scrive il suo primo romanzo a un anno dalla Liberazione, con l’intento provocatorio (già nel titolo) di lanciare una sfida sia contro i detrattori della Resistenza che contro i sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata. Egli vuole sfuggire all’intento celebrativo e all’incombere di una nuova retorica per arrivare alla vera essenza della Resistenza. La stessa impostazione antieroica che ritroveremo in Fenoglio. Perciò Calvino decide di adottare il punto di vista di un bambino che si ritrova tra i partigiani per sfida e voglia di avventura («Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo»).[34] Calvino mette in campo un mondo di monelli e vagabondi, di tipi un po’ storti, tuttavia questo reparto di antieroi si getta nella lotta mosso ugualmente da un’elementare spinta al riscatto umano. Personaggi senza una coscienza di classe («ma chi se importa di chi è già eroe? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!»).[35]

 

Giovanna Zangrandi, I giorni veri (1963)

 

La pianura e la montagna, l’Emilia e il Cadore rappresentano i luoghi della biografia e dell’immaginario di Giovanna Zangrandi (pseudonimo di Alma Bevilacqua, nata a Galliera in provincia di Bologna nel 1910). Spazi reali che trasfigurati in scrittura diventano lo sfondo di racconti e romanzi. La pianura, alveo materno e luogo dell’infanzia, si svela improvvisamente come un ambiente inquietante che nasconde tare familiari (il suicidio del padre, la malattia mentale dello zio).

Conseguita la laurea in Chimica all’Università di Bologna, spezzato il legame con la famiglia e con il passato, Zangrandi si trasferisce a insegnare Scienze Naturali a Cortina. La montagna, spazio di solitudine e di libertà, rappresenterà per lei simbolicamente una possibilità di rinascita. Link 4

Si decida con passione all’alpinismo e all’attività di istruttore di sci di una squadra femminile locale. Collabora a riviste, scrive racconti e pratica la scrittura diaristica. Un ritratto insolito di donna dedita contemporaneamente all’esercizio fisico e a quello intellettuale. Lontana dalla politica, nonostante la sua formazione antifascista e liberale, dopo l’8 Settembre si avvicina alla Brigata garibaldina Pier Fortunato Calvi, l’eroe che capitanò la rivolta fallita dei cadorini contro gli Austriaci nel 1848. La Zangrandi compie una scelta di campo netta e definitiva che la porterà a svolgere come staffetta missioni di estremo rischio: trasporta armi, stampa clandestina, e data la sua naturale predisposizione al disegno e le sue competenze geologiche esegue la mappa della zona e individua i punti dove porre le mine per le azioni di sabotaggio. Quando la sua attività viene scoperta è costretta a nascondersi in alta montagna, tra le cime delle Marmarole (a 170 metri, nelle Dolomiti orientali), dove trascorre insieme a un piccolo gruppo di compagni il terribile inverno del 1944, seguito al proclama di scioglimento delle bande partigiane del Generale Alexander.  Pochi giorni prima della Liberazione, l’uomo amato e compagno di lotta, viene ucciso dai tedeschi. Si infrange così il sogno di realizzare una famiglia: un dolore che non si rimarginerà mai più. Decide di vivere in solitudine e si dedica unicamente alla scrittura. La tematica partigiana diventa la costante di tutta la sua produzione letteraria. Pubblica alcune raccolte di racconti, consegue il premio Deledda con il romanzo I Brusaz (1954), ma il secondo romanzo Orsola delle stagioni (1957) viene accolto tiepidamente dalla critica. Nel 1960 vince il Premio Bagutta con il romanzo Il campo rosso.  L’ultima opera I Giorni veri (1963) è «dedicata a un pubblico di speranza, i giovani»:

 

