Milano, Mondadori, 2021
Sanguina ancora è un libro difficilmente recensibile: mi verrebbe da dire: “leggilo, che ne vale la pena”, e finirla così. E, secondo me, una recensione così piacerebbe anche a Nori.
Fra i vari, e personali, motivi che mi mettono a disagio in questo compito, il primo è la collocazione (una pagina di “didattica per la scuola – libri di oggi a scuola”), perché questo è un libro che non farei leggere a una classe (forse a qualcuna o qualcuno in una classe): non è un libro omnibus, secondo me.
Tuttavia, anche se non lo darei da leggere a una intera classe, a qualche studente sì, ma lo consiglierei certamente a tutta la gente di scuola, questo libro, per i motivi che spero riuscirò a chiarire.
Pertanto mi avventuro, partendo, com’è giusto, dal titolo.
Anzi dal sottotitolo, di norma deputato a disvelare gli arcani del titolo, se ce ne sono, e qui ce ne sono, visto che Sanguina ancora non è titolo trasparente come, per dire, I promessi sposi o Ragazzi di vita. Dunque: il sottotitolo è L’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Fra titolo e sottotitolo, nel frontespizio, si legge “ROMANZO”. Ecco, questo libro non mi pare un romanzo (nutre qualche dubbio al proposito Nori stesso), e non mi pare davvero nemmeno una biografia di Dostoevskij, come ci si potrebbe legittimamente attendere, anche se di Dostoevskij e della sua incredibile vita si parla moltissimo. E poi: cos’è che “sanguina ancora”? Non la vita di Dostoevskij, evidentemente (anche se alla fine del “romanzo” non se ne è più sicuri, perché la vita di Dostoevskij butta davvero sangue, ancora). Quello che “sanguina ancora” è una ferita, che si è aperta nel Nori quindicenne alla lettura di Delitto e castigo (e possiamo credergli: Dostoevskij non te lo scordi, lacera qualche cosa in qualche posto del sé):
E ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora. Perché? (p.10).
E allora, vien da pensare, perché insistere, rimestare nella ferita?
Uno, mi rendo conto, potrebbe chiedermi: Ma a te piace sanguinare?
In un certo senso, sì. (p.11)
Perché, prosegue Nori citando un cantante canadese, «è attraverso le crepe che si vede la luce».
Il resto del libro, mi pare, è una convincente giustificazione del fatto che sanguinare, in un certo senso, fa bene.
La biografia di Dostoevskij nel romanzo c’è: e curatissima, piena di citazioni di (a loro volta) biografi di Dostoevskij, di lettere di Dostoevskij, di lettere a Dostoevskij, di lettere su Dostoevskij, di paralleli con e pareri di altri grandi scrittori russi, Turgenev, Tolstoj, Gončarov, Leskov, Nabokov, e moltissimi altri, che probabilmente sono molto famosi ma che io non conoscevo (fra i quali mi propongo di leggere almeno Chlebnokov e Charms, abbondantemente citati, e pieni di fascino).
E ci sono tante pagine dai romanzi di Dostoevskij (e non solo), un’antologia che basterebbe quella a dare un senso alla lettura.
La biografia procede in ordine cronologico, pur con alcune spiazzanti deroghe, dalla prima giovinezza all’inatteso e straordinario successo di Povera gente (1846: Dostoevskij ha 25 anni, e viene presentato come il nuovo Gogol’), all’arresto, poi la condanna a morte, poi la incredibile grazia notificata a pochi minuti dall’esecuzione, e i lavori forzati, e l’esilio, poi il ritorno a Pietroburgo, i grandi romanzi, il rapporto con gli editori, e col fratello Michail, con la prima e con la seconda moglie, con le figlie, con gli altri letterati...
Ma ci sono tre specie di derive, rispetto a questa linearità cronologicamente e filologicamente ineccepibile.
Da una parte, Nori indaga il rapporto fra l’uomo Dostoevskij e i personaggi dei suoi romanzi, un legame che, secondo lui, assomiglia un po’ all’effetto Kulešov: come l’interpretazione dello sguardo dell’attore dipende dalla sequenza successiva, così gli scritti di Dostoevskij - come del resto anche quelli di una pletora di altri romanzieri - «riflettono cose che gli sono successe in passato, ma a lui succede anche che delle cose che ha scritto, nel passato, si realizzino nel futuro» (p.37). Una sorta di figuralità degli eventi e dei caratteri, dunque, che anticipano nei romanzi una realizzazione nella vita del loro autore.
