Carlo Varotti: Un percorso didattico: inferni e mondo contemporaneo

Renzo agli inferi / Curzio Malaparte, La pelle / Dino Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo

Proponiamo un breve percorso dedicato alla rappresentazione 'infernale' del mondo contemporaneo. Non abbiamo l'ambizione di catalogare in maniera sistematica o particolarmente ricca tipologie e forme. Soltanto proponiamo la lettura di alcuni testi corredati di un agile apparato che fornisca indicazioni didattiche concrete.
Abbiamo escluso dalla scelta molti possibili testi di natura filosofica, polemica, teologica o quant'altro. Non ci interessava infatti documentare una storia della rappresentazione dell'inferno tra modernità e contemporaneità, ma proporre alcuni esempi concreti di narrazione, individuando la riutilizzazione di elementi dell'immaginario collettivo per rappresentare eventi o situazioni di grande (spesso traumatico) impatto emotivo sull'osservatore contemporaneo.
Abbiamo perciò limitato il nostro lavoro alla selezione di alcuni testi narrativi, che ci consentono di mettere in rilievo non tanto generiche indicazioni tematiche, ma modalità concrete di costruzione del testo.
In particolare leggeremo alcune pagine (Manzoni; Malaparte; Buzzati) in cui la rappresentazione dell'inferno cristiano - depositatasi nella memoria collettiva attraverso una plurisecolare tradizione folklorica e letteraria - fornisce un paradigma di rappresentazione della realtà. Il paradigma infernale diviene allora il mezzo che rende visibile (e 'dicibile') l'orrore; o una chiave straniante che svela un 'inferno' quotidiano smarritosi nella banalità di una condizione di vita alienata.


Alcuni dati preliminari

Il passaggio dell'inferno da luogo reale della punizione divina a metafora di una certa realtà storico-sociale presuppone la crisi nella credenza dell'inferno. Il trasferimento dell'inferno da realtà oltremondana a rappresentazione di una condizione terrena e storica è uno degli aspetti del processo di secolarizzazione che segna l'età moderna.
La messa in discussione dell'inferno e della sua esistenza è un tratto caratteristico del pensiero dei philosophes illuministi, ma è già presente nei libertini e in un geniale anticipatore del pensiero illuminista come Pierre Bayle (seguiamo alcune indicazioni contenute in G. Minois, Piccola storia dell'Inferno, Il Mulino, Bologna 1995; ed. orig. 1994). A questo proposito si potrebbe utilmente leggere la voce Inferno nel Dizionario filosofico di Voltaire. Il filosofo francese, che contro la tesi leibniziana della terra come "il migliore dei mondi possibili" aveva fatto attraversare al suo Candido più di un 'inferno' mondano (non ultimo quello della Lisbona distrutta dal terremoto: evento che fu uno dei traumi del secolo), nel Dizionario propone una razionale eziologia dell'inferno, trovandone la genesi in quel bisogno umano di giustizia terrena che continuamente l'esperienza storica elude.
Nel corso dell'Ottocento la rappresentazione dell'inferno e delle sue creature diventa un elemento ricorrente in letteraura e in poesia. Quanto meno si crede nell'inferno (quale predicatore penserebbe di dissuadere il male minacciando le fiamme eterne...) tanto più si afferma la tendenza a fare della rappresentazione dell'inferno la condizione stessa dell'uomo: la sua angoscia esistenziale o l'esito necessario del dispiegamento distruttivo delle sue passioni.
Tramontate le visioni tradizionali di pene eterne, i bui antri lacerati dai pianti e "guai" dei dannati cessano di parlare alla coscienza moderna: meglio, cessano di esprimere con forza il principio della proibizione e della paura per la sanzione morale.
Il diavolo zoccolato e cornuto (dopo aver per secoli popolato gli incubi notturni di pii credenti e peccatori) non può che fare la sua comparsa in un contesto straniante; che sarà, di volta in volta, archeologico recupero della tradizione folklorica, ironico viaggio nell'area magico-naive dell'infanzia, oppure figura simbolica, archetipo aperto alla molteplicità delle interpretazioni, tanto più efficace quanto più sfuggente e molteplice ne è la figura, polisemico il linguaggio.
L'Ottocento si apre con la ricca galleria di diavoli della letteratura tedesca romantica. Ma sono tutti veramente (verrebbe da dire con Faust) "poveri diavoli" (arme teufel). Si tratti di un diavolo degno di abitare una favola infantile (come nello Schlemihl di Von Chamisso); o dei diavoli 'perturbanti' di alcuni racconti di Hoffmann; siamo comunque di fronte a un universo 'fantastico', che presuppone di necessità una visione razionale del mondo, che ha bandito da sé il meraviglioso e il miracolo. Oppure è un diavolo che - come il mefistofele di Goethe - è destinato a perdersi in un labirinto di complessità che anche per lui - creatura sovrumanamente dotata - è sfuggente e inafferrabile.
Il diavolo e l'inferno sembrano dunque sopravvivere solo nello spazio riservato e artefatto della letteratura fantastica. Ma in realtà il paradigma infernale conserva una grande forza simbolica e rappresentativa. Assistiamo però a un interessante mutamento di prospettiva, per cui la rappresentazione tradizionale del'inferno fornisce un paradigma descrittivo non già del mondo 'infero', ma del mondo tout court.
Relegato dunque il diavolo della tradizione, come si diceva, alla dimensione straniante della favola o del recupero folclorico, il "paradigma infernale" viene trasferito nel quotidiano, diviene misura del quotidiano, rappresentazione della società contemporanea.