Ai giovani ignari, infarciti di storie scolastiche di medievali guerre, re e date, si deve pur raccontare questa nostra storia di ieri, questa Resistenza miracolosamente nata in giorni di annientamento e subito cresciuta, divenuta vasta, pura e pulita nelle ore dell’azione, poi amaramente inquinata dopo la guerra da interessi, speculazioni, accuse, sporcizie. […] Ai giovani era dovere chiarire che sì, la Resistenza ebbe caratteri risorgimentali, ma anche una sua tipica nuova caratteristica: fu più vasta, spontanea, popolare, non sorse solo nei salotti, ma tanto e più dalle cucine, dai casolari, dalle fabbriche. Fu un movimento che sul filo antico della parola Libertà, affiancò allora mirabilmente intellettuali e masse e tanto deve alle donne.[36]

  

I giorni veri è un diario che nasce dagli appunti (I Quaderni della Memoria) scritti durante i diciotto mesi della Resistenza. «Quadernini marciti in buche di sassi»,[37] a quota 2000, tra le cime delle Marmarole. Circostanza che ricorda immediatamente il ritrovamento fortuito di quattro taccuini con la copertina color senape che saranno pubblicati con il titolo Appunti partigiani di Fenoglio e uno dei suoi racconti We cant’t be put into a book. Sulla genesi dell’opera ha scritto molto Werther Romani che ha studiato a fondo la figura di Giovanna Zangrandi, nel tentativo, compiuto insieme ad Antonio Faeti, di strappare dall’oblio questa «grandissima italiana» dimenticata e allontanata, che ha saputo scrivere «l’unico vero romanzo resistenziale». Secondo Faeti, Zangrandi ha scontato la sua non appartenenza alle consorterie editoriali, la mancata adesione al modello di romanzo resistenziale in auge negli anni Cinquanta, che era La ragazza di Bube di Carlo Cassola (tanto amore e poco mitra) e il fatto di essere una donna. Il titolo I giorni veri, perfetto e bellissimo nella sua semplicità sottende il vissuto della scrittrice che «racconta la guerra di Liberazione come fa con se stessa, in modo impietoso e antiretorico, senza eufemismi né abbellimenti».[38] Veri sono i luoghi, i personaggi e i fatti, vera è l’esperienza della Resistenza che traghetta Zangrandi, la partigiana Anna, verso il suo sé più autentico.

Fin dall’inizio il paesaggio della montagna è descritto come un ambiente positivo da ammirare e conoscere.

 

Sotto il mio balcone, sotto la mia casa alta sul pendio sta la conca superba di questa cittadina, le sue montagne inimitabili: penso che sia la conca più bella che esista nelle Alpi e forse nel mondo, è perfetta in tutto, dalle cime così disposte a gruppi, non vicine, non troppo incombenti, al verde dei prati estivi, alla vastità morbida del candore invernale. Perfetta. […] Una natura così stupenda ti fa pigliare una cotta: questa conca per me (e per tanti altri) giocò il ruolo di Beatrice o Laura.[39]

 

Non altrettanto si può dire degli abitanti, «i quasi cinquemila oriundi» che considerano gli italiani immigrati una razza inferiore e simpatizzano per i nazisti e le loro teorie. «Con gli oriundi c’è impossibilità di dialogo e soprattutto di amicizia. Lo sento, mai ne pretesi d’altronde».[40]

Dopo una retata di arresti in città, Anna è costretta a scappare. Tenta di raggiungere il lontano Cadore. La conoscenza del territorio e la sua esperienza di vita in montagna saranno fondamentali per la sua salvezza. La traversata di boschi e di vette ha la durezza, le fatiche e il sapore di un viaggio epico e ricorda tante pagine de Il Partigiano Johnny.  Rimane intatta dentro di lei un’idea della natura che pur difficile e impervia non è mai ostile ma protegge, cura, consola, e nutre come una madre.

