Carlo Varotti - La «scoperta» del giovane

Il percorso tematico didattico che qui proponiamo costituisce un significativo ampliamento e una riarticolazione di un lavoro già pubblicato nell'antologia Tempi e Immagini della Letteratura (vol. 4, pp. 126-142) di G. M. Anselmi e C. Varotti, con il coordinamento di E. Raimondi, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

Ai quattro brani di cui si componeva originariamente il percorso, ne aggiungiamo altri quattro (di Alfieri, Balzac, Manzoni ed E. Praga), nonché una piccola raccolta di documenti iconografici degli anni della Rivoluzione francese.

Poiché si tratta di un lavoro piuttosto esteso, pubblichiamo ora integralmente il saggio di apertura e le prime due sezioni antologiche del percorso (sezioni A e B). Pubblicheremo nelle settimane successive la seconda sezione antologica (sez. C e D).

 

La «scoperta» del giovane

 

Tempo fa Alberto Arbasino metteva in ridicolo il fatto che ogni ragazzo o ragazza intervistati all'uscita di una scuola o davanti a una discoteca (luoghi 'giovanili' per eccellenza), sentano il dovere di parlare in nome di «noi giovani» o - per dirla con Arbasino - di «noi ggiovani». Era un «noi» e un'identificazione di gruppo, di fronte alla quale mostrava disagio e ironia, già molti anni or sono, Nanni Moretti: e in Ecce Bombo un giornalista (belloccio, brillante e disgraziatamente superficiale) di una radio libera, che si rivolgeva a un gruppo di amici seduti annoiati a un tavolino, intervistandoli per un'inchiesta su quello che 'vogliono i giovani', veniva semplicemente indirizzato a quello dei quattro del tutto privo del physique du rôle giovanile, ma «molto bravo a fare il giovane».

In effetti è curioso l'uso del noi (che implica l'identificazione in un gruppo) per una realtà così necessariamente vasta e indeterminata. Dire 'noi impiegati del Catasto' o 'noi emodializzati' ha certamente più senso: le due frasi identificano due categorie meglio circoscrivibili, anche se da un solo punto di vista (professionale il primo; sanitario il secondo). Ma dentro la categoria dei 'giovani' c'è veramente di tutto... Non parliamo poi dei confini della 'giovinezza'. Un venticinquenne nel 1950 (probabilmente con famiglia a carico) difficilmente si sarebbe autodefinito un 'ragazzo'; mentre può succedere di trovare su una lettera a un giornale una presentazione del tipo: «Sono un ragazzo di 35 anni...».

In realtà la categoria della giovinezza ha una storia complessa e tutt'altro che scontata. Come tante cose che ci sembrano ovvie e 'naturali' anch'essa è un prodotto storico. È chiaro che è sempre esistita una giovinezza in senso biologico; e in questo senso la giovinezza non è mutata molto nel corso dei secoli: è profondamente mutata invece la consapevolezza sociale e politica che l'umanità ha avuto della giovinezza.

Per quanto una frase come «noi ggiovani» possa rivelare una tendenza poco lodevole alla genericità e al conformismo, essa ha alle spalle la vicenda complessa della scoperta della giovinezza come periodo autonomo e cruciale della vita degli individui.

A un certo punto l'uomo europeo ha cioè cominciato a considerare la giovinezza non semplicemente come una fase imperfetta e transitoria della vita, il periodo incompiuto e incerto che conduce alla maturità dell'individuo, ma come un'epoca che ha caratteristiche peculiari. È stato un processo secolare, che ha coinvolto molteplici fattori, di natura economica, sociale e culturale.

Ovviamente, parlando di processi che riguardano la storia delle idee e della mentalità (dunque fenomeni che cambiano lentissimamente), è sempre arbitrario individuare una fase o un periodo storico precisi in cui collocare svolte e mutamenti radicali.

Si potrebbero ad esempio ricordare le famose pagine del Principe di Machiavelli (cap. 25) - e in questo numero se ne è occupato Gian Mario Anselmi - dove si parla della giovinezza come energia istintiva e vitale, forza primigenia che sola può contrastare la potenza cieca e irrazionale della 'Fortuna' («perché la fortuna è donna [...] e però sempre, come donna, è amica de' giovani»). Ma siamo di fronte a casi isolati.

Possiamo infatti indicare la seconda metà del Settecento (e in particolare in quell'evento 'spartiacque' che fu la Rivoluzione francese) come l'epoca nella quale si avverte un mutamento complessivo importante nella considerazione del giovane e della giovinezza. È soprattutto in questi decenni che il giovane e la gioventù diventano come non mai prima protagonisti di romanzi e di riflessioni teoriche (pedagogiche o politiche). Sta nascendo un vero e proprio mito della giovinezza e del giovane: la giovinezza tende allora a presentarsi come una fase essenziale e determinante della vita dell'individuo; sempre più speso anzi la giovinezza è considerata un qualcosa di per sé positivo, associabile a valori molteplici: il rinnovamento e la rinascita; l'ingenuità; la purezza; gli ideali incontaminati.

La giovinezza come insieme di qualità e valori positivi

 

Rousseau, Preromantici, Rivoluzionari

Nei decenni tra Sette- e Ottocento parecchie testimonianze indicano il delinearsi di un vero e proprio mito della giovinezza e del giovane.

Nell'atteggiamento critico dell'Illuminismo verso la Tradizione è implicita una svalutazione del ruolo della maturità e della anzianità e dell'idea che esse siano depositarie di un sapere superiore proprio perché fondato su un'esperienza consolidata e sul controllo dei valori della tradizione. Da questo punto di vista il pensiero pedagogico di J.J. Rousseau (1712-1778) è una vera rivoluzione. Nell'Emilio (1762) egli propone addirittura l'immagine della giovinezza come epoca tutt'altro che imperfetta, ma potenzialmente migliore e più nobile, perché più vicina alla 'Natura', dunque meno contaminata dalla corruzione della civiltà e dai compromessi cui è costretto l'adulto. Il filosofo arriva così a proporre un piano educativo 'passivo', in cui l'intervento dell'educatore non sia mai correttivo, ma accompagni e sviluppi le naturali tendenze (positive) dell'individuo. Ma non va dimentica la figura, di qualche anno precedente, del protagonista del Tom Jones (1749) di Henry Fielding (1707-1754): dove la gioventù si identifica nella scanzonata e picaresca avventura, che travolge le ipocrisie e le placide certezze dei benpensanti.

Una vera esaltazione della giovinezza come forza innovatrice, energia capace di ogni eroismo e della più assoluta libertà di pensiero, attraversa gli scritti dello Sturm und Drang e del giovane Goethe (negli anni Settanta del Settecento). La figura positiva del giovane condivide del resto quella ricerca di novità e l'ideale di una letteratura più libera e immediata che caratterizza le poetiche preromantiche.

Gli eventi traumatici della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche accelerano il processo. I protagonisti di quegli eventi che sconvolsero il mondo erano giovani o giovanissimi (si pensi ai poco più che ventenni generali di Napoleone, 'anziano' Primo console a 27 anni!). Ma soprattutto, in un'epoca in cui ogni valore consolidato crollava, un re saliva sulla ghigliottina e persino i mesi cambiavano nome, la maturità non solo cessava di apparire un privilegio, ma addirittura un intralcio. Non l'anziano, legato a un mondo defunto o putrescente, sembrava offrire risposte alle sfide dei tempi nuovi, ma il giovane, con la naturale audacia d'azione e di pensiero proprie della sua età.

I Giacobini avevano sognato del resto la nascita di un uomo 'nuovo' o profondamente 'rinnovato': un ideale che guardava in primo luogo ai giovani (capaci di un entusiasmo sconosciuto alla cautela degli adulti) e alle generazione future: le cui coscienze ancora 'pure' potevano essere plasmate e formate ai nuovi ideali dell'eguaglianza e del sacrificio per l'interesse collettivo.

 

Tra interiorità e esterno: la giovinezza come costruzione dell' Io

 

Negli anni che stiamo considerando acquista gradualmente importanza l'immagine della giovinezza come epoca attraverso la quale l'individuo arriva a definire il proprio Io. La giovinezza acquista così le caratteristiche di un'epoca difficile e costellata di crisi, durante la quale si delinea faticosamente (spesso con lacerazioni destinate a lasciare cicatrici indelebili) la personalità dell'individuo. È ancora il caso di ricordare J.J. Rousseau, più che per le riflessioni teorico-pedagogiche dell' Emilio, per le Confessioni, grande modello dell'introspezione interiore moderna.

Questa valorizzazione della dimensione psicologica, dinamica e 'costruttiva' della giovinezza (lungo questa linea si collocherà, tra Otto e Novecento, la psicanalisi freudiana) nasce da molteplici fattori. Tra gli antecedenti remoti va individuata la grande tradizione religiosa protestante (soprattutto calvinista e pietista) dell'esame interiore. Ma questa nuova concezione della giovinezza non sarebbe pensabile senza quella progressiva liberazione dell'individuo dal controllo della famiglia o del gruppo sociale di origine che caratterizza fin dalle sue origini l'età moderna. Il grandioso sviluppo, nel corso del Settecento, delle attività economiche (artigianali, commerciali, e industriali) e della circolazione di uomini e merci, rende sempre più labili i legami tra l'individuo e il gruppo di origine (famiglia; chiesa; corporazione). All'indebolimento dell'identità di gruppo, corrisponde l'affermarsi di un'identità individuale: ma questo implica appunto per il singolo un più tortuoso e difficile percorso di formazione della propria identità.

