Pesa di più un affronto all’onore o una vita di donna?
Il termine “femminicidio”, ampiamente noto, viene annoverato tra i neologismi affermatisi nel secolo scorso ed oggi vi si ricorre profusamente nell’ambito sociale, giurisprudenziale e criminologico, antropologico e psicologico.
Il percorso che qui si propone è incentrato su un romanzo dei primi anni Sessanta, che non solo racconta un episodio (liberamente ispirato a un reale fatto di cronaca) di ‘femminicidio’, ma che ha anche il merito di aver contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica su una legislazione arretrata, che contemplava il ‘delitto d’onore’: cioè il riconoscimento di fortissime attenuanti, qualora un uomo uccidesse, anche premeditatamente, la moglie fedifraga o una parente stretta (sorella o figlia) il cui comportamento fosse ritenuto riprovevole e tale da generare ’disonore’ nella famiglia.
La proposta didattica che si presenta intende associare all’analisi letteraria la riflessione su aspetti cardinali del costume e dei valori sociali correnti; nonché affiancare alla pagina narrativa (in vista di possibili approfondimenti interdisciplinari, con l’apporto del docente di Storia o di Diritto, qualora presente nella scuola) l’analisi di testi di legge.
Il percorso qui proposto potrebbe inoltre risultare propedeutico anche per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita nel 1999. Negli istituti scolastici negli ultimi anni si riservano a questa ricorrenza numerose iniziative di sensibilizzazione, informazione, divulgazione, anche attraverso forme di meta-comunicazione come potrebbe essere l’installazione delle “panchine rosse”, e in questa direzione potrebbe rivelarsi funzionale guardare con uno sguardo critico alla realtà del secolo scorso che – come anticipato – contemplava il delitto d’onore come uno strumento per la tutela della dignità dell’uomo.
Il termine ‘femminicidio’ è attestato a partire dal XIX secolo in Inghilterra, e si è poi diffuso con una modalità quasi endemica: sebbene sia infatti un termine relativamente recente, non è tuttavia latore di alcuna novità concettuale – come si può facilmente immaginare – poiché denomina una violenza ancestrale. Si potrebbe dire dunque, citando la sociologa Silvia Leonzi, che «è proprio per il potere di rendere concreto ciò che esiste nel pensiero che il linguaggio assume un valore centrale per la vita sociale»[1]. Quanto alla tipologia del delitto in questione, possiamo usare la definizione del Dizionario online della Treccani: «Omicidio di donne da parte di uomini, in particolare come conseguenza di mentalità e comportamenti di stampo sessista»[2].
Senza attingere ad una narrazione troppo remota, si possono reperire le tracce di una crescente consapevolezza verso l’efferatezza di tale crimine tanto nella realtà di cronaca quanto nel contesto letterario e cinematografico già del secolo scorso, e proprio in quest’ottica si vorrebbe proporre un percorso che, partendo dall’analisi di un romanzo di Giovanni Arpino - autore forse ora troppo dimenticato, ma che godette in vita di una notevolissima fortuna - possa indagare trasversalmente e con un andamento interdisciplinare non solo il femminicidio, ma anche il concetto stesso e la percezione sociale del delitto d’onore – crimine che sino al 1981, anno di abrogazione dell’articolo 587 del Codice Penale, veniva punito con pene leggerissime, poiché l’affronto all’onore veniva considerato un vulnus ancora più lesivo dell’assassinio stesso. Sarebbe dunque funzionale suggerire la lettura integrale, o di alcuni estratti, e l’analisi del romanzo Un delitto d’onore (1961), da affiancare auspicabilmente alla visione de Divorzio all’italiana, film pluripremiato diretto da Germi, del 1961, ispirato proprio al testo di Arpino.
UN DELITTO D’ONORE: il ribaltamento delle prospettive
Scritto da Giovanni Arpino tra l’ottobre e il dicembre del 1960, Un delitto d’onore è stato pubblicato l’anno successivo da Mondadori:[3] finalista al premio Strega (che l’Autore vincerà tre anni dopo con L’ombra delle colline), il romanzo si incentra sul rapporto sentimentale che lega la giovane Sabina Cétara, diciassettenne orfana di umili origini, impegnata a lavorare nell’osteria gestita dalla zia, e il dottor Gaetano Castiglia, uno scostante medico trentanovenne, di famiglia benestante quanto influente di un paese dell’avellinese, Montrone.
