Carla Sclarandis - Quale Leopardi per la scuola delle competenze

Premessa / Il Leopardi della scuola / Il Leopardi lirico e la competenze letteraria / Competenze e sociocostruttivismo / La competenza letteraria / Lirica leopardiana e competenza / Il soggettivismo e la “modernità” della lirica leopardiana / Per concludere

1. Premessa

 

Da almeno trent’anni, anche nelle antologie scolastiche la monumentalità classica del poeta Leopardi è associata alla sua critica della civiltà. Sulle tracce della svolta interpretativa di metà del Novecento[1], il poeta lirico dell’infinito, inventore della canzone libera, è diventato l’interprete precoce di quella cesura culturale sulla quale, nella seconda metà del XIX secolo, con Baudelaire e Nietzsche, si dispiegherà la modernità autocosciente. I profili dell’autore, offerti dai libri di testo e ripercorsi in classe, disegnano gli spazi e i tempi della biografia, intrecciandoli, da un lato, con la cronologia storico-culturale dell’Italia in formazione, dall’altro, con la forma aperta e frammentaria della speculazione filosofica leopardiana. Antonio Prete ha ricomposto nella felice espressione «pensiero poetante»[2] - non priva di una qualche sfumatura heideggeriana - la nota distinzione idealistica tra poesia e filosofia: «l’esperienza poetica è sempre per Leopardi un’esperienza di teoresi: come d’altra parte, l’esperienza filosofica ha a che fare, sempre, con la poesia, è scossa dal vento della poesia, dal suo interrogare ultimo»[3]. 
Compendiare la grandezza del poeta e l’originalità del filosofo è dunque inevitabile, ma non semplifica affatto il compito dell’insegnante. Nel dialogo inter-generazionale che a scuola avviene si verifica quotidianamente che il passato, tutto il passato, è una distesa di rovine; che la letteratura e i suoi monumenti non risplendono mai di luce propria, ma semmai la ricevono passando attraverso la porta stretta della “motivazione” pedagogica; che oggi tutte le discipline, comprese quelle umanistiche, sono chiamate a rispondere della loro fungibilità in rapporto a quelle competenze certificate dalla valutazione interna e validate dai tanto discussi test esterni. Nella mia riflessione tengo sullo sfondo questo ordine di problemi e cerco di interrogarmi su come, e quanto possiamo fare spazio nella nostra scuola ad un autore cosi canonico, nella convinzione che la lettura dei classici debba costituire per i giovani - tutti i giovani - una risorsa irrinunciabile.

 

2. Il Leopardi della scuola

 

Le antologie, a gradi diversi di approfondimento, suggeriscono percorsi collaudati, che attraversano l’intero corpus delle opere: lo Zibaldone è lo “scartafaccio” contenente la summa filosofica da cui attingere il significato di alcune delle parole ricorrenti nel lessico del poeta (piacere, natura, illusione, felicità, antichi, immaginazione, moderni, civiltà, noia, indefinito e rimembranza); il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica consente di ancorare la poetica leopardiana alla critica della modernità; le Operette, rappresentate per lo più dai Dialoghi della Natura, di Plotino e Porfirio, di Tristano (a cui se ne possono aggiungere altri), sono entrate a pieno titolo nel canone scolastico e, nella loro forma onirica, si offrono come paradigma di una prosa filosofica, caustica e moraleggiante; le Lettere illuminano aspetti significativi della vita privata, e i Pensieri confermano l’irrisolta tensione speculativa dell’autore. Ma Leopardi rimane essenzialmente il grande poeta dei Canti: la scelta riflette, nella successione in cui vengono disposti, la struttura decisa da Leopardi stesso a partire dall’edizione fiorentina del 1831: L’ultimo canto di Saffo o un’altra delle canzoni giovanili, L’infinito e La Sera del dì di festa, Il passero solitario, A Silvia, Le Ricordanze, Il canto notturno, La Quiete dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio, Amore e Morte, A se stesso, magari qualche verso della Palinodia, La Ginestra.
L’ampio ventaglio di testi individuati richiede ovviamente una selezione didattica, compatibilmente con i tempi sempre più scorciati della scuola e con la differenza dei curricoli dell’istruzione. Le pratiche didattiche di questi ultimi decenni, per operare la scelta dei testi da leggere in classe, si sono confrontate con i problemi interpretativi che gli studi critici hanno sollevato. Tutti sappiamo che per “fare Leopardi” - come si dice in gergo - non basta proporre la lirica dell’Infinito, di A Silvia, del Passero o del Sabato e della Ginestra; segnalare la potenza delle immagini e la suggestione dei suoni; né è sufficiente rintracciare in quei versi l’eco delle prose. Proprio quella «filosofia dolorosa», che nega con l’incalzare del dubbio le metafisiche sette-ottocentesche di Leibniz e Kant[4], demistificando ogni presunzione illusoria dell’antropocentrismo umanistico, è ben difficile da comprendere senza scavare in profondità sotto il mantello linguistico degli idilli e delle canzoni del primo periodo, dei canti pisano-recanatesi e di quelli napoletani. Se il significato letterale della poesia leopardiana è facilitato da un lessico quasi mai oscuro, le suggestioni delle parole vaghe, intercalate dalla perentoria sentenziosità dei versi a contenuto gnomico, implicano la fitta trama di citazioni e di prestiti che, dal sottotesto, rinvia all’intera tradizione poetica (da Omero a Virgilio, da Pindaro a Orazio, da Petrarca, Ariosto e Tasso ai classicisti del Settecento) e che presuppone un’alfabetizzazione filosofica per nulla scontata. In estrema sintesi, Leopardi è un autore moderno che, al pari di Dante e Petrarca, autori che moderni non sono, sembra incompatibile con i tempi e gli spazi di una scuola in grande affanno per legittimarsi di fronte ai tribunali della Qualità e dell’Efficienza, assunti da questa nostra ‘impoetica’ epoca quali garanti del rinnovamento richiesto alla formazione. 
Nello specifico della didattica leopardiana, alcune questioni sono dirimenti.
1. Sul versante filosofico, in assenza dei prerequisiti storico-teorici necessari per una corretta ricezione, il rischio è ancora di incatenare Leopardi a una formula poco significante: quella del pessimismo, bipartito in storico e cosmico dagli anni del silenzio poetico tra il ’23 e il ‘27. Sulla via di una lineare progressione del pensiero leopardiano verso la negatività assoluta dell’esistenza, che procede con lo scorrere della vita individuale, è breve il passo per riconsegnare il “pensiero-poetante” a un biografismo rassicurante per gli adolescenti. Se la modernità della voce leopardiana è sempre aspra, in quanto coglie l’infelicità, nega il teleologismo storico, protesta contro le cieche leggi della Natura e sfida ogni storicismo, nella fruizione scolastica essa rischia comunque di essere esorcizzata nella sua portata lacerante dalla riconduzione entro i confini di una contingenza autobiografica tanto privata quanto sfortunata. Impedire questi cortocircuiti è un obiettivo irrinunciabile. Di qui l’insistenza, in sede didattica, sulle coppie oppositive di parole-chiave come natura-civiltà, individuo-società, innatismo-assuefazione, vitalità-noia, immaginazione-ragione, il cui significato specifico sta dentro la tensione fra il polo positivo - che rinvia all’antico - e quello negativo - che pertiene al moderno -, in una contrapposizione di fatto inconciliabile. 

