Antonella Cioce - Della volatilità del segno verbale nell’era digitale

 

È ormai un dato acquisito che sin dalla fine del secondo Millennio la cibernetica e l’accelerazione della comunicazione digitale hanno modificato le modalità di appercezione del reale e la processazione cognitiva delle conoscenze,[1] sicché per la parola scritta ed udita è iniziata una nuova era, quella che chiamerei della volatilità del segno. Una singolare volatilità che non corrisponde alla leggerezza di cui parla Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, antagonista della pesantezza dell’ignoranza arrogante, leggerezza declinabile come acutezza di ingegno e prontezza d’azione (ben rappresentate tanto dal popolano Chichibio quanto dal dotto Guido Cavalcanti nelle novelle boccacciane). Per volatilità intendo, invece, un’evanescenza semantica di grafema e fonema che incide sulla relazione col mondo, sia in termini interpersonali sia nei processi cognitivi, con due esiti paradossali:1) la superficialità di rapporto con la parola può trasformarla in strumento di aggressione perché non se ne pondera il peso; 2) nell’epoca in cui più di ogni altra la scrittura è praticata in modo pervasivo, essa risulta depotenziata e maneggiata in modo insipiente, a seguito del massivo uso asfittico e sincopato che se ne fa nella telefonia mobile e nella comunicazione telematica e dei social networks.

Non a caso la leggerezza di Calvino, di ben altro segno, è un valore che si accompagna all’esattezza, come si legge nelle sue Lezioni:

 

Alle volte mi sembra che un’ epidemia pestilenziale abbia colpito l’ umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’ uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’ espressione sulle formule più generiche[…].

Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini [...].

Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni [...]. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita [...].

Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza parole. L’esempio più significativo d’una battaglia con la lingua per catturare qualcosa che ancora sfugge all’espressione è Leonardo da Vinci: I codici leonardeschi sono un documento straordinario d’una battaglia con la lingua, una lingua ispida e nodosa, alla ricerca dell’espressione più ricca e sottile e precisa […]. c’era in lui anche un incessante bisogno di scrittura, d’usare la scrittura per indagare il mondo nelle sue manifestazioni multiformi e nei suoi segreti e anche per dare forma alle sue fantasie, alle sue emozioni, ai suoi rancori […].[2]

 

«Avvicinarsi alle cose… con discrezione e cautela»: sembra un suggerimento di metodo quello di Calvino, nella consapevolezza del rapporto agonistico che la parola ha da instaurare con la realtà. La stessa tensione a cui allude anche H. Gardner nella sua riflessione sull’intelligenza verbale raccontando storie di poeti alle prese con tale agone[3] e sottolineandone come specifiche le dimensioni semantica e fonologica, quelle in cui dunque potrà essere significativo concentrare l’attenzione degli studenti.

Quanto al rapporto tra parola pensiero e azione, trovo interessante un contributo proveniente dalle neuroscienze: Daniel Kahneman, neuroscienziato e premio Nobel 2002 per l’economia (combinazione di studi tanto singolare quanto frequente su cui noi umanisti dovremmo riflettere), ci guida in un'esplorazione della mente umana e ci spiega come essa sia caratterizzata da due processi di pensiero ben distinti anche rispetto alle aree cerebrali che li elaborano: uno veloce e intuitivo (‘fast thinking’ sistema 1), e uno più lento ma anche più logico e riflessivo (‘slow thinking’ sistema 2).[4] Se il primo presiede all'attività cognitiva automatica e involontaria, corrispondente fondamentalmente al sistema binario delle reazioni istintuali primarie (rabbia, paura), il secondo si attiva quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono concentrazione e autocontrollo, quelli che nella storica tassonomia di B. Bloom (pure aggiornata all’era digitale)[5] corrispondono alle abilità conoscitive superiori del giudizio critico e della creatività. Questa organizzazione del pensiero si rivela versatile ed efficiente, ma può anche essere fonte di errori sistematici (‘bias’), quando l'intuizione si lascia sopraffare dagli stereotipi e la riflessione è troppo pigra per correggerla. Nell’attuale contesto storico, fermi restando tutti gli aspetti positivi della comunicazione digitale, che non solo dobbiamo riconoscere ma alla cui tecnologia dovremmo alfabetizzarci in misura avanzata, per esserne padroni e non subalterni,[6] osserviamo che ad essere iperstimolato è il pensiero veloce, a detrimento di quello lento, con le conseguenze che facilmente deduciamo. In uno dei social networks più diffusi come whatsapp, si registra tra i ragazzi, ma ormai non solo più tra loro, una tendenza alla segmentazione comunicativa e alla semplificazione che sacrifica i connettivi (pronomi, nessi logici, interpunzione), depotenziando così il pensiero ipotattico. Un depotenziamento logico-linguistico[7] che si manifesta nelle difficoltà di sintesi e di argomentazione così diffuse tra gli studenti, e che ha un’incidenza preoccupante anche su modi e tempi dell’ascolto, generando insofferenza nei confronti delle esperienze di durata (procedure, ragionamento, lettura). Si fatica a seguire connessioni di ampio respiro, si presta minore attenzione ai processi inseguendo le risoluzioni (come attestato nell’ambito degli studi matematici), inquieta la sospensione imposta dalle domande, si cerca velocemente la risposta: il rischio personale di tale impazienza è una perdita della capacità di attendere e desiderare.[8]