 

Renzo agli inferi

 

Nella sua prima avventura milanese Renzo incontra una Milano in rivolta. Nel romanzo manzoniano Renzo è l'eroe itinerante: percorre le strade del mondo (dal borgo a Milano; da Milano al bergamasco; dal bergamasco a Milano ecc.), incontrando avventure, ma anche compiendo una sua personale parabola di crescita. In un saggio uscito ormai da alcuni decenni, Girardi (Renzo agli inferi, in Manzoni reazionario, Cappelli, Bologna, 1972) osservava che Renzo compie nei Promessi sposi una descentio ad inferos che ha molti punti di contatto (e altrettanti significative differenze) rispetto alle descentiones compiute da eroi archetipici (Ulisse, Enea e Dante). La discesa infernale di Renzo è connotata dal suo essere di natura intimamente cristiana. E' cioè un'esperienza in cui il contatto diretto con l'errore e il traviamento morale conferma e rafforza la sostanza morale e religiosa della persona. Renzo - anche se coinvolto nell'esperienza 'infernale' della città rivoluzionaria - conserva intatta infatti la sua struttura morale, trasformando così l'esperienza del tumulto in un fattore di reale crescita interiore.

La realtà sociale e il mondo cittadino in rivolta vengono descritti da Manzoni utilizzando forme e modelli descrittivi desunti dalla rappresentazione dell'inferno. Ci limitiamo a segnalare (e non ad approfondire) il significato ideologico della scelta manzoniana che di fatto propone una sorta di identificazione tra rivoluzione e inferno: in ottemperanza a un progetto politico-ideologico connotato in senso liberale e moderato.
Il passo è tratto dal cap. 14° del romanzo. E' la sera del giorno di San Martino, segnato dall'assalto ai forni e alla casa del Vicario di provvisione. Renzo ha appena tenuto una piccola orazione in una strada traendo un suo bilancio di quella giornata memorabile. Ora è tardi: occorre pensare a un ricovero per la notte.

"Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un'osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo?" disse Renzo.
"Son qui io a servirvi, quel bravo giovine,"disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla (1).
"Conosco appunto un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo." (2)
"Qui vicino?" domandò Renzo.
"Poco distante," rispose colui.
La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s'avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
"Di che cosa?" diceva colui: "una mano lava l'altra, e tutt'e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo?" E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un'altra domanda. "Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?"
"Vengo," rispose Renzo, "fino, fino da Lecco."
"Fin da Lecco? Di Lecco siete?"
"Di Lecco... cioè del territorio."
"Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da' vostri discorsi (3), ve n'hanno fatte delle grosse."
"Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po' di politica (4), per non dire in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma qui vedo un'insegna d'osteria; e, in fede mia, non ho voglia d'andar più lontano." "No, no; venite dov'ho detto io, che c'è poco," disse la guida: "qui non istareste bene."
"Eh, sì;" rispose il giovine: "non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello (5), e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l'uno e l'altro. Alla provvidenza!" Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l'insegna della luna piena.
"Bene; vi condurrò qui, giacchè vi piace così," disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
"Non occorre che v'incomodiate di più," rispose Renzo. "Però," soggiunse, "se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere."
"Accetterò le vostre grazie," rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s'accostò all'uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v'entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d'una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: - noi eravamo stamattina nella ciotola d'un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt'intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private. - Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l'oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S'alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch'ebbe la guida, - maledetto! - disse tra sè: - che tu m'abbia a venir sempre tra' piedi, quando meno ti vorrei! - Data poi un'occhiata in fretta a Renzo, disse ancora tra sé: - non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò. - Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell'oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.

Note
1. disse...nulla: è l'agente di polizia incaricato di trovare un colpevole da affidare alla giustizia.
2. conosco... galantuomo: lo sbirro allude al tribunale, dove intende condurre Renzo per affidarlo alle mani della giustizia.
3. da' vostri discorsi: allude ai discorsi fatti per strada da Renzo, nei quali il montanaro lamentava le troppe ingiustizie che i deboli e i poveri sono costretti a subire da aprte dei potenti.
4. con un po' di politica: restando sulle generali.
5. mettere in castello: mangiare.

Proposte di lavoro

Un'analisi del brano potrebbe essere affidata agli allievi stessi, attraverso una lettura guidata che li aiuti a individuare aspetti linguistici, immagini o situazioni riconducibili alla rappresentazione della realtà 'infernale'.
Ad esempio:

Lo sbirro provocatore
Lo sbirro provocatore (che poi denuncerà Renzo) ha visto nel giovane un capro espiatorio ideale (forestiero; montanaro ingenuo). Le parole con cui si presenta allo sprovveduto provinciale offrendogli aiuto sono un insieme di ipocrisia e untuosa cortesia ("sono qui io a servirvi, quel bravo giovine"). Una profferta di aiuto che ricorda l'interessata disponibilità del diavolo tentatore.
Alla figura dello sbirro risponde, a conclusione del brano, quella dell'oste. La sua espressione è immobile e impenetrabile, ma sopratutto conserva connotati luciferini. Ha una "barbetta" che - oltre a essere connotato caratteristico del diavolo - è "rossiccia", con allusione al motivo folclorico che attribuisce al colore rosso doppiezza e malvagità (il rosso "malpelo").

