Carlo Varotti - Figli innamorati: l’istinto, la gelosia, la tolleranza

 

Si propone un percorso didattico che prende le mosse da una novella famosissima di Boccaccio, quella di Tancredi e Ghismunda (Decameron, IV, 1), che gode di una consolidata tradizione scolastica (è di fatto presente in moltissime antologie).

Non si legge la novella semplicemente come espressione del tragico boccacciano, ma come testo ricco di ambiguità (tra cui la presenza di un represso desiderio incestuoso nel rapporto padre/figlia), che suggerirà ad un lettore eccellente come l’umanista fiorentino Leonardo Bruni una riflessione sul nesso tra modelli educativi e repressione dell’erotismo giovanile.

Recuperando una storia desunta dall’antichità (e presente in vari autori greci e latini, tra cui Plutarco), quella del figlio del re di Siria Seleuco (uno dei generali successori di Alessandro Magno), Bruni riflette su un modello educativo più aperto, capace di confrontarsi con elasticità e saggezza con le passioni umane.

Ma la fortuna della storia di Seleuco (che ispirerà numerosi raffigurazioni pittoriche) compare anche, ormai in piena temperie romantica ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, il romanzo di Goethe che rappresenta un anello fondamentale nella riflessione della narrativa occidentale sulla formazione giovanile e sui modelli educativi (non a caso il Meister può essere considerato il capostipite del romanzo di formazione [Bildungsroman], uno dei sottogeneri più significativi della letteratura narrativa ottocentesca)

 

Schema dei testi

 

Testo 1: Boccaccio, Tancredi e Ghismunda (Decameron, IV, 1)

Boccaccio, Decameron,  Tancredi e Ghismunda (novella IV, 1)

Introduzione alla IV giornata (la novella di Filippo Balducci)

 

Testo 2 - Leonardo Bruni: la novella Seleuco

Leonardo Bruni, Seleuco

Petrarca, Trionfo dell’amore, vv. 94 e ss

Plutarco, Vita di Demetrio

 

Testo 3 - Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister

J. L. David, Antioco e Stratonice (1774)

Antonio Bellucci, Antioco e Stratonice (1700 ca.)

Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (I, cap. 17)

Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (conclusione)

 

 

Testo 1

 

Boccaccio, Tancredi e Ghismunda (Decameron, IV, 1)

 

La giornata IV del Decameron si distingue dalle altre giornate per essere lontanissima dai toni divertiti, comici o beffardi che sono prevalenti nel libro: essendo dedicata agli amori infelici, le sue novelle consentono allo scrittore di toccare, nei diversi testi, le corde del tragico o del patetico o del sentimentale.

Non stupisce dunque se in queste novelle l’ambientazione spesso esce dalla quotidianità popolare (che l’estetica classica e medievale collegava al comico, alla letteratura ‘bassa’ e triviale della commedia), per proporre vicende ambientate tra gente (direbbe Manzoni) di ‘alto affare’: aristocratici, signori feudali, cavalieri. In alcune delle novelle della quarta giornata, Boccaccio ama insomma richiamare un immaginario caro all’Europa medievale, che aveva collegato al mondo feudale non solo le vivaci e felici storie di avventure galanti, ma anche aveva raccontato i grandi drammi o le tragedie della passione amorosa e della gelosia. Si pensi all’amore fedifrago di Lancillotto e Ginevra (la vicenda che Paolo e Francesca leggono nel momento in cui cadono nel peccato mortale che li condannerà per l’eternità – come racconta Dante, Inferno, c. 5°) o la grande vicenda archetipica di Tristano e Isotta, raccontata in tanti capolavori medievali francesi, tedeschi e inglesi, da Béroul (fine del sec.  XII) a Thomas Malory (sec. XV).

È appunto al mondo aristocratico che rinviano la prima e l’ultima delle novelle tragico-patetiche della quarta giornata, che sono la 1a e la 9a della Giornata. Non la 10a. In tutte le giornate del Decameron, infatti, la novella 10a è sempre a tema libero, ed è riservata al licenzioso e brillante Dioneo, che è lo spirito più comico e balzano della compagnia: il quale – venuto il suo turno – si guarda bene dal proporre un’altra storia lacrimevole. E accingendosi a raccontare, dice (parafrasiamo il testo): ‘ non vedevo proprio l’ora che i piagnistei finissero; e visto che io mi guarderò bene dal vendervi una merce così triste, vi proporrò una materia assai più divertente’ (e racconterà infatti, come è nel suo stile, una movimentata e scanzonata storia di corna, fatte da una giovane moglie al marito anziano e sessualmente poco attivo).[rr1] 

Con il tipico gusto per le simmetrie (che è non solo caratteristico di Boccaccio, ma dell’estetica medievale) le novelle che aprono e chiudono la dolorosa materia degli amori infelici hanno in comune diversi aspetti. Ambedue, come si è detto, sono ambientate in un contesto aristocratico (sono protagonisti della prima il principe di Salerno, della nona un feudatario di Provenza), che bene si presta a trattare con una tonalità tragica e solenne storie di amore e di morte, in cui le passioni si ammantano di grandezza e assumono forme estreme: sia che si esprimano nella magnanimità eroica assoluta, sia che presentino la sinistra grandezza della ferocia e della fellonia. Che ambedue le novelle si richiamino all’immaginario aristocratico-feudale del mondo cavalleresco indica anche il richiamo (presente in tutte e due le novelle) al topos del cuore dell’amante. Nella novella 9 il marito tradito fa mettere in tavola per la moglie fedifraga, cucinato a dovere, il cuore del suo amante. Nella novella 1 (che leggiamo), il topos, come vedremo, è leggermente variato: ma è comunque ben riconoscibile.

La novella 1a della quarta giornata è una delle più celebri del Decameron. Una fama legata alla straordinaria figura della sua giovane protagonista, Ghismunda, la figlia del principe di Taranto, che reagisce alla violenza paterna (che trucida l’uomo di cui Ghismunda è innamorata) con una compostezza e una dignità rigorosa, in cui traspare una grandezza d’animo esemplare, da antica eroina. Colpita nei suoi affetti più profondi, la ragazza va incontro alla morte, ma non senza affermare le ragioni umane del proprio agire e la liceità dei propri desideri, contrapponendoli al barbarico e inumano comportamento del padre.