In altri termini. Nella società precapitalistica dell'Ancien Régime la giovinezza approda a qualcosa di prefissato e predefinito: i modelli di comportamento e il ruolo che l'individuo avrà nella società sono in larga parte definiti in partenza. Nella nuova Europa della rivoluzione industriale e dei convulsi mutamenti politici, il giovane è chiamato a costruire attivamente il posto che occuperà nella società, senza peraltro poter prevedere come sarà la società nella quale, da adulto, vivrà.

Il romanzo di formazione

A questo complesso di motivi si richiama lo sviluppo di un vero e proprio sottogenere narrativo, a partire dai primi anni dell'Ottocento: il cosiddetto 'romanzo di formazione' o Bildungsroman (termine tedesco che significa appunto 'romanzo di formazione', e che spesso viene impiegato in ragione del fatto che proprio in Germania il genere ebbe inizio).

Il Bildungsroman è un romanzo che racconta le vicende di un giovane, la sua progressiva maturazione e inserimento nel mondo. Un percorso di formazione che può condurre ad esiti molto diversi: il felice superamento della giovinezza, come epoca dell'incertezza e del possibile traviamento (come avviene generalmente nei romanzi inglesi: valga l'esempio di David Copperfield di C. Dickens); la conquista di una maturità consapevole ed equilibrata, in cui l'individuo ha saputo armonizzare le aspirazioni della giovinezza con i valori dominanti nella società (è il modello degli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, l'opera che può essere considerata l'inizio del genere del Bildunsgroman); l'adattamento forzato alle 'regole' vigenti nella società, senza però la rinuncia completa alle illusioni e ai sogni della giovinezza (è la condizione tipica degli insofferenti e perennemente insoddisfatti eroi di Stendhal). Talora la formazione del giovane comporta il pieno adeguamento, non senza cinismo, ai valori dominanti, siano essi quelli più superficiali e competitivi del successo fine a se stesso, fino alla completa rinuncia agli ideali che hanno nutrito la sua giovinezza (l'esempio più cospicuo è costituito dal secondo romanzo del ciclo Le illusioni perdute di Balzac).

Alla base del romanzo di formazione c'è dunque una tensione tra le esigenze dell'autodeterminazione (il desiderio dell'individuo di affermare in libertà una propria personalità individuale) e quelle della socializzazione (la necessità di adeguarsi alle norme vigenti, ai valori in cui la società riconosce la 'normalità'). Gli anni di formazione - la giovinezza - contrassegnano appunto l'oscillazione tra questi due poli come continuo dinamismo.

Ma dinamismo, mutamento, instabilità, sono appunto le caratteristiche della società capitalistica e borghese, nata dalla Rivoluzione francese. È un nuovo mondo, interessato alla giovinezza non solo come alla stagione difficile in cui l'individuo esplora il mondo per costruire se stesso; ma che vede nella giovinezza quasi l'espressione «simbolica» della modernità stessa (la definizione è di un grande storico della filosofia, Ernst Cassirer). La giovinezza, in quanto epoca dell'incertezza, delle indeterminate e infinite possibilità, appare come il simbolo della condizione stessa dell'uomo nella società industriale-capitalistica: un uomo chiamato a misurarsi costantemente con la mobilità e l'incertezza del costante cambiamento del panorama sociale e culturale.

 

'Generazioni' e conflitti generazionali

 

È stato detto che è soltanto con la Rivoluzione francese che nasce il concetto di 'generazione'. Vediamo meglio in che senso questa affermazione va interpretata.

La straordinaria accelerazione della storia che caratterizza gli anni tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento ha fatto sì che i contemporanei assistessero, nel giro di pochi anni, a radicali cambiamenti della realtà politica, sociale e culturale. In riferimento ad esempio alla situazione francese, si pensi alla sfiducia che caratterizza gli anni precedenti la grande rivoluzione; l'esperienza atroce del Terrore; quella difficile ma nel contempo esaltante delle guerre rivoluzionarie, durante il Direttorio e il consolato (1795-1799); la stagione gloriosa e tremenda dell'Impero napoleonico; il clima plumbeo e occhiuto della Restaurazione; il trionfo di una borghesia affaristica e ipocrita che segna gli anni della monarchia orleanista (dopo il 1830). Ne derivava la consapevolezza che nascere anche a pochi anni di distanza significava trascorrere gli anni significativi della propria formazione ed esperienza in realtà diversissime. Come dire: bastava 'sbagliare' di poco tempo la propria nascita per arrivare troppo presto o troppo tardi ad appuntamenti con la storia che avrebbero cambiato in maniera radicale il proprio destino .

Il concetto di generazione necessitava di queste oscillazioni a ritmo ravvicinato della storia. In un mondo che muta con lentezza (salvo improvvise e sporadiche fiammate, non tali da produrre però il senso netto della frattura, dello spalancarsi all'improvviso di orizzonti di vita completamente diversi), la 'generazione' non poteva diventare un criterio storico-sociale evidente. Lo diventerà invece nella Francia della Restaurazione (che non a caso vede la nascita del romanzo realista di Stendhal e di Balzac, attento alle dinamiche concrete della società, al milieu, cioè all'ambente storico-sociale in cui vivono i personaggi), assumendo in genere in letteratura la forma della generazione arrivata troppo tardi: la generazione dei nipoti e dei figli di quanti, tra Rivoluzione e guerre napoleoniche, avevano vissuto una giovinezza esaltante, tra sogni di gloria e grandi ideali, orami tramontati.

Alla scoperta della 'generazione' si lega l'idea di 'conflitto generazionale' e della 'rivolta contro il padre', cioè la critica al potere esercitato dai padri e il sospetto dei padri nei confronti dei figli, che accompagna tutta la storia dell'Ottocento. Ai giovani sono associate le molte vicende rivoluzionarie che hanno segnato il secolo XIX, dal Risorgimento italiano (non a caso «Giovine Italia» e «Giovine Europa» chiamò Mazzini le sue organizzazioni), alle rivoluzioni del 1830 e del 1848. Si impone nel corso del secolo l'immagine del giovane ribelle e contestatario, che rifiuta il sistema (di potere economico e politico) costruito e conservato dai padri (un'immagine che risulta del resto persistente fino ai nostri giorni).

 

Sezione antologica

 

A. La giovinezza come espressione di valori positivi

Nel corso del Settecento assistiamo a una forte valorizzazione della giovinezza come stagione privilegiata, contrassegnata da caratteristiche e valori non più sentiti come imperfetti, ma visti come l'espressione positiva di un'energia creativa e rigeneratrice.

La figura del giovane diventa così un fattore ricorrente nelle poetiche preromantiche, che propongono la ricerca di nuove e più libere forme espressive, esaltano il sentimento, la passione, il dispiegamento delle forze anche oscure e buie dell'interiorità. Caratteristiche e comportamenti propri della giovinezza, come l'istintività e l'energia anche violenta, vengono sostituiti ai valori positivi tradizionalmente associati alla maturità e alla vecchiaia, come il dominio delle passioni, la moderazione, un rapporto con le cose mediato dal vaglio razionale.

In questa sezione del percorso proponiamo la lettura di testi di grandi autori del preromanticismo europeo.

A. 1 Alfieri. Il conflitto padre/figlio: il Filippo

La tragedia Filippo di Alfieri (ideata e scritta tra il 1775 e il 1776, dunque tra le prime dello scrittore astigiano), propone in termini intensi e violenti un conflitto tra un padre (il re di Spagna Filippo II) e il un figlio (don Carlos, primogenito del re ed erede al trono, che nella tragedia alfieriana viene semplicemente chiamato «Carlo»).

La vicenda portata sulla scena da Alfieri fu una delle storie più amate dal Romanticismo, verrà infatti ripresa da Schiller (Don Carlos, del 1787), e da Giuseppe Verdi (Don Carlos, con libretto di Ghislanzoni, ispirato a Schiller, musicato nel 1884).

La vicenda del Filippo è ispirata a una vera e propria leggenda storica, secondo la quale sarebbe stato lo stesso re Filippo II a imprigionare e far morire il figlio Don Carlos, con l'accusa di tradimento (spinto dall'ambizione avrebbe preso contatto con gli abitanti dei Paesi Bassi, che si erano ribellati alla corona di Spagna). In realtà il principe di Spagna, nato nel 1545, cagionevole di salute e di aspetto quasi deforme (la leggenda lo trasforma in un giovane bello e sensibile), morì di malattia poco più che ventenne.

La trama della tragedia alfieriana - Il principe di Spagna don Carlos è innamorato di Isabella di Francia, che gli era stata promessa in matrimonio, ma che alla fine è andata sposa al re Filippo, padre di Don Carlos e da molti anni vedovo. Isabella è anch'essa innamorata di Don Carlos, ma il senso del dovere la costringe a reprimere ogni sentimento (atto I).