La Luna piena
All'inferno allude il nome stesso dell'osteria (la Luna piena), attraverso l'identificazione della mitologia tra regina degli inferi e luna stessa (attraverso la divinità dalla triplice forma di Proserpina/Diana/Luna). Un'identificazione mediata con ogni probabilità dal ricordo di un notissimo luogo dantesco (la profezia di Farinata, in Inferno X, 79 ss.: "Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge").

L'"usciaccio"
L'"usciaccio" che separa come una soglia simbolica l'osteria, immette in un mondo 'infero' caotico ( "chiasso"; il senso di disordine che appare dalla descrizione), immerso nell'oscurità ("mezza luce"), che si connota come una sorta di mondo in cui tutti i valori della civile convivenza sono rovesciati. E' infatti un luogo popolato di ladri e di biscazzieri (come rivelerebbero, se potessero parlare, le monete che corrono sul tavolo), che nelle pagine successive del romanzo interpreterà sistematicamente le parole di Renzo sulla giustizia in senso diametralmente opposto al loro reale significato.

Il delirio collettivo
Nel delirio collettivo della città in rivolta si iscrive lo scontro sistematico tra apparenza e realtà che caratterizza tutta la discesa 'infernale' di Renzo. Essa vive nel parlare allusivo del mefistofelico aiutante, le cui parole sono intessute di doppi sensi ("Conosco appunto un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo": che designa il palazzo di giustizia e il bargello). Ma soprattutto si situa nel grottesco incontro tra il mondo eticamente rovesciato dei ladri dell'osteria 'infernale' e il solido mondo morale di Renzo.
Il conflitto che scoppia tra il valore delle parole che Renzo adotterà per illustrare il suo bisogno di vera giustizia, e il senso con cui quelle parole verranno accolte dai divertiti e occasionali ascoltatori, prefigura simbolicamente un conflitto che riguarda l'intera città in rivolta, nella quale il sistematico rovesciamento di diritti, doveri e valori, l'ha trasformata in una sorta di generale inferno dell'ambiguità e dell'incertezza.

Si potrebbe assegnare agli allievi il compirto di leggere l'intero capitolo 14°, individuando le argomentazioni adottate da Renzo nei discorsi tenuti all'osteria della Luna piena. Un'analisi delle reazioni dei presenti alle sue parole potrebbe condurre alla preparazione di una sorta di griglia in cui indicare il senso attribuito a determinate parole da Renzo, e quelo attribuito alle stesse parole dai malavitosi presenti nell'osteria.

 

Curzio Malaparte La pelle

 

Uscito contemporaneamente in Francia e in Italia nel 1949, il romanzo di Malaparteracconta la Napoli del 1943 e 1944. Occupata dalle truppe alleate la città conosce un abisso di degradazione e umiliazione umana. Il paradigma infernale domina l'intero romanzo, come fosse il solo capce di rendere conto di una dimensione straniata e perversa, sconvolta in ogni fondamento morale e civile.
Allo stravolgilmento della realtà in una dimensione 'altra', da aldilà infernale, risponde la ricerca costante del raccapricciante, lo scandalo dell'osceno. Siamo di fronte a un inferno penetrato nelle pieghe del quotidiano, che ha informato di sè ogni aspetto dell'esistenza, ogni possibile valore. La mercificazione del corpo e la svendita della dignità, in una Napoli famelica e affollata, divengono così il simbolo di un'Europa degradata, lacerata terra di conquista.

Nella prima pagina del romanzo, Malaparte parla della "terribile folla... squallida, sporca, affamata, vestita di stracci", che convive con i soldati vincitori che "urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo". Un babelico sovrapporsi di corpi e voci dissonanti, che rammenta il primo affacciarsi dell'Inferno allo sguardo e all'udito di Dante, appena intrapreso il viaggio nell'aldilà (Inferno, III, 22 ss.):

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

"Diverse lingue" e "orribili favelle" si mescolano in una confusione dominata dalla violenza, fisica ("urtavano") e verbale ("ingiuriavano").
Ma il paradigma di una descensio ad inferos, che trasforma la Napoli 'liberata' in una terra di morti viventi fornisce un'esplicita chiave di lettura poche righe più sotto (dunque ancora nell'incipit del romanzo), quando al capitano Malaparte, ufficiale dell'esercito italiano aggregato agli alleati, viene presentata la compagnia che dovrà comandare.

... il sergente gridò: "Compagnia, attenti!". Lo sguardo dei soldati si appesantì su me con un'intensità dolorosa, come lo sguardo di un gatto morto. Le loro membra si irrigidirono, scattarono sull'attenti. Le mani che stringevano i fucili erano bianche, esangui: la pelle floscia pendeva dalle dita come la pelle di un guanto troppo largo.
Il colonnello Palese prese a parlare, disse: "Vi presento il vostro nuovo capitano..." e mentre parlava io guardavo quei soldati italiani vestiti di uniformi tolte ai cadaveri inglesi, quelle mani esangui, quelle labbra pallide, quegli occhi bianchi. Qua e là, sul petto, sul ventre, sulle gambe, le loro uniformi erano sparse di nere chiazze di sangue. A un tratto mi accorsi con orrore che quei soldati erano morti. Mandavano un pallido odore di stoffa ammuffita, di cuoio marcio, di carne seccata al sole. Guardai il colonnello Palese, anch'egli era morto. La voce che usciva dalle sue labbra era umida, fredda, viscida, come quegli orribili gorgoglii che escono dalla bocca di un morto se gli appoggi una mano sullo stomaco. (C. MALAPARTE, Opere, a c. di L. Martellini, Mondadori, Milano, 1997, pp. 969-970).