 

E trovo il sentiero esatto di Rucorto che mena in Forcella Ombrizzola, nel buio fondo, lo palpo con le mani, questa cosa piatta e battuta sotto i piedi, un sentiero troppo notevole per non esser giusto; si dirige appunto dove il mio corpo sente nella notte. Un corpo umanamente stanco, che sale lento ma spietato, sale.[41]

 

Quel taglio nel cielo; di là è Cadore, «oltreconfine» Ecco il palo. Passo; nello sfinimento un senso di gioia e di pena ignota assieme, non ho tempo di chiedermi perché.[42]

 

È una giornata di cielo spazzato, un caldo secco che si riverbera sul calcare levigato del ghiacciaio antico; le piaghe dell’erpete bollose e ulcerate, vaste come piattini da caffè si seccano ora per ora in croste secche. La febbre e il malessere sono scomparsi, resta solo una indolenza immemore, un annientamento di ogni pensiero. Mi sento solo corpo che guarisce, come una pecora del gregge stesa a ruminare mirtillo, qui in questa valletta altissima, chiusa, da dove non si vedono case, paesi, nemmeno il casermone del ricovero.[43]

 

Tai di Cadore, Aprile ’45:

 

E ̀davvero primavera anche nell’aria: a star seduti nella sera tiepida sotto il mandorlo le stelle sono tra i rami, come se quei tre fiori (oggi c’erano ancora trepidi e vivi) fossero lucenti stelle e parlassero parole sottili, di luce e di silenzio, tra l’intrico dei rami: primavera e la fine e rivivere come sempre, senza guerra.[44]


Silvia Ballestra,
La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (2022)

 

Lungo tutto il Novecento una donna bellissima e fortissima pensa, scrive, agisce, lotta. È̀ Joyce Salvadori Lussu (1912-1998). Poetessa, traduttrice, scrittrice, ha sempre coniugato un pensiero prefigurante e modernissimo all’azione diretta sul campo. Nata da due intellettuali antifascisti appartenenti a nobili famiglie marchigiane di proprietari terrieri, Joyce sarà in prima fila nella Resistenza e nel dopoguerra al fianco del marito Emilio Lussu, noto antifascista e autore del romanzo Un Anno sull’altipiano (1936-37). Entrambi entrano nelle fila del movimento clandestino di Giustizia e Libertà. La loro storia d’amore è bellissima e potente, a tratti rocambolesca, sempre avventurosa. [Link 5]

Così la descrive Maria Giacobbe, sua amica per tutta la vita, la prima volta che incontrò quella che conosceva con il nome di battaglia ‘Simonetta’:

 

Ancora più bella di quanto non mi fosse stato possibile immaginarla, un viso e un corpo botticelliani in un elegante tailleur di lana inglese tessuta a mano. Dei mocassini a tacco basso che avevano l’aria di essere morbidi come una carezza attorno ai piedi sottili e proporzionati alla lunghezza delle gambe snelle e perfette, avvolte nelle calze più leggere che io avessi mai visto.[45]

 

 Abilissima nel preparare documenti falsi e compiere missioni segrete, Joyce attraversa fronti e frontiere dell’Europa occupata, aiuta amici ebrei a espatriare e mette più volte a rischio la propria vita.  Su questa esperienza di guerra e di amore scriverà in Fronti e frontiere (1944). In questa opera l’allargamento dello sguardo al mondo circostante della natura costituisce un elemento che ne differenzia la scrittura da quella di Emilio Lussu, il quale in Diplomazia clandestina (1956) narra circa gli stessi accadimenti, ma mentre lei si sofferma sulla descrizione del paesaggio e sull’osservazione delle persone, lui si concentra sulla descrizione della situazione storica e spiega in dettaglio il lavoro politico.

La circolazione delle opere di Joyce ha avuto un andamento clandestino, come capita spesso alle scrittrici fuori dal canone e alle opere delle donne. La sua recente riscoperta (grazie al lavoro di alcune studiose, come Gigliola Sutis) ha permesso di mettere in luce le costanti tematiche delle sue opere, che ne testimoniano la modernità: la questione femminile, il diverso approccio alla storia, la ricerca di modelli alternativi di sviluppo, la memoria personale, l’antifascismo e le lotte di liberazione nel mondo, l’ecologismo, la poesia come momento ‘naturale’ della vita di ognuno. Un pensiero libertario, cosmopolita e femminista.