2. Il confronto fra gli antichi e i moderni, che fra Sette-Ottocento interseca la polemica fra classicisti e romantici con il ruolo della poesia e con la forma della sua lingua, nel caso di Leopardi non può restare separata dalla distinzione fra la poesia immaginativa e la poesia sentimentale, fra i «termini» e le parole». Anche in questo caso la questione linguistica si sposta dal piano ideologico-politico e storico a quello filosofico-estetico e antropologico e comprende la ricerca dello spazio sociale e linguistico che compete al poeta e alla poesia. Per Leopardi, si sa, il plurilinguismo è un dato culturale sociolinguistico ricavabile dallo studio delle diverse lingue e dall’analisi dei fenomeni che le accomunano: la diversità linguistica è naturale, costituitiva della comunicazione umana[5], riguarda la storia dei popoli e, nell’ambito di una stessa lingua, la pluridiscorsività. L’identificazione romantico-risorgimentale di unità linguistica e unità nazionale, secondo una linea di pensiero che dagli autori del romanticismo tedesco arriva a Berchet, Settembrini e Manzoni, nelle pagine dello Zibaldone risulta infondata in quanto in ogni lingua «la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è una»[6]. 

3. La lettura della poesia leopardiana presuppone conoscenze storico-culturali specifiche che l’insegnante d’italiano non può mai dare per scontate, nemmeno nei curricoli che contemplano lo studio della filosofia (una cosa è certa: nessun insegnante di filosofia tratterà Leopardi nel suo percorso didattico, il quale peraltro procede su binari propri, indipendenti dal percorso letterario, con uno scarto temporale limitante per l’auspicata interdisciplinarità). Ma nel caso di Leopardi l’esegesi testuale privilegia la poesia rispetto alla prosa, principalmente per ragioni di consuetudine più che per un giudizio riduttivo sulle Operette e sullo Zibaldone. Delle prime, capolavoro della nostra letteratura, che a stento si è imposto anche tra gli addetti ai lavori e presso il grande pubblico, a scuola si continua a fare un uso ausiliario ed esemplificativo: il Dialogo della natura e di un islandese diventa il paradigma della negazione filosofica dell’antropocentrismo; con il Dialogo di Plotino e Porfirio si ricava un’autoconfutazione delle concezioni stoiche e romantiche del suicidio virtuoso; nel Dialogo di Tristano e di un amico si trova affermata nella forma della palinodia la funzione sociale del pensiero critico nella società massificata e si vede anticipato l’eroismo antifrastico della Ginestra.