Proponiamo la lettura di una pagina in cui il paradigma dantesco appare con chiarezza, per altro esplicitamente (anche se genericamente) richiamato nel testo.


La sera del 25 luglio del 1943, verso le undici, il Segretario della regia Ambasciata d'Italia a Berlino, Michele Lanza, se ne stava adagiato in una poltrona presso la finestra aperta, nel piccolo apaprtamento da scapolo di un suo collega.
Faceva un caldo soffocante, e i due amici, spenta la luce e spalancata la finestra, sedevano nella stanza buia fumando e discorrendo fra loro. Angela Lanza era partita per l'Italia con la bambina alcuni giorni innanzi, a trascorrer l'estate nella sua villa presso il lago di Como. (Le famiglie dei diplomatici stranieri avevano lasciato Berlino ai primi di luglio, per fuggire non tanto il caldo afoso dell'estate berlinese, quanto i bombardamenti, che ogni giorno si facavano più duri.) E anche Michele Lanza, come altri funzionari dell'Ambasciata, aveva preso l'abitudine di passar la notte in casa, ora di questo ora di quel collega, per non rimaner solo, chiuso in una stanza, durante le ore notturne, fra tutte le più lente, e per dividere con un amico, con un essere umano, l'angoscia e i pericoli dei bombardamenti.
Quella sera Lanza era in casa del suo collega, e i due amici sedevano al buio parlando della strage di Amburgo. I rapporti del Regio Console d'Italia in Amburgo narravano fatti terribili. Le bombe al fosforo avevano appiccato il fuoco a interi quartieri di quella città, facendo un gran numero di vittime. Fin qui nulla di strano, anche i tedeschi sono mortali. Ma migliaia e migliaia d'infelici, grondanti di fosforo ardente, sperando di spegnere in quel modo il fuoco che li divorava, s'erano gettati nei canali che attraversavano Amburgo in ogni senso, e nel fiume, nel porto, negli stagni, perfino nelle vasche dei giardini pubblici, o s'eran fatti ricoprir di terra nelle trincee scavate, per immediato rifugio in caso d'improvviso bombardamento, qua e là nelle piazze e nelle strade: dove, aggrappati alle rive e alle barche e immersi nell'acqua fino alla bocca, o sepolti nella terra fino al collo, attendevano che le autorità trovassero un qualche rimedio contro quel fuoco traditore. Poiché il fosforo è tale che si appiccica alla pelle come una viscida lebbra, e brucia solo al contatto dell'aria. Non appena quei disgraziati sporgevano un braccio fuor della terra o dell' acqua, il braccio si accendeva come una torcia. Per ripararsi dal flagello, quegli sciagurati erano costretti a rimanere immersi nell'acqua o sepolti nella terra come dannati nell'Inferno di Dante. Squadre di soccorso andavano da un dannato all'altro, porgendo bevande e cibo, attaccando con funi alla riva gli immersi perché abbandonandosi, vinti dalla stanchezza, non annegassero, e provando ora questo, ora quell'unguento: ma invano, poiché nel mentre ungevano un braccio, o una gamba, o una spalla, tratti per un istante fuor dell'acqua o della terra, le fiamme subito si risvegliavano simili a serpentelli accesi, e nulla valeva ad arrestare il morso di quella terribile lebbra ardente.
Per alcuni giorni Amburgo offri l'aspetto di Dite, la città infernale. Qua e là nelle piazze, nelle strade, nei canali, nell'Elba, migliaia e migliaia di teste sporgevano fuor dell'acqua e della terra, e quelle teste, che parevano mozze dalla mannaia, livide dallo spavento e dal dolore, muovevan gli occhi, aprivan la bocca, parlavano. Intorno alle orribili teste, conficcate nel selciato delle strade o galleggianti alla superficie delle onde, andavano e venivano notte e giorno i familiari dei dannati, una folla smunta e lacera, che parlava a voce bassa, quasi per non turbare quella straziante agonia: e chi portava cibo, bevande, unguenti, chi un cuscino da metter sotto la nuca del loro caro, chi, seduto accanto a un sepolto, gli dava sollievo al viso con un ventaglio contro il calore del giorno, chi gli riparava la testa dal sole sotto un ombrello, o gli asciugava la fronte madida di sudore, o gli umettava le labbra con un fazzoletto bagnato, o gli ravviava i capelli con un pettine, e chi, sporgendosi da una barca, o dalla riva del canale o del fiume, confortava i dannati aggrappatí alle corde e dondolanti sul filo della corrente. Bande di cani correvano qua e là abbaiando, lambivano il viso dei padroni interrati, o si buttavano a nuoto per soccorrerli. Talvolta alcuni di quei dannati, presi dall'impazienza, o dalla disperazione, gettavano un alto grido, tentando di uscire fuor dell'acqua o della terra, e por fine allo strazio di quella inutile attesa: ma subito, al contatto dell'aria, le loro membra avvampavano, e zuffe atroci si accendevano tra quei disperati e i loro familiari, che a pugni, a colpi di pietra e di bastone, o con tutto il peso del proprio corpo, si sforzavano di rificcar nell'acqua o nella terra quelle terribili teste.
I più coraggiosi, e pazienti, erano i bambini: che non piangevano, non gridavano, ma volgevano intorno gli occhi sereni a mirar l'orrendo spettacolo, e sorridevano ai familiari, con quella meravigliosa rassegnazione dei bambini, che perdonano l'impotenza degli adulti, e hanno pietà di chi non può aiutarli. Non appena scendeva la notte, nasceva intorno un bisbiglio, un sussurro, come di vento nell'erba, e quelle migliaia e migliaia di teste guatavano il cielo con occhi accesi di terrore.
Al settimo giorno fu dato l'ordine di allontanare la popolazione civile dai luoghi, dove i dannati eran sepolti nella terra, o immersi nell'acqua. La folla dei parenti si allontanò in silenzio, sospinta con dolcezza dai soldati e dagli infermieri. I dannati rimasero soli. Un balbettio spaurito, uno stridor di denti, un pianto soffocato, uscivan da quelle orribili teste affioranti dall'acqua e dalla terra lungo le rive dei canali e del fiume, nelle strade e nelle piazze deserte. Per tutto il giorno quelle teste parlaron fra loro, piansero, gridarono, con la bocca a fior di terra, facendo smorfie, orrende, mostrando la lingua agli shupos di guardia ai crocicchi, e pareva che mangiassero il terriccio, e sputassero i sassi. Poi scese la notte: e ombre misteriose si aggiravano intorno ai dannati, si curvavan su loro, in silenzio. Colonne di autocarri con i fari spenti giungevano, sostavano. Si alzava da ogni parte uno strepito di zappe e di badili, uno sciacquio, i tonfi sordi dei remi nelle barche, e grida subito soffocate, e lamenti, e schiocchi secchi di pistola.