Nel dopoguerra scrive e pubblica diverse opere: continua la sua azione politica impegnandosi per l’emancipazione delle donne sarde. L’incontro con la Sardegna è alla base della raccolta di racconti L’olivastro e l’innesto (1982). Poi si mette alla ricerca dei poeti del terzo mondo: Nazim Hikmet, Agostinho Neto, Amilcar Cabral. Traducendo i loro versi poi raccolti nell’edizione Mondadori Tradurre poesia (1967), Joyce vuol far conoscere la lotta dei movimenti di liberazione dei loro paesi e promuovere la pace.

Dalla raccolta di racconti dedicati alla Sardegna. L’olivastro e l’innesto (1982), ho preso questa bella pagina che tanto ci parla del nostro presente e delle sue sfide.  Ci propone forse un’altra via per uscire dallo schema binario delle radici e dell’identità in cui siamo intrappolati.

 

Oggi si parla molto di radici. Si scavano le radici delle comunità e degli individui per rinsanguare le identità e ricercare i perché. Ma non ci sono solo le radici, ci sono anche gli innesti. Io non ho radici in Sardegna. I miei antenati sono sepolti in terre diverse e lontane. In Sardegna mi ha portato l’amore per un sardo e quest’amore era anche acquisizione di un mondo, con la sua storia e il suo presente, i suoi cristalli ancestrali e i suoi germogli di futuro. Mi sono innestata sulla Sardegna, e da allora siamo cresciuti insieme.[46]

 

Silvia Ballestra ha ricostruito la vita avventurosa e appassionante di Joyce Salvadori Lussu attraverso lo studio di documenti e le testimonianze di chi l’ha conosciuta. Quando la giovane scrittrice incontra per la prima volta Joyce Lussu ha ventun anni e lei settantanove. La differenza anagrafica non sembra essere un problema per nessuna delle due. Tuttavia, può essere il motivo di una riflessione in classe. Ci chiediamo perché una giovane di ventun anni si sia interessata alla vita di una donna che potrebbe essere sua nonna, perché coltivare la memoria del passato possa risultare di grande interesse nel presente. Se è vero che identificare arte e vita è un inaccettabile determinismo, è altrettanto vero che non si può fare la storia della Letteratura senza soggetto. La lettura di una biografia può essere uno strumento prezioso di conoscenza in presa diretta di un’esperienza umana, il punto d’accesso dell’incontro con l’altro.

 

Svetlana Aleksievič , La guerra non ha un volto di donna (2005-2017) [link 6]

 

Svetlana Aleksievič è nata in Ucraina nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina. Giornalista e scrittrice fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale della Bielorussia, è stata perseguitata dal presidente Alexandar Lukašenko e la sua opera bandita dal paese. Per i suoi libri tradotti in più di quaranta lingue, ha ricevuto nel 2015 il Premio Nobel per la Letteratura. La guerra non ha un volto di donna nasce dopo un lavoro di anni e centinaia di conversazioni con alcune delle tantissime donne (alla fine saranno un milione) che combatterono durante la Seconda guerra mondiale sul fronte russo. Le protagoniste di questa epopea al femminile avevano al tempo l’età di diciotto, diciannove anni, qualcuna era ancora più giovane, ma corsero al fronte come volontarie per dare il loro contributo. 

L’autrice ha voluto ricostruire in questo libro il volto della «guerra al femminile che ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti e anche parole sue».[47]

 

Scrivo la storia dei sentimenti…la storia dell’anima… Non la storia della Guerra né dello Stato né delle Vite degli eroi, ma la storia del piccolo essere umano scaraventato, dalla semplice esistenza che conduceva, negli epici abissi di un evento colossale. Nella grande Storia.[48]

 

Alla fine della guerra nessuno ha chiesto alle donne di raccontare la loro guerra, quando sono state invitate a farlo, hanno raccontato una storia al maschile adattandosi al canone invalso. Eʽ solo in casa, nella cerchia delle amiche veterane che si mettono a narrare la loro guerra. Ed è una guerra sconosciuta. Gli uomini accettano di malavoglia che le donne entrino nel loro territorio; perciò, molte delle intervistate confidano all’autrice i timori dei mariti per il racconto che può fare la moglie.