 

La vicenda

Semplicissima la vicenda. Ghismunda, figlia del principe di Taranto Tancredi, rimasta vedova dopo un brevissimo matrimonio, torna a vivere nel palazzo del padre, il quale è morbosamente attaccato alla figlia, tanto da non decidersi mai a combinare per lei, pur essendo la donna ancora molto giovane, alcun matrimonio.

La ragazza si innamora di un giovane cortigiano del padre, Guiscardo, uomo bello e di valore, ma di umile condizione; e trova la maniera di ospitare il giovane nella sua camera da letto, facendolo passare attraverso una entrata segreta del palazzo a tutti ignota. La relazione va avanti da un po’, quando casualmente Tancredi la scopre. Infuriato fa uccidere Guiscardo e gli fa strappare il cuore che invia, in una coppa d’oro, alla figlia.

La ragazza, che con salde e nobili parole afferma al padre il proprio diritto all’amore, si avvelena, bevendo la pozione mortale nella stessa coppa d’oro che contiene il cuore di Guiscardo.

 

Boccaccio, Decameron,  Tancredi e Ghismunda (novella IV, 1)

 

Vediamo alcuni punti salienti della novella (sono tutti indicati in grassetto ed evidenziati nel file che contiene l’intera novella)

 

1) Un amore torbido e un sentimento ambiguo: l’incesto represso

Molti segnali nel testo indicano il carattere torbido dell’amore di Tancredi per la figlia. La sua pretesa di esercitare un controllo esclusivo sul corpo di lei esprime, in termini psicanalitici, una inconscia pulsione incestuosa: una pulsione repressa dal padre, ma che appare da segni manifesti, come la riluttanza ad accettare la condizione maritale della figlia. Quando tale dominio è contrastato e negato dalla presenza di un amante, esplode allora la violenza cieca dell’uomo.

È quanto Boccaccio ci dice fin dalle prime battute della novella, indicando come l’amore del padre per la figlia (Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai), si esprimeva nella difficoltà a separarsi da lei (non sappiendola da sé partire, non la maritava).

Finalmente sposatasi, ma rimasta presto vedova, la donna torna a vivere nel tetto paterno, ma il padre evita di darla in sposa a un secondo marito (poca cura si dava di più maritarla).

Un’altra situazione con cui si allude all’inconfessabile natura incestuosa del desiderio represso di Tancredi è espressa dal racconto del modo in cui Tancredi scopre la relazione della figlia con Guiscardo. Tancredi si addormenta dietro la cortina del letto di Ghismunda, ed assiste così all’incontro della figlia con il suo amante. Il dormire con la testa appoggiata al letto di Ghismunda esprime quel nesso tra la libido e la sua repressione in cui si situa l’ambiguità dell’amore paterno di Tancredi.

 

2) L’impulso fisiologico dell’amore

Il diritto al soddisfacimento degli impulsi del desiderio erotico è affermato in virtù del suo carattere prettamente fisiologico, ‘naturale’.

Nelle ferme e coraggiose parole con cui Ghismunda si difende, il carattere naturale del desiderio amoroso è affermato con decisione: è anzi una grave responsabilità del padre il non avere favorito il matrimonio della figlia dopo la sua prematura vedovanza (a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi). Ed è ancora rinfacciata al padre l’insipienza di aver voluto ignorare le imprescindibili ragioni ‘della carne’: cioè la forza travolgente dell’impulso erotico, che nei giovani è insopprimibile (Esser ti dové, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza).

Il tema è rilevante non solo nella logica interna della novella di Tancredi e Ghismunda, ma tocca aspetti fondamentali della poetica del Decameron. La novella che apre la IV giornata segue immediatamente le pagine premesse da Boccaccio a quella giornata. Un vero e proprio secondo proemio dell’opera, nel quale lo scrittore prende la parola e si rivolge direttamente ai lettori, difendendosi da una serie di accuse che gli erano state mosse da chi aveva letto le novelle delle prime tre giornate (il testo indirettamente ci fa così sapere che il Decameron cominciò a circolare quando ancora non era stato completato).

La principale accusa da cui Boccaccio di difende riguarda proprio la licenziosità di molte novelle e l’eccessivo spazio riservato in esse al tema dell’erotismo.

La risposta di Boccaccio è affidata a una novelletta (in realtà non raccontata per intero, ma è chiarissimo il senso dell’apologo): la novella di Filippo Balducci, o ‘delle papere’. Una breve storiella che dimostra la forza del desiderio amoroso, la cui centralità nel sistema degli affetti e degli impulsi dell’individuo rende sciocca e ‘innaturale’ ogni pretesa di emarginare dalla letteratura tale area dell’esperienza umana.

 

La vicenda

Un uomo fiorentino, Filippo Balducci, rimasto vedovo dell’amatissima moglie, decide di abbandonare ogni tentazione mondana, e con il figlioletto di appena due anni di ritira a vivere in un eremo, tornando solo eccezionalmente in città. Lì educa il bambino santamente, tenendolo lontano da ogni tentazione. Dovendo un giorno andare a Firenze per suoi affari, accetta di portare con sé il figlio, divenuto intanto diciottenne,

A Firenze, quando il ragazzo vede un gruppo di donne, ne rimane subito attratto. Poiché mai ha visto delle donne, né mai il padre gli ha parlato della loro esistenza, chiede cosa siano. Il padre gli risponde che sono papere. Il breve dialogo con il figlio (una vera scenetta di commedia) rivela a Filippo l’impossibilità di sopprimere il concupiscibile appetito del giovane, e gli mostra quanto potente sia la forza della natura.

Riportiamo la conclusione del racconto, dal momento in cui Filippo Balducci e il figlio giungono a Firenze.

 

Introduzione alla IV giornata (la novella di Filippo Balducci)

 

3) Un topos fiorentino: virtù vs nobiltà di sangue (evidenz. Azzurro)

La magnanima grandezza di Ghismunda non si esprime solo nella coraggiosa decisione di affrontare la morte, ma anche nell’esprimere con piena sicurezza un codice di valori alternativo a quello paterno, che appare legato a una concezione strettamente feudale di nobiltà ed eccellenza individuale. Tancredi rinfaccia infatti alla figlia di essersi concessa a un giovane di vilissima condizione, e dice chiaramente che se l’uomo da lei scelto fosse stato nobile certo sarebbe stata minore la sua colpa (e or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato).