Ambientato negli anni Venti, il testo di Arpino indaga con abile distacco la realtà, non solo sociale ma anche giuridica, le dinamiche culturali che regolavano il matrimonio, il rapporto di coppia e persino la violenza di genere, insita nella logica dell’onore da difendere a tutti i costi, sino a culminare nel delitto passionale, legittimato anche da una pena di irrisoria durata, come previsto appunto dall’articolo 377 del codice Zanardelli, in vigore sino al 1930 (poi sostituito dall’articolo 587 del codice Rocco).
Il romanzo di Arpino affida alla forza comunicativa del testo narrativo la volontà di denuncia dell’arretratezza e dell’ingiustizia del sistema giuridico vigente: per l’omicida la pena da scontare non avrebbe superato i 7 anni: una pena irrisoria rispetto alla gravità del delitto perpetrato.
La vicenda si sviluppa su tre piani, cronologici, che per comodità schematizziamo.
1a parte
Nella prima parte del romanzo la tematica principale è il fidanzamento tra Sabina e Castiglia. L’autore in queste pagine non si esime dal rendere con asciutto realismo la durezza delle norme e delle gerarchie che sin dal principio contrassegnano la relazione tra i due fidanzati, divisi da una fortissima disparità sociale. Nella descrizione di alcuni momenti della coppia promessa o dei tormentati monologhi interiori del dottore, Arpino – sebbene non trapelino mai giudizi personali e morali - lascia da subito affiorare il profondo squilibrio che segna il loro rapporto.
Alla morbosa e rabbiosa gelosia di Castiglia, permeate da un implicito diritto alla prevaricazione e al dominio maschile, secondo gli ovvi dettami culturali del tempo, si contrappongono l’insicurezza e la paura di Sabina, personaggio che appare schiacciato dalla forte personalità e dalle pretese del futuro marito.
«Ti prenderò una casa. Imparerai a leggere e a scrivere. Sarà bello quando potrai scrivermi la tua prima lettera, eh? E preparerai il corredo. Guiderai un carrozzino. Tutto dovrà essere perfetto. E appena saprai scrivere potrai darmi del “tu”»[4] dirà Castiglia alla ragazza in uno dei suoi numerosi discorsi disseminati di regole, imposizioni, progetti decisi unilateralmente, a cui Sabina non potrà controbattere; anche laddove lei tenterà di esprimere perplessità o muovere richieste, rimarrà comunque inascoltata, anticipando così – pagina dopo pagina - la sua sorte sventurata. La figura femminile verrà gradualmente privata della sua autonomia, “plasmata” secondo i dettami del futuro marito, sino a vedere ogni margine di espressione individuale risucchiato dalla volontà di un uomo pronto ad amare non la donna che è ma la donna che dovrà diventare.
La sottomissione in cui versa la giovane, sintomatica della realtà sociale di quegli anni, si può palesemente rintracciare in molteplici momenti dialogici, uno tra tutti quando la ragazza prende coraggio e chiede a Castiglia rassicurazioni, rivelando tutto il suo smarrimento: «‘Ho sempre paura’ - mormorò Sabina. ‘E di che?’ [chiede l’uomo] ‘Che non sia possibile, che succeda qualcosa. Certe volte ho paura che la contentezza m’ammazzi, e poi invece ho paura di morire prima, così’». Ma all’angosciosa richiesta di conforto seguirà dopo pochi istanti la risposta eloquente ed impietosa del dottore: «[…] Sono io che t’ammazzo se non mi vuoi. Perché la nostra felicità dovrà essere d’esempio a tutti. Nessuno avrà mai visto persone come noi…».[5]
Ai timori della ragazza, che cadono nel vuoto, e che raccontano moltissimo sulla sua remissività, Arpino contrappone sapientemente alcuni squarci descrittivi sul personaggio maschile, nei quali lascia che affiori tutta la sua indole: “In quell’accidia il dottor Castiglia si rivoltolava provando malinconie, disgusto per tutto, inimicizie e sospetti verso chiunque, tranne se stesso”[6], e sulla signora Castiglia che, nella sua schiettezza a volte spietata, vede tuttavia sin dall’inizio il profondo divario che separa suo figlio dalla giovane Sabina e presagisce il drammatico epilogo, assimilando Sabina ad un cavallo e definendola un pessimo investimento “Bel cavallo bianco ti sei scelto, poverino mio”.[7]
Si potrebbe riflettere insieme agli studenti anche su questa valutazione “economica” dell’essere umano: le umili origini di Sabina, il suo livello culturale modesto ed il lavoro che svolge, sembrano essere sufficienti per stabilirne il valore, il “prezzo”, e svilire la ragazza.