Proposte di lavoro

Nella pagina di Malaparte di incrociano molteplici suggestioni riconducibili al modello dantesco.
La condizione degli sventurati colpiti dalle bombe al fosforo richiama analoghe situazioni dantesche: almeno l'immersione nel sangue dei violenti (canto 12°); l'immersione nella pece bollente dei barattieri (canti 21-22).
Un operazione sul testo potrebbe essere proposta come individuazione di un rapporto intertestuale con il modello dantesco, individuandone la presenza in uno strato più profondo, linguistico-lessicale, che non sia quello generico della situazione descritta o la semplice individuazione di campi semantici che rinviano al tema della dannazione e della sofferenza (verrà subito notato che i colpiti sono chiamati 7 volte "dannati": la prima volta in diretta associazione con l'Inferno dantesco: "erano costretti a rimanere immersi nell'acqua o sepolti nella terra come dannati nell'Inferno di Dante")

Come si diceva, l'insegnante potrebbe proporre un'indagine sul lessico impiegato da Malaparte, attraverso l'uso di semplici strumenti informatici di ricerca sui testi (pensiamo alla LIZ, ma l'offerta della rete è, ormai, piuttosto varia).
Il lavoro potrebbe essre utile per mettere in rilievo la complessità dei meccanismi allusivi: un circuito di forme, richiami, sedimentazioni della memoria, in cui si situa la complessità di ri-uso della lingua letteraria e i tasselli su cui sono costruite le forme dell'immaginario. Attraverso un'operazione che lascia spazio al lavoro individuale di ricerca, lo studente è messo a contatto con l'idea di profondità o spessore storico del codice letterario.
Abbiamo individuato alcuni esempi (ma un lavoro attento, magari di gruppo, potrebbe moltiplicarli):

"Stridor di denti".
In Dante compare tre volte il termine 'strida'. Due casi sono interessanti:
a. Inf., 5,35: "quivi le strida, il compianto, il lamento"; che associa strida e (com)pianto; il passo di Malaparte dice: "uno stridor di denti, un pianto soffocato".
b. Inf. 12, 102: " dove i bolliti facieno alte strida",. Qui il termine 'strida' è associato a una situazione vicina a quella descritta da Malaparte: i "bolliti" sono i tiranni immersi in un fiume di sangue bollente ("Or ci movemmo con la scorta fida/lungo la proda del bollor vermiglio,/dove i bolliti faceano alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio...")

Il capo separato
Le "orribili teste" che affiorano dall'acqua o dal terreno sembrano "mozze dalla mannaia". Nell'infernale dimensione straniata esse sembrano una vita propria, quasi mostruose realtà artificialmente separate dal corpo ("Per tutto il giorno quelle teste parlaron tra loro"). Dietro l'immagine sono ravvisabili numerose suggestioni dantesche. Da Gerione che affiora nel buio, e che sembra giungere 'a pezzi' (Inf., 17, 8: "sen venne, e arrivò la testa e 'l busto"). Ma pensiamo soprattutto ai corpi lacerati dei seminatori di discordie, nella nona bolgia, e all'invenzione della testa retta col braccio dal suo legittimo proprietario, il poeta Bertran de Born (Inf., 28, 129: "levò il braccio alto con tutta la testa/ per appressarne le parole sue").
La degradazione della condizione umana (fino alla rabbia impotente e furente del 'mangiare il terriccio' e 'sputare i sassi'), appare fissata - nelle ultime battute del racconto - in quel 'mostrare la lingua': gesto impotente e disperato che richiama l'episodio degli usurai: "qui distorse la bocca e di fuor trasse/la lingua, come bue che il naso lecchi" (Inf., 17, 74-75).