Riprendendo un motivo molto comune e variamente articolato nella Firenze due-trecentesca (e basti pensare al IV trattato del Convivio di Dante, proprio a questo tema dedicato), Ghismunda contrappone a una concezione familiare e ‘di sangue’ della nobiltà, cui è legata la mentalità feudale di Tancredi, l’idea che la nobiltà dell’individuo consista nelle sue qualità. Lo stesso narratore lo aveva detto esplicitamente presentando il personaggio di Guiscardo (uom di nazione [nascita; famiglia] assai umile ma per vertù e per costumi nobile) e quindi indirizzando il lettore ad essere solidale non solo con la vicenda umana e sentimentale di Ghismunda, ma anche con le sue idee. Alla fanciulla viene infatti attribuito un accorato ed efficace discorso in cui è affermato, contro la volgare opinione di cui è vittima il padre, il principio che attribuisce alla virtù, e unicamente alla virtù, la distinzione tra chi è nobile e chi non lo è. Un discorso che Ghismunda conclude addirittura rovesciando tutti i giudizi di prestigio sociale vigenti nella corte paterna: raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani.

 

4) L’animo ‘virile’ di Ghismunda; il pianto impotente e ‘femminile’ di Tancredi [rr2] 

La nettezza del giudizio di Boccaccio sulla vicenda bene appare nel modo in cui egli descrive le reazioni dei personaggi. Ghismunda giganteggia per la fermezza delle sue parole e per il coraggio delle sue azioni: un dato di fatto che è evidenziato dal rovesciamento dei comportamenti che il lettore potrebbe aspettarsi:

La donna non reagisce con il pianto o il mancamento, tutti comportamenti propri dell’emotività femminile, per natura ‘debole’ e incapace di autocontrollo (così non poteva non pensare un uomo del Trecento – ma, senza andar troppo indietro, così pensavano i nostri nonni: e qualche imbecille lo pensa tutt’ora), ma assume i comportamenti che connotano i tratti positivi tradizionalmente associati alla virilità (fermezza, decisione, imperturbabilità; disprezzo della morte): esattamente i comportamenti che mancano a Tancredi, il quale – con un preciso rovesciamento dei comportamenti dovuti – reagisce con un pianto impotente.

 

Testo 2

Leonardo Bruni: la novella Seleuco

 

 

Scegliere e accostare tra di loro testi letterari significa spesso compiere operazioni interpretative non scontate. A volte, naturalmente, si può decidere di accostare tra loro testi perché accomunati da evidenti elementi oggettivi (perché ad esempio di uno stesso autore, o di uno stesso movimento letterario). Ma può invece succedere che si realizzino accostamenti meno ovvi: messi assieme, due o più testi possono così illuminarsi a vicenda, facendo in modo che aspetti particolari siano messi in evidenza o acquistino nuove prospettive di lettura.

Un’operazione di questo genere venne compiuta dall’umanista fiorentino Leonardo Bruni, negli anni Trenta del ‘400, proprio partendo dalla novella decameroniana di Tancredi e Ghismunda, alla quale Bruni accostò una propria novella (il Seleuco), liberamente ispirata a un episodio del mondo antico.

Che il Seleuco sia effettivamente opera di Leonardo Bruni è stato recentemente messo in dubbio. Ma fosse pure il Seleuco opera di un anonimo scrittore che ha attribuito al celebre umanista la novella, il senso dell’operazione non cambia: la novella di Boccaccio è accostata a un testo che, nel confronto, la illumina di una nuova luce.

 

Leonardo Bruni - Vita

Leonardo Bruni (1370-1444), tra i maggiori esponenti dell’Umanesimo del ‘400, uno dei primi umanisti ad avere una conoscenza di prim’ordine della cultura e della letteratura greca (come è noto Petrarca, punto di riferimento essenziale per la rinascita degli studi sul mondo antico, non fu mai in grado di leggere il greco).

Leonardo Bruni scrisse quasi unicamente in latino. In latino sono le sue grandi opere storiografiche (Historiae Florentini populi; De primo Bello Punico); in latino è un’operetta come i Dialogi ad Petrum Paulum Istrum, importantissima per conoscere le idee dei primi umanisti di Firenze, la città che stava diventando una delle grandi capitali culturali d’Europa. Uomo politico (fu a lungo Cancelliere della repubblica) Leonardo Bruni scrisse opere di propaganda filofiorentina, come la Laudatio Florentinae Urbis, scritta nei primi anni del ‘400, all’indomani di una guerra della città contro Milano.

Intenzionato ad affermare il prestigio e la superiorità culturale di Firenze, Bruni scrisse in volgare (probabilmente nel 1436) una biografia di Dante e una di Petrarca: celebrando la perfezione alla quale essi (e con loro Boccaccio) avevano portato il volgare fiorentino.

 

Il Seleuco (1437) è una delle pochissime opere (oltre alle biografie di Dante e di Petrarca) che Bruni non scrisse in latino. Sia il Seleuco che le biografie dei due massimi poeti trecenteschi (cronologicamente assai vicine), si iscrivono all’interno di una vera e propria operazione culturale che aveva un importante significato politico e propagandistico per Firenze, allora impegnata in guerre continue contro la Milano dei Visconti: celebrare la grandezza fiorentina affermando la superiorità della sua tradizione culturale e del suo volgare.

 

La vicenda del Seleuco

Nella novella Seleuco un anonimo narratore racconta di essere stato a una festa in una villa nei pressi di Firenze. Dopo danze e banchetti alcuni convitati decidono di ritirarsi in un bellissimo e fresco giardino, e lì divertirsi leggendo alcune novelle del Decameron. Scegliendo a caso, una giovane donna legge proprio la dolorosissima vicenda di Tancredi e Ghismunda, rattristando così l’intera brigata. È a questo punto che il narratore – che risulta essere un esperto conoscitore di cultura classica, greca e latina – racconta la vicenda di Seleuco: un episodio reso famoso soprattutto da due grandi scrittori dell’antichità, Valerio Massimo (il grande raccoglitore di aneddoti e fatti esemplari) e Plutarco (Vita di Demetrio – una delle sue numerose biografie di grandi eroi greci e romani).

Protagonista della vicenda è Seleuco I (358-281 a. C.), uno dei successori di Alessandro Magno, che divenne re della Siria. Seleuco, che dalla prima moglie, la principessa orientale Apama, aveva avuto il figlio Antioco (324-261, che gli succederà sul trono), sposò in seconde nozze la bellissima e assai più giovane Stratonice.