2a parte
Nella seconda parte del romanzo si palesa sempre più evidentemente il torbido che anima il protagonista. La sezione si apre con uno spaccato asciutto - e dai contorni netti - del nuovo status che coinvolge Gaetano Castiglia e consorte: ormai uniti in matrimonio, i due sposi si dirigono a Napoli in treno, dove trascorreranno la loro luna di miele (l’intero brano sarà proposto nella breve sezione antologica: brano n° 1).
Già durante il viaggio che li porterà a Napoli, alla determinazione e alla sicurezza del dottore fa da contraltare lo sgomento di Sabina, che arriva alla prima notte di nozze con un “male al cuore” e la dolorosa supplica a suo marito di essere buono con lei:
«Tu non sei uno che picchia vero?» domandò lei piano.
«Picchio? Ma impazzisci? Ma se in un anno e mezzo non ho voluto toccarti con un dito, per il rispetto che ti porto!» protestò Castiglia.[8]
Tutta la vicenda raggiunge l’apice proprio quando si scoprirà che Sabina non è arrivata “pura” al matrimonio, tanto che il delirio di Castiglia, che occupa varie pagine, tra tormentati vaneggiamenti, accuse e riflessioni sull’onore infangato, culminerà nella minaccia esplicita che l’uomo (che ormai si sente a tutti gli effetti “vittima dell’inganno”) lancia alla moglie: («[…] Ormai era certo dell’inganno, e forse avrebbe dovuto batterla, cacciarla dalla stanza, insultarla. «Se diranno che non sei pura, ti scanno» le disse sottovoce»).[9]
Sarà la stessa ragazza, vessata, abusata e umiliata ripetutamente dal marito, a raccontare nella più cupa disperazione, di essere stata violentata dal giovane tenente Vincenzo Carbone; ma a nulla serviranno le sue parole: Sabina è una fedifraga, una “bellezza corrotta”[10] da punire e da cancellare per lavare l’onta subita. La giovane diviene così l’adultera e la carnefice in una dinamica completamente ribaltata: il marito disonorato cercherà di riabilitare la sua reputazione e vendicare il suo onore ammazzando la moglie, ma questo non risulterà tuttavia sufficiente; anche la sorella di Carbone, rea di aver condiviso il turpe segreto del fratello, dovrà pagare, per cui verrà assassinata.
Termina dunque la seconda parte del romanzo di Arpino, con l’omicidio di Sabina - che viene sgozzata (o meglio, «scannata», per utilizzare il più crudo termine impiegato da Arpino) con un rasoio. Una scelta ponderata dall’omicida, che – nella sua logica perversa e distorta - ritiene così di dare alla moglie una morte “nobile”, che non le deturpi il bel viso.
Si rimanda al brano due proposto nella sezione antologica.
3a parte
La terza e ultima sezione del romanzo – che ruota intorno alla difesa dell’assassino da parte di uno stimato avvocato, Gioacchino Russo – presenta toni esasperati e drammatici. Mettendo in scena il processo e la difesa condotta dall’avvocato (che cerca di influenzare in favore del suo cliente anche l’opinione pubblica), Arpino porta all’eccesso l’ars retorica del legale di Castiglia, fino a rappresentarne in una sorta di stravolgimento grottesco parole e gesti: la verità e ogni misura vengono così infranti da un uso manipolatorio della parola.
La violenza e il delitto vengono così rappresentati dall’avvocato – in una sorta di stravolgimento della realtà – come l’affermazione di una giustizia superiore. È significativo che l’avvocato Russo, parlando con il suo cliente, cerchi di convincerlo che la sua azione è stata un atto doveroso. Si veda questo breve passaggio, contenuto in un dialogo in carcere tra l’avvocato e il suo assistito:
“Ah no, signorino” sillabò Russo. E la voce gli uscì precisa, durissima: “No, scusatemi ma quando è no, è no, signornò. Tu il rasoio, tu il revolver, e va bene. Ma hai fatto giustizia, no? Dimmi: sai di aver fatto giustizia?”