 

Dino Buzzati Viaggio agli inferni del secolo

 

Il breve testo di Buzzati (pubblicato nel 1966) potrebbe occupare un posto significativo all'interno del percorso che stiamo costruendo. Il processo di trasferimento dell'inferno nella dimensione laica della realtà storica è qui piegato fino ad ottenere effetti grotteschi.
In questo caso all'inferno è tolta persino la dimensione della tragedia: non più metafora capace di rendere dicibile la disumanità feroce del male nella storia, l'inferno diventa allora, semplicemente, l'espressione di una quotidianità deprivata di ogni senso.
Lo scrittore attua una sorta di processo inverso rispetto a quello constatato in Malaparte. Non siamo di fronte ad una realtà trasformata in visione apocalittica: capace quindi di esprimere l'orrore di una tragedia universale. L'eccezionalità grandiosa del male cessa di essere mistero tremendo. Non c'è più il muto stupore dell'uomo posto di fronte all'immobilità di un destino che lo coinvolge come singolo e come parte dell'umanità, quel destino feroce e inflessibile, muto come una sfinge: mistero, appunto, che può - grazie alla potenza comunicativa di cui ancora è dotato - dare corpo e voce all'indicibile.
L'inferno stesso diventa piccola cosa, fagocitato nell'abisso insulso dei gesti, dei doveri, delle abitudini snaturate di una grande cttà contemporanea.

La storia - Il protagonista, che si chiama 'Buzzati' e di mestiere fa il giornalista, viene convocato dal direttore del giornale, che gli affida un ghiotto servizio: andare a vedere com'è l'inferno, la cui porta è stata per caso trovata da due operai durante gli scavi della Metropolitana. Una volta entrato nell'aldilà, scopre un mondo esattamente uguale alla Milano (o a una qualsiasi altra città) contemporanea. Il protagonista si stupisce semmai per alcuni usi e costumi particolari. Ad esempio la festa di metà maggio (chiamata "Entrümpelung") in occasione della quale si buttano via tutte le cose vecchie, esseri umani compresi. Il protagonista assorbe velocemente comportamenti e istinti del luogo: guida una veloce auto sportiva assumendo atteggiamenti agressivi nei confronti di chiunque incontri; sulla sua auto si sente "più giovane e più forte". Il racconto si chiude con l'acquisto - da parte di alcuni speculatori edilizi - di un bellissimo giardino che la proprietaria, una vecchia aristocratica, aveva sempre rifiutato di vendere.


" Caro Buzzati per caso non vorrebbe farmi una bella inchiesta sui lavori della metropolitana? "
" ... politana? " feci eco, sbalordito.
Accese una sigaretta dopo averne offerta una.
" Nei lavori della metropolitana " disse " avrebbero trovato... un operaio un certo Torriani... per caso, nel corso degli scavi... dalle parti di Sempione. .. beh, insomma... "
Io lo guardavo, io cominciavo a spaventarmi.
Chiesi: " Che cosa dovrei fare? ".
Lui proseguí: " Per caso... durante gli scavi sotterranei di Milano... dice di aver trovato... aver trovato per caso ... " sembrava esitasse, imbarazzato.
" Per caso ... " incoraggiandolo.
" Trovato per caso " mi fissò terribilmente " ... io stesso stento a crederlo ... "
" Direttore, mi dica ... " Non ne potevo piú.
" La porta dell'inferno, dice di aver trovato... una specie di porticina. "
Si narra che personaggi grossi e fortissimi, di fronte a ciò che massimamente avevano desiderato nella vita, quando si presentò tremarono, diventando macilenti, piccoli e meschini.
Eppure io chiesi:
" E si può entrare? "
" Dicono. "
" L'inferno? "
" L'inferno. "
" Gli inferni? "
" Gli inferni. "
Ci fu un silenzio.
" E io? "
" Non è che una proposta ... una semplice proposta... mi rendo conto anch'io ... "
"Nessun altro è al corrente? "
" Nessuno. "
" Noi come l'abbiamo saputo? "
" Combinazione. La moglie di quel Torriani è fi-
glia di un nostro vecchio speditore. "
" Era solo quando ha fatto la scoperta? "
" No, c'era un altro. "
" E quest'altro ha parlato? "
" Sicuramente no. "
" Perché? "
" Perché l'altro è entrato a curiosare. E non ha fatto piú ritorno. "
" E io dovrei?... "
" Ripeto, una semplice proposta... In fin dei conti, di queste faccende lei non è uno specialista? "
" Da solo? "
" Meglio. Da solo darà meno nell'occhio. Bisogna arrangiarsi. Lasciapassare non esiste. E il nostro giornale, di là, non ha nessuna conoscenza. Che noi si sappia, almeno. "
" Niente Virgilio? "
" No. "
" Ma quelli là come faranno a capire che io sono un semplice turista? "
" Arrangiarsi. Quel Torriani dice... lui ha appena dato una occhiata di là... dice che in apparenza è tutto come qui da noi, e gli uomini sono di carne ed ossa, mica come quelli di Dante. Vestiti come noi. E dice che è una città come le nostre con luce elettrica e automobili dimodoché confondersi mimetizzarsi sarà abbastanza facile, ma in compenso difficile sarà farsi riconoscere per forestieri... "
" Dico: e allora dovrei farmi arrostire? "
" Sciocchezze. Chi parla piú di fuoco? Le ripeto: tutto in apparenza è come qui, comprese le case e i bar i cinema i negozi. Proprio il caso di dire che il diavolo non è poi cosí... "
" E... e il compagno. di quel Torriani allora perché non è tornato?"
" Chissà...potrebbe essersi smarrito... potrebbe non aver piú trovato il passaggio per rientrare... potrebbe anche averci trovato gusto... "
" Poi un'altra cosa: perché proprio a Milano e in tutto il resto dei mondo no? "
" Non è vero. Pare anzi che ce ne siano parecchie di queste porticine, parecchie in ogni città, solo che nessuno le conosce... o nessuno ne parla... Comunque lei ammetterà che giornalisticamente sarebbe un colpo formidabile. "
" Giornalisticamente... Ma chi ci crederà? Bisognerebbe documentarsi. Portare almeno delle fotografie... "
Annaspavo. Mi rendevo conto che la famosa porta stava aprendosi. Non potevo decentemente rifiutare, sarebbe stata una diserzione ignobile. Ma, mi faceva paura.!
" Senta, Buzzati, non anticipiamo le cose. Neanch'io sono poi del tutto persuaso. Ci sono parecchi punti oscuri, a parte l'inverosimiglianza complessiva... Perché non va a' parlare con quel Torriani? " Mi porse un foglio. C'era l'indirizzo.
(D. Buzzati, Il colombre e altri cinquanta racconti, Mondadori, Milano, 1966, pp. 388-91)