E dunque sono, a volte, questi legami prolettici a determinare l’ordine della narrazione di Nori: per esempio, da Povera gente del 1846 si passa alla vita di Dostoevskij nel 1868, seguendo il filo che dalla morte del piccolo Gorškov del romanzo porta a quella, per polmonite, della figlia Sonja, verissimo lutto per il quale il dolore di Dostoevskij è tale che la seconda moglie, Anna Grigor’evna, è quasi più sconvolta dal dolore del marito («non ho mai visto una disperazione così violenta», scrive in una pagina del diario) che dalla propria perdita.
La seconda deriva è costituita dal fatto che a Nori risulta evidentemente impossibile frenare la febbre d’amore in lui suscitata dalla letteratura russa nel suo complesso, per cui troviamo nel “romanzo”, per esempio, anche una sorta di biografia di Puškin, e una sorta di biografia di Gogol’, e una sorta di biografia di Tolstoj. La ricostruzione biografica della vita di Dostoevskij è pertanto interrotta da “intermezzi”, capitoletti intitolati, per dire, Non divaghiamo e Ma cosa c’entra?, costituiti in più di un momento da vere e proprie urgenze di espressione emotiva, come quando si vuol molto bene a qualcuno e gli si dice “dio, come ti voglio bene”, anche se si sta decidendo cosa cucinare per cena. E così, per esempio, mentre si sta parlando di Puškin, troviamo un capitoletto dal titolo «Sempre questa mania di divagare»:
Credo che una parte dei lettori di questo libro non siano laureati in letteratura russa. Non è un difetto, è la condizione della stragrande maggioranza della popolazione.
Io, per dire, sono uno che legge dei libri, ma, secondo me, quelli che leggono i libri non sono necessariamente meglio di quelli che non li leggono, i libri, e, tra quelli che leggono i libri, io sono uno che la maggior parte dei libri che ha letto son libri russi, ma, secondo me, tra quelli che leggono i libri, non è che quelli che leggono i libri russi son meglio di quelli che non li leggono, i russi.
Cioè io credo che la letteratura russa sia la letteratura più bella del mondo, ma non è che voglio convincere tutti, e il mio sentimento nei confronti di chi, per esempio, non ha mai letto Puškin, Gogol’, Lermontov, Leskov, Dostoevskij, Tolstoj, Čechov, Bulgakov, Chlebnikov, Charms, Il’f e Petrov, i fratelli Strugackij o Venedikt Erofeev è di invidia, perché che meraviglia, che ha davanti, se si dovesse mai decidere a mettersi per strada. Ecco. Volevo dirlo. (p. 57)
Ma la deriva più eversiva, in effetti, è un’altra ancora: pare che per Nori sia impossibile parlare di Dostoevskij senza parlare di sé. Ovvero, questa “eteroautobiografia” è sostanziata da una sorta di identità affettiva, di erosione dei confini fra biografo e biografato. Come se la misura del bios fosse del tutto inadeguata allo straripamento emotivo che scaturisce in Nori dal contatto con Dostoevskij: una zoè sconfinante che se ne infischia delle categorie spaziotemporali, del principium individuationis, dell’irreversibilità del tempo e dell’impenetrabilità dei corpi. Sarà per questo che nel frontespizio c’è scritto ROMANZO? Un romanzo fantastico (in tutti i sensi).
Ci troviamo dunque di fronte a pagine brulicanti, pagine matrioška, nelle quali da un evento ne scaturisce un altro, spesso attraverso un improbabile legame che trova il suo senso solo nel personalissimo flusso critico-emotivo dell’impareggiabile autore.
