Carlo Vecce - Umanesimo e critica democratica

L'ultimo libro di Edward Said, Umanesimo e critica democratica,[1] non è un testamento spirituale. Uscito negli Stati Uniti in edizione originale l'anno dopo la scomparsa dell'autore, nel 2004, col titolo Humanism and Democratic Criticism, appartiene a quella categoria di testi che solo le circostanze storiche o biografiche fanno sembrare di 'chiusura', farewell di chi ci lascia per sempre; e che invece restano nel tempo, come invito alla comprensione del presente che ci circonda, ed apertura al futuro che ci attende. Testi come la leopardiana Ginestra, per intenderci. O ancora come le Lezioni americane di Calvino. E qui la coincidenza appare quasi sorprendente. Il libro di Said, come quello di Calvino, è una raccolta di conferenze, di lectures realmente svolte alla Columbia (dove Said insegnava) e poi a Cambridge, tra il 2000 e il 2002. Tra quelle date, la tragedia individuale, e quella collettiva: la lotta di Said contro la malattia che l'ha portato alla morte; e l'evento tragico che ha cambiato il nostro tempo, l'11 settembre 2001. Certo, come avverte Giorgio Baratta nell'introduzione all'edizione italiana, la parola Humanism, nella cultura americana moderna e contemporanea, non coincide perfettamente con il nostro concetto di 'umanesimo', legato alla parabola storica di lungo periodo che abbraccia il periodo da Petrarca a Machiavelli. Ma la domanda di fondo è, in sostanza, non dissimile da quella che potevano porsi Petrarca o Leonardo Bruni: qual è il posto degli studia humanitatis nella nostra vita e nella nostra realtà, e in particolare il posto della disciplina 'centrale' di quegli studi, che era ed è la filologia? La posizione di Said appare oggi sorprendente, considerato che la parola 'filologia' non va tanto di moda, associata di solito ad un'idea di pratica accademica chiusa in se stessa e vuota di significato. E invece la filologia è letteralmente 'amore della parola': strumento di conoscenza, che fa oggetto della sua scienza le forme primarie della comunicazione umana, l'inveramento storico del suo pensiero e della sua civiltà; "Scienza del Certo" nella Scienza Nuovadi Giambattista Vico (uno degli 'eroi', del libro di Said), e senza la quale non può procedere la "Scienza del vero", la Filosofia. Anche gli 'umanisti', gli intellettuali che, all'alba dell'età moderna (come ci hanno insegnato Gramsci e, tra gli storici, Eugenio Garin, e Paul Oskar Kristeller, uno dei maestri riconosciuti di Said alla Columbia), sapevano che la rivoluzione culturale era anche una rivoluzione di testi, e quindi di strutture della comunicazione, della scuola, dell'università. Anche se essi formavano un'élite nella società contemporanea, la loro non era una scienza 'separata', o che produceva 'esclusioni'. La filologia umanistica era 'critica', perché metteva tutto al vaglio dei suoi strumenti di lavoro: ad esempio, i documenti che da secoli affermavano il potere temporale della Chiesa, come la celebre Donazione di Costantino, dimostrata falsa da Lorenzo Valla con armi linguistiche e filologiche; la geografia e la cosmografia tolemaica, ancora così importante per Dante, mandata in soffitta da Copernico, Colombo, Galileo; gli stessi testi sacri, l'Antico e il Nuovo Testamento, ricondotti al confronto con i manoscritti più antichi, greci ed ebraici, prima che il movimento della Riforma ne proponesse pienamente la libertà d'interpretazione. L'umanesimo 'storico', quello al quale noi europei siamo abituati a pensare, è nato in Italia, con Petrarca. Ma ha sicuramente ragione Said (autore dell'altro straordinario saggio Orientalismo) quando ricorda che è un errore considerarlo un carattere identitario della civiltà 'occidentale', contrapposto alle civiltà 'altre' che non avrebbero conosciuto 'umanesimi', e che quindi non sarebbero 'umanistiche'. E rinvia soprattutto alle civiltà del Libro più vicine a noi, l'ebraismo e l'Islam, che avevano sviluppato forme di 'critica' al testo che diventavano una modalità più vasta di formazione umana, di creazione di rapporti di vita e di società. E civiltà del Libro, potremmo aggiungere, erano da millenni sviluppate in India e in Cina, intorno ai nuclei originari del pensiero di Buddha, Confucio, Lao-Tse. Un'educazione permanente alla libertà intellettuale che oggi, in uno scenario di integralismi contrapposti, e di perdita progressiva della memoria storica, sembra quasi incredibile. Possibile che mille anni fa la polarità fosse del tutto rovesciata? Che nelle scuole di Siviglia e di Toledo e di Baghdad maestri ebrei e arabi discutessero liberamente dei testi di Aristotele? E che le prime scintille del rinnovamento europeo venissero dagli ambienti che più erano in contatto con quel mondo mediterraneo di cultura, dalla Francia meridionale al Mezzogiorno d'Italia di Federico II? Dal passato e dal presente, allora, Said apre al futuro: e il suo diventa un libro generosamente utopico, nel più intenso e originale dei suoi capitoli, quello centrale intitolato "Ritorno alla filologia". È la risposta dell'intellettuale Said all'11 settembre, al terrorismo, alla guerra in Iraq, alle violazioni dei diritti umani, agli integralismi, alla globalizzazione dei modelli peggiori del capitalismo e del consumismo, all'omogeneizzazione delle conoscenze e delle coscienze. È qui che si capisce perché, in questo libro, stiano insieme parole come umanesimo, filologia, democrazia. Perché filologia significa educazione alla critica, resistenza attiva alla dilatazione immensa della 'memoria' e dell'archivio collettivo, e di conseguenza alla manipolazione dell'informazione. Una resistenza all'attacco generale e globale alla stessa possibilità di esistenza di un libero pensiero: e quindi una filologia che può essere oggi strumento di democrazia, di uguaglianza, perfino di difesa dell'ambiente e della natura. Un'educazione alla 'lettura lenta' di tutti i messaggi (dalle forme tradizionali del linguaggio verbale scritto, dal libro al cinema, alla televisione, a internet), opposta alla stessa velocità delle nuove tecnologie. Come gli umanisti italiani del Quattrocento, Said ritrova nello spazio e nel tempo del letterario, del poetico e dell'immaginario il livello più alto di questa educazione, dichiarando la consonanza con critici come Spitzer, e soprattutto Auerbach (al cui metodo, considerato esemplare in Mimesis, è dedicato un intero, importante capitolo). È l'umiltà etica della ricezione, che porta a mettersi al posto dell'autore, a guardare il mondo con i suoi occhi. L'attitudine che ci permette, alla fine, non di 'saper leggere' un libro, ma anche di 'saper guardare' il mondo con gli occhi dell'Altro, dello Straniero, e non solo con i nostri.

 

Note:


[1]Edward W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioniIntroduzione all'edizione italiana di Giorgio Baratta, Traduzione di Monica Fiorini, Milano, Il Saggiatore, 2007.