Filippo sospetta sia che Isabella ami il figlio, sia che il figlio abbia rapporti segreti con i ribelli di Fiandra. In un dialogo teso il padre accusa il figlio, che si difende e giustifica il proprio operato (atto II).

Filippo denuncia ai suoi consiglieri di aver subito un attentato e di aver riconosciuto nell'attentatore il figlio (atto III), che viene fatto arrestare e condannato a morte per tradimento (atto IV).

Isabella, che vuole tentare di convincere Filippo dell'innocenza del figlio, riesce a introdursi nel carcere dove è tenuto prigioniero Carlo. Qui la donna si confronta con Filippo, che la accusa di averlo tradito per amore di Carlo. Isabella allora afferma con orgoglio di essere innamorata di Carlo e di preferire la morte all'idea di vivere accanto al marito. Si trafigge così con un pugnale, morendo accanto al cadavere ancora caldo di Carlo.

A Filippo II, truce e sinistra figura di tiranno, Alfieri contrappone la nobile e generosa figura di Carlo. La negatività del padre consiste nella doppiezza, nel ricorso al tradimento, in una concezione perversa del potere assoluto. Con questi valori negativi contrastano l'assenza di cinismo del figlio, il suo agire estraneo alla corruzione e al comportamento fondato sull'inganno e la simulazione che vige nella corte. In lui si condensano le qualità positive del giovane non ancora corrotto, ancora capace di infiammarsi per degli ideali: è l'uomo che la giovane età ha finora preservato dalla logica perversa del potere.

Leggiamo una parte (vv. 198-265) della scena quarta del secondo atto, in cui compare il primo diretto contrasto tra Filippo e Don Carlos. Filippo ha accusato il figlio di non provare amore né per il padre né per la patria.

La dinamica del contrasto - Nella scena di cui proponiamo la lettura trova espressione chiarissima quella logica del netto contrasto tra due antagonisti sulla quale si regge la gran parte delle tragedie alfieriane. Alla volontà assoluta di dominio e di potenza che anima l'agire di Filippo è contrapposta l'aspirazione alla libertà di Carlo, altrettanto assoluta e incapace di soluzioni compromissorie.

Su questo contrasto si fonda la struttura dell'intera tragedia. In essa ha un ruolo rilevante il tema politico: l'assolutismo cinico di Filippo è vanamente contrastato dalla concezione di Carlo del potere, fondata sul principio del consenso dei sudditi e sul rispetto delle libertà e autonomie (nella fattispecie quelle delle Fiandre, soggette alla corona di Spagna, ma prossime alla ribellione). Ma il tema politico acquista significative valenze esistenziali: nell'agire implacabile di Filippo contro il figlio opera un impasto di sospetto, odio e gelosia. Il contrasto tra padre e figlio si fonda infatti sulle pulsioni oscure del profondo: tra invidia della giovinezza, rifiuto della legge biologica della decadenza fisica e libido sessuale (Filippo ha sposato Isabella, promessa sposa al figlio).

Da questo punto di vista il Filippo propone alcuni dei temi più caratteristici del 'preromanticismo' alfieriano: il suo interesse cioè per anime 'grandi' (nel bene o nel male), attraversate da sentimenti travolgenti o irretiti nelle contraddittorie perplessità dei labirinti della psiche.

La tipologia del 'giovane' - Va notato come in questo brano le accuse che Filippo muove al figlio vertano proprio sulla sua 'giovinezza'. L'assenza di «senno», la sventatezza e la sicurezza di sé, che sono i naturali difetti dell'età giovanile, sono da Carlo protratti ben oltre il tempo consentito. Egli tarda, in sostanza, ad assumere quegli atteggiamenti e comportamenti doverosi a un sovrano.

Ma Carlo non è un giovane immaturo o incapace di assumere responsabilità gravi: Filippo lo incolpa anzi di eccessiva intraprendenza e audacia. Nella 'giovinezza' Filippo condensa un insieme di fattori che - per la sua concezione del potere - non possono che essere negativi. La generosità ideale di Carlo (segno inequivocabile della sua giovane età) è, agli occhi del cupo e cauto Filippo, un male imperdonabile. È significativo del resto che il padre accusi il figlio di adoperare parole dalle quali traspare «nobil fierezza» (cf. vv. 254ss.): il suo essere giovane coincide in realtà con uno slancio nobile e vitale che la concezione di Filippo del potere tirannico, fondato su una feroce e impietosa repressione di ogni anelito di libertà, non può non trovare pericolosa.

Tra 'giovinezza' e la logica del potere assoluto, gestito dalla 'ragion di stato', di Filippo II si stabilisce dunque un conflitto insanabile; mentre è alla giovinezza che è assegnata una visione della politica nobilmente eroica, capace di uscire dalle logiche plumbee e ossessive in cui è imprigionato il tiranno.

A. 2 Goethe. Il binomio natura/giovinezza

Nel romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774), scritto da un Goethe poco più che ventenne, negli anni in cui era legato al clima tedesco dello Sturm und Drang, il tema della giovinezza del protagonista è proposta fin dal titolo. La condizione di 'giovane' che contrassegna infatti Werther non costituisce una circostanza puramente fattuale, ma designa una complessiva condizione esistenziale e sociale.

L''essere giovane' di Werther è infatti una condizione imprescindibile della sua individualità. Alla giovinezza del protagonista rinviano la sua vitalità immediata; l'insofferenza per il cauto benpensantismo degli uomini maturi, che egli incontra nel suo cammino, uomini perfettamente integrati in un sistema politico-sociale che Werther trova insopportabile e soffocante. Ma è segno inequivocabile della sua giovinezza anche l'atteggiamento entusiastico e appassionato verso ogni aspetto della vita (dalla natura, all'arte, all' amore).

La giovinezza di Werther diventa perciò metafora di un ideale di vita più libero e sincero; all'interno di un'aspirazione complessiva al rinnovamento, che riguarda non solo il mondo degli affetti del protagonista, ma anche la realtà sociale in cui vive, e anche le sue concezioni estetiche.

Nel romanzo l'amore occupa un posto di primo piano (ed è l'amore disinteressato e appassionato; il totale abbandono ai sentimenti e alla passione che caratterizza tanta parte della sensibilità tardosettecentesca); ma in esso c'è anche l'insofferenza del giovane di talento costretto a scalpitare impaziente all'interno di un ordine sociale dominato dalle generazioni più mature, che produce un quadro fortemente critico nei confronti della società tedesca del secondo Settecento, immobile e fondata sul privilegio di classe.

Riproduciamo un passo tratto dalla prima parte del romanzo (lettera del 26 maggio 1771), nella traduzione di A. Spaini (cf. W. Goethe, Opere, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 63-64).

Nella sua lettera Werther racconta all'amico Guglielmo (destinatario delle sue lettere) di aver trovato un villaggio ameno nel quale, appena ha qualche ora libera, ama andare a cercare un po' di quiete.

Lo spunto da cui prende avvio il brano appena letto riguarda una considerazione di natura estetica. Werther espone un piccolo manifesto di poetica (in linea del resto con le concezioni artistiche dello Sturm und Drang): egli fa proprio il proposito di attenersi ad una rappresentazione diretta della natura. La cosa in sé può voler dire tutto e niente: nel contesto della temperie preromantica esso indica concretamente l'ideale di un'arte e di una letteratura svincolate da regole e convenzioni della tradizione; nonché il proposito di un'apertura verso tematiche anche estreme della psicologia umana (sarà caratteristica degli Stürmer la rappresentazione di stati d'animo esasperati, di passioni o odi divoranti che talora sfiorano le manifestazioni del patologico); o verso quell'esaltazione delle qualità innate, individuali e uniche, comprese nella nozione di 'genio', che tanta parte ha avuto nelle riflessioni estetiche del secondo Settecento. Si delinea insomma il progetto di una poetica che rifiuti i prodotti magari ben fatti, ma irrimediabilmente insinceri, delle norme della tradizione accademica.

Ciò che interessa particolarmente il nostro discorso è il fatto che l'esposizione di tale poetica viene associata all'immagine della giovinezza, attraverso il paragone dell'esperienza amorosa di un «giovane cuore».

Sul piano estetico viene proposta una polarizzazione in cui si colloca da una parte la Natura (= immediatezza, sincerità), dall'altra l'artificio (misura; regola; controllo formale).

A questo piano corrisponde - con una metafora tratta dall'esperienza esistenziale - la polarizzazione giovinezza/maturità. Il primo termine è connotato positivamente come sregolatezza, libertà, immediatezza, sincerità; il secondo invece, che è connotato negativamente (basti dire che il saggio benpensante che conduce il giovane innamorato sulla retta via del buon senso borghese è chiamato «filisteo»), esso condensa in sé l'idea dell'ordine, del buon senso, dell'autocontrollo.

L'immediatezza e la sincerità sono dunque le caratteristiche dell'energia pura e positivamente ingenua del giovane. In lui si condensano quei valori positivi che il buon ordine borghese, con l'irrimediabile ipocrisia dei «placidi signori» che coltivano tulipani e broccoli nei loro orti e giardini, tende immancabilmente a distruggere.

B. Rivoluzione e accelerazione della storia

L'esperienza della Rivoluzione francese, con quanto di traumatico essa comportò per gli uomini che la vissero direttamente o che ne furono i contemporanei spettatori, ebbe un ruolo importantissimo nel mutare in maniera radicale l'immagine del giovane e della giovinezza nella coscienza dell'uomo europeo.