Quando la giovane moglie giunge a palazzo, il figlio di Seleuco, Antioco, se ne innamora. Ma vergognandosi del suo inconfessabile sentimento, schiacciato dal senso di colpa, comincia a deperire. È quasi giunto in punto di morte quando il medico di corte intuisce la natura del male del ragazzo e riesce a capire (studiando le sue reazioni fisiologiche quando vede la donna) che oggetto del suo amore è la matrigna. Di fronte al pericolo di vita del figlio, Seleuco divorzia da Stratonice e la dà in sposa ad Antioco.

 

Bruni recupera dunque una vicenda della storia antica, ma non compie una semplice operazione di recupero archeologico: instaura invece un dialogo diretto con due delle tre corone del Trecento, Petrarca e Boccaccio:

 

-       Con Boccaccio, per mezzo dell’espediente narrativo sopra ricordato. La storia antica di Seleuco e Antioco è raccontata dall’anonimo gentiluomo presente alla festa, per rasserenare gli animi delle donne presenti, colpiti dalla tragica e inumana vicenda decameroniana di Tancredi e Ghismunda.

-       Con Petrarca, che aveva raccontato la vicenda di Seleuco, Antioco e Stratonice nei Trionfi (Trionfo dell’amore, II, vv. 94-129)

 

Il dialogo con Boccaccio

Leggiamo le poche righe narrative che fanno da preambolo al racconto di Seleuco e Antioco.

 

Leonardo Bruni, Seleuco (Introduzione)

 

Come si diceva, ci troviamo di fronte a un accostamento che vuole sollecitare il lettore: la novella di Boccaccio viene infatti affiancata a un’altra vicenda, e dall’incontro/scontro tra i due racconti deriva un’interpretazione possibile, uno spunto di riflessione morale.

L’anonimo gentiluomo che narra la storia di Seleuco racconta infatti una «novella quasi per contrario di quella di prima», non solo in ottemperanza al principio estetico della varietà degli affetti e dei toni (che stimola la curiosità e il piacere dell’intrattenimento), ma in ragione soprattutto del valore conoscitivo proprio del confronto tra exempla e modelli comportamentali opposti. La novella viene così assunta come strumento utile a stimolare una riflessione. Ad essere contrapposte non sono solo due vicende, ma due diversi modelli etico-comportamentali: la feroce gelosia – italiana e ‘moderna’ di Tancredi (quella dei «nostri italiani») – contrapposta alla «umanità» e alla «gentilezza di cuore» degli antichi Greci.

Boccaccio ha infatti raccontato la storia tragica di una gelosia morbosa, che ha indotto un padre a un omicidio e, per conseguenza di esso, al suicidio dell’amata figlia. Il comportamento feroce e insano del padre è condannato da Boccaccio, che non solo mostra chiaramente che la ragione, la saggezza e la grandezza umana stanno tutte dalla parte della vittima; ma che anche apertamente aveva affermato – accostando la sorte tragica di Ghismunda con la novella comica di Filippo Balducci – il suo schierarsi dalla parte della ‘naturalità’ della libido femminile (su quella maschile si aveva meno da ridire…), che solo un moralismo artificiale e ipocrita può pretendere di soffocare.

La novella di Bruni documenta anche la fortuna del Decameron, lettura qui usata come forma di intrattenimento pubblico, all’interno di una raffinata ed elegante festa aristocratica. L’uditorio è poi interamente femminile, in linea con i destinatari dichiarati di Boccaccio (che rivolge e dedica le sue novelle, appunto, alle donne): una scelta che costituisce una sorta di omaggio al grande narratore del secolo precedente.

Con Boccaccio Bruni instaura così un dialogo costruttivo, in cui la celebrazione dello scrittore del Trecento si incontra con il prestigio della cultura classica. Il non nominato gentiluomo fiorentino «di grande studio e greco e latino, e molto curioso delle antiche storie», è infatti un umanista. È dunque qualcuno sovrapponibile allo stesso Bruni, di cui evidentemente condivide il progetto culturale: che consiste nell’affermazione della dignità della tradizione volgare fiorentina, ma letta in un dialogo armonioso e costruttivo con la cultura classica, che le nuove generazioni di Umanisti (Leonardo Bruni; Poggio Bracciolini; e fuori di Firenze un Lorenzo Valla e tanti altri) sono in grado di conoscere con una nuova e profonda consapevolezza storica.

 

Leggiamo ora il resto della novella, con lo svolgimento della vicenda

 

Leonardo Bruni, Seleuco (Svolgimento della storia)

 

Presentando la vicenda, Bruni aveva contrapposto l’umanità e la gentilezza di cuore dei greci antichi all’inumana ferocia di Tancredi. Un vero e proprio rovesciamento dei comportamenti, posti sullo sfondo di due situazioni che alludono a una libido ambigua o inconfessabile, perché dai tratti incestuosi: la non confessata (neppure a se stesso), ma evidente, morbosità dell’amore paterno di Tancredi; il consapevole, ma represso, desiderio per la matrigna da parte di Antioco.

Abbiamo visto del resto che l’atteggiamento di condanna che Boccaccio mostra nei confronti del feroce principe di Salerno chiama in causa il principio della ‘naturalità’ del desiderio erotico. Il morboso attaccamento di Tancredi per Ghismunda trova modo di esprimersi (con effetti distruttivi) grazie a una morale che riconosce al padre il diritto di controllare e decidere la sessualità della figlia, mentre l’affermazione del carattere naturale e perciò insopprimibile della libido femminile, presente in tanti luoghi del Decameron, ha esplicita espressione nelle parole di Ghismunda e, soprattutto, nella novelletta di Filippo Balducci (o delle papere) che significativamente Boccaccio colloca subito prima della novella di Tancredi e Ghismunda.

Che l’umanità e la gentilezza di cuore dimostrata da Seleuco vada individuata in un atteggiamento positivo nei confronti della natura e delle manifestazioni fisiologiche del corpo, è indicato nella novella di Bruni dal ruolo eccezionale che in esso assume la figura del medico. È lui il vero protagonista della vicenda, che viene sviluppata attraverso un abile dosaggio dei tempi e della presentazione al lettore dei fattori che portano il medico a scoprire la verità.