 

“Racconta come ti ho insegnato. Senza lacrime e stupidaggini donnesche del tipo ‘ci tenevo tanto a essere carina’ oppure ‘quando mi hanno tagliato la treccia ho pianto’. Lascia perdere i dettagli inutili e racconta piuttosto della nostra grande vittoria”.

Più tardi la donna mi ha confidato sussurrando: “Mi ha fatto sgobbare tutta la notte sul volume della Storia della Grande Guerra Patriottica. Aveva paura di quel che potevo dire”.[49]

 

Nei racconti femminili sulla guerra non c’è quasi mai gente che ammazza eroicamente altra gente, immagini di eroi, descrizioni di battaglie e strabilianti imprese. Nei racconti femminili la Storia si umanizza, diventa uno spaccato di persone reali, esistenze normali prese nel vortice della guerra. La guerra non sembra riguardare solo gli umani ma a soffrirne sono anche i campi, gli uccelli, gli alberi, ogni cosa che convive con noi sulla terra.

 

Li avevo visti dare alle fiamme un villaggio. Tutti gridavano… Gridavano le mucche…Gridavano le galline. Sembrava che tutti gridassero con voce umana. Tutte le creature viventi. Gridavano mentre bruciavano vive. Non sono io a raccontarlo, è il mio dolore a parlare.[50]

Volevo dire…sì…lo ricorderà anche lei …Alla fine dell’autunno quegli stormi di migratori che si allungano come tutti gli anni nel cielo. Verso le nostre artiglierie che duellano a distanza. Come avvertirli? Come gridar loro: ‘ Non da queta parte! Sparano! Come!? E gli uccelli cadono, cadono a terra.[51]

 

Durante un bombardamento si è avvicinata a noi una capra. Si è semplicemente distesa accanto a noi belando forte. Finito il bombardamento ha continuato ad accompagnarci, stringendosi ora all’uno ora all’altro, niente di strano, era una creatura anche lei e anche lei aveva paura. Al primo villaggio diciamo a una donna: ‘La prenda. Fa pena’. Volevamo che si salvasse…[52]

 

Bibliografia

Memorie, diari, testimonianze, romanzi.

Aleksievič Svetlana, La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche durante la Seconda guerra mondiale, Firenze, Giunti (2005-2017)

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Saggi

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Zinato Emanuele, Insegnare Letteratura. Teorie e pratiche per una didattica indocile, Bari, Laterza 2022.

 

 

21 dicembre 2023

 

NOTE

 


[1] I. Calvino, Il midollo del leone, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società (1980), Milano, Mondadori, 1995

[2] F. Rigotti, L’era del singolo, Torino, Einaudi, 2021, p.22.

[3] Didattica della letteratura italiana. Riflessioni e proposte operative, a cura di G. Ruozzi e G. Tellini, Firenze, Le Monnier, 2020.

[4]  G. Van Straten, Invasione di campo. Quando la letteratura racconta la storia, Milano, Laterza 2023.

[5] I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (1946), Milano, Garzanti, 1987, pp.7-8.

[6] M. Corti, Introduzione a L. Meneghello, I piccoli maestri, Milano, RCS Libri, 1976-2015.

[7] Una lieve colomba, in Racconti della Resistenza (a cura di G. Pedullà), Torino, Einaudi, 2005.

[8] A.M Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Milano, La Pietra, 1976.

[9] A. Gobetti, Diario partigiano (1956), Torino, Einaudi, 1996.

[10] B. Tobagi, La Resistenza delle donne, Torino, Einaudi 2022.

[11] A.N.P.I. sezione cittadina Reggio Emilia, Dorina Storchi. Lina. Una storia antifascista, 2014, p. 17.