Di fronte al crollo di un sistema di valori e di un modello politico che appariva immutabile ed eterno, si faceva strada l'idea che stesse nascendo un mondo nuovo, una sorta di anno zero della storia, di fronte al quale più che il peso dell'esperienza e della maturità dell'adulto, sembravano preferibili la disponibilità all'avventura, il coraggio, l'istintività del giovane.

L'ideologia giacobina in particolare creò un vero e proprio mito del giovane, metafora efficacissima dell'uomo nuovo, che andava ri-creato o ri-formato nel profondo. Un mito che trovava una piena incarnazione nella figura intransigente fino al fanatismo di Saint-Just (1767-1794), che concluderà ventisettenne sulla ghigliottina la breve carriera politica al fianco dell'amico Robespierre. Il giovane appariva così come il terreno vergine su cui potevano attecchire i principi su cui fondare un'umanità radicalmente rinnovata (l'eguaglianza politica e - nelle forme del giacobinismo estremista - economica; la libertà dell'individuo da ogni forma di sottomissione che non fosse quella alla legge dello stato; una nuova solidarietà collettiva, quella della fratellanza degli individui nella nazione rifondata dalla rivoluzione). Un evento emblematico di questo atteggiamento dei Giacobini è la fondazione, nel 1794, dell'École de Mars (il progetto fallì, pochi mesi dopo, in seguito alla caduta del regime di Robespierre, il 9 Termidoro). La Scuola intendeva formare una nuova generazione di ufficiali e soldati raccogliendo giovanissimi da ogni parte di Francia che, allontanati dalle famiglie, sarebbero stati educati 'alla spartana' ai valori della Rivoluzione. In nessun caso è più evidente come l'idea di 'generazione' venisse associata all'ideale della ri-generazione, della formazione dell'«uomo nuovo».

In questa sezione proponiamo alcuni documenti di carattere più storico che letterario (sia esempi francesi che italiani), nonché alcuni esempi di natura iconografica, che mostrano come anche l'arte (e soprattutto quella delle litografie, destinate a una vasta circolazione propagandistica) proponessero in vari modi il tema della celebrazione della giovinezza. Proponiamo anche la lettura di alcuni passi di un grande scrittore, Stendhal, che attraversò gli anni terribili ed esaltanti delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, conservandone per sempre un ricordo venato di intensa nostalgia, di cui - molti anni dopo quelle esperienze, tra il 1830 e il 1840 - diede conto nei suoi romanzi.

B. 1 L'educazione dell'uomo nuovo: il sogno dei Giacobini

Il motivo della rigenerazione dell'uomo e della nascita dell'uomo nuovo è una presenza costante negli scritti del periodo rivoluzionario, e soprattutto in quelli di orientamento giacobino. È significativo che termini come 'rinascita' e 'rigenerazione' siano ricorrenti in scritti pamphlettistici, in articoli di giornali, in proclami più o meno ufficiali, sia francesi che italiani (per quanto riguarda il lessico rivoluzionario italiano durante il triennio giacobino, 1796-1799, facciamo riferimento al repertorio di E. Leso, Lingua e rivoluzione, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 1991). Ci troviamo di fronte a un evidente processo di secolarizzazione, per cui termini e concetti desunti dall'esperienza mistico-religiosa vengono applicati a contesti storici e laici.

L'ideale dell'uomo nuovo e rigenerato tendeva naturalmente a prediligere il giovane: non corrotto né indurito da antichi valori e pregiudizi, il giovane è materia vergine, da plasmare e da orientare attraverso l'educazione. L'attenzione per l'educazione dei giovani costituisce non casualmente un motivo ricorrente tra gli scritti di ispirazione giacobina. A parte l'esperienza breve dell'École de Mars (cui abbiamo accennato nell'introduzione della sezione), il tema dell'educazione viene riproposto anche in molti scritti italiani, durante il triennio delle repubbliche giacobine, tra il 1796 e il 1799.

Due esempi di Giacobini italiani

B. 1.1. Matteo Galdi: educare gli adulti alla democrazia

Scrivendo nel 1798 il Saggio d'istruzione pubblica rivoluzionaria, Matteo Galdi toccava un punto ricorrente negli scritti dei Giacobini, sia francesi che italiani: la necessità di educare le masse ad essere cittadini, a fare propri gli ideali di eguaglianza e di libertà che animavano le costituzioni rivoluzionarie.

Quanto all'autore, il Galdi (1765-1821), campano, partecipò alla campagna d'Italia al seguito di Napoleone. Pubblicista e funzionario del governo lombardo durante il periodo napoleonico, tornato a Napoli nel 1809 (al tempo del regno di Gioacchino Murat), vi rimase anche dopo la Restaurazione. Negli ultimi mesi di vita partecipò attivamente alla rivoluzione carbonare del 1821.

Si leggano questi due brevi brani tratti dall'Introduzione e dal capitolo 2 del Saggio.

Nelle parole di Galdi viene affermato un principio essenziale dell'ideologia giacobino-rivoluzionaria: non è solo creando una nuova costituzione (sostituire «all'antico il nuovo governo») che si può fondare una società nuova nei suoi principi (in questo caso si cambierebbe il «nome», ma non la «sostanza» del governo). Occorre invece intervenire sulle coscienze stesse. L'opera di intervento - che è paragonata alla ricostruzione dalle fondamenta di un edificio - implica come il fare una tabula rasa di ciò che c'era prima.

È significativo (si veda il secondo brano) che la costruzione di una nuova società venga spiegata con il ricorso all'immagine del «rigenerarsi», che implica appunto l'idea del 'rinascere', del tornare a una condizione precedente a quella dell'educazione ricevuta: in altri termini a ripercorrere la strada educativa fatta dal bambino e dal giovane. L'educazione del giovane non presenta infatti grossi problemi per Galdi: egli non faticherà a fare proprie le istanze e i modi di pensare della rivoluzione: è invece nell'ambito dell'educazione degli adulti (abituati all'ingiustizia, al pregiudizio e alla sottomissione) che il progetto rivoluzionario deve affrontare una vera e propria sfida.

B.1.2 Girolamo Bocalosi: «Gli uomini [...] d'oltra 30 anni non possono diventar più democratici»

Il tema dell'educazione con cui creare i cittadini di domani è al centro di uno scritto del 1797 di Girolamo Bocalosi, intitolato Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano.

L'immagine del giovane come terreno puro ben disposto all'opera educativa delle menti-guida illuminate è espresso nella pagina di cui proponiamo la lettura con estrema chiarezza, pur all'interno della retorica così magniloquente e roboante tipica della pubblicistica giacobina del triennio rivoluzionario.

Scarsissime le notizie in nostro possesso su Bocalosi. Fiorentino, negli anni Ottanta del Settecento visse in Veneto, dove si iscrisse alla Massoneria. Espulso dal territorio veneziano nel 1793, si trasferì a Milano, partecipando alle campagne militari francesi. Al triennio 1797-1799 risalgono i suoi scritti più importanti, oltre a quello sopra ricordato, le Instituzioni democratiche per la rigenerazione del popolo italiano.

Il passo che leggiamo è tratto dal capitolo terzo del libro III, intitolato Necessità d'organizzare immediatamente l'istruzion pubblica nell'Italia libera, e d'innovare del tutto il sistema morale e scientifico delle scuole finora usitato.

La chiamata a raccolta dei Democratici («Italiano, destati!») è affidata - come avviene spesso nei testi giacobini - a una retorica magniloquente, che ama servirsi di immagini e figure tratte dalla cultura classica (Bruto; Sparta; Roma), secondo un gusto tipico del Neoclassicismo rivoluzionario, che abitualmente cerca nel mondo antico esempi alti di repubblicanesimo e attaccamento alla libertà.

Il brano collega strettamente lotta per la libertà ad educazione, come progetto volto al futuro di fondazione di una nuova società di liberi e di eguali. Va notato però il pessimismo (assente nelle parole di Galdi, cf. brano precedente), per cui gli adulti non possono essere recuperati agli ideali democratici: la futura società non può che far leva sulle generazioni dei bambini, non ancora incorrotti dal germe della tirannia e del pregiudizio. Non è difficile per altro cogliere in queste battute l'eco del pensiero di Rousseau, e la tendenza a vedere l'infanzia come uno stato di purezza progressivamente deturpato e inquinato da false opinioni e pregiudizi.

Va notato poi come il grande modello francese (cui naturalmente i Giacobini italiani guardavano) viene qui segnalato proprio per la scelta coraggiosa di istituire una cultura rinnovata alle radici, di affermare una sorta di 'anno zero' della storia dell'uomo; una rottura marcata persino dal nuovo computo e dal mutato nome dei mesi dell'anno.

B. 2 Giovani eroi senza padri: immagini della Rivoluzione

L'immagine del padre rievoca l'idea stessa di tradizione, di rispetto dell'ordine costituito e dell'autorità che di tale ordine è garante. L'esaltazione di una nuova epoca nascente, rifondata sulla base di nuovi valori, fortemente critici nei confronti della tradizione (un'epoca dunque portata a celebrare il Giovane e la Gioventù come fattori di per se stessi positivi) comportò il rifiuto delle immagini che proponevano dei modelli di autorità patriarcale.