“Certo” stentò Castiglia, impallidito, allontanando a fatica la faccia.
“Hai fatto giustizia. Ripeti”
“Sì, lo giuro, l’ho sempre saputo”[11]
L’epilogo che il lettore contemporaneo si aspetterebbe – ovvero che venga inflitta una giusta pena per l’assassinio di due innocenti - trova così un rovesciamento brutale della prospettiva di cosa sia equo, o percepito come tale, costringendo anche a una contestualizzazione storica dell’evento e alla conseguente riflessione sulla percezione del femminicidio un secolo fa.
Nel ribaltamento delle responsabilità, si assiste anche al ricorso alla macchina del fango, ieri come oggi: poco importa che siano trascorsi cento anni dal contesto cronologico in cui si inserisce il romanzo di Arpino, perché ciò che viene attuato per screditare il valore della giovane Sabina riproduce dinamiche e meccanismi sociali tutt’ora verificabili. L’autore – mantenendo un costante tono di distacco, scevro da commenti – riproduce l’atteggiamento apertamente denigratorio dell’opinione pubblica nei confronti della donna uccisa. Persino la zia della vittima condivide la condanna inferta dalla gente alla nipote, parlandone come di una donna «stregata», che «il sangue di sua madre doveva averci in corpo»[12].
Su un piano culturale più alto, per quanto distorto, l’avvocato Russo parlerà del delitto d’onore nei termini di una realtà moralmente complessa e alta, in cui «santità e ingiustizia, giustizia e orrore si mischiano in un unico mistero»[13].
Se dunque all’apparenza la parte finale de Un delitto d’onore potrebbe sembrare scostata dalle precedenti e meno “coinvolgente” - come sostenuto anche da alcuni critici -[14] incentrata com’è sulla sfera legale e giustiziale, offre in realtà un punto di osservazione interessante anche sul piano didattico e della riflessione sulla lingua e sulle sue strategie. Il docente potrebbe utilmente soffermarvisi con un lavoro di analisi e confronti: l’avvocato Russo, ad captandam benevolentiam, non si esime dal mettere in atto tutta una serie di soluzioni retoriche che si potrebbero individuare, indagandone le dinamiche intrinseche.
Il femminicidio, che si discioglie così nell’accezione del delitto passionale, sembra perdere i contorni netti del gesto violento, per divenire l’esito lecito e giustificabile della tensione emotiva causata da una presunta ingiustizia subita (secondo la logica distorta che vede nella donna una proprietà dell’uomo e vede in ogni messa in discussione di questo possesso un’offesa arrecata all’onore maschile). Si veda questo passo in cui l’avvocato Russo – con il consueto corredo di magniloquenti citazioni - interpreta il delitto del suo assistito non come una prevaricazione, ma come l’esito naturale e inevitabile della passione:
“Che volete che dica?” rispose allargando le braccia, “È una storia di passione. E la passione è in fondo a ogni azione, si compenetra, si fonde talvolta con l’esistenza stessa dell’uomo. […] . È la passione che fa gridare a San Paolo: chi mi libererà da questa carne di morte…Onde Taine: io sono la mia stessa passione. Forza necessaria, allora, per cui Amiel afferma che senza di essa l’uomo non è che una forza latente, una possibilità, una piccola pietra che aspetta l’urto del metallo per mandare scintille…Io non tenterò, amici miei, di sfoderare mille ragioni superflue, né cercherò attenuanti con l’avara lanterna del mercante. Il mio compito è uno: spiegare, indagare, per dirla con Dante, com’è che lo dolce seme diventa amaro…” [15]
Determinato a far scagionare il suo assistito, o quanto a meno a ridurre la pena ai minimi termini, l’avvocato attuerà una strategia retorica che trova una chiara corrispondenza anche nelle parole che Cicerone farà pronunciare da Crasso: «Chi ignora, infatti, che la principale forza dell’oratore consiste nell’indurre le menti degli uomini all’ira, all’odio, o al dolore e nell’allontanarli da tali stati affettivi e nel condurli alla dolcezza e alla misericordia?».[16] Il potere manipolatorio della parola diviene magistralmente funzionale allo stravolgimento di un principio umano fondamentale, quale è il diritto alla vita, laddove la vita viene collocata in secondo piano rispetto all’onta subita.