[12] Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, (2005-2017), Firenze, Giunti 2017.

[13] B. Tobagi, La Resistenza delle donne, cit., p. 104.

[14] G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, p.76.

[15] R. Viganò, Come nacque l’Agnese, «l’Unità» 4/9/1949

[16] I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit, p. 10

[17] S. Vassalli, Introduzione in R. Viganò L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi 1994, p. 1.

[18] A. Battistini, Sondaggi sul Novecento, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2003, p.211.

[19] A. Battistini, Un paesaggio difficile: le valli di Comacchio ne L’Agnese va a morire di Renata Viganò, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna (a cura di P. Pieri e L. Weber); Bologna, Clueb,2010.

[20] R. Viganò, L’Agnese va a morire (1947), Torino, Einaudi 1974. (l’enumerazione delle pagine segue l’ordine delle citazioni: pp, 155, 66, 88, 198, 79, 96, 81, 63, 28.)

[21] Ivi, pp.155, 63, 63.

[22] Ivi, pp.145, 189.

[23] R. Viganò, Le calze di lana in Matrimonio in brigata, Milano, Vangelista Editore, 1976, p. 101

[24] R. Viganò, Tiro al piccione in Matrimonio, cit, p. 113.

[25] B. Fenoglio, Una questione privata, Milano, Einaudi 1994, p. 28

[26] B. Fenoglio, Appunti partigiani 1944-1945, Torino, Einaudi 1994, p. 49

[27] B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, (Edizione critica a cura di Dante Isella), Torino, Einaudi, p. 448.

[28] G. Luigi Beccaria, Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989, p. 129.

[29] B. Fenoglio. Il partigiano, cit, p.52.

[30] Ivi, p.460.

[31] V. Pesce, Nel ghiaccio e nella tenebra. Paesaggio, corpo e identità nella narrativa di Beppe Fenoglio, Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2015.

[32] A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 142.

[33] I. Calvino, Il sentiero, cit. pp.10-11

[34] Ivi, p. 13.

[35] Ivi, p.15.

[36] G. Zangrandi, I giorni veri 1943-1945, (1963) Milano, Isbn Edizioni, 2012, p.258.

[37] Ivi, p. 259

[38] B. Tobagi, in G. Zangrandi, I giorni veri. Diario della Resistenza, Milano, Ponte delle Grazie, 2023, p.10

[39] G. Zangrandi, I giorni veri, cit., p.13-14

[40] Ivi, p. 15.

[41] Ivi, p.106.

[42] Ivi, p.107.

[43] Ivi, p.116.

[44] Ivi, p.235

[45] Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Salvadori Lussu, Bari-Roma, Laterza, 2022, p.158. Maria Giacobbe, autrice di Diario di una mestrina (1957), un testo chiave per capire il processo di alfabetizzazione nella Sardegna rurale e dimenticata degli anni Cinquanta, conobbe Joyce Salvadori Lussu attraverso Emilio, che era molto amico del padre, poi ne divenne amica. Figlia si combattenti antifascisti, subì le persecuzioni del regime e visse a Nuoro con la madre e le sorelle in condizioni di povertà. L’impressione che il lusso di Joyce fece su di lei ebbe una spiegazione che trova conferma anche in altre testimonianze di donne partigiane. Abbigliarsi in modo femminile ed elegante, mettere il rossetto o, nei casi più fortunati i guanti e le calze, le rendeva insospettabili agli occhi dei tedeschi e dei fascisti che immaginavano le partigiane come proletarie povere e malvestite.    

[46] J. Salvadori, Lussu, L’olivastro e l’innesto. L’incontro con un uomo, la sua isola antica e la sua gente, Cagliari, Edizioni della torre, 2018, p.9.

[47] S. Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche durante la Seconda guerra mondiale, Firenze, Giunti (2005-2017) p. 10.

[48] Ivi, p.64.

[49] Ivi, p. 20.

[50] Ivi. p.343.

[51]  Ivi, p.187.

[52] Ibidem.