Indichiamo qui alcune immagini dell'epoca della Rivoluzione. In esse accanto agli eroi della rivoluzione appaiono non già figure paterne, ma figure femminili (in genere allegorie di ispirazione classica, rappresentanti la Patria, o valori morali e politici quali l'Eguaglianza o la Libertà).

Le prime immagini (figg. 1-2) che proponiamo appartengono ai primi mesi del 1793, dunque sono comprese tra l'esecuzione di Luigi XVI (gennaio 1793) e il colpo di stato di giugno, quando prese il potere l'ala estremista della rivoluzione, quella giacobina (la cosiddetta 'Montagna'), rappresentata da uomini come Marat, Danton, Robespierre e Saint-Just. Un secondo gruppo di immagini (figg. 3-4) appartengono invece al periodo giacobino e al Terrore (giugno 1793-luglio 1794).

Le immagini scelte sono in genere incisioni e stampe, che testimoniano la fioritura, durante i mesi della Rivoluzione, di una vivacissima attività propagandistica a mezzo stampa: volantini, pamphlet, pubblicazioni celebrative o satiriche circolavano ampiamente nella Parigi del tempo, costituendo un patrimonio iconografico sterminato.

[Le immagini sono tratte da M. Vovelle, La Rivoluzione francese: un racconto per immagini, 1789-1799, Roma, Editori Riuniti, 1988-89. Le immagini 1 e 2 sono tratte dal vol. III (rispettivamente alle pp. 216 e 220). Le immagini 3 e 4 sono tratte dal vol. IV (rispettivamente dalle pp. 240 e 139)].

B.2.1. Le divinità femminili della Rivoluzione (figg. 1 e 2)

La Rivoluzione francese è stata molto prolifica di simboli, dalla coccarda tricolore (apparsa fin dal 1789) al berretto frigio (di poco successivo), fino al proliferare di figure allegoriche rappresentative di ideali politico-civili. È soprattutto tra il 1792 e il 1793 che cominciano ad apparire sempre più numerose in stampe, volantini o medaglie, le raffigurazioni delle nuove divinità dell'Olimpo laico della Rivoluzione: Patria, Repubblica, Giustizia, Libertà, appaiono raffigurate come donne avvolte nei panneggi tipici del gusto neoclassico (che fu lo stile artistico dominante sia durante la Rivoluzione che negli anni dell'Impero napoleonico).

I mesi tra la fine del 1792 e l'inizio del 1793 furono un periodo cruciale per la Rivoluzione. La fine della monarchia (10 agosto 1792) e la prigionia, il processo e l'esecuzione di Luigi XVI (gennaio 1793), furono eventi quanto mai delicati anche sul piano della propaganda e della ricerca del consenso da parte delle ali estremiste rivoluzionarie, che premevano per una condanna a morte del re. È significativo che in questo contesto l'iconografia rivoluzionaria si popoli di donne e di giovani eroi. Le nuove generazioni - alle quale è affidato il compito di salvare la Rivoluzione - hanno al loro fianco non già i padri, ma le divinità-madri (la Repubblica; la Patria ecc.) alle quali offrire in dono il sacrificio della loro vita.

La figura del padre tende a scomparire dalla scena; e con essa ciò che essa rappresenta: la Tradizione; il rispetto del'ordine costituito; la continuità. Tutti quei valori, insomma, non a caso incarnati dal re stesso (buon Padre del popolo francese, secondo un'immagine ricorrente ancora nei primi mesi della Rivoluzione).

1. Nella prima immagine («Trionfo della Repubblica francese». Incisione anonima. Vizille, Museo della Rivoluzione francese), accanto all'allegoria della Repubblica, compare la figura di un suo giovane sostenitore (la Repubblica gli si appoggia sulla spalla). Il giovane non indossa la divisa del soldato, ma il tocco guerriero è affidato alla presenza della spada alla cui elsa egli appoggia la mano sinistra (evidentemente dopo lo scontro vittorioso contro i nemici della Repubblica che giacciono a terra: tra essi è riconoscibile la Speculazione e l'Aristocrazia).

2. Interamente popolata di giovani (guerrieri o futuri guerrieri) e di donne (madri) è la figura n°2 («La dedizione alla patria». Incisione di Talamona. Parigi. Museé Carnevalet). Al giovane eroe che sulla destra si avvia alla battaglia (regge nelle mani l'arma) fa da riscontro, in perfetta simmetria, il bambino (il futuro guerriero e sostenitore della Patria rivoluzionaria) offerto in dono dalla madre alla divinità laica (la Patria guerriera che asside in trono). È da notare come l'unica figura di uomo non giovane che appare nella stampa è quella di un anziano infermo (si appoggia a un lungo bastone): egli non è il depositario dell'autorità e del potere, tra lui e il giovane guerriero che si avvia alla battaglia non è inoltre stabilito un contatto diretto (che avrebbe rappresentato come un passaggio delle consegne, nel compito 'maschile' per eccellenza della difesa della comunità, tra la generazione dei padri e quella dei figli).

B.2.2 La rigenerazione giacobina

Le immagini che seguono appartengono al periodo giacobino della Rivoluzione (giugno 1793-luglio 1794). Nella prima viene celebrata la vittoria dell'ala estremista cosiddetta della 'Montagna' (poiché nel parlamento rivoluzionario sedevano nei banchi posti più in alto).

La seconda immagine è invece ispirata ai grandi festeggiamenti avvenuti a Parigi il 10 agosto 1793, per celebrare l'anniversario della nascita della Repubblica. La festa del 10 agosto - che ebbe come architetto e ideatore uno dei maggiori artisti del tempo, il pittore David - comprendeva un complesso cerimoniale che doveva toccare i luoghi cittadini che erano stati teatro dei momenti culminanti della Rivoluzione. Prima tappa di questa vera e propria processione laica era il luogo su cui era sorta la Bastiglia, dove era stata allestita una grande statua di foggia egiziana (rappresentante la Rigenerazione), dai cui seni sgorgavano due zampilli d'acqua.


C'è qualcosa che accomuna le due immagini («Il trionfo della Montagna». Acquerello di Béricourt. Parigi. Bibl. Naz., «Fontana della Rigenerazione eretta sulle rovine della Bastiglia». Incisione anonima. Parigi. Bibl. Naz.), pur nella diversità evidente della destinazione (infatti la prima è pura propaganda di partito; la seconda ha invece il carattere ufficiale delle celebrazioni per il primo anniversario della Repubblica, che volevano proporsi come festa unitaria della nazione, nel superamento delle divergenze e delle tensioni interne al fronte rivoluzionario). Elemento comune alle due immagini è l'idea di un mondo nuovo costruito dalle nuove generazioni rivoluzionarie.

Nella prima figura i simboli dell'Ancien Régime schiacciati dal furore rivoluzionario sono immancabilmente dei vecchi decrepiti, abbattuti dall' esuberanza di Ercole.

Ercole rappresenta il popolo francese. Un simbolo facilmente riconoscibile per i contemporanei: tra il 1793 e il 1794 sono infatti frequenti le raffigurazioni del Popolo nelle fattezze del semidio della mitologia greca. Ercole è per altro simbolo che ci riconduce al mito della giovinezza: è figura dell'eroe violento e guerriero, che opera con la forza istintiva e immediata, per affermare una volontà che rifugge i compromessi del sotterfugio e della cautela.

La seconda immagine ha un carattere documentario e descrittivo. Racconta un momento delle celebrazioni del primo anniversario della Repubblica: raffigura l'allora presidente della Convenzione (Hérault de Séchelles) che riempie la coppa con l'acqua che sgorga dai seni della divinità della Rigenerazione.

Quanto al significato simbolico della fontana della Rigenerazione, esso è fin troppo trasparente. Significativamente applicato al luogo-simbolo dell'inizio della Rivoluzione (la presa della Bastiglia), esso attribuisce alla Rivoluzione la creazione di un uomo nuovo, 'rigenerato' appunto. Le fattezze della divinità sono per altro vagamente egiziane: a marcare il ritorno alle origini stesse della civilizzazione, come se si trattasse di ricominciare, da parte dell'umanità, un nuovo cammino.

Non sarà infine inutile notare come anche in questo caso il cerimoniale della festa rivoluzionaria mutui simboli desunti dalla tradizione religiosa: all'acqua rigeneratrice del battesimo cristiano si sostituisce un gesto ispirato formalmente ai riti pagani della purificazione.

B. 3 Stendhal: istinto, gioventù, avventura.

Lo scrittore francese Henri Beyle, pseudonimo Stendhal (1783-1842), sceglie come protagonisti dei suoi romanzi giovani inquieti e istintivi, portati ad agire, e spesso a sbagliare pagando caro i propri errori, in maniera impulsiva, sull'onda di desideri immediati.