Per dire: il racconto dell’arresto di Dostoevskij, la mattina del 23 aprile 1849, comincia a p.77 e si interrompe a p.78 nel momento in cui un commissario di polizia, un colonnello e un soldato con la sciabola lo svegliano, gli dicono gentilmente di alzarsi e cominciano a frugare nelle sue cose, portandone via un bel mucchio, compresa una banconota da quindici copeche. Per arrivare a p.113, pagina in cui la vicenda dell’arresto riprende e rapidamente si conclude (in un capitoletto intitolato Ecco, perché comincia così: «Ecco, tornando all’inizio del nostro capitolo, il 23 aprile del 1849...») siamo passate dai romanzi Il sosia, del ’45, con salto per analogia alle Memorie del sottosuolo, del ’66, a un racconto di Gogol’ del ’35; dall’incapacità di Charms di parlare sia di Puškin sia di Gogol’, a un impossibile certame affettivo fra Dostoevskij e Tolstoj (del tipo «vuoi più bene alla mamma o a papà?»); dall’amore di Nori per gli autori “marginali”, a qualche considerazione sulla differenza fra racconto e romanzo secondo il critico Boris Ejchenbaum e alla conclusione di Anna Karenina; dalle lezioni di Nori al corso di traduzione editoriale dal russo, a Leskov e perfino a Origene. Giusto per dare un’idea dell’andamento fantasmagorico della ricostruzione biografica.
E da questo flusso bisogna lasciarsi prendere, o lasciar perdere. Ne è perfettamente consapevole, Nori: e ci racconta che qualche anno fa, a Bergamo, invitato a tenere una conferenza su Tolstoj, aveva cominciato raccontando qualche suo “fatto privato”:
Alla fine, mi hanno raccontato che una signora, che era venuta per sentire parlare di Tolstoj, intanto che facevo questa introduzione autobiografica, che è stata probabilmente un po’ lunga, questa signora, mi han raccontato, ha detto, rivolta alla persona che le stava davanti, cioè, in sostanza, rivolta a me, “E a me, cosa me ne frega?”
E si è alzata e è andata via.
Che io, ero impegnato a parlare, non l’ho sentita, ma, se l’avessi sentita, le avrei risposto: “Non lo so, signora, cosa gliene frega”. E avrei comunque pensato che, se non le interessava, quello che stavo dicendo, faceva bene, a andar via. (p.157)
Ma lui aveva fatto bene, a cominciare parlando di sé per parlare di Tolstoj, perché i romanzi di Tolstoj e Dostoevskij non sono l’iperuranica recensione delle “nobili necessità dell’anima” nella lingua “superiore dell’arte”: i romanzi di Tolstoj e Dostoevskij parlano di me, delle mie miserie, delle mie paure, delle mie ferite, della mia famiglia, del mio essere solo, senza un babbo, senza una mamma, a cinquantasette anni, un ridicolo, vecchio orfano parmigiano che abita a Casalecchio di Reno. (ibidem)
Così impariamo tante cose, di Nori, che c’entrano con Dostoevskij per quelle vie che ciascun lettore attraversa quando si trova dentro la storia di un altro, vie misteriose per tutti quelli che non sono lui, o lei, eppure così ovvie che sono le stesse per tutti. Così sappiamo della sua donna, che lui chiama Togliatti, e della loro figlia, la Battaglia, e del suo mestiere, del modo in cui studiava quando era ragazzo, dei suoi allievi e delle sue allieve, dei suoi amici e delle sue amiche (indimenticabile ed esilarante il giovane amico comunista Nicola, che si vuol fare tatuare sulla schiena, in cirillico, una frase di Dostoevskij sulla povertà. Commento: «Ecco. Era per sottolineare l’attualità di Dostoevskij» p.171).
Sappiamo dell’incidente avuto sulla Porrettana, della riconciliazione con Togliatti dalla quale era stato a lungo separato, di come si è sentito orfano quando ha perso i suoi genitori, che erano vecchi, ed era già piuttosto vecchietto anche lui, ma la cui perdita lo ha lo stesso sprofondato nella mostruosa condizione di orfanità (una pagina straordinaria, una di quelle pagine che non mi scorderò mai più).
E sappiamo tanto altro, e soprattutto, per quel poco che si può capire degli altri, sappiamo com’è lui, nel suo fondo: ce lo racconta parlando delle Memorie del sottosuolo, riportandone una frase sulla quale ritorna poi molte volte:
“Io son poi da solo, e loro sono tutti”.
Che, non che sia importante, ma è la prima frase che do da tradurre agli studenti che fanno i miei corsi di specializzazione alla Iulm di Milano.
Io mi ricordo che quando l’ho letta per la prima volta, questa frase qua, avevo forse vent’anni, ho pensato: ‘Come tu? Sono io, quello lì che è da solo e gli altri sono tutti’.