4. Difficilmente si insiste sul valore paradigmatico delle Operette come forma di narrazione alternativa a quella del romanzo, presupposta da numerosi scrittori del Novecento[7]: da Pirandello e Svevo a Calvino, Volponi, Sciascia e Pasolini (per citare solo esempi presenti anche nella scuola). Né si assume come dato significativo della nostra storia culturale il dissenso che le accompagnò fin dalla loro pubblicazione, nel 1827, del quale dissenso la messa all’indice da parte del Tribunale del Sant’Ufficio nel 1850 fu atto potentemente simbolico. Soffermarcisi comporterebbe guardare la nostra storia letteraria con occhio strabico rispetto alla linea identitaria-nazionale, di derivazione desanctisiana, che individua nel romanzo storico manzoniano il genere moderno dell’Italia restaurata e poi unificata, in linea con quanto già era avvenuto nell’Europa borghese. Dunque si sorvola sullo scandalo di Leopardi prosatore che propone un modello narrativo eccentrico per le scelte di forma, genere, lingua e orientamento filosofico. La tonalità ironica di una scrittura comica, che non insegue il realismo della fabula e la verosomiglianza del suo svolgimento, raramente è assunta come oggetto di approfondimento testuale e interpretativo. E l’umanesimo critico-negativo che affiora attraverso la sconcertante “inattualità” di personaggi, luoghi, discorsi resta in ombra, insieme allo spaesamento del lettore.

5. Lo Zibaldone non viene studiato come modello letterario di quella filosofia frammentaria tipicamente novecentesca, di un pensiero che non “chiude” mai, ma procede con un andamento carsico; un pensiero che, sulle tracce di Isocrate, Montaigne, Pascal e Diderot consegna alla filosofia moderna il compito di distruggere il falso piuttosto che di edificare qualcosa di nuovo. Vincenzo Mengaldo, riflettendo sulla forma discorsiva oltre che sulla portata filosofica dello Zibaldone, vi vede anticipata la svolta del pensiero filosofico post-metafisico dell’Otto-Novecento verso il «concreto sociale e psicologico, dei saggisti e dei moralisti: da Marx e Engels a Nietzsche e Freud, dal primo Lukacs e da Wittgenstein a Benjamin e Adorno.»[8] Ma, in sede didattica, il valore di quest’opera è dichiarato, non mostrato attraverso una pratica del testo orientata a questo scopo.

 

3. Il Leopardi lirico e la competenze letteraria

 

Mi sono dilungata a parlare del Leopardi prosatore perché avrebbe un senso che la scuola si incaricasse di studiarlo, proprio in rapporto a quelle competenze di lettura, tecniche e culturali, utili per la vita, di cui oggi tanto si parla: da un lato la prosa è il genere di gran lunga dominante nel Novecento - e lo resta anche in questo primo squarcio del nuovo millennio -; dall’altro, disincantamento e filosofia del frammento presuppongono la razionalità scientifico-tecnologica che ci sovrasta. Ma Leopardi, nella coscienza comune, e forse giustamente, resta il poeta lirico dei notturni e degli squarci paesaggistici, della rimembranza e della “vaghezza” delle illusioni[9]. In sede didattica se ne prende atto e, anche in questo caso, a ragione: perché anche la tradizione di un autore - cioè la storia della sua ricezione - rende significante la sua parola. Dunque i Canti costituiscono la grande opera a cui associamo il nome di Leopardi e che assumiamo in rapporto alla competenza culturale dei nostri studenti, della quale, da insegnanti di Italiano, ci facciamo carico. 
Il concetto di competenza, guardato dalla specola della letteratura, chiama in causa tre ordini di problemi:
1. il lavoro formale e linguistico sui testi; 
2. il dialogo interpretativo con gli studenti e fra gli studenti in rapporto alla attualizzazione dei loro significati;
3. la storicizzazione delle forme espressive e dei contenuti ideologici che essi compendiano.
La centralità del testo implica una seconda centralità, quella del lettore-interprete, con le sue preconoscenze e la sua esperienza. E presuppone la metodologia dell’apprendimento situato, sulla quale insistono i social network predisposti da web 2.0 in funzione dell’apprendimento (Social Go o Classroom 2.0), la cui efficacia sembra accertata. Soffermiamoci brevemente sui presupposti psico-pedagogici di questa metodologia, che ci servono per decostruire l’orizzonte teorico della didattica delle competenze al fine di situarvi l’insegnamento della letteratura.

4. Competenze e sociocostruttivismo

 