Stendhal scrive i suoi capolavori negli anni plumbei della Restaurazione (Il rosso e il nero è del 1830; La Certosa di Parma è del 1839), criticandone il conformismo sociale e politico, la prevalenza dei valori borghesi del profitto e dell'interesse. Ad essi Stendhal contrappone gli anni tra la Rivoluzione e la caduta di Napoleone, che egli mitizza come caratterizzati da spirito d'avventura, da una concezione eroica della vita; anni che offrivano ai giovani che si affacciavano allora alla vita grandi possibilità di successo, che sembravano aprirsi come un'immensa prateria in cui poteva esprimersi libero il talento e il coraggio individuale. Libertà, intraprendenza, coraggio ed eroismo sono le qualità inestricabilmente connesse alla gioventù che - nell'immagine nostalgica rievocata da Stendhal - caratterizzarono agli occhi dello scrittore l'immagine di quel periodo.

La pagina di apertura della Certosa di Parma testimonia la mitizzazione degli anni delle guerre rivoluzionarie, al tempo del nascente astro napoleonico. Stendhal rievoca l'entrata in Milano delle truppe francesi nel 1796, guidate da un giovanissimo generale... [LINK 5 / Stendhal]

Nel passo il motivo della gioventù dei soldati francesi e dei suoi generali (Napoleone, il più anziano di tutti, aveva 27 anni!) ricorre ripetutamente.

Non mancano riferimenti concreti alla realtà politica ed economica della Lombardia. Basti pensare all'accenno al privilegio commerciale dell'Arciduca, che condensa emblematicamente l'insieme di imposizioni e limitazioni che strozzavano il libero sviluppo commerciale e industriale del paese (e che risultò uno dei fattori decisivi nell'orientare l'opinione pubblica lombarda in senso antiaustriaco e indipendentista).

Quelle armate recano in Italia gli ideali della Rivoluzione francese (che Stendhal vede come diretta eredità del libero pensiero degli Illuministi) spazzando via una secolare abitudine all'acquiescenza e all'obbedienza cieca. Tuttavia l'importanza politica di quegli eventi è posta da Stendhal in secondo piano: prevale piuttosto l'evidenza quasi corporea e carnale di un clima che appare profondamente rinnovato. Prima che libertà e diritti politici, entrano in Italia la vitalità istintiva, la passione, un senso pervasivo di gioia.

La giovinezza di quei soldati ed ufficiali con le pezze nel sedere introducono una sorta di splendida vitalità. In essa ha posto una contagiosa voglia di divertirsi, di abbandonarsi ai piaceri dell'amore, alla gioia pura del corpo (si vedano le immagini in chiusura del brano, con i soldati che danzano davanti alle cascine i balli popolari che le contadine insegnano loro: dove l'immediata e allegra corporeità della 'monferrina' e del 'galoppo', danze popolari, è contrapposta alle compassate e fredde geometrie della 'contraddanza').

La giovinezza dei soldati francesi diviene nel passo stendhaliano il corrispettivo concreto di un mondo nuovo di valori da secoli sconosciuti all'Italia. I valori pubblici dell'eroismo civile e militare, dell'amor di patria (fino a rischiare la vita per l'ideale della libertà) si annodano così strettamente a una vita individualmente improntata alla passione e alla gioia, alla libera espansione di sé e alla realizzazione dei propri desideri.

La giovinezza diventa così il segno di un'epoca pericolosa ma esaltante per chi l'aveva vissuta, una stagione luminosa e splendente che Stendhal contrappone agli anni della restaurazione, che a quella sono seguiti, sostituendone la luce con il grigiore della cautela e del buonsenso.

C. L'apprendistato alla vita (il romanzo di formazione)

Non possiamo naturalmente proporre in questa sede un'esemplificazione significativa del romanzo di formazione, sottogenere narrativo che ha avuto enorme fortuna nella prima metà dell'Ottocento, e che comprende alcuni dei massimi capolavori della narrativa occidentale: basti pensare agli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe; ai romanzi di Stendhal (Il rosso e il nero e La certosa di Parma); ad Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen; a David Copperfield di Dickens; all'Educazione sentimentale di G. Flaubert. Non va inoltre dimenticato come il 'romanzo di formazione' — al di là della presenza di alcuni elementi comuni che ci possono far parlare di un 'sottogenere' ben determinabile — presenta concezioni e forme anche molto diversificate, sia a livello geografico (il romanzo di formazione inglese è ad esempio molto diverso da quello francese), sia soprattutto per quanto riguarda i singoli autori.
Più che semplice resoconto dei processi di formazione del giovane, lungo il percorso che lo conduce alla maturità, il romanzo di formazione affronta il tema del rapporto problematico e conflittuale tra libertà individuale e costrizione sociale, tra gli ideali della giovinezza e le condizioni oggettive che caratterizzano la realtà politica e sociale.
Ma, come si diceva, all'interno di queste linee generali, le differenze tra aree geografiche e autori sono molto marcate. Nel romanzo di formazione di area inglese (Dickens; Jane Austen), la giovinezza appare soprattutto come un'epoca di imperfezione, sottoposta al pericolo dell'errore e del traviamento. Ma anche in un romanzo come Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (che, uscito nel 1797, è il capostipite del genere), il percorso di formazione del protagonista comporta il sacrificio a parti significative della sua personalità giovanile, anche se tale processo, non traumatico, consiste più che altro in una progressiva armonizzazione tra le sue aspirazioni (per molti aspetti legate ai valori pre-borghesi e pre-capitalistici della società aristocratica dell'ancien régime) e le 'regole' della società borghese.
Diversamente, nel romanzo francese (Stendhal; Balzac; Flaubert) giovinezza e società appaiono piuttosto come termini conflittuali e incomponibili. L'adattamento del giovane alle condizioni e ai valori dominanti della società non può perciò che comportare o una condizione di perenne insoddisfazione (l'inquietudine degli eroi standhaliani) o di frustrazione (l'incapacità di agire e di affrontare la 'maturità' di Frédéric Moreau, il protagonista dell'Educazione sentimentale di Flaubert), o il cinico rifiuto degli ideali giovanili.

C. 1 Balzac, Le illusioni perdute

Il titolo di Le illusioni perdute raccoglie in realtà tre romanzi o racconti lunghi della Commedia umana di Balzac. Il primo romanzo del ciclo, I due poeti, pubblicato nel 1837, racconta la storia di due giovani amici di Angoulême, che sognano la gloria letteraria. Il primo, David Séchard, rileva la tipografia paterna, sobbarcandosi debiti e difficoltà indicibili; mentre il secondo, il poeta Lucien Chardon, trova in una nobildonna locale, la signora di Bargedon, un'innamorata protettrice, che lo spingerà a tentare il grande salto: a trasferirsi a Parigi a cercare la fortuna letteraria inutilmente cercata in provincia. Le vicende di Lucien a Parigi costituiscono il tema del secondo romanzo, il più lungo e complesso, stampato nel 1839 e intitolato Un grand'uomo di provincia a Parigi. Il romanzo è la storia della progressiva disillusione di Lucien: ben presto, stretto dai morsi della fame e dal timore del fallimento, egli abbandonerà ogni sogno di gloria letteraria per cercare nel giornalismo un facile successo e lauti guadagni. Lucien tenta anche la carriera politica, ma la sua parabola risulterà fallimentare: alla fine lascia la capitale per tornare nella natia Angoulême.
In provincia è di nuovo ambientato il terzo romanzo del ciclo (Le sofferenze di un inventore, 1843), che hanno per protagonista David Séchard. A costo di immensi sacrifici David è riuscito a conservare la tipografia; ha inoltre escogitato dopo lunghi studi un sistema innovativo per la fabbricazione della carta, grazie al quale il giovane raggiunge una solida agiatezza.

Riproduciamo una pagina del secondo romanzo del ciclo. Lucien, dopo aver tentato inutilmente di farsi pubblicare un romanzo storico e una raccolta di versi, conosce Lousteau, un giovane brillante che ha cominciato a dedicarsi con successo al giornalismo: da lui provengono alcuni realistici consigli sul mondo dell'editoria.

Disillusione ed esperienza del mondo- L'episodio costituisce un punto di svolta nella vicenda narrata da Balzac. I consigli di Lousteau metteranno definitivamente in crisi le 'illusioni' di gloria nutrite da Lucien, che si deciderà a intraprendere la carriera giornalistica (e più tardi quella politica: secondo una contiguità tra i due «mondi», all'insegna della «corruzione», cui si allude nelle ultime battute del brano).
Quella di Lousteau appare a tutti gli effetti come la traumatica distruzione di ogni illusione presso il giovane Lucien, al quale non resterà che prendere atto del cinismo e dell'ingiustizia che caratterizzano la condizione reale del mercato delle lettere.
La 'verità' della situazione prospettata da Lousteau deriva dalla sua stessa esperienza/disillusione. Il giornalista che appare ai giovani spiantati pieni di belle speranze come Lucien, uno che ce l'ha fatta, uno in qualche modo 'arrivato', trae invece un bilancio impietoso della propria vita. La lacrima che compare sui suoi occhi non è solo dovuta al rimpianto per i sogni miseramente infranti contro la durezza della realtà, ma è prodotta da una condizione quotidiana segnata da una squallida assenza di dignità. Non solo Lousteau appare come un marginale nel mercato della penna ma — a rigore — il suo reddito deriva solo indirettamente dalla sua attività di scrittura (vende i biglietti teatrali che, in quanto recensore, gli vengono regalati; si fa 'pagare' dalle industrie mazzette per parlare bene dei loro prodotti ecc.).