Proposte di lavoro

I meccanismi di 'riduzione'.
Dietro il viaggio agli inferi che si prospetta c'è naturalmente l'archetipo dantesco (qui esplicitamente richiamato con il riferimento all'assente Virgilio); ma altre, e più interessanti, sono le concrete possibilità di lavoro cui la pagina si presta.
Si potrebbe ad esempio mettere in risalto il sistematico processo di 'riduzione' della realtà rappresentata, analizzando alcune soluzioni di scrittura utilizzate dall'autore.
Vediamo alcuni casi:

- diminutivi. Non si tratta solo di diminutivi veri e propri ("porticina"), ma anche di termini che sottraggono ogni possibile grandezza all'ipotesi del viaggio: l'operaio che non ha fatto ritorno è entrato "a curiosare"; Torriani ha "dato un'occhiata di là". Il linguaggio ricorre a termini che sembrano voler escludere ogni eroicizzazione linguistica dell'esperienza, per trasferirla nella dimensione del chiacchiericcio quotidiano, con la forza omologante e banalizzante delle espressioni di cui è intessuto.

- Il processo di deroizzazione è ottenuto anche attraverso il richiamo all'esperienza di un quotidiano burocratico-aziendale, che evoca la dimensione parcellizzata e anonima del lavoro nelle società industruali avanzate. Nel brano che abbiamo proposto compare la figura di uno "speditore" dipendente del giornale; nel capitolo successivo sarà il "perito industriale" Torriani, l' "ingegner Roberto Vicedomini" ecc.

- Il processo di 'riduzione' dell'esperienza trova espressione - su di un pano intertestuale nel confronto con l'archetipo narrativo dantesco.
Il viaggio nell'aldilà generava in Dante dubbi dolorosi ("io non Enea non Paulo sono"). Né poteva essere altrimenti, prospettandosi un'esperienza totale e assoluta: un viaggio cioè nel profondo della propria coscienza di uomo e di credente, lungo un percorso di crescita morale e religiosa che porterà quasi a identificare Dante con l'umanità intera. Alla grandezza del viaggio dantesco fanno riscontro dubbi legati alla banale gestione di un viaggio ("bisogna arrangiarsi"; "lasciapassare non esiste"). E' significativo che Buzzati si senta (e auspichi anzi tale ruolo) soltanto "un semplice turista" (versione banalizzata e consumistica del viaggiatore, ridotto a frettoloso 'consumatore' di chilometri, monumenti, pacchetti tutto-compreso).

- Destino/casualità. Se il viaggio dantesco deriva da un preciso disegno del destino, che lo colloca (non diversamente dai viaggi precedenti di Enea e di Paolo) in un compiuto progetto teleologico, il viaggio di Buzzati è dominato dalla casualità ("per caso... durante gli scavi sotterranei di Milano... dice di aver trovato... aver trovato... per caso"; si è avuta notizia della cosa per "combinazione"). Anche questo particolare va iscritto nei processi di 'riduzione' dell'eroico del viaggio ultraterreno alla dimensione banale del quotidiano.