Ma c’è anche una ricaduta sociale, perché una attitudine come quella descritta quale interazione potrà praticare con l’informazione massmediale e politica? Stimolerà un bisogno di conferma piuttosto che il desiderio di uscita dalla comfort zone cognitiva e la volontà di sostenere la fatica imposta dallo scoglio cognitivo che qualsiasi apprendimento comporta; agevolerà cioè il disimpegno informativo e quell’effetto Dunning-Kruger,[9] per cui nella nostra epoca registriamo in modo inedito una forma di ignoranza non determinata dalla mancanza di informazioni ma dal facile e formidabile accesso a dati informativi, che genera illusione e presunzione di sapere, un fenomeno, tuttavia, che sembra già avvertito nel secolo scorso, stando a celebri versi di T.S.Eliot risalenti al 1934[10]

Where is the life we have lost in living?

Where is the wisdom we have lost in knowledge?

Where is the knowledge we have lost in information?

 

Ebbene, in tale contesto quale incidenza della parola nella realtà può sperimentare un giovane, quale bisogno di parola nella sua rappresentazione del mondo e di sé nel mondo? Perché solo riconoscendo un bisogno si alimenta la motivazione a prendersene cura. Nell’epoca della sua dematerializzazione, dunque, come riguadagnare credito e potere alla parola, di cui i giovani in genere misurano una esautorazione rispetto alla realtà, pur usandola, abusandola e tante volte subendola, ma non percependone le possibilità liberatorie e creative, ben lontani da sentirla come scriveva Galilei «invenzione stupenda»[11] o formidabile strumento di potere democratico, come in tanti l’hanno considerata dall’antichità ad oggi? Non ci sono evidentemente soluzioni facili né strategie passepartout, ma è dalla realtà che si deve muovere, recuperando corpo e materia al linguaggio di cui l’arte letteraria è fatta. Agli inizi del XX secolo la cultura europea vide la parola impegnata a fronteggiare una perdita di presa col reale affine a quella di cui stiamo dissertando ora, nell’epoca che scopriva la riproducibilità tecnica della parola e delle forme d’arte, per dirla con W. Beniamin:[12] in un contesto storico, tanto simile al nostro, in cui le illusioni scientiste ed edoniste della Belle Époque si infrangevano sui campi di battaglia della Grande Guerra, gli scrittori si immergevano nella realtà, tra destrutturazioni, dispersione ludica, recupero materico del segno o, di contro, concentrazioni essenziali e minimaliste, per r-esistere, esistere in modo nuovo, in un tempo che respingeva ai margini la loro voce, come già un secolo prima aveva presagito Leopardi, che annotava nello Zibaldone quanto la prosa fosse «più confacente del verso alla poesia moderna»[13] e così metabolizzava la prosa del mondo e della parola per generare versi nuovi, capaci di trasformare in canto la riflessione sull’arido vero e argomentare vie di quella che oggi chiameremmo resilienza; come farà anni dopo anche Baudelaire, che non temerà di lasciar cadere nel fango l’aureola sacrale dell’artista, vestendo panni da saltimbanco,[14] pur di poter essere ancora poeta. Dunque, agli inizi del nuovo Millennio dobbiamo guardare alla perdita come kairós di nuovi inizi, senza timore di perderci.