Il riavvicinamento negli ultimi trent’anni fra la psicologia dello sviluppo e la psicologia dell'istruzione ha confermato l'idea vygotskijana[10] che l'apprendimento e la cultura si sedimentano attraverso la ripresa ricorsiva delle conoscenze, continuamente ridefinite, arricchite, riposizionate nella memoria a lungo termine. Depositate nel nostro archivio individuale, dalla capacità potenzialmente illimitata, esse sono recuperate all'occorrenza dalla memoria di servizio, dove transitano le informazioni provenienti dall'ambiente e la cui capienza è, invece, limitata. Dunque il soggetto che apprende elabora le nuove esperienze in base alle strutture di rappresentazione di cui è già in possesso. La sua mente, come un computer, trasforma e conserva rappresentazioni, in sequenza o simultaneamente, e genera conoscenze in un processo costruttivo che avviene per accrescimento e per ristrutturazione dell’enciclopedia personale[11]. Ma le nuove informazioni, perché sedimentino interagendo con quelle archiviate, devono essere necessitanti. L’apprendimento - o meglio, secondo la terminologia del sociocostruttivismo, la costruzione della conoscenza - è un processo dinamico, strategico-attivo, interattivo, che non viene trasmesso, bensì attivato dagli individui in base alla loro percezione e interpretazione della realtà, cioè in base alle strutture e alle abilità cognitive di cui dispongono. Secondo Vygotskij, tutte le funzioni mentali superiori – in primis quella del linguaggio - hanno un'origine sociale e necessitano di una comunità di pratiche; ma per esplicarsi devono essere interiorizzate: compaiono, cioè, come attività collettiva (funzione interpsichica), ma si sedimentano solo se diventano attività individuale (funzione intrapsichica). A scuola, la classe è “comunità di pratiche”, in cui apprendere una certa disciplina significa imparare a utilizzare il suo particolare linguaggio nei contesti d’uso di riferimento. E in classe avviene l'apprendistato cognitivo, a sostegno del quale l’insegnante si fa tutor[12]. Perciò anche nell’ultimo triennio della scuola secondaria, deve essere ripensata una didattica spesso ancora trasmissiva, che mette al centro le discipline e i loro contenuti piuttosto che il processo costruttivo delle conoscenze. E in quanto insegnanti di Italiano dobbiamo chiederci come si debba situare l’insegnamento letterario e lo studio dei nostri classici all’interno di questa cornice teorica. Se la cultura sociale chiede alla scuola di coltivare stili e modalità di pensiero utili ai cittadini di domani per rielaborare le informazioni e usare adeguate strategie nella postulazione e verifica di ipotesi, la scuola, sulla scorta della teoria dell’istruzione di Jerome Bruner[13], deve rispondere individuando le strutture fondamentali delle discipline e riconoscere a chi apprende un ruolo attivo. Che la lirica leopardiana costituisca uno degli snodi irrinunciabili della nostra disciplina è un dato incontrovertibile; ma oggi ci tocca dimostrarlo. E per farlo forse possiamo utilizzare anche noi quel concetto di competenza che si sta imponendo nella scuola e nel linguaggio che le pertiene.

 

5. La competenza letteraria

 

Una indicazione di lavoro ci viene dal saggio di Yves Citton L'avenir des humanités[14]. Il critico francese scrive con un dichiarato intento polemico nei confronti delle competenze e della presunta fungibilità della formazione umanistica che esse pretendono; ma ne assume la prospettiva teorica per definire la competenza letteraria individuando una pratica dei testi che, di fatto, applica, radicalizzandola, la teoria sociocostruttivista della conoscenza. Alla domanda «Che cosa si impara studiando letteratura?», risponde «A farsi gioco di un’egemonia eludendone le trappole» e declina la competenza letteraria nei termini della capacità interpretativa («far giocare la parola di un testo per ricavarne interpretazioni di un certo interesse»)[15], individuando nella «sperimentazione interpretativa» la procedura attraverso la quale essa si acquisisce. Come dice l’espressione stessa - «sperimentazione interpretativa» -, si tratta di una procedura che presuppone un contesto “sociale”. Essa richiede, infatti, di trasferire un testo o una parte di testo dal contesto di partenza a uno di arrivo, da un’epoca a un’altra e anche da un ambito del sapere a un altro; ed è scandita non da una sequenzialità rigida di operazioni, bensì da una successione imprevedibile di errori, sospensioni e salti, incontri casuali e intuizioni[16], finalizzati ad attualizzare il senso di quel testo per noi, nel “qui e ora” in cui lo leggiamo. 
La competenza letteraria, così definita, evidentemente implica non solo la centralità del testo, ma soprattutto la legittimità della sua manipolazione, al fine di una riappropriazione, nei contenuti e nelle forme, da parte del lettore-interprete. Senza questa manipolazione non si danno né le capacità di comprensione, né quella di espressione: cioè non si dà competenza linguistico-letteraria. Per dirla con Vigotskij, nelle performances linguistico-comunicative di vario genere, generate dalla lettura di un testo, questo diventa un “pre-testo”, “transdotto” in un nuovo contesto relazionale, situato. Ed è questa pratica a garantire il passaggio dalla funzione interpsichica a quella intrapsichica dell’apprendimento, producendo competenza. Dunque la competenza letteraria si definisce in rapporto alla capacità di interpretare i testi, capacità che si coltiva attraverso un apprendistasto specifico, in cui i testi sono manipolati e variamente usati dal lettore interprete.