Il libro si concluderà con l’imputato diretto in tribunale che proverà un nuovo sollievo e una macabra soddisfazione, sicuro della legittimità del suo gesto e di una pena molto lieve, dimostrando che – nelle orme del diritto di quegli anni - “pesava” di più un affronto all’onore che una vita di donna.
Un approfondimento possibile: dalla realtà al libro
Intenso quanto percorso da una sottile inquietudine, il romanzo ha dichiaratamente – come affermato dallo stesso Arpino – l’intento di raccontare quanto accaduto nel 1922 a Lapio, località in provincia di Avellino, quando il 1° aprile Luigi Carbone uccise la giovane moglie, Belinda Campanile, tagliandole la gola, e destinò la stessa sorte alla sorella del giovane tenente che aveva abusato di lei.[17] Il movente dell’assassinio fu – esattamente come nel romanzo - l’onore: l’aver constato che la giovane moglie non fosse arrivata vergine alla prima notte di nozze diede diritto al marito ingannato di vendicare l’onta subita, e poco importava che la ragazza fosse stata violentata. Forte di un sistema culturale, sociale e giuridico che giudicava la reputazione del coniuge come imprescindibile valore da tutelare – ad ogni costo – il delitto d’onore divenne in questa cornice l’unica possibilità di redenzione e di risarcimento. Nel caso di Luigi Carbone, la condanna fu di 30 mesi, di cui 6 vennero condonati, ma a fare da cornice all’esiguità della pena furono i festeggiamenti del paese, che celebrò l’uomo come se fosse un eroe.
Sotto un profilo prettamente giuridico, in Italia il delitto d’onore fu inizialmente trattato come un’attenuante dell’omicidio. Così, infatti, indicava il primo Codice penale dell’Italia unita, emanato nel 1889, sotto il ministro della giustizia Zanardelli: la pena prevista – in caso di assassinio mosso dalla volontà di vendicare l’onorabilità del coniuge, della famiglia e della donna disonorata – andava da 1 a 5 anni. Ovviamente il rapporto delitto/pena si inseriva in un clima culturale e sociale in cui la famiglia patriarcale costituiva il nucleo fondamentale del tessuto sociale, che, come tale, andava tutelata ad ogni costo, ma la visione di tale delitto percepito come un diritto/dovere a fronte al disonore trascese soventemente nella giustificazione quasi meccanica del ricorso a tale soluzione estrema.
Ciò che costituiva tuttavia una limitazione – seppur minima - al compimento del femminicidio, era la condizione di dover cogliere «in flagrante adulterio o illegittimo concubito», fino a quando tale limite fu cassato e la legge Zanardelli ridefinita durante il ventennio fascista. Il delitto d’onore venne così legittimato in quanto omicidio, come «reato autonomo», e la legittimità dell’omicidio veniva riconosciuta non solo in caso di «flagrante adulterio o illegittimo concubito», ma anche in caso di un sopraggiunto «stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia»: questo aprì chiaramente alla possibilità di addurre all’offesa all’onore anche in maniera decontestualizzata dalla flagranza di reato, per giustificare il crimine, consentendo agli assassini di trovare una legale motivazione per scampare alla condanna. La legge 377 divenne così la 587 del codice Rocco (1930) e rimase in vigore, nonostante molteplici tentativi affinché fosse abrogata, sino al 1981, quando fu finalmente e definitivamente abolita. L’abrogazione dell’articolo 587 fu l’esito di una quasi ventennale battaglia parlamentare, che cominciò ufficialmente nel 1963 (una data significativamente vicina all’uscita del libro di Arpino), quando fu presentato in Senato un disegno di legge che mirava a cancellarlo.[18]
Sempre nell’ottica di un percorso interdisciplinare potrebbe rivelarsi interessante – anche in relazione all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, e per gli studenti che studiano il Diritto – analizzare i cambiamenti terminologici e concettuali dei testi della legge 377 (1889) e 587 (1930).
Approfondimento: Dal libro al film (Divorzio all’italiana di Pietro Germi)
Il percorso sin qui delineato potrebbe trovare un valido prosieguo in aula nella visione del film di Pietro Germi, Divorzio all’italiana, libera resa cinematografica del romanzo di Arpino.