Tutta l’arte del primo Novecento è impegnata a cercare nella materia delle cose, nella deformazione, nella dissonanza e desacralizzazione, percorsi di futuro. Non una resa ma esperienze esplorative per nuovi approdi. Il secondo Novecento ha potuto generare nuovi fuochi dalle ceneri dei vecchi anche grazie a chi si è confrontato con la perdita.

Mi è rimasta nel cuore una metafora usata dal prof. Luperini nel lontano 2007, con cui invitava noi insegnanti a farci “contrabbandieri del sapere” sulla frontiera tra il nostro territorio e quello dei nostri studenti.[15] Ad oggi l’esortazione è ancora valida e forse quella triangolazione del sapere scientifico di cui si parla in ambito pedagogico-didattico a proposito dell’insegnamento è la definizione meno creativa del medesimo processo, ha a che fare con l’erotica di cui ci parlano gli antichi maestri greci come i più recenti studiosi,[16] ma dentro la parola contrabbandare forse c’è qualcosa di più e di più attuale. Il verbo ha a che fare con l’infrazione e lo scambio di frontiera di qualcosa che altrimenti non può circolare. Non può. Forse in alcuni contesti più selezionati vige un lasciapassare mentale che apre allo scambio per accettazione dello statuto scolastico, quale che sia la capacità dell’insegnante di rendere seduttivo e potabile il sapere, ma ci sono altri contesti, e in virtù del mandato civile del nostro insegnamento dobbiamo farcene carico, in cui quel lasciapassare non è statutario e allora bisogna attivare processi di negoziazione e avvicinamento, tali per cui poter procedere oltre.

Come in diplomazia, abbiamo bisogno di tempo e inedite alleanze, bisogna creare allargamenti orizzontali e verticali, per esempio in ordine alla riflessione sui saperi, attraverso l’interdisciplinarietà, da esigere nei nostri consigli di classe, nel dialogo con altre associazioni disciplinariste e con chi si occupa di Didattica e Scienze Umane, considerando la massiccia esemplificazione letteraria che c’è in tali scienze; quanto all’insegnamento delle Lettere a scuola si provi a guadagnare in verticale quanto abbiamo perso in orizzontale, ci si confronti tra ciclo primario e secondario, si promuovano percorsi di lettura tra biennio e triennio, ancora una volta proponendo ed esigendo nei consigli di classe un curricolo formativo per l’intero quinquennio, occupando spazi nella progettazione di Educazione civica e, finché esisteranno, nei PCTO.

Per quel che riguarda i ragazzi, poi, restituiamo alla parola ciò che la dematerializzazione toglie: volti e corpi, in tutti i modi suggeriti dalla nostra creatività. Nella lettura la voce, come già noi dell’ADI abbiamo capito di dover fare rispetto ai testi, ma non solo la voce dell’insegnante o quella attoriale, sollecitiamo quella degli stessi ragazzi, stimolando le loro risonanze interiori e facendole tradurre in scrittura: per esempio adottando un quaderno di viaggio, che li accompagni negli anni di educazione letteraria, un taccuino da viaggiatore in cui tutte le sollecitazioni emerse nella lettura individuale e collettiva, dentro quella comunità ermeneutica che deve diventare la classe, diventino occasioni di riflessione ed emersione del sé, dei propri pensieri e delle proprie emozioni, esercizio di scrittura in cui gli studenti, riconoscendo il di più della parola letteraria sperimentino per sé la parola come interrogazione, grimaldello di accesso alla realtà e possibilità di significazione. Sulla base di esperienze praticate, ritengo che in molti modi si possa restituire corpo alla parola schiacciata sulla pagina cartacea quanto su quella digitale: ricostruendone, per esempio, storie etimologiche,[17] cercandone la poesia nascosta, come suggeriscono le esperienze didattiche del metodo Caviardage o della hidden philosophy,[18] fondate sullo stessa dinamica di oscuramento e riemersione del testo, ispirata alla pittura di Emilio Isgrò,