Carla Sclarandis - Un paradosso della scuola italiana: la modernità letteraria senza il Novecento

1. È giudizio condiviso: non solo nel linguaggio comune ma anche in quello critico proprio della manualistica scolastica, l'aggettivo "moderno" quasi sempre evoca l'aggettivo "contemporaneo" e "moderni" sono quegli autori o quelle opere che in qualche modo aprono la strada verso la laicizzazione della cultura e verso una rappresentazione dell'uomo, della società e della storia in cui ancora ci riconosciamo. Convenzionalmente, la storia letteraria destinata ai giovani è una marcia forzata di avvicinamento all'oggi, in missione di civiltà, sulla traccia di quegli "universali" filosofici, etici ed estetici che la cultura contemporanea ancora presuppone. Sono "moderni" gli umanisti del Quattro e del Cinquecento perché sanno distinguere le humanae litterae dalle divinae litterae, rivendicare i diritti dell'uomo naturale, restituire l'arte greco-romana alla sua distanza storica proprio mentre l'assumono come modello da imitare. È moderno Machiavelli perché inventa la scienza della politica in totale indipendenza dalla morale; Galilei perché afferma la verità delle "sensate esperienze" contro il dogmatismo del "mondo di carta"; gli Illuministi perché affrontano il rapporto individuo-società-potere e trasformano le forme letterarie; Leopardi perché fa i conti con il "Nulla eterno" e smonta definitivamente ogni illusione antropocentrica, e perché orienta la poesia lirica verso l'autobiografismo interiore. Ma già prima della cesura quattro-cinquecentesca fra il mondo premoderno, inteso come chiuso e comunitario, e quello moderno, caratterizzato in senso individualistico e disgregato, anche Petrarca e Boccaccio sono più moderni dei poeti stilnovisti e di Dante; e così l'epica cavalleresca del primo Cinquecento lo è più di quella eroica del secondo. Il significato di "moderno", che a scuola proponiamo mutuandolo dalla nostra tradizione critica, insiste, dunque, da un lato sulla filiera genetica di forme e temi, dall'altro sull'abbreviazione della distanza che intercorre fra noi e il passato; o, se si preferisce, riposiziona nella lunga durata i sedimenti stratificati di un'identità culturale collettiva. Si potrebbe facilmente obiettare che tale significato di "moderno", tutto interno a una rilettura orientata, lineare e progressiva della letteratura, è un residuo dello storicismo ottocentesco oggi superato. Ma qui non voglio fermarmi sulla storia delle idee e sulle filosofie della storia. Semmai mi interessa constatare una qualche compatibilità fra un'esegesi attualizzante, comunque inevitabile in sede didattica, e l'insegnamento della critica letteraria, della filologia e dell'ermeneutica novecentesca: mi pare che oggi, sulla scorta di una lettura del testo che da Nietzsche in poi coniuga la spiegazione formale con l'interpretazione parziale e partigiana, dichiarare moderna un'opera del passato significhi innanzitutto riconoscerla, a diversi livelli di consapevolezza, come appartenente alla nostra vita e riappropriarcene. Anzi, proprio in questa riappropriazione, come dichiara Ezio Raimondi nel suo ultimo libro, consiste Il senso della letteratura, ritrovato quando «l'estetica della parola si integra e si adempie nell'etica del lettore»[1].
Ma non si può dimenticare che lo stesso concetto di "moderno", soprattutto se impiegato nella forme sostantivate di "il moderno" o "la modernità", rimanda invece a un'epoca cronologica specifica, cioè all'Otto-Novecento. La "nuova letteratura" per De Sanctis è quella di Foscolo, Leopardi e Manzoni, "moderni" in rapporto a Metastasio e alla sua poesia melodrammatica di ispirazione classica[2]. Del romanzo otto-novecentesco Auerbach valorizza il realismo mimetico finalmente capace della rappresentazione "democratica" del quotidiano, contro quella classicistica, comica o elegiaca[3]. Del romanzo modernista Debenedetti[4] mostra "la contemporaneità" attraverso uno sguardo sincronico piuttosto che diacronico e una lettura culturale e interdisciplinare piuttosto che genetica e filologica[5], rimanendo dentro l'epistemologia del Novecento. Moderna, dunque, è, in senso storico, la letteratura europea dell'Ottocento e del Novecento, nella quale, attraverso la trasformazione dei sistemi letterari succedutisi fra il Romanticismo e l'età delle Avanguardie, «la prosa diventa il medium naturale della narrazione, la poesia si specializza in senso lirico, la lirica si fa sempre più soggettiva»[6]. Ed è certamente nel Novecento che anche la letteratura italiana esprime la piena coscienza - o, come ha scritto Romano Luperini, l'autocoscienza - del moderno.[7] Sono le opere del XX secolo a condividere, seppur nella specificità nazionale, i tratti distintivi della modernità europea: sul piano dei temi, gli scenari urbani delle grandi metropoli, la traumatica separazione dal passato, la dissociazione uomo-natura, il dubbio sul senso delle cose, la condizione di spettatore rispetto all'esistenza privata e collettiva del soggetto; sul piano degli stili, la fine della tradizione intesa come un «complesso di forme, abitudini, canoni, topoi che ha attraversato la letteratura occidentale fino all'epoca romantica»[8].
Ebbene, questa modernità, così costitutivamente contemporanea, tanto da essere presupposta nella periodizzazione storico-letteraria del Novecento dai termini di "Modernismo" e "Postmoderno", a scuola è trattata sempre troppo poco e troppo di fretta. La discrasia debenedettiana fra «una contemporaneità come sentimento personale e una contemporaneità come valutazione cronologica»[9] meriterebbe di essere riesumata proprio ora quando la letteratura in sé, classica o premoderna o moderna, nelle nostre scuole rischia di essere «non tanto postuma ma superflua»[10] e del tutto irrilevante nella formazione. Se contemporaneo non è sinonimo di coetaneo, tuttavia è pura mistificazione presumere, sia pure in nome della modernità acclarata dei grandi autori canonici italiani assai lontani nel tempo, che oggi si possa riservare a loro l'intero percorso scolastico, come si finisce per fare rimanendo ancorati alla tradizione critica e alla consuetudine didattica.