Un mondo come il nostro
Il sistematico meccanismo di riduzione dell'esperienza eroica del viaggio ultraterreno risponde a una ragione strutturale essenziale: tra mondo contemporaneo e mondo infernale l'omologazione è pressocché totale. Non intervengono neppure meccanismi metaforici di identificazione tra le due realtà, che - semplicemente - coincidono.
Il motivo ricorre nella conclusione del racconto:

... a me stesso che ci sono stato, non è ben chiaro se l'Inferno sia proprio di là, o se non sia invece ripartito fra l'altro mondo e il nostro. Considerando ciò che ho potuto udire e vedere, mi domando anzi se per caso l'Inferno non sia tutto di qui, e io mi ci trovi ancora, e che non sia solamente punizione, che non sia castigo, ma semplicemente il nostro misterioso destino.
(cit., pp. 450-51)

Ma è presente già in uno dei primi capitoli, segnalato dalla perfetta coincidenza fisica e visiva tra Inferno e mondo metropolitano contemporaneo:

Guardai intorno. Esattamente la stessa scena descritta dal Torriani: in cui non c'era niente, a prima vista, di infernale e diabolico. Tutto anzi assomigliava alle nostre esperienze quotidiane, più ancora: non c'era nessuna differenza.
Il cielo era il cielo grigio e bituminoso, che conosciamo fin troppo bene, fatto di fumo e di caligini, e di là dal funesto strato si sarebbe detto non ci fosse il sole bensì una lampada smisurata, una squallida lampada come le nostre, un gigantesco tubo al neon, tanto le facce degli uomini risultavano livide e stanche.
Anche le case erano come le nostre, ne vedevo di vecchie e di modrnissime, dai sette ai quindici piani in media, né belle né brutte, come le nostre molto abitate, con quasi tutte le finestre accese, dietro le quali si scorgevano uomini e donne seduti al lavoro.
Rassicurante il fatto che le insegne dei negozi e i manifesti pubblicitari erano scritti in italiano e riguardavano gli stessi pordotti che giornalmente pratichiamo.
La strada pure non aveva nulla di straordinario. Solo era interamente stipata di automobili ferme, come appunto aveva descritto il Torriani.
Le automobili non erano ferme perché desiderassero restare ferme o per ordine di un semaforo. Esisteva un semaforo infatti a una quarantina di metri, e stava dando luce verde. Le macchine erano semplicemnete intasate per un gigantesco ingorgo che può darsi si propagasse all'intero corpo della città, non potevano andare né avanti né indietro.
Nell'interno delle automobili ferme stavano le persone, per lo più uomini soli. Anch'essi, non sembravano ombre bensì individui in carne ed ossa. Con le mani sul volante, immobili, sulle facce pallide una ottusa atonia come per effetto di stupefacenti. Essi non potevano uscire neppure se avessero voluto, tanto le macchine erano serrate le une sulle altre. Guardavano fuori, attraverso i finestrini, guardavano lentamente, con espressione di, anzi senza nessuna espressione. Ogni tanto qualcuno toccava il clacson, emetteva un flebie colpetto, senza fiducia, così, neghittosmaente. Pallidi, svuotati, castigati e vinti. E più nessuna speranza.
(cit. pp. 404-405)

L'identità ("non c'era nessuna differenza") tra Inferno e quotidiano contemporaneo è affermata con insistenza dal sistematico ricorso alla similitudine: "come le nostre" è formula che ricorre tre volte nel giro di poche righe.
Trattandosi di un mondo non 'altro', non diverso, rispetto a quello dell'esperienza quotidiana, il viaggiatore-Buzzati ricorre insistentemente al 'noi'. La deroicizzazione dell'esperienza 'infernale' che, abbiamo visto, è caratteristica del viaggio da lui compiuto, comporta anche l'assenza dell'eroe-individuo, protagonista di un'avventura conoscitiva la cui eccezionalità comporterebbe la solitudine dell'eroe.
Al viaggiatore dell'incredibile che deve continuamente fare appello alla fiducia del lettore ('preparati ad ascoltare cosa inaudite'; 'sembra incredibile eppure è esattamente ciò che ho visto...'), proponendo un'esperienza che è rottura e alterità rispetto all'esperienza del lettore, Buzzati sostituisce un viaggiatore che coincide con l'insieme dei suoi lettori: sta rivivendo le stesse esperienze; sta vedendo lo stesso sole, è immobilizzato nello stesso ingorgo in cui si trovano i suoi lettori.

Una possibile lavoro sull'intero racconto
Natura/artificio - Nelle poche battute dell'ultimo brano citato troviamo una contrapposizione tra elementi della natura e elementi artificiali, caratteristici del mondo 'infernale'. Il sole sembra "una lampada smisurata", un "tubo al neon".
Si potrebbe proporre una lettura integrale del racconto di Buzzati, e individuare come il tema della contrapposizione natura/artificio sia in esso presente, lavorando su due piani:
a. come esso si leghi a fattori strutturali del racconto. Si consideri ad esempio come l'ultimo capitolo racconta la sofferta vendita di un giardino da parte di un'anziana aristocratica.
b. La verifica sul piano lessicale (e nel ricorso a locuzioni, a immagini, similitudini ecc.) della presenza della contrapposizone tra naturale e artificiale come rapportabili a una contrapposizone di fondo tra 'naturale' (positivo) e 'artificiale' (negativo).