Il mercato- Di contro alla ricerca di una letteratura di nobile sentire e di grandi ideali che nutre il desiderio di gloria di Lucien, si staglia un'attività letteraria dominata dalla legge rigida del mercato: libri di poesia invenduti; romanzi comprati da editori a prezzi stracciati; successi di scrittori mediocri pianificati però dall'editore.
Anche il mondo delle lettere soggiace alla medesima legge del profitto e delle «orribili lotte» che caratterizzano il mondo della produzione. È da notare che Lousteau parla del «meccanismo» che vige come di una legge alla quale non ci si può sottrarre, che si può solo 'prendere o lasciare'. Lousteau dice infatti che Lucien potrà evitare le umiliazioni e i compromessi solo se deciderà di continuare a restare «in platea»: vale a dire rinunciando a svolgere un ruolo attivo e produttivo nel mondo delle lettere.

L'ingranaggio industriale- Entrare in quel mondo implica necessariamente lo 'sporcarsi le mani', l'accettare le regole del gioco. Che quel mondo sia quello di una produzione letteraria che sta diventando velocemente 'industria', investimento capitalistico alla ricerca di un profitto, è sottolineato, nelle parole di Lousteau, dai particolari che illustrano l'immagine del «meccanismo del mondo».
Qui 'meccanismo' non vale solo nel senso di 'verità effettuale', di regole umane e sociali che di fatto operano nella realtà, ma veicola l'immagine della grande macchina industriale, capace di sviluppare una potenza ineluttabile, contro la quale nulla valgono le deboli forze umane («[il meccanismo del mondo] ho dovuto vederlo, picchiare contro tutti gli ingranaggi, battere contro i mozzi, sporcarmi di grasso, sentire il frastuono delle catene e dei volani»).

C. 2 Manzoni: il percorso 'formativo' di Renzo Tramaglino

Non possiamo certo definire i Promessi sposi un romanzo di formazione, ma la vicenda di Renzo presenta diversi punti di contatto con la tipologia del Bildungsroman.
Diversamente dagli altri personaggi dei Promessi sposi, Renzo è in costante movimento. Dai suoi spostamenti deriva una sorta di romanzo nel romanzo, che costituisce certamente la parte più avventurosa delle vicende del capolavoro manzoniano. Lasciato il paese per trovare rifugio in un convento milanese, Renzo rimane coinvolto nei tumulti scoppiati in città il giorno di S.Martino (11 novembre 1628), causati dal malcontento popolare per l'alto prezzo della farina e del pane. Accusato ingiustamente di essere uno dei capi della rivolta e condotto in carcere, riesce però a sfuggire agli sbirri e ad uscire dai confini dello stato (e scampando così all'impiccagione esemplare che toccherà ad alcuni altri malcapitati). Rifugiatosi nel Bergamasco può riprendere il suo mestiere di operaio tessile. Tornato nella Milano dove infuria la peste e trovatavi Lucia, Renzo si sposa e si trasferisce definitivamente nel Bergamasco, dove impianta un suo filatoio.
Tra le altre cose, la vicenda di Renzo mostra dunque un passaggio di status sociale: da operaio a imprenditore tessile. Se il suo viaggiare e conoscere gli uomini (attraverso il forzato abbandono del borgo natio) costituisce una componente non secondaria del suo riscatto sociale, dalle sue esperienze Renzo trae anche un insegnamento di tipo politico e morale: una lezione di moderatismo, che si esprime soprattutto nel sospetto verso le semplificazioni e gli slogans ai quali si abbandonano facilmente le masse. Un atteggiamento, questo, nel quale si può leggere una certa sfiducia di Manzoni verso il popolo, quando esso si propone come soggetto politico autonomo e intraprendente (un atteggiamento che una tradizionale linea critica ha definito come atteggiamento 'paternalistico' di Manzoni verso il popolo).
Quando giunge la prima volta a Milano, Renzo crede ingenuamente nella possibilità di avere giustizia da parte dell'ordine costituito. Di qui una serie di comportamenti imprudenti (arringa la folla per strada; denuncia le ingiustizie dei potenti nei confronti della povera gente: su cui di vd. cap. 15°), tanto che un provocatore della polizia potrà riuscire senza difficoltà a farlo passare come uno dei caporioni della rivolta..
Proponiamo la lettura di due brani.
Il primo — tratto dal cap. 16° — mostra Renzo che, appena sfuggito dalle mani degli sbirri, cerca il modo di uscire da Milano (di cui ignora la topografia).
Il secondo brano è tratto dalla pagina conclusiva del romanzo: contiene il resoconto — che Renzo amava fare agli amici — delle cose che aveva imparato dalla sua pericolosa vicenda. [leggi i testi]

La cautela di Renzo- Nel secondo brano, la saggezza conquistata da Renzo, ormai uomo maturo (e della quale ama fare sfoggio quando racconta le sue vicissitudini) fa esplicito riferimento alle disavventure milanesi. L'esperienza cittadina — che è per il povero e ignorante montanaro la prima uscita dal mondo del borgo originario — acquista nella vicenda personale di Renzo il carattere dell'esperienza altamente formativa, che per così dire condensa in poche ore la conquista di una saggezza sul mondo altrimenti preclusa.
Nel primo brano Manzoni mostra un Renzo profondamente mutato da quello che, solo poche ore prima, si era addormentato in una stanza d'osteria in preda ai fumi del vino. Il montanaro ingenuo che la sera prima uno sbirro aveva da subito adocchiato come capro espiatorio ideale, rivela ora l' immediata conquista di sagacia e circospezione. È come se il mondo infido della città gli si fosse improvvisamente rivelato in tutta la sua crudezza: una scoperta che reca con sé anche l'immediata applicazione di strategie difensive di indubbia efficacia. È il caso appunto dell'istantanea indagine fisiognomica compiuta da Renzo, ormai insospettito da tutto, e fatto cauto perciò persino nello scegliere a chi domandare una banale informazione.
Il secondo brano trasferisce il frutto della 'formazione' di Renzo in un contesto più vasto di conquistata saggezza e maturità di fronte alle aspirazioni che erano state del giovane e ai loro limiti. Il desiderio caldo di giustizia che aveva animato a tratti Renzo offeso (che era giunto ad accarezzare l'idea di una schioppettata alle spalle di Don Rodrigo...), si stempera qui in una morale di corto respiro, tutta fondata sulla cautela, ma sopratutto sfiduciata verso ogni possibilità di perseguire la giustizia sociale attraverso la rivoluzione («ho imparato a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza»).
Quel processo di adattamento e di socializzazione (e spesso di disillusione) che abbiamo indicato come caratteristico del Bildungsroman trova qui un'ulteriore esemplificazione: quello di Renzo è un disincanto sulla realtà e le sue regole, che all'irruenza ingenua ma generosa del giovane di vent'anni ha sostituito in parte la morale angusta di don Abbondio.

Una conclusione 'provvisoria'- Si delinea così una conclusione 'provvisoria' del romanzo, in cui prudenza, intelligenza e sagacia (i valori 'borghesi' di un Renzo, non a caso, assurto allo status di imprenditore) sembrano compendiare l'acquisizione di una plausibile saggezza. In realtà il mondo morale e religioso di Manzoni è troppo complesso e intriso di pessimismo perché l'opera possa chiudersi in maniera così accomodante. La guida di un ragionevole e cauto buonsenso, per quanto efficace, non può garantire contro la violenza e l'assurdità della storia, sempre incombenti sulle vicende degli individui. Spetta infatti a Lucia — nelle battute che chiudono il romanzo — rimettere in discussioni le razionali conquiste di Renzo («Io non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercare me»).
Ne deriva una morale conclusiva (un «sugo», per dirla con l'autore del romanzo) che riconosce comunque i limiti di ogni pretesa di controllo razionale della realtà, trasferendo ad una sfera non più mondana la compiuta realizzazione della giustizia («la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani [i guai]; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce»).

D. Le generazioni di chi arriva 'tardi'

Come abbiamo indicato nell'introduzione generale del percorso, è a partire dalla Rivoluzione francese (alle soglie, dunque, della modernità) che nasce il concetto di 'generazione' nel senso tutt'ora attribuito al termine. 'Generazione' non viene cioè ad indicare semplicemente la successione biologica tra padri e figli, ma designa un concreto orizzonte di esperienze storico-sociali. Dire allora che chi era giovane quando è scoppiata la Rivoluzione francese appartiene a un'altra generazione rispetto a quella di chi si è affacciato all'età adulta al tempo dell'impero napoleonico o della Restaurazione, significa osservare che date di nascita anche di pochi anni distanziate comportano esperienze, condizioni e possibilità di vita spesso radicalmente diverse.
La nascita del concetto di 'generazione' si lega dunque strettamente a quella sensazione di 'accelerazione della storia' che fu uno stato d'animo diffuso degli Europei che vissero a cavallo tra Sette e Ottocento; quando di fronte a cambiamenti politici, sociali e tecnologici di portata fino allora sconosciuta, per la prima volta divenne sensazione comune l'idea che gli individui sono destinati a conoscere, nella maturità, un mondo profondamente mutato rispetto a quello della loro gioventù.
In un contesto storico-sociale dominato dall'idea del cambiamento, ecco che il condividere la stessa epoca della giovinezza (l'essere appunto di una stessa 'generazione') vuol dire avere conosciuto un panorama di idee ed esperienze fortemente connotato. Di qui la tendenza a 'sentirsi' parte di una generazione: riconoscersi cioè componenti di un gruppo caratterizzato da alcuni tratti comuni.