La pellicola, pluripremiata sia a Cannes che ad Hollywood – dove si aggiudicò il premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale - uscì nelle sale cinematografiche nel 1961, e si presentò da subito come una rivisitazione in chiave sostanzialmente grottesca di Un delitto d’onore. Il film, che annovera tra i suoi attori Stefania Sandrelli, Daniela Rocca e Marcello Mastroianni, consente di osservare da un’angolazione differente e tragicomica quello che poteva accadere all’interno di un matrimonio nel contesto culturalmente arcaico di una Sicilia un po’ di maniera, tra insoddisfazione, tradimenti e – per l’appunto – delitti d’onore. L’intreccio, pur discostandosi dalla narrazione di Arpino, manteneva infatti la centralità del concetto dell’onore: il protagonista maschile, il barone Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni) sposato con Rosalia ma invaghito della giovane cugina Angela (interpretata da Stefania Sandrelli) e impossibilitato dalla legge a divorziare, ricorre a patetici tentativi per indurre la moglie a tradirlo e coglierla in flagrante, per potersi liberare di lei; ma ogni sforzo si rivela vano.
Germi in quest’ottica tratteggia nella moglie del protagonista (Rosalia) un personaggio petulante e al limite della stupidità. Quanto al marito, esso appare irretito nelle tipiche insicurezze dell’età. In una scena, il barone Cefalù, guardandosi allo specchio, si rassicura sulla propria avvenenza, anche se non può non riscontrare (oscillando tra autocompiacimento e delusione) un fastidioso accumulo di adipe nel ventre: «In fondo – si dice - sono un tipo interessante, fine, intelligente, lo stomaco, lo stomaco, bisogna eliminare i grassi, gli zuccheri, i farinacei, bisogna eliminare tutto».[19] Nella resa poliedrica – e graduale – delle peculiarità dei personaggi, il regista riesce così ad abbattere la distanza che separa la finzione dalla realtà, lasciando che il protagonista confessi i propri timori e perplessità e diventi un eroe (innamorato, insicuro e tradito), da antieroe che si era in principio delineato (colui che aveva tentato di ogni modo di sbarazzarsi della moglie, dall’ordirne l’omicidio allo spingerla tra le braccia di un altro uomo).
Sempre in un’ottica volta a mostrare come si potessero facilmente ribaltare le prospettive e la malleabilità dei sentimenti, Germi trasforma anche la petulante e apparentemente innamoratissima signora Cefalù, in una donna non solo capace di tradire, ma anche tanto risoluta da fuggire con l’amante. E del resto anche l’ingenua e timida Angela risulterà non disdegnare la corte del suo maturo spasimante, pur avendo un fidanzato.
In un susseguirsi di sequenze comiche, Germi fa comunque in modo che Cefalù non colga mai la moglie e l’amante Carmelo Patanè sul fatto; fino a quando i due amanti si daranno a una fuga romantica. È a questo punto che lo scandalo generato nel paese dalla fuga della moglie di Cefalù, rende legittima, da parte del marito apertamente tradito, la difesa del proprio onore. L’onore viene così ristabilito, con un duplice omicidio: la moglie tradita di Carmelo Patané uccide il marito colto in flagrante adulterio; e lo stesso farà Cefalù uccidendo Rosalia.[20]
Uccisa la moglie fedifraga e scontata la mitissima pena prevista dalla legislazione sul delitto d’onore, Cefalù può finalmente avere la giovane e amata Angela (cosa avrebbe potuto ostacolarli ormai?). Ma ecco che l’arguzia di Germi apre una crepa nella solidità apparente della relazione: la giovane moglie di Cefalù ammicca a un aitante marinaio, mentre con il marito trascorre una vacanza in barca. Il carattere ondivago del sentimento amoroso si afferma, anche se sulle macerie tragiche delle vite stroncate.