Bruni accumula una serie di informazioni che non hanno alcun riscontro nelle fonti classiche della storia, ma che servono:

 - a rallentare il racconto, creando un effetto di attesa: si veda ad esempio l’osservazione che, dopo aver scoperto la natura del male del giovane, non fidandosi di un solo risultato, ripete più volte l’esperienza; ma si veda anche l’accumulo di particolari non strettamente necessari…

- a sottolineare gli aspetti tecnico-medicali della vicenda. Bruni racconta ad esempio che molti medici visitano il ragazzo, ma tutti concordano in una diagnosi erronea, individuandone una causa organica; e lo scrittore si preoccupa non solo di precisare la malattia, ma anche di indicarne la doppia denominazione, quella scientifica (‘distillazione’), e quella comune (‘tisi’). L’agire del medico viene accuratamente descritto e caratterizzato come un agire con coscienza, serietà e correttezza professionale. Alla superficiale diagnosi dei colleghi viene così contrapposta un’attenta pratica osservativa (notava diligentemente ogni suo atto) che caratterizza un rigore semiotico (la semiotica medica è la disciplina che interpreta i sintomi) esercitato su ogni tipo di segni: espressione facciale; colorito della pelle; posture; fisiologia (pressione sanguigna e frequenza del battuto cardiaco).

Il carattere ‘naturale’ della passione (da trattare dunque con sensibilità e senso della misura) trova insomma nel Seleuco non una generica espressione, ma è colto nella sua concreta realtà fisiologica. È qualcosa che appartiene al corpo non meno che all’anima.

Le reazioni fisiche dell’innamoramento non erano certo una novità nella tradizione letteraria (dalla famosa lirica di Saffo tradotta da Catullo nel carme 51; agli infiniti esempi della letteratura cortese medievale), ma è interessante che nel Seleuco la loro descrizione sia collegata a una attenta e rigorosa procedura di osservazione medica. Un aspetto al quale non è estranea la sensibilità quattrocentesca, che anche sul piano artistico comincerà a guardare con una nuova sensibilità e un nuovo spirito di osservazione alla conformazione fisica del corpo e alla sua anatomia.

 

Aspetti materiali della comunicazione letteraria

La letteratura è una forma di comunicazione, naturalmente; e ogni comunicazione viene compresa tenendo conto di molti fattori, che riguardano il contesto in cui essa avviene; le forme in cui è trasmessa ecc.

Quando comperiamo o prendiamo in biblioteca un libro che ci incuriosisce, prima ancora di cominciare a leggerlo, qualcosa di quel libro già ce lo dice la copertina: l’illustrazione (se c’è) che la correda; la sua grafica; la collana editoriale di cui fa parte; il risvolto di copertina, con il quale l’editore non solo cerca di attirare il lettore, ma anche lo orienta, offrendogli una chiave di lettura che dovrebbe guidarlo.

Ma anche quando non esisteva la stampa (e tanto meno l’editoria moderna industriale, il suo marketing e il suo apparato pubblicitario) anche allora allestire un libro manoscritto (cioè un codice) significava indirizzarsi a un certo pubblico e non a un altro: significava, in altre parole, comunicare qualcosa anche attraverso la costruzione materiale del libro (la sua carta; la sua legatura; il tipo di scrittura impiegata) e la scelta dei testi che lo componevano.

Qualcosa del genere avviene con la novella di Seleuco di Leonardo Bruni.

Bruni non si limita infatti a inserire all’interno della novella il legame con Boccaccio e la lacrimevole storia di Tancredi e Ghimunda, ma presenta al lettore un vero e proprio dittico, cioè una coppia di novelle offerte al pubblico come qualcosa di unitario: la novella di Seleuco fu infatti accoppiata alla traduzione in latino dello stesso Bruni della novella di Tancredi e Ghismunda.

Del senso del progetto parla Leonardi Bruni in una lettera del 15 gennaio 1437, all’amico Bindaccio Ricasoli. In essa, annunciando l’invio all’amico della traduzione in latino della novella di Tancredi (sull’esempio del grande Petrarca, che aveva tradotto in latino un’altra novella di nobile e magnanimo argomento, quella di Griselda, che conclude il Decameron), Bruni scrive (diamo il testo tradotto dal latino):

 

Ho aggiunto la novella di Seleuco e del figliuolo Antioco, che riguarda un avvenimento e un esito del tutto contrari. Ho scritto questa in volgare, e per tal modo, avendone portata via una dalla lingua del popolo, in cambio di quella ne restituisco un’altra, non meno dilettevole. Voi dunque le leggete, e fatene copia ad altri, sempre che vi sembrino degne di andare per le mani d’altri (corsivo nostro)

 

Le indicazioni date da Bruni (nella parte conclusiva del brano) influirono sulla circolazione del testo: le due novelle circolarono in molti casi appaiate, nella forma di un dittico (ce lo dice il fatto che sono sopravvissuti più di dieci manoscritti che riportano i due testi insieme).

Se ad accomunare il dittico era dunque il contenuto tematico (le reazioni contrapposti di due genitori di fronte alla sollecitazione emotiva della gelosia), esso si reggeva anche su un incrocio formale (alla novella in volgare tradotta in latino corrispondeva la scrittura in volgare di una storia ricavata da fonti classiche) che confermava quel progetto di integrazione tra cultura classica e tradizione volgare fiorentina che era auspicata da Leonardo Bruni.

 

L’altro trecentista: Petrarca

Scegliendo di raccontare la storia di Seleuco e Antioco, Bruni riprendeva un episodio del mondo antico, ma reso particolarmente celebre da Petrarca, che ne aveva parlato nei Trionfi (ed esattamente nel 2° canto del Trionfo d’amore, ai vv. 94-129), l’ambizioso (e incompiuto) poema in terzine che Petrarca cominciò a scrivere attorno al 1351-52, ma che lo terrà impegnato per lunghissimi anni.

Il poeta assiste in forma di visione al corteo trionfale del dio dell’Amore, un giovane armato di arco, collocato in cima a un carro (vd. Figura – incipit del Trionfo d’Amore – manoscritto, metà XV) Il carro è seguito da una miriade di personaggi (della mitologia, della letteratura o della storia, che in vita furono piegati o rovinati dall’amore).

A un certo punto il poeta vede tre persone che procedono in disparte (fuor di strada)…

 

Petrarca, Trionfo dell’amore, vv. 94 e ss

 

L’episodio desunto dal mondo antico è raccontato da Petrarca come un exemplum della potenza dell’amore; in linea con l’intero Trionfo d’Amore che, del resto, consiste in una lunga carrellata di personaggi, situazioni e vicende, che vogliono comunicare questa essenziale verità morale: di fronte alla forza della passione amorosa l’uomo perde ogni autocontrollo e le conseguenze dei suoi comportamenti facilmente risultano essere la rovina e l’autodistruzione.