 

6. Lirica leopardiana e competenza

 

Ritorniamo ora a Leopardi. 
La cornice teorica appena tracciata è per noi contemporaneamente rassicurante e spiazzante: rassicurante, perché ci libera dall’ossessione di fare tutto; spiazzante perché ci costringe a praticare la centralità dello studente insieme a quella del testo (a svantaggio della Storia della Letteratura italiana e delle sue grandi opere, perfette in sé). In altre parole, ci spinge a farci carico di quelle dissonanti matrici cognitive che separano i giovani, assorbiti nella simultaneità del presente, dai linguaggi lineari della scrittura[17], e ai quali la voce dei classici rimane estranea. Dato per acquisito che il nozionismo dogmatico non produce né conoscenze né competenze e che i processi di apprendimento implicano necessariamente una metodologia cooperativa, le principali domande che assediano l’insegnante di letteratura alle prese con la poesia di Leopardi ci paiono le seguenti: • quali testi scegliere e per quale scopo; • su quali conoscenze pregresse contare e come implementarle; • quale orizzonte interpretativo privilegiare; • come salvare un distanziamento storico che ricollochi il testo nella sua alterità temporale e culturale rispetto al presente; • come e quanto riconoscere a ciascun studente la possibilità di esprimere il proprio orientamento di lettore. Se trasferiamo sulla poesia di Leopardi la domanda e la risposta che Citton formula relativamente alla letteratura, l’esito potrebbe essere il seguente: “Che cosa s’impara studiando Leopardi lirico?”, “A eludere le trappole di una poesia apparentemente narcisistica”. Domanda e risposta presuppongono da un lato l’idea implicita che ancora oggi abbiamo di poesia lirica, dall’altra la svolta moderna, all’altezza del Romanticismo, nella storia del genere[18]. Combinando un elemento tematico (l’autobiografia) e un elemento formale (l’autoespressione attraverso lo stile), come la grammatica del genere e la sua storia suggeriscono, forse potremmo offrire agli studenti la possibilità di attivare quelle preconoscenze che posseggono, utili a comprendere nella giusta prospettiva storico-critica il soggettivismo del “pensiero poetante” leopardiano.

 

7. Il soggettivismo e la “modernità” della lirica leopardiana

 