Su questo sfondo diviene per così dire naturale passare al 'noi' (un po' come quel «noi giovani» su cui si appunta l'ironia di Arbasino). È quanto avviene in ambedue i brani proposti in questa sezione. Essi sono accomunati dall'essere scritti da autori che per motivi anagrafici erano troppo giovani per partecipare ad avvenimenti cruciali della storia del loro paese. Di qui un senso di frustrazione e di vuoto che essi esprimono come condizione non individuale, ma condivisa da un'intera generazione di persone arrivate in ritardo all'appuntamento con la storia.

D. 1 La generazione post-napoleonica: Musset, il «figlio del secolo»

Lo scrittore francese romantico Alfred de Musset (1810-1857) pubblica nel 1836 La Confessione di un figlio del secolo. La Confessione è la storia di un triste disincanto: il giovane Octave (protagonista del racconto-confessione, narrato quindi in prima persona) vede infrangersi amaramente le sue illusioni sull'amore romantico e le donne, attraverso le esperienze dolorose di amori infelici, in cui si succedono tradimenti, gelosie talora infondate e soffocanti, crudeltà gratuite. Il racconto è in parte ispirato all'esperienza autobiografica dell'amore che legò tra il 1833 e il 1835 De Musset alla scrittrice George Sand (pseudonimo di Aurore Dupin), la cui vita spregiudicata e i cui tradimenti fecero di quel legame un'esperienza molto dolorosa per l'allora giovanissimo Musset.
Se la Confessione si segnala per la profondità dell'introspezione psicologica, nelle intenzioni dell'autore il libro assurge soprattutto a racconto esemplare di un'intera generazione. Il disincanto, il crollo di ogni ideale e valore morale che caratterizza la vita di Octave, vuole essere cioè la rappresentazione della delusione generazionale dei «figli dell'Impero», nati dai padri che avevano insanguinato i campi d'Europa al seguito di Napoleone. Giovani educati agli ideali della gloria e dell'eroismo, del coraggio e dell'azione, costretti a confrontarsi con l'utilitarismo gretto della società della monarchia di Luigi Filippo (post 1830), dominata da una borghesia affaristica e priva di ideali, egoista e ipocrita.
Gli sbandamenti, le debolezze, le pazzie che caratterizzano il comportamento di Octave assurgono così a emblema della 'malattia del secolo e di malattia morale di un'intera generazione', per richiamarsi a un'immagine (la malattia, la debolezza, la fiacchezza) che ricorre nel libro di Mussset.
Proponiamo la lettura di alcune pagine tratte dal cap. 2° della prima parte della Confessione.

Un comune destino generazionale- L'idea che esista una condizione storica specifica dei 'figli dell'Impero' (i francesi nati al tempo delle guerre napoleoniche) è espressa da Musset con il ricorso a immagini e gesti di forte evidenza, che accomunano in un solo destino un'intera generazione. Sono i giovani che vedono raramente i padri-soldati; che escono in massa dai collegi; che all'improvviso non riconoscono più i loro padri.
Le azioni che compiono acquistano un forte valore simbolico; ma soprattutto sono azioni collettive: ogni singolo gesto descritto è quello che migliaia e migliaia di individui compiono contemporaneamente.

Una generazione confusa- Il trauma generazionale è espresso nei termini della contraddizione e della confusione di ruoli e valori. Agli ideali eroici che hanno educato questi giovani, si è sostituito all'improvviso il desiderio di pace e la spossatezza dei reduci.
Il senso di smarrimento della generazione dei 'figli dell'Impero' (espressa da Musset nel gesto concreto e simbolico nel contempo dei ragazzi che, non riconoscendoli, «chiesero ... dove fossero i loro padri») è il frutto di un raggelante contrasto tra una realtà vuota e fredda, e i processi di mitizzazione (di uomini, valori, comportamenti) che hanno segnato l'educazione militaresca di un'intera generazione.
Il passato immediato (l'età napoleonica) appare infatti soffuso dei colori del mito. Napoleone (e persino Murat) avevano acquistato nell'immaginario infantile dei 'figli dell'Impero' l'invulnerabilità concessa a Dei e semidei, o ai personaggi fiabeschi. Ma un processo di mitizzazione è anche quello operante nell'immagine dei padri: i «petti carichi d'oro»; la fugacità delle loro apparizioni, li rendono — agli occhi dei figli — esseri superiori, perfettamente inseriti in un contesto storico segnato dall'eccezionalità.

D. 2 La generazione postrisorgimentale

Il senso di appartenenza a una generazione delusa, giunta troppo tardi all'appuntamento con la storia, che abbiamo individuato nella Francia postnapoleonica (brano precedente) caratterizza anche l'atteggiamento di molti dei giovani italiani che giunsero a maturità negli anni seguenti all'unificazione del paese.
Il grande progetto risorgimentale che aveva animato gli ideali di due generazioni si chiude nel 1861 (la nascita del Regno d'Italia è ufficialmente proclamata il 17 marzo), lasciando dietro di sé uno strascico di polemiche, insoddisfazioni e problemi nuovi di poco esaltante prosaicità. Insoddisfatti repubblicani e democratici (la vasta area dei mazziniani), di fronte a un'unificazione pilotata dall' 'alto' (dalla corona piemontese, nella figura del suo geniale primo ministro, Cavour), che aveva deluso le attese di una grande rivoluzione nazionale e popolare, aperta anche a istanze di rinnovamento sociale. Deluso, di lì a pochi anni, il fronte democratico-federalista, che assisterà all'imporsi di un modello di stato rigidamente centralizzato. Ma soprattutto l'unificazione del paese rivelerà l'enormità dei problemi da affrontare: l'analfabetismo; le disparirà economiche del paese; la proletarizzazione della masse urbane; la questione meridionale e il brigantaggio. Alla stagione esaltante dell'azione e dell'eroismo seguiva insomma la fatica prosaica delle riforme e della riorganizzazione.
Nel complesso questi fattori favorirono un atteggiamento di delusione, che trovò espressione come male generazionale. Molti giovani letterati negli anni Sessanta tendono a contrapporre alla stagione viva di ideali e di certezze che aveva caratterizzato il Risorgimento, il proprio destino storico, di figli privi di prospettive reali di rinnovamento.
A questo complesso di motivi fa riferimento soprattutto il gruppo di giovani letterati della Scapigliatura, attivi soprattutto a Milano e in Piemonte tra il 1860 e il 1870.
Proponiamo la lettura di una poesia di Emilio Praga (1839-1875) del 1864. Nel raccogliere alcuni dei motivi più caratteristici del movimento protestatario e ribellistico della Scapigliatura, Praga esprime una sorta di insoddisfazione giovanile diffusa (il 'noi' di cui abbiamo parlato all'inizio del percorso: «Siamo i figli ecc.») che lo porta a farsi quasi portavoce di una delusione postrisorgimentale sentita come condizione condivisa da un'intera generazione.
Il senso di smarrimento, di perdita di ogni fede e ideale, la sfiducia in ogni riscatto possibile, trova espressione in una serie di immagini di derivazione sacra (il richiamo biblico all'idolo d'oro distrutto da Mosè; il simbolo cristiano del sudario ecc.). Il richiamo sacro (proposto sul filo della blasfemia), unitamente al ricorso a un lessico espressivo ('annegare nel fango'; 'pallido demone' ecc.) contribuisce a produrre l'impressione di un certo 'maledettismo' un po' provinciale, desunto cioè da modelli stranieri, soprattutto francesi (in primo luogo da Baudelaire, un cui verso è esplicitamente citato nella poesia), caratteristico della Scapigliatura.
Il carattere 'generazionale' della protesta di Praga viene esplicitato in apertura, attraverso un evidente processo di identificazione collettiva («Noi siamo i figli...»), che assegna ai «figli» la condizione di 'gruppo' omogeneo o riconoscibile, in contrapposizione a quello dei «padri».
La poesia è retta sulla contrapposizione polemica nei confronti della generazione precedente, cui sono associati i connotati tipici della figura paterna (maturità, certezze, equilibrata fiducia nel domani). Significativamente il 'padre' coincide con Manzoni, assunto a questo ruolo non solo per ragioni anagrafiche (è il grande scrittore che ha attraversato per intera la stagione risorgimentale), ma soprattutto perché individuato come simbolo di un superiore e irraggiungibile distacco («vegliardo in sante visioni assorto»). L'inquietudine giovanile e insoddisfatta dei «figli» trova così il suo più netto e decisivo idolo polemico nella solida visione del mondo manzoniana — retta su un sofferto ma fiducioso messaggio cristiano. Ad essa i «figli» contrappongono la rabbia desolata di chi trova, sulla scena del mondo, un Cristo morto per la seconda volta («Cristo è rimorto», che ricorda il tema che sarà di Nietzsche e dell'ultimo Ottocento della 'morte di Dio'), ma questa volta senza alcuna speranza di resurrezione.