La forma di magnanimità che caratterizzò Seleuco assume nel brano di Petrarca un carattere di eccezionalità, che il poeta mette in rilievo presentando i tre distaccati dagli altri del corteo (I' vidi ir a man manca un fuor di strada), in un atteggiamento in cui non manca un senso di vergogna (come chi […] vergognoso e lieto vada). Siamo del resto di fronte a un episodio di non facile lettura, che mescola l’ambiguità della situazione (un figlio innamorato della matrigna) con un paradossale e imprevedibile trionfo di generosa magnanimità: ognuno è disposto a sacrificare il proprio bene, in nome della felicità e della serenità degli altri due (vd. vv. 118-19: Stratonice è disposta a perdere il ruolo di regina; Seleuco a rinunciare al piacere [diletto] che gli deriva dall’amata giovane moglie; Antioco è pronto a perdere la vita).

 

Quale fonte?

Dialogare con gli antichi

 

La vicenda di Seleuco e Antioco è raccontata, con ricchezza di particolari, soprattutto da due autori del mondo antico: il romano Valerio Massimo (l. V, cap. 7) e il greco Plutarco (Vita di Demetrio, cap. 38).

Lo storico greco delle Vite cominciò a circolare in Europa (in una rarissima e preziosa traduzione aragonese) solo negli ultimi decenni del Trecento. Il primo testo completo e originale delle opere di Plutarco fu portato a Firenze solo alla fine del Trecento da Emanuele Crisolora (che ricoprì la prima cattedra europea di lingua e letteratura greca).

Dunque Petrarca (morto nel 1374) difficilmente poté leggere le Vite di Plutarco

Non stupisce comunque che egli traesse la vicenda da Valerio Massimo, il cui repertorio di fatti e detti memorabili (Factorum et dictorum memorabiliium libri IX) gli era ben noto. Del resto, l’opera di Valerio Massimo era diffusissima in tutto il Medioevo, che ad essa attinse a piene mani, trovandovi in abbondanza materiale narrativo utile per illustrare principi morali e norme di condotta.

Bruni, riprendendo quell’episodio, con ogni probabilità si ispirò non già al racconto (peraltro piuttosto stringato) di Valerio Massimo, ma proprio al racconto, assai più articolato e ricco, fattone da Plutarco, che racconta il fatto della Vita di Demetrio (il re di Macedonia [337-283 a. C.], padre di Stratonice, che attorno al 300 a. C. diede in sposa la figlia al re di Siria Seleuco, per rinsaldare un’alleanza politico-militare).

Una scelta non solo motivata dalla relativa ‘novità’ di Plutarco (cosa non poco importante per un umanista come Bruni, studioso del mondo antico e grecista); ma probabilmente anche legata al fatto che il testo dello storico greco concede ampio spazio agli aspetti medico-scientifici della vicenda.

È Plutarco infatti che, diversamente da Valerio Massimo, propone una descrizione accurata dell’analisi fisiologica dei sintomi compiuta dal medico. Plutarco non solo attribuisce al medico un ruolo di vero e proprio protagonista, ma dice trattarsi di uno dei maggiori medici dell’antichità, Erasìstrato di Ceo (305 a.C.250 a.C. circa), anatomista e fondatore la scuola medica di Alessandria d'Egitto. Non è inoltre da escludere che Plutarco avesse ricavato l’episodio proprio da alcuni testi medici greci, che lo raccontano come esempio di abile diagnostica, fondata su un’analisi intelligente metodologicamente corretta dei sintomi.

Che la cosa interessasse un umanista come Leonardo Bruni non è strano. L’attenzione per l’anatomia umana e per la scienza medica – come abbiamo ricordato – fu importantissima per la Firenze quattrocentesca. Si pensi all’attenzione degli artisti per lo studio delle forme del corpo umano; ma si pensi anche all’interesse che la cultura umanistica fiorentina ebbe per un poeta-scienziato (e grandissimo analizzatore delle passioni [rr3] ) come Lucrezio.

La storia di Seleuco offre [rr4] così a Bruni un quadro suggestivo in cui, accanto all’esemplarità morale del racconto (la disponibilità comprensiva verso le umane debolezze, e le naturali pulsioni che i figli manifestano), è proposta un’esemplarità culturale: un sapere in cui la consapevolezza etica si integra con le conoscenze naturalistiche, con l’osservazione dei fenomeni naturali e delle loro dinamiche.

 

Plutarco, Vita di Demetrio [rr5] 

 

Una imprevedibile fortuna moderna: un quadro e un romanzo

 

La bella storia di Seleuco e del figlio Antioco non cessò di interessare narratori e artisti. Ritroviamo infatti la vicenda in Matteo Bandello (1485-1663), autore della più importante raccolta di novelle del Rinascimento (le prime tre parti delle Novelle uscirono tra il 1553 e il 1554; nel 1573, postuma, uscì la quarta e ultima parte). Nella novella 55 della Prima parte Bandello racconta appunto l’antica storia che – osserva lo scrittore cinquecentesco – aveva attirato l’attenzione di Petrarca («[della vicenda] il nostro coltissimo Petrarca nel Trionfo d'Amore fa menzione»). Bandello trae dalla storia una morale un po’ prevedibile, leggendola come un nobile esempio di generosità, ma soprattutto come un caso esemplare di autocontrollo e di dominio delle proprie passioni. Così infatti scrive a conclusione del racconto:

 

Facendo adunque fine, dico che in dare Seleuco la moglie al figliuolo fece un atto mirabilissimo e degno nel vero d'eterna memoria, e che merita di questo esser molto più lodato che di quante mai vittorie egli avesse dei nemici, ché non è vittoria al mondo maggiore che vincer se stesso e le sue passioni. Né si deve dubitare che Seleuco non vincesse gli appetiti suoi e se stesso, privandosi de la carissima moglie.

 

Ma la storia interessò non poco gli artisti. Sono infatti numerosi i quadri che in età moderna ad essa si sono ispirati; in genere scegliendo di rappresentare il momento in cui il medico, stando al capezzale del giovane ammalato, comprende la natura del suo male e ne diagnostica con esattezza la causa.