Guido Mazzoni, nel suo saggio Sulla poesia moderna[19], interpreta l’autobiografismo della poesia leopardiana come il portato di quella cesura nella storia della lirica, che colloca all’altezza del Romanticismo l’individuazione senza riserve dell’io lirico. Il critico argomenta storicamente la sua tesi con un’analisi diacronica di lungo periodo, dalla poesia antica a quella contemporanea, e ricostruendo la genesi della poetica leopardiana. Mi soffermo brevemente sul secondo aspetto, che qui ci interessa.
Nella prima metà degli anni Venti, Leopardi fa ancora riferimento alla tassonomia poetica convenzionale, di derivazione classicistica, che distingue per contenuto e metro le canzoni, gli idilli, le odi, gli inni, le elegie, le epistole: infatti, nel ’24 pubblica le Canzoni e, fra la fine del ’25 e l’inizio del ’26, la prima serie degli Idilli. Fino agli anni 1826-28, la poesia lirica risulta intesa nell’accezione ristretta, secondo la tradizione che dai lirici greci continua con Orazio e prosegue con il Petrarca delle poesie civili e con tutti coloro che hanno scritto odi e canzoni. Ma nel 1826, in un passo dello Zibaldone[20] Leopardi distingue i tre generi poetici, lirico epico drammatico, e dà una definizione di lirica: primo genere in ordine di tempo («primogenito di tutti») e di rango («più nobile e più poetico di ogni altro»); forma sintetica e unitaria; figlia della natura, opposta al dramma e all’epica che sono forme convenzionali, figlie della civiltà. In un altro passo del 1828 scrive: «Il poeta non imita la natura, ben è vero che la natura parla dentro di lui e lui parla per sua bocca. I’mi son uno che quando Natura parla, ec. Vera definizione del poeta. Così il poeta non è un imitatore se non di se stesso. Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio»[21].
Secondo Mazzoni questo passo sancisce il compimento della poetica leopardiana all’interno della cornice romantica. E rileggendo alla luce di questo giudizio le più importanti interpretazioni dell’Infinito, da quella di Fubini negli anni ’30 a quelle più recenti di Blasucci e di Brioschi, sostiene che già L’infinito, composto durante gli anni in cui Leopardi aveva ancora una coscienza vivissima delle differenze fra i generi, «è un testo rivoluzionario non solo per la novità che contiene, ma anche per le traformazioni che condensa e per quelle a cui allude, che diventeranno chiare solo nelle fasi successive della lirica leopardiana, o addirittura nella poesia del primo Novecento»[22]. A differenza dell’idillio di derivazione classicistica, che rappresenta situazioni poetiche seriali e un medio patetismo sentimentale, quello leopardiano (L’infinito, la Sera del dì di festa, Alla luna) si caratterizza per l’unione di realismo e pathos filosofico, di dettagli minuti e di gravitas esistenziale, di contingenza e serietà. La voce che parla in prima persona non rinvia a un personaggio stereotipato, ma a un “io esistenziale” circondato da dettagli biografici concreti e calato in una vita insostituibile; e il tono del racconto si fa serio, senza che alcun filtro astraente limiti il peso delle emozioni. Se l’apertura verso l’autobiografia sarà più marcata nei canti pisano-recanatesi, puntellati da molti dettagli della vita privata (studio, amori, vita di paese), in nome dell’unicità della lirica, nel 1831, Leopardi intitola Canti l’edizione fiorentina delle sue poesie, rinunciando definitivamente ai sottogeneri poetici di derivazione classicista ed estendendo restrospettivamente all’intero corpus dei suoi versi la concezione di lirica, a cui era approdato fra il 1826 e il 1828.
Anche Guido Guglielmi, nei suoi studi sui canti pisano recanatesi [23], insiste sulla poetica leopardiana della soggettività, ma per cogliere quella connotazione «critica e appartata» che trasfigura i quadretti idillici in un’«allegoria del possibile»: un possibile «non verosimile, non conforme alla ragione, non compatibile con il mondo della vita»; un’allegoria in cui le figure umili, senza nome come la femminetta e l’artigiano, la donzelletta e il garzoncello scherzoso e il pastore errante, o ben individuate come Silvia e Nerina, sono tutte altamente stilizzate e ci rivelano la «natura drammatica dei canti»; un’allegoria in cui le scene di vita quotidiana sono osservate da lontano da una voce poetante che vi imprime un doppio movimento, fantastico e intellettuale; un’allegoria in cui il mito o la memoria della felicità non consolano chi ha la coscienza dell’apparenza di quella felicità e «[ripetono] in chiave “sentimentale” una rappresentazione “ingenua”». 
Per Guglielmi l’uso straniato che Leopardi fa dell’idillio riguarda due questioni cruciali: la definizione di Leopardi quale poeta classico o romantico e le possibilità dell’idillio nella poesia moderna. Il Canto notturno, che esibisce e reinterpreta la convenzione idillica del dialogo di un pastore con la luna silente, è assunto come testo emblematico dell’intreccio strutturale di logos e mito nei Canti. Il tema filosofico della felicità e del senso della vita è posto nella «forma di una parola fantastico-affettiva»[24], pronunciata non da un io biografico, ma da un pastore, figura mitico-profana. Interrogandosi sul senso della vita con una razionalità moderna, egli presta la sua voce all’io segreto del poeta, ma si rivolge alla luna con qualificazioni attributive insistenti su giovinezza-innocenza-immortalità, che alludono ancora al mito. Nella cornice paesaggistica delle sterminate terre d’Asia, anch’essa connotata in senso mitico dalla lontananza geografica e dall’estensione primitiva, la luna è un corrispettivo cosmico del pastore e ne replica, incatenata alla sua orbita celeste e a quel “sovrumano” silenzio, il viaggio terreno. Il canto del pastore è così segnato da un contrappunto musicale e filosofico: all’incalzare logico-dialettico del pastore si oppone il sublime silenzio lunare; al tempo lineare e senza ritorno della vita terrena, che la figura petrarchesca del “vecchierel” riassume nel suo irrisolvibile enigma già nella seconda strofa, corrisponde quello ciclico ed eterno del cosmo. I miti, quelli desunti dalla memoria personale del poeta, come il pastore e il vecchierel, e quelli desunti dalla memoria antropologica, come la luna intatta e pensosa o la greggia beata, ignara del tedio, assumono uno statuto metaforico. E il discorso poetico, che si svolge nella forma della canzone libera, non si chiude. Nella conclusione il paradosso fantastico e ironico («Forse s’avessi io l’ale…») rimane in tensione oppositiva con l’asserzione logica di carattere universale («È funesto a chi nasce il dì natale»), a riprova del fatto che il dubbio radicale sulla felicità non ne annulla il desiderio. E a riprova del fatto che, classico o romantico, Leopardi ha prodotto una poetica della soggettività, in cui l’idillio e i miti, che imitano l’antico, messi in combustione con l’elegiaco e il satirico, diventano forme completamente rinnovate, estranee a ogni sublimazione idealizzante di idee, esperienze, epoche, ed entrano nella struttura dei Canti «[dando] profondità alle figure del vero»[25].

 

8. Per concludere

 