Mi sembrava che Dostoevskij mi avesse plagiato. Mi sembrava una cosa disonesta, quello che faceva quello scrittore russo. (p.187)
Fantasmagorico il tessuto della narrazione, fantasmagorica la lingua, come sarà ormai evidente dagli stralci riportati. Una lingua da far sembrare che sia tornato Holden, non più “giovane” ma sempre così Holden, e ci fa sentire quanto ci sia mancato. Una lingua da carnevale, beffarda, una declinazione emiliana, esilarante e commovente, di quella che, ricorda Nori, Bachtin riconosce nella polivocità di Dostoevskij:
Secondo Bachtin ci sono due modi di scrivere: un modo corretto, impeccabile, che risponde alla funzione centripeta, della lingua, e che fa riferimento a una grammatica, a una sintassi e a una morfologia codificate da un’autorità linguistica e unanimemente riconosciute, e un modo scorretto, grammaticalmente discutibile, che risponde alla funzione centrifuga, della lingua, e che, della lingua ufficiale, corretta, scolastica, si fa beffe.
[…] Questa è la lingua romanzesca. Questa è la lingua di Dostoevskij, che non è nemmeno sua, è la lingua delle fiere, dei saltimbanchi, degli ubriachi, dei bottegai, dei mercanti, del mondo. (p.188)
Perché un libro così – un libro che alla fine probabilmente confondi la nutrice di Puškin e la nonna Carmela, e trovi tutto sommato plausibile che Dostoevskij abbia plagiato Nori - un libro così per la gente di scuola? Per tutti quelli che hanno il compito, sacro, di condividere con le nuove generazioni le cose belle e feroci che l’uomo ha escogitato e agito, dalle pitture rupestri alle intelligenze artificiali?
Perché, a me sembra, questo libro indica una strada, che è una strada di abbattimento di quel muro che a scuola separa, così ingiustamente e stupidamente, la scuola e la vita, i libri e il senso, lo studiare e il capire.
Nori, pur in contesto del tutto diverso, cita una pagina di Oblomov che mi pare tristemente adattabile a molti dei nostri studenti e delle nostre studentesse, una pagina in cui Gončarov fa «una specie di inventario della testa di Oblomov alla fine dell’esperienza scolastica»:
“La sua testa era un complesso archivio di cose morte, uomini, epoche, cifre, religioni, economie politiche, matematiche o altre verità, condizioni eccetera che non avevano tra loro nessun legame.” (p.195)
E non è solo, non è sempre “colpa” degli studenti e delle studentesse, se l’esito del loro percorso di studi ha un odore tanto cimiteriale. Un po’, io credo, dovremmo consentire a noi stesse di riconoscere che ogni tanto si sbaglia anche noi, dovremmo ammettere che c’è qualcosa di disfunzionale nel nostro modo di “trasmettere” il sapere. Quando invece sarebbe così doveroso, così intrinseco al mestiere della gente di scuola, crearlo, quel legame che manca nella testa di Oblomov, fra le cose tra loro, e fra le cose e la vita, la vita vera, che invece, a me pare, per i nostri ragazzi e le nostre ragazze sta sempre da un’altra parte. Bisognerebbe un po’ impastarci coi testi che leggiamo, per far capire che non sono “un archivio di cose morte”.
Mi commuove Nori quando scrive che per lui la letteratura russa «è proprio uno strumento»:
Se io penso alla donna della mia vita, Togliatti, e alla ragazza della mia vita, la Battaglia, la prima cosa che mi viene in mente è: “Le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore”, che è l’inizio di una poesia di un poeta russo che si chiama Velimir Chlebnikov.
Per esempio. (p. 147)
E se non siamo di sicuro gente in gamba come Nori, che ci sa fare con le parole come Nori, fare della letteratura “proprio uno strumento” per capire sé, gli altri, il mondo, per salvarsi la vita, insomma, dovrebbe comunque essere il nostro orizzonte, il nostro impegno, strenuo.
E mi viene in mente un signore, che si chiama Andrej Sinjavskij, e che si faceva chiamare Abram Terc, che, condannato a sette anni di lavori forzati per aver pubblicato delle cose all’estero, dal gulag, dove si trova, ha il permesso di scrivere due lettere al mese alla moglie, e le scrive di Puškin.
Queste lettere vengono pubblicate poi dalla moglie come 127 lettere d’amore in un volume intitolato Passeggiate con Puškin.
Delle Passeggiate Sinijavskij dirà: “le passeggiate vogliono essere una dichiarazione d’amore a Puškin e di riconoscenza alla sua ombra che mi ha salvato nel lager”. (p.68)
15 febbraio 2022