È evidente che anche i contenuti tematici della pellicola di Germi – come le pagine di Un delitto d’onore - potrebbero essere ampiamente approfonditi in classe, ancora una volta con un approccio interdisciplinare. Accanto alla questione della tradizione, delle lettere anonime e dei processi a voce di popolo, rappresentativi di un’arretratezza culturale storicamente ancora molto presente negli anni di ambientazione del film, e su cui si potrebbe riflettere con gli studenti cercando punti di contatto con la storia e con la letteratura, si potrebbe altresì indugiare sulla relatività intellettuale della prospettiva e soprattutto del giudizio. Quanto mostra Germi nel rovesciamento di personaggi, sentimenti ed apparenti certezze, potrebbe guidare i giovani studenti verso una riflessione sul valore dell’accoglimento della diversità e sulla cautela necessaria nel pronunciare valutazioni sommarie e superficiali, argomento peraltro centrale nella programmazione didattica nell’ottica della sensibilizzazione (e condanna) verso ogni forma di bullismo e violenza.
Bibliografia
G. Arpino, Delitto d’onore, Arnoldo Mondadori, Verona, 1965
G. Arpino, Opere scelte, a cura di R. Damiani, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005
F. Bolognesi, L’onore: un valore tradizionale tra Italia e Bologna (1890- 1981)
M. T. Cicerone, Dell’oratore, a cura di A. Pacitti, Zanichelli, Bologna, 1992
N. Cola, Delitti passionali: Luigi Carbone e Arnaldo Graziosi. C’eravamo tanto amati? La dimensione della violenza sulle donne in Journal of modern science, 2014
Sitografia
Codice Zanardelli, edizione digitalizzata http://www.antropologiagiuridica.it/cp1889.pdf
Codice Rocco, edizione digitalizzata https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1930/10/26/251/sg/pdf
S. Leonzi, A casa con il nemico in Il Carabiniere, marzo 2013 (edizione digitale)
https://www.ildubbio.news/2018/07/01/ve-lo-ricordate-delitto-donore/
https://lanfrancocaminiti.com/2018/06/30/quando-cera-il-delitto-donore/
https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/06/07/news/lo-strega-piu-stregato-2485984/
https://romeocastiglione.wordpress.com/2016/10/01/lirpinia-raccontata-da-arpino/
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/319046.pdf
Filmografia
P. Germi, Divorzio all’italiana, Italia, 1961
Visione del film disponibile su: https://www.raiplay.it/video/2016/07/Divorzio-allitaliana-8a90fc47-6dca-4c1f-9cf1-f0c684bb745e.html?autoplay=true&wt_mc=2.google.catalog.divorzioallitaliana.
[1] S. Leonzi, A casa con il nemico, in “Il Carabiniere”, marzo 2013. L’articolo può essere consultato all’indirizzo: https://www.carabinieri.it/media---comunicazione/il-carabiniere/la-rivista/anno-2013/marzo/societ%C3%A0/a-casa-con-il-nemico
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/femmicidio_%28Neologismi%29/
[3] I rimandi di pagina che si daranno sono tratti dall’edizione economica (collana “Oscar”) del 1965.
[4] p. 14.
[5] pp. 28-29.
[6] p. 43.
[7] p. 21.
[8] p. 65.
[9] p. 93.
[10] p.101.
[11] p. 174.
[12] P. 139
[13] p. 128.
[14] Per un quadro sintetico della critica su Arpino si rimanda all’introduzione di R. Damiani in G. Arpino, Opere scelte, a cura di Idem, Mondadori, Milano, 2005.
[15] Cit. p. 158 – 159.
[16] «Quis enim nescit maxime vim exsistere oratoris in hominum mentibus vel ad iram aut ad odium aut dolorem incitandis vel ab hisce isdem permotionibus ad lenitatem mericordiamque revocandis?» (De oratore, I, 53).
[17] Sull’episodio si veda la ricostruzione storica proposta da N. Cola, Delitti passionali: Luigi Carbone e Arnaldo Graziosi. C’eravamo tanto amati? La dimensione della violenza sulle donne in «Journal of Modern Science», 23 (2014), fasc. 4, pp. 205-230.
[18] Il testo del disegno di legge del 1963 – che per altro ricostruisce la storia del delitto d’onore, fin dal diritto romano, può essere utilmente consultato al seguente URL: https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/319046.pdf
[19] Per la visualizzazione del monologo si veda (al minuto 5’, 00) il collegamento https://youtu.be/iJICAN2yDFY
[20] 5’40’’ per la visualizzazione https://youtu.be/KugIXZwtDpk
28 ottobre 2022