Il soggetto ispira il giovane Jacques Louis David (1748-1825), il grande pittore neoclassico autore di alcuni dei quadri più noti della Francia della rivoluzione e dell’età napoleonica, che nel 1774, poco più che ventenne, realizza una famosa tela (ora conservata a Parigi, nel Museo delle Belle arti) che rappresenta il momento in cui il medico Erasistrato comprende che Antioco è innamorato di Stratonice.

 

J. L. David, Antioco e Stratonice (1774)

 

Il giovane David non si cimentava tuttavia con un soggetto pittorico originale, ma canonico – come si conveniva del resto a un giovane artista che doveva mostrare al mondo la propria perizia tecnica.

Tra i più famosi quadri dedicati a quel soggetto c’è l’opera del veneto Antonio Bellucci (1654-1726), ora noto solo agli specialisti, ma che fu ai suoi tempi pittore di successo, conteso da importanti committenti europei, tanto che per trent’anni lavorò in Austria, Germania e Inghilterra. Ed è proprio in Germania che dipinse, attorno al 1700, il quadro Antioco e Stratonice, ora conservato a Kassel.

 

Antonio Bellucci, Antioco e Stratonice (1700 ca.)

 

Non sappiamo se Goethe vide proprio questo quadro (o un altro dei tanti che in area tedesca nel corso del Settecento furono dedicati a questo soggetto, da Elias di Nimega [1667-1755] a Januarius Zick [1730-1797]), ma certo il soggetto lo colpì al punto da parlarne in uno dei suoi capolavori, il romanzo Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795-96). Nel libro si parla infatti di un quadro (senza specificarne non solo l’autore, ma neppure con esattezza il soggetto), che «rappresentava la storia del principe malato che si consuma d’amore per la sposa del padre».

Nel Meister il quadro compare nel primo libro del romanzo e nell’ultimo (l’ottavo), proprio nelle battute conclusive del libro. Esso è dunque collocato in una posizione molto significativa, che suggerisce come alla vicenda di Seleuco, Antioco e Stratonice vada attribuita grande importanza. Tanto più che il Meister è un’opera complessa, spesso artificiosa e intellettualistica, nella quale le diverse parti si corrispondono con simmetrico rigore e con attenti richiami simbolico-allegorici.

Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister è comunemente ritenuto l’archetipo del cosiddetto ‘romanzo di formazione’ (o Bildungsroman), che tanta fortuna avrà nella letteratura europea dell’Ottocento (dalle Illusioni perdute di Balzac, al David Copperfield di Dickens, all’Educazione sentimentale di Flaubert): il romanzo che ha per protagonista un giovane di cui si raccontano le vicende e le difficoltà che lo accompagnano negli anni in cui cerca il suo posto nella società, ma soprattutto cerca se stesso, nella difficile impresa di far quadrare ideali e aspirazioni con la realtà, spesso deludente e prosaica, del mondo.

Riassumiamo e semplifichiamo la trama, assai complicata e piena di coincidenze ‘romanzesche’, dell’opera:

 

Wilhelm Meister appartiene a una ricca famiglia borghese tedesca. Il padre, agiato e solido commerciante, vorrebbe avviarlo agli affari, ma Wilhelm è attratto fin da bambino dal teatro. Innamoratosi perdutamente di un’attrice (Mariane) decide di lasciare la casa paterna e diventare attore. La notte della fuga progettata scopre tuttavia che Mariane, che aspetta un figlio da lui, lo tradisce. Quella notte stessa incontra un anziano viaggiatore, che scopre essere il consulente d’arte che anni prima aveva curato la vendita della ricca collezione di quadri del nonno (grande amante d’arte) che il padre aveva venduto quando Wilhelm era bambino, per investire il denaro in lucrose attività commerciali. È a questo punto (alla fine del I libro del romanzo) che fa la sua comparsa il quadro del principe innamorato della sposa del padre: esso apparteneva infatti alla collezione del nonno, e quando Wilhelm era bambino molto fu colpito da quel soggetto.

Rinunciando alla romantica fuga con Mariane, Wilhelm si dedica agli affari, compiacendo la volontà paterna; ma durante un viaggio di lavoro si imbatte in una compagnia di attori girovaghi, di cui fanno parte anche una misteriosa fanciulla (Mignon) e un vecchio suonatore d’arpa. Wilhelm si unisce allora alla compagnia e comincia a condividerne la vita avventurosa e precaria. In un castello dove la compagnia ha un ingaggio, Wilhelm conosce l’impresario Jarno, che lo incita a realizzare quello che dovrà essere il suo capolavoro teatrale: una messa in scena dell’Amleto di Shakespeare. Seguono varie peripezie. La compagnia è assalita dai banditi, e Wilhelm in fin di vista è salvato da una misteriosa donna a cavallo (si scoprirà solo alla fine del romanzo essere la nobile benefattrice Nathalie). Successivamente Wilhelm (con Mignon e il vecchio arpista) si legano alla compagnia teatrale di un certo Serlo, la cui sorella, Aurelie (che era stata abbandonata da Lotario, un nobile idealista, andato a combattere in America al fianco di Washington) si lega sentimentalmente a Wilhelm (ma Aurelie morirà poco dopo). Intanto Wilhelm ha scoperto di essere padre di un bambino, Felix, partorito da Mariane, che poco prima di morire l’aveva affidato ad Aurelie.

La vicenda si scioglie negli ultimi due libri. Wilhelm, con il piccolo Felix (alla cui educazione intende dedicarsi con tutte le forze) giunge in un castello che scopre essere la sede di una misteriosa società filantropica di tipo massonico (chiamata La Torre). La società ha seguito tutte le vicende di Wilhelm, proteggendolo a sua insaputa da pericoli e insidie, ma lasciando che egli seguisse le proprie aspirazioni. Nel castello Wilhelm ritrova le opere d’arte della collezione del nonno, e il quadro del giovane principe innamorato della matrigna che tanto aveva colpito la sua fantasia di bambino.

Nel castello Wilhelm apprende la patetica storia di Mignon (che, ammalatasi, morirà in quei giorni) e dell’arpista – che si scopre essere il padre della ragazzina: un nobile milanese, ex monaco, che aveva generato Mignon con una ragazza che solo in un secondo tempo seppe essere sua sorella. Conoscerà anche l’identità della misteriosa amazzone che l’aveva soccorso: è la buona Nathalie, che alla fine del romanzo diventerà sua moglie.