Riprendiamo ora i fili del nostro discorso: siamo partiti dal Leopardi che le antologie scolastiche propongono, sulla scorta degli studi critici più aggiornati; ci siamo soffermati sulla teoria socio-costruttivista della conoscenza che sorregge la didattica per competenze entro la quale anche l’insegnamento della letteratura va ripensato; abbiamo ribadito la centralità del testo in funzione di una costruzione delle competenza linguistico-letteraria secondo i modelli psico-pedagogici incentrati sull’apprendistato cognitivo situato; ci siamo soffermati sul Leopardi lirico, accettando la convenzione della nostra tradizione culturale e scolastica, che assegna a Leopardi il posto di grande poeta del primo Ottocento e a Manzoni quello di grande narratore; abbiamo accostato le prospettive interpretative di Guido Mazzoni e di Guido Guglielmi, riconoscendovi suggerimenti interessanti per situare la modernità di Leopardi in un paradigma didattico che, a partire dalla lettura in classe dei testi, salvaguardi diacronia e sincronica, grammatica del genere e singolarità dell’opera d’arte. I Canti leopardiani, nella loro monumentalità, non possono essere costretti entro perimetri predefiniti, ma la mediazione didattica impone di individuare delle strategie che ne rendano possibile l’accesso. La scommessa è di verificare se la didattica per competenze possa costituire un’occasione per ritrovare, attraverso la prassi nelle classi della scuola reale, un quadro di riferimento comune in cui situare i nostri percorsi letterari, necessariamente molto differenziati fra loro per scelta e uso dei testi. Sulla traccia di quanto abbiamo finora detto qualche pista di ricerca si può, forse, tracciare. 
Se si accoglie, con Mazzoni, l’individuazione in senso moderno della voce che dice io nella poesia leopardiana, allora, forse, è possibile ripensare la storicizzazione del poeta e della sua opera in una forma che valorizzi contemporaneamente la centralità del testo e quella del lettore. Soffermarsi nell’indagine testuale sulle forme in cui, all’inizio dell’Ottocento, Leopardi dice “io” potrebbe rinnovare, a distanza di tempo, l’incontro con Petrarca, magari archiviato nella memoria a lungo termine dei nostri studenti, in attesa che un nuovo frame neuronale lo risvegli. Il confronto dei modi in cui i due poeti affrontano, per esempio, il tema dell’amore o il rapporto con il paesaggio, potrebbe illuminare la specificità di entrambi e chiarire la nostra: da un lato l’io petrarchesco aggiusta i fatti autobiografici che racconta, per trasformarsi in exemplum; dall’altra l’esperienza individuale resta discontinua e casuale ed è restituita attraverso una parola segnata dall’accidentalità del momento. Per quanto riguarda la sfera del linguaggio, il monolinguismo della poesia petrarchesca, che cancella il lessico tecnico, prosaico o parlato, anteponendo l’indeterminato al determinato, potrebbe essere ritrovato nelle parole vaghe leopardiane, e colto nella loro risemantizzazione. E così per quanto riguarda le forme metriche: dal sonetto e dalla canzone petrarcheschi al canto leopardiano, passando attraverso il riuso degli stessi versi settenari ed endecasillabi[26]. Su questo doppio binario, dell’autobiografismo e della plurivocità delle parole poetiche disposte in forme metriche tradizionali ma rivisitate, si prefigurano poi altri confronti storicizzanti: in avanti con Montale (e - volendo - con Ungaretti); all’indietro con la lirica antica e con quella barocca. 
Questa pista presuppone una reinterpretazione della categoria stessa di storicizzazione: non già una sequenzialità lineare ordinata e unidirezionale, ma una continua ripresa del già noto in funzione del non ancora noto, in un discorso aperto e via via arricchito o aggiornato, che tuttavia resta ancorato all’asse cronologico procedente dal passato verso il presente.
Più complesso è individuare alcuni “concetti-chiave” relativi alla modernità di una poesia che compendia logos e mito; eppure è altrettanto necessario, se vogliamo che la voce di Leopardi, passata al vaglio della dissoluzione dei generi e del realismo esistenziale, ci riveli gli spazi di un’introspezione autentica e ancora vitale per noi. Possiamo provarci lavorando in molte direzioni, a seconda del contesto in cui operiamo: costellare alcuni grandi testi poetici con testi in prosa dello stesso autore, come già si fa, al fine di situare in una poetica e in un contesto storico-culturale di riferimento i nostri giudizi impressionistici; costruire, là dove è possibile, percorsi interdisciplinari con la filosofia e le letterature classiche o moderne, volti a cogliere, per via induttiva e attraverso quella “sperimentazione interpretativa” proposta da Citton, il valore attuale delle domande senza risposta dell’ “inattuale” poesia leopardiana. Ciò che è sicuro è che interrogarsi sulla frattura moderna fra esistenza e significato non è prerogativa esclusiva dei filosofi o dei poeti; è una necessità per tutti, imposta dall’esperienza dell’infelicità e del dolore che la vita stessa comporta. Se il pastore non comprendendo la contraddizione fra lo splendore delle apparenze e il non senso che le abita, invoca miticamente l’accordo di intelletto e immaginazione, egli consapevolmente coglie la verità attraverso la razionalità e il sentimento («Questo io conosco e sento»). Nel dialogo interpretante con i nostri studenti la “poesia sentimentale” leopardiana è qualcosa di più di un concetto di poetica: essa insegna quella commozione estetica che mobilita la responsabilità etica. 
Ce lo ricorda Edoardo Sanguineti in un intervento tenuto all’Istituto italiano di cultura di New York nel 1998[27], dal titolo locutoriamente ambiguo: Invito a Leopardi. Da marxista gramsciano dichiara che avrebbe voluto scrivere un saggio intitolato Leopardi reazionario, per mostrare che il pensiero negativo leopardiano è anche la risposta di un aristocratico al trauma della Rivoluzione Francese. Sanguineti è attratto e respinto dal Leopardi moderno che, in nome della ragione critica, trasferisce dalla società alla natura la causa del male, alleggerendo l’uomo rispetto alla responsabilità dell’infelicità predisposta dall’indifferente natura matrigna[28]. Ma, in conclusione del suo intervento, recita una sua poesia dedicata a Leopardi, la quale dà conto di una così significativa autocensura:

“tutto sommato (scrisse), l’esistente, in generale (siamo nel ’26:
siamo nel mese di aprile), è una modesta imperfezione: 
(modesta,
certo, a paragone dell’immenso non esistente, del puro e semplice niente): è un’irregolarità, una mostruosità.
La voce mia, così, la mia
scrittura, orribilmente deturpano, lo so
(per poco ancora), la suprema
armonia dell’agrafia, dell’afasia:
(già rinuncio, dislessico a rileggermi)



Note:


[1]L’impostazione manualistica dell’opera dell’autore riflette la svolta interpretativa segnata dagli studi di C.Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947; W.Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947; La protesta di Leopardi, Firenze: Sansoni, 1973; e S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1955; Bari-Roma, Laterza, 2008.

[2]Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante, Feltrinelli, Milano 1980.

[3]Cfr. A. Prete, Finitudine e Infinito. Su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1998, p.9

[4]Cfr. Zibaldone, 1857, 5-6 ottobre 1821

[5]Cfr. Zibaldone, 936, 12-13 aprile 1821: «La confusione de’ linguagggi, che dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura […] e fatta proprietà essenziale delle nazioni ecc.».

[6]Cfr. Zibaldone, 933 , 12-13 aprile 1821

[7]Cfr. N. Bellucci ( a cura di) «Quel libro senza uguali». Le Operette Morali e il Novecento italiano. Bulzoni editore, Roma 2000.

[8]Cfr. P. V. Mengaldo, Antologia leopardiana: la prosa, Carocci, Roma 2011, p.14


[9]
Cfr. G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, vol. III. Dall’Ottocento al Novecento, Einaudi, Torino 1991, pp. 233-235.

[10]L. S. Vygotskij Pensiero e Linguaggio - ricerche psicologiche, trad. di L. Meccacci Laterza, Roma-Bari 1990

[11]L. Mason, Psicologia dell'apprendimento e dell'istruzione, Il Mulino, Bo 2006, in particolare i capitoli 1-5 e 9-11.

[12]L’apprendistato cognitivo si articola in questi aspetti: modellamento (esecuz. di un compito da parte di un esperto che offre un modello agli studenti); allenamento (esecuz. di un compito da parte degli studenti con l'insegnante esperto che offre suggerimenti, sostegno, feedbck); supporto (impalcatura di sostegno - scaffolding - da fornire per l'esecuzione dei compiti nella forma di suggerimenti o aiuti o supporti materiali); riflessione (suscitata da stimoli a confrontare una prestazione con quella degli altri); esplorazione (formulazione autonoma di interrogativi, problemi, approci risolutivi).

[13]J. Bruner, Verso una teoria dell’istruzione, ed. Armando, Roma [1967] 1991; La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano [1997] 2001

[14]Y. Citton, L'avenir des humanités, De la Découverte, 2010; id., La competence littéraire: apprendre à (dé)jouer la maitrise, tr. di I. Mattazzi, in Il Verri, n° 45, 2011, pp. 34-35. Le citazioni sono tratte dall'articolo.

[15]Y. Citton, La competence littéraire: apprendre à (dé)jouer la maitrise, cit., pp. 34-35

[16]R. Ceserani, Convergenze, ed. Bruno Mondadori, Milano 2010.

[17]R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2001

[18]Cfr. G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005.


[19]
Cfr. G. Mazzoni, cit, pp.77-128.

[20]Cfr. Zibaldone, 4234-35-36, 15 dicembre 1826

[21]Cfr. Zibaldone, 4372-73, 10 settembre 1828

[22]G. Mazzoni, cit, pp. 96-97

[23]G.Guglielmi, L’infinito terreno. Saggio su Leopardi, P. Manni, Lecce 2000, in particolare pp.91-111 (le citaz. sono a p. 92)

[24]G. Guglielmi, cit. p. 95

[25]Cfr. G. Guglielmi, cit., p.100

[26]Cfr. M. Santagata, Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Il Mulino, Bologna 1994; Luigi Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante, Marsilio, Venezia 2003, in particolare le pp. 31-46; 63-84; 131-170

[27]E. Sanguineti, Invito a Leopardi, in Giacomo Leopardi poeta e filosofo. Atti del convegno dell’Istituto italiano di cultura. New York, 31 marzo-1 aprile 1998, a cura di A. Carrera, ed. Cadmo, Fiesole(FI) 1999

[28]E. Sanguineti, cit.: La Rivoluzione Francese è l’ultima esplosione della virtù, dei valori, dell’entusiasmo e dei miti, ma questa virtù, entusiasmo, miti, valori sono tutti mobilitati per la loro distruzione, perché l’ultima ragione per cui l’uomo è stato capace di entusiasmarsi è il trionfo della ragione. […] La ragoione trionfa grazie a un entusiasmo incredibile, perché mai la ragione per sé sarebbe capace di produrre, dice Leopardi, alcunché. Occorreva dunque uno straordinario coraggio virtuoso, ma questo entusiasmo virtuoso trionfa per distruggersi. »(p. 4)