2. La scuola deve scegliere: quali autori della tradizione proporre, e in quali spazi collocare lo studio critico della modernità - occidentale, non solo italiana - senza la quale il mondo attuale resta certamente più opaco e inspiegabile di quanto già di per sé non sia. I grandi autori premoderni, Dante in primis, che in un discorso letterario specialistico e sulla scorta dei grandi critici o poeti del Novecento, da Auerbach a Contini, da T.S. Eliot a Pound a Montale, possono apparire assai prossimi a noi, e a cui - sia detto a scanso di fraintendimenti - nessun insegnante d'Italiano è disposto a rinunciare, a scuola "moderni" non lo sono affatto: rischiano di risultare illeggibili agli studenti italiani non meno che a quelli stranieri, per la barriera della lingua o della forma o per la loro visione del mondo. La modernità di Petrarca, ungarettianamente riconoscibile in quel «sentimento del tempo» che s'insinua nell'io e lo scinde, non basta a decretare la parentela clinica fra l'accidia di cui il poeta medievale si accusa e le nostre nevrosi depressive: l'accidia è un peccato e non una malattia e se Petrarca sa di non redimersi agli occhi di Dio, tuttavia non rinuncia affatto all'aggiustamento allegorico dei dati di realtà[11]. Così fin dal sonetto proemiale istituisce la nota contrapposizione fra una giovinezza devastata dall'errore e una maturità governata dalla coscienza filosofica e morale della colpa, segno formale che la scissione dell'io petrarchesco rimane assai lontana da quella discontinuità e casualità dell'esperienza mai ricomponibile, di cui la lirica contemporanea si fa interprete e di cui noi abbiamo diretta esperienza.
E anche in presenza di un autore divertente come Boccaccio, può essere non solo fuorviante bensì dannoso uno schiacciamento sul presente, come si fa ad esempio quando si propone un "Boccaccio femminista" in nome di quella "democrazia erotica" che regna nel Decameron e che pare consuonare con il femminismo odierno. I diritti che Boccaccio riconosce alle donne rimangono, invece, ben ancorati al pensiero bassomedievale sulla positività della natura, esaltata in quanto strumento usato da Dio per creare il mondo e perciò regolatrice di ogni cosa: non solo dell'universale diritto alla sessualità, ma anche della "naturale" inferiorità, fisica e morale, della donna[12].
Certamente una corretta lettura dei classici, capace di mettere in relazione le domande di senso del presente con una storicizzazione rispettosa della loro lontanza culturale, è impresa assai difficile; eppure è sempre più necessaria se la scuola non vuole confondersi con le altre agenzie formative né cedere alle tentazioni identitarie, ma, al contrario, intende misurarsi con le domande poste dalle nostre frammentate società e insegnare ai giovani, anche attraverso la letteratura, a riconoscere la condizione umana in loro e intorno a loro[13]. Allora, anziché rincorrere, in nome dell'intelligibilità universale della nostra grande arte, la chimera di una storia letteraria italiana esaustiva anche a costo di ridurla a "bignami", io credo che sia giunto il momento di puntare su alcuni, pochissimi, autori della nostra letteratura dalle origini al Settecento, studiati in quanto non moderni, per illuminare, contrastivamente, la modernità di cui portiamo ancora evidenti i segni e che dobbiamo indagare più a fondo proprio studiando la letteratura italiana ed europea; e insistere sulla non modernità di quelle voci anche per abituare i giovani a riconoscere significati e valori in una civiltà diversa dalla loro.
Radicalizzando la proposta, a titolo non certo prescrittivo, bensì esemplificativo della dialettica premoderno/moderno ad usum scolastico, si potrebbe sostenere che prima dell'Ottocento basta studiare a fondo Dante, oggi divenuto "poeta mediatico" in nome della sua "atemporalità". Innanzitutto perché è radicalmente "altro" da noi e, con la sua potenza espressiva, cattura l'interesse dei giovani prima ancora che l'abbiano compreso (in questo Benigni ha ragione). Leggere l'Inferno comporta per i nostri studenti, ignari di tutto ciò che riguarda il medioevo, la patristica e la filosofia scolastica, un'intensa emozione estetica che li motiva alla fatica dell'esegesi testuale e dell'interpretazione: in una parola li predispone allo studio. Una sapiente mediazione didattica può, allora, fare il resto: cioè distanziare l'opera e l'autore restituendoli alla loro epoca - e intanto mostrare come proprio da quella distanza ci parlino[14].
Farò solo qualche esempio, tratto dall'esperienza concreta. Fin dal primo canto dell'Inferno, i ragazzi si rendono subito conto che la selva non è il lago di Como dei Promessi Sposi: che a Dante non interessa descrivere un luogo fisico, ma una realtà simbolica - la quale però per lui non è certo meno reale. I suoi movimenti nella selva e la disposizione degli oggetti che vi incontra rimandano anch'essi a una visione dello spazio non prospettica ma simbolica, la stessa che governa la pittura medievale almeno fino a Giotto, e che al nostro occhio risulta così insolita. Il viaggio che Dante compie nell'aldilà si rivela perciò subito come un'allegoria; e la conferma viene seguendolo mentre sprofonda nelle viscere infernali e poi risale da quelle profondità abissali verso l'alto, fino all'Empireo abbagliante, da cui emana la luce e il senso per e del mondo. Il contrasto è fortissimo col viaggio di Ulisse, che non per niente parla così immediatamente a noi moderni: un viaggio che si svolge tutto in una prospettiva umana, e perciò in orizzontale, ma proprio per questa incapacità di proporsi una meta che vada al di là dell'esperienza terrena si conclude in una catastrofe.
Proseguendo nella lettura della Commedia, si arricchisce di altri aspetti la scoperta d'una visione del mondo fortissima e tuttavia profondamente diversa dalla nostra, espressa con una potenza che scuote soprattutto le giovani coscienze. È la sicurezza del giudizio etico, spesso dolente ma mai incrinato dal dubbio, la condanna perentoria di chi ha violato un codice ben conosciuto da tutti. Paolo e Francesca si amano, e Dante ha simpatia umana per loro, nel senso etimologico del termine: riconosce cioè la loro debolezza e capisce come mai vi abbiano ceduto. Ma sa che sono andati all'inferno, perchè nel suo mondo la colpa esiste ed è oggettiva, senza attenuanti, perchè si colloca in una dimensione integralmente etica, senza le complicazioni psicologiche o sociologiche che noi inevitabilmente - e, ai nostri occhi, giustamente - vi introduciamo. Altrettanto centrale nella prospettiva della Commedia, e altrettanto spiazzante per chi vive nel mondo d'oggi, è il rifiuto di separare la politica dalla morale, in assoluto contrasto con quanto insegnerà secoli dopo il "moderno" Machiavelli: e dunque il rifiuto di un'autonomia della politica, perchè l'uomo è uno e il senso della sua vita sta nell'adesione all'obbligo morale, non nello scopo pratico da raggiungere. Infine anche la polemica con "il maladetto fiore" si presta a considerazioni importanti, in bilico fra ieri e oggi: fiero oppositore dell'avidità della proto-borghesia e dei particolarismi degli stati nazionali, Dante vede avanzare l'orrore in Firenze e fuori nel nuovo che emerge nell'economia, nella società e nella politica e che s'imporrà inesorabilmente fino a trionfare in età moderna; e con quel nuovo rifiuta ogni compromesso o complicità ancora in nome di un'inscindibile unità fra il "cittadino" e il "fedele", fra le aspirazione dell'uomo nella storia e il destino che lo attende dopo la morte. La sua condanna della corruzione è tanto implacabile da seppellire nell'inferno l'intera società del suo tempo, in quanto tutta subordinata alla logica del guadagno; ma in quella stessa condanna vibrano l'utopia del riscatto e dell'impegno per cambiarla e salvarla.
Dante, dunque, insieme a pochi altri grandi autori, scelti in base alle specificità delle classi, delle scuole, dei territori; ma con l'obiettivo condiviso di dar conto di una discontinuità evidente fra il passato remoto e quello prossimo della nostra cultura, ponendo a quegli autori e a quelle opere le nostre domande, ma riconoscendone la grandezza nelle loro risposte ben diverse dalle nostre.

3. Lontananza e diversità, abbiamo detto, per non scadere nella retorica della grande arte che parla da sola e comunque. E per affrontare il fatto che anche la letteratura propriamente moderna è, per i giovani, lontana - per non dire estranea - e difficile; in altre parole per non eludere il fatto che a scuola si è completamente esaurita la tesi debenedettiana della modernità come contemporaneità. Le cause di questo esaurimento sono molteplici e se ne discute da trent'anni; qui se ne possono menzionare solo alcune: la società e la cultura di massa con la conseguente, pasoliniana, mutazione antropologica; la rivoluzione tecnologica e la progressiva assuefazione dell'homo videns alla simultaneità multimediale[15]; la globalizzazione del mercato e del lavoro; il postmoderno e la conclamata, presunta fine della storia. Sulle conseguenze merita, invece, soffermarsi un po' più a lungo. Mi limito a due aspetti che caratterizzano la scuola a parte discentis: la cultura giovanile e i bisogni formativi della variegata popolazione scolastica. Questi aspetti non solo incidono sulla didattica, ma determinano, al di là dei tentativi più o meno vigorosi di difesa della letteratura a parte docentis, il senso o il non-senso che al nostro insegnamento viene riconosciuto. Su ciascuno di essi qualche considerazione provvisoria, ma in presa diretta.
Sul primo punto, è inevitabile ricordare la provocazione lanciata vent'anni fa dal postmoderno Pier Vittorio Tondelli, il quale riconosceva alla musica rock il merito di aver espresso i più grandi poeti degli ultimi decenni e di aver intercettato, sostituendosi alla poesia alta, il bisogno giovanile, «assoluto e struggente», di poesia. Attraverso quelle forme estreme di maledettismo, che nessuno dei poeti ufficiali avrebbe potuto riproporre, i poeti-cantanti rinnovavano ai giovani di tutto il mondo il mito romantico del poeta lacerato dal conflitto fra arte e vita, fra immaginazione e quotidianità[16]. La verità di questo giudizio sembra oggi scontata. Se è vero che la cultura dei giovani si caratterizza per un ritorno all'oralità, la musica pop nelle sue diverse espressioni, quanto e più ancora del cinema, è il linguaggio artistico, transnazionale e ormai anche transgenerazionale, che conserva per loro un alto valore identitario. Certo si tratta di una forma d'arte fortemente compromessa con l'industria culturale, ma, ciò nonostante e unanimemente, i giovani le riconoscono la capacità di interpretare i loro sogni e le loro delusioni, di dire la loro sfiducia nel futuro e la distanza dalle istituzioni, la loro rabbia o lo sgomento per il disincanto nichilista del mondo attuale[17]. E sull'onda lunga dell'emozione estetica, si aprono, loro appartenenti a una generazione senza storia, ad accogliere la generazione rock degli anni sessanta, che invece della storia si sentiva parte e artefice, e, ascoltando le note malinconiche delle utopie fallite di allora, imparano a distinguere i testi di Bob Dylan da quelli di John Lennon o di Paul McCartney, di Joan Baez o di Jim Morrison e dei loro seguaci. Dobbiamo saperlo: quasi sempre ignoranti in letteratura, i nostri interlocutori possono essere anche molto competenti in quelle forme di arte pop che nel Novecento hanno interpretato, per le grandi masse, il cambiamento: perché in quelle si riconoscono. Con ciò non intendo certo proporre di sostituire i testi delle canzoni rock alla poesia e il cinema al romanzo, bensì diffidare della facile scorciatoia della tabula rasa e della fine della memoria. I giovani di oggi, figli di una società segmentata in gruppi fra loro incomunicanti, dispongono di un corpus implicito di testi e di discorsi diversi da quelli che noi vorremmo, ma che noi insegnanti dovremmo essere capaci di mobilitare, affinché la letteratura che insegnamo acquisti ai loro occhi significato e valore.
Sul secondo punto, è un dato di realtà inconfutabile che oggi nelle scuole siedono ragazzi provenienti dalle più disparate aree geografiche del mondo e che la disciplina tradizionalmente denominata Letteratura italiana si sta trasformando in quella prossima, benché assai diversa, di Letteratura, aprendosi ad autori non italiani, europei ed extraeuropei, per lo più contemporanei. Si tratta di uno sconfinamento geografico irreversibile, che si sta imponendo in re, nonostante la diffidenza teorica che ancora suscita in verbis. Ma in un mondo sempre più integrato, a sgretolarsi è proprio quel concetto "moderno" di identità nazionale che le storie letterarie delle diverse lingue occidentali hanno da un lato assorbito dall'altro definito. Nelle nostre classi colorate, ad essere sottoposto a verifica non è soltanto il canone degli autori, ma soprattutto il senso della letteratura: la rilevanza che gli studenti riconoscono agli autori studiati dipende in gran parte dal significato che ne possono derivare per sé[18], chi è di origine italiana ed europea e chi non lo è.
All'interno di questo quadro di riferimento, la letteratura può essere una efficace palestra di conoscenza di sé e dell'altro e può contrastare lo smarrimento complessivo del senso della vita propria e altrui[19], ma a questo fine deve essere rivolta. Gli interventi dei colleghi nella sessione riservata alla scuola hanno confermato questa esigenza e hanno anche indicato l'orientamento dell'attuale ricerca didattica sul campo, testimoniando la vitalità di una sperimentazione relativa ai temi, ai linguaggi e alle espressioni della cultura contemporanea. Ma non può essere che la prassi corra in una direzione e i discorsi pubblici in un'altra, sull'onda della nostalgia temporis acti e del disprezzo per l'attuale scuola dell'ignoranza "democratica". Nell'insegnamento letterario proposto a scuola, la contemporaneità e la sua genesi devono assumere maggiore centralità, magari con un rovesciamento del modello tradizionale insistente sulle origini e sugli sviluppi della nostra letteratura fino alla prima guerra mondiale, per riservare la giusta attenzione non solo all'Ottocento ma anche - e soprattutto - al Novecento. In Francia, Inghilterra e Germania, seppur con notevoli differenze da un sistema scolastico all'altro, la scelta a favore della modenità-contemporaneità è un fatto acquisito. In Italia, al contrario, la scuola ha il mandato di preservare la memoria dei suoi, grandissimi, autori premoderni. E possiamo essere tutti d'accordo, per il valore che essi occupano nella nostra cultura e in quella europea. Ma non si può non prendere sul serio il fatto che la loro grandezza oggi non è di per sé sufficiente a garantire né un'educazione letteraria compiuta né una formazione di qualità. Non aver letto, alla fine di un liceo, nemmeno una poesia di Ungaretti, non una di Montale, non Pirandello né Svevo, non aver trattato Calvino, non Fenoglio, non Primo Levi, come sempre più spesso succede, è altrettanto scandaloso che non aver letto Petrarca o Boccaccio o, peggio, che averli letti e dimenticati. Perché non è vero che i classici italiani fino all'Ottocento non si insegnano: è che non si ricordano. Se oggi gli studi umanistici sono così essenziali nella formazione di base non è per garantire la sopravvivenza di qualche libro, bensì per difendere, in un mondo sempre più tentato dalla rinuncia e dall'esclusione, il diritto di tutti alla cittadinanza e alla dignità. Allora bisogna sapere che, a questo fine, è cruciale lo studio consapevole dell'incontro-scontro fra la cultura alta e quella di massa, fra il moderno e il post- o tardo-moderno. E che perchè tale studio sia efficace occorre che fra "gli addetti ai lavori", della scuola e dell'università, non solo si accetti di mettere in discussione il modello tradizionale di insegnamento letterario e il suo paradigma di moderno, ma anche che si garantisca ai futuri insegnanti una competenza disciplinare adeguata sui diversi aspetti della modernità propriamente storica.

4. Todorov conclude il suo recente grido d'allarme sulla "letteratua in pericolo" ricordando che «si uccide la letteratura non quando a scuola si studiano anche testi non letterari, ma quando si fanno delle opere le semplici illustrazioni di una visione formalista, o nichilista, o solipsistica della letteratura»[20], compromettendone così irreparabilmente il senso. Noi insegnanti sappiamo bene cosa Todorov intenda dire: troppo spesso il nostro insegnamento corre questo rischio e rimane separato dal mondo in cui i nostri studenti vivono e dai modelli estetici che consumano. Ebbene, la scelta dell'oggetto di studio non è estranea a questa separazione; se sapessimo - e potessimo - proporre la poesia e il romanzo, il teatro e la saggistica italiana ed europea dal Sette-Ottocento in poi, se cioè sapessimo affrontare la modernità e la contemporaneità con l'ampiezza e la profondità necessarie ad uno studio adeguato, forse ridurremmo tale incongruenza. Anche perché sarebbe più ovvio per l'insegnante di letteratura gestire metodologie non così collaudate (quali l'approccio tematico e interdisciplinare o i percorsi per genere, con sfondamenti cronologici in avanti e indietro), assecondando i ragazzi sulla strada, per loro tanto facile, del confronto fra linguaggi ed esperienze: non già per incoraggiarli nella disinvolta ibridazione, ma per abituarli alle distinzioni. E così, tentando strade nuove, forse riusciremmo a mostrare come dietro le canzoni dei beat poets o dei cantautori pop di ieri e di oggi spesso ci siano i grandi poeti, e forse renderemmo conto del perché la poesia scritta dai poeti canonici moderni si è allontanata da ogni forma di cantabilità. Senza contare che, a queste condizioni, diventerebbe cosa quasi normale (e non eccezionale o audace) parlare anche di quei prodotti commerciali di successo, opere pseudoletterarie più che letterarie, di scarso o di nessun valore estetico, ma che tutti i ragazzi conoscono, o di quegli scrittori o registi, italiani e stranieri, che assediano le classifiche e che nella comunicazione mass-mediatica rappresentano la letteratura o il cinema contemporaneo. Qualcuno penserà che sto proponendo di cedere all'industria culturale anziché di contrastarla: non direi; piuttosto, in quanto insegnante, vorrei che quando i ragazzi che frequentano una scuola superiore si fermano davanti alla vetrina di una libreria o vanno al cinema o arrestano il telecomando sull'intervento di uno scrittore "televisivo", sentissero, in qualche modo, risuonare i discorsi della scuola. Se le ore di Italiano, fra le tentazioni identitarie della politica e gli sconfortanti giudizi dei test OCSE, devono ancora offrire un giusto apprendistato per difendersi dall'assedio del presente, non possiamo ignorare il presente. Se ciò non avviene, con ogni probabilità saranno proprio gli autori della tradizione a essere respinti da una memoria non più allenata ad accoglierli, in assoluta indifferenza per lo sprezzo che la cultura alta riserva a quella bassa. E senza scrupoli, da parte di giovani ignari di sé, del presente e del passato, per le sorti dell'umanesimo e dei suoi difensori.

 

Note:


[1]Cfr. E. Raimondi, Il senso della letteratura, Il Mulino, Bologna 2008, soprattutto la Parte prima, pp. 21-104.

[2]Crf. Fr. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, E. Einaudi, Torino 1958, vol. II, cap. XX, pp. 855-975

[3]E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. E. Einaudi, Torino 1956.

[4]Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano ed. del 1998, pp. 1-187; R. Ceserani, Debenedetti e la modernità, http://www.giacomodebenedetti.it/ceserani.html (cons. il 13.8.2008).
5 Cfr. G. Ferroni, Giacomo Debenedetti, in I Confini della critica, ed. Guida, Napoli 2005, pp. 105-115; R. Luperini, Il modello di Debenedetti, in L'autocoscienza del moderno, Liguori, Napoli 2006, pp. 217-227

[5]Cfr. R. Luperini, Il modello di Debenedetti, in L'autocoscienza del moderno, Liguori, Napoli 2006, pp. 217-227

[6]Cfr. G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005 p. 73.

[7]Cfr. R. Luperini, L'autocoscienza del moderno, cit., in particolare le pp. 7-21.

[8]Cfr. G. Mazzoni, cit. p. 113.

[9]Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., pp. 6-7.

[10]Cfr. M. Sinibaldi, Pulp. La letteratura nell'era della simultaneità, Ed.Donzelli, Roma 1997, p. 27

[11]Cfr. M. Santagata, Introduzione a Fr. Petrarca, Canzoniere, Ed. Mondadori, Milano 1996.

[12]Cfr. A. Barbero, La società trecentesca nelle novelle di Boccaccio, in Levia Gravia, VIII (2006).

[13]Cfr. T. Todorov, La letteratura in pericolo, trad. it. Garzanti, Milno 2008, pp. 80-82.

[14]Cfr. G. Muresu, Dante attuale?, in Dante oggi. Convegno di studi - Latina, 18 maggio 1991 -, ed. De Rubeis, pp. 33-43; P. Cataldi, Perché leggere Dante (oggi?), in Allegoria, anno XI, gennaio aprile-1999, pp. 43- 50; Cfr. Claudio Giunta, Dante nel pomeriggio, in Allegoria, n° 57, gennaio-giugno 2008, ed. G.B. Palumbo, Palermo.

[15]Cfr. Giovanni Sartori, Homo videns, Bari, Laterza, 2000; Raffaele Simone, La terza fase, Laterza, Bari, 2000; id. Il mostro mite, Garzanti, Milano 2008.

[16]Cfr. P.V. Tondelli, Poesia e rock (1987-1989), in Un Weekend postmoderno, ora in Id., Opere, Milano, Bompiani, 2001, pp. 333-338

[17]Cfr. L. Toccaceli, Leggere le canzoni. Adolescenti italiani dai cantautori ai rapper, in Leggere l'adolescenza ( a cura di B. Peroni), ed. Unicopli, Milano 2008, pp. 128-140.

[18]Cfr. E. Affinati, La città dei ragazzi, ed. Mondadori, Milano 2008.

[19]Cfr. Beatrice Coppini, Povertà. Una proposta per il biennio dell'obbligo, in Chichibìo, N° 46, anno X, gennaio-febbraio 2008.

[20]Tz. Todorov La letteratua in pericolo, cit. p.81