 

 

Le complicate vicende del Meister sono dunque la storia di un giovane che sperimenta se stesso e le proprie inclinazioni alla ricerca della propria soggettività. Wilhelm non vuole essere ciò che il destino e la condizione famigliare e sociale hanno deciso per lui: ma vuole affrontare il percorso, irto di difficoltà e di dolori, attraverso il quale egli possa ritrovare se stesso come individuo, rispettando le proprie inclinazioni e aspirazioni.

La formazione di Wilhelm si conclude con l’assunzione di responsabilità ‘borghesi’: egli assolverà i propri doveri di padre curando l’educazione del piccolo Felix; darà al figlio la stabilità e l’ordine famigliare scegliendo per lui come madre la saggia e nobile Nathalie; rinuncerà infine all’arte e al teatro, dedicandosi allo studio e all’esercizio della medicina, professione utile alla società, che Wilhelm intende esercitare con spirito altruistico e dono di sé.

L’inquieto e ribelle Wilhelm trova insomma, alla fine del romanzo, una forma di integrazione nella società. Ma non già accettandola in maniera acritica e filistea; ha invece conquistato una visione eticamente consapevole dei valori che costruiscono una comunità e fondano un armonico rapporto tra l’io e gli altri, tra l’ineliminabile egoismo dell’individuo e l’altruismo richiesto da una giusta e sana convivenza sociale.

Il romanzo è dunque un’affermazione della libertà del giovane, che deve autonomamente costruire il proprio posto nel mondo, senza il condizionamento derivato dalle condizioni sociali e dalle convenzioni. Il libro può così concludersi con le parole che un personaggio dice a Wilhelm, che sembra vergognarsi dei «tempi» sregolati della prima giovinezza:

 

«[Tempi] dei quali non avete da vergognarvi, così come non ci si deve vergognare delle proprie origini. Erano bei tempi e quando ti guardo mi viene da ridere: mi sembri Saul, il figlio di Kis, che uscì a cercare le asine di suo padre e trovò un regno.»

 

«Non ci si deve vergognare delle proprie origini». La frase è una chiara celebrazione del principio borghese della libera espansione dell’individuo (emancipato dalle costrizioni e dai condizionamenti dell’origine sociale) e della sua possibilità di successo (significativo il richiamo biblico a Saul, che da semplice pastore divenne re di Israele, tratto dal libro di Samuele, 9-10). Ma se trasferiamo la frase su un piano pedagogico, essa è anche l’affermazione di un principio educativo: favorire nel giovane la sperimentazione di se stesso e delle proprie inclinazioni, facendo dell’equilibrio una conquista personale, non l’adeguamento di superficie a norme imposte dall’esterno.

Ma questo significa, anche, concedergli la possibilità dell’errore che ogni sperimentazione porta con sé.

Inserita nel contesto di un romanzo pedagogico come il Meister, la vicenda di Seleuco, Antioco e Stratonice, viene così ad assumere un significato nuovo: non già la rappresentazione esemplare di un gesto di generosità e di autocontrollo delle passioni, ma l’affermazione di un principio educativo liberale, che non soffoca il mondo emotivo e pulsionale del giovane.

Il tema (che ha davvero un carattere programmatico, utile a illustrare il significato complessivo del romanzo) viene esplicitamente indicato nella prima comparsa del quadro, nel libro I (cap. 17) del Meister.

 

Riportiamo parte del dialogo tra Wilhelm e uno sconosciuto incontrato nella notte. Willhelm si sta preparando a lasciare la casa paterna per fuggire con l’amata Mariane, l’attrice di cui è perdutamente innamorato. Nell’attesa dell’appuntamento con la ragazza, incontra nelle vie buie della città un forestiero: chiacchierando con lui scopre che è lo stesso uomo che anni prima, quando Wilhelm era bambino, venne a stimare il valore della collezione d’arte del nonno di Wilhelm.

 

Goethe, Meister - I 17

 

La vicenda di Antioco e Stratonice viene così riletta alla luce di una sensibilità tutta romantica, in cui è oggetto di pena la costrizione dei «dolci impulsi», cioè della passione amorosa. Ma Goethe non offre al lettore una generica celebrazione dell’amore, che la sensibilità romantica enfatizza come aspirazione all’assoluto: l’accenno è infatti inserito all’interno di un disegno pedagogico.

L’insopprimibile amore di Antioco, che lo porterebbe alla morte, sottintende il gesto liberale del padre di lui, Seleuco, che ha accettato la naturalità degli istinti (quelle che spingono due giovani, due coetanei come sono Antioco e la sua matrigna, ad amarsi).

L’episodio rivela conferma quella «umanità» e «gentilezza di cuore» dell’esempio antico – quegli stessi valori che già Bruni sottolineava contrapponendoli alla feroce gelosia di Tancredi. Ma all’interno del romanzo pedagogico moderno di Goethe acquista un valore simbolico più profondo: è la storia che illustra una concezione liberale dell’educazione, che mentre riconosce la forza delle pulsioni e delle passioni, affida alla riflessione e all’esperienza vissuta – non a una acritica imposizione - la conquista dell’equilibrio e la costruzione consapevole, nel profondo del cuore, della legge morale che deve accompagnare la vita dell’individuo.

 

Nelle pagine conclusive del romanzo, quando i fili delle varie vicende e peripezie dei personaggi si sciolgono e Wilhelm, in particolare, troverà un affetto stabile nell’amore di Nathalie, il balzano e comico personaggio di Friedrich può divertirsi a scherzare sulla storia rappresentata nel quadro: il medico ha trovato per il giovane la sola medicina «che cura davvero» ed è, ciò che non guasta, una medicina «buona di sapore»! Ma dietro la bonaria conclusione di Friedrich c’è la vicenda lunga e sofferta dell’’apprendistato’ di Wilhelm, della sua formazione a una vita piena e matura. Una vicenda che quel quadro sembra rappresentare: da quando ha impressionato Wilhelm da bambino, a quando esso riappare, nel momento dello scioglimento finale della storia, che prelude alla nuova vita di Wilhelm. E non è la banale storia di un amore represso che trova modo di realizzarsi, ma quella del giovane che cerca se stesso, in autonomia, e con l’orgoglio di chi impara che «non ci si deve vergognare delle proprie origini».

 

Goethe, Meister – VIII. - cap. finale

 

 

12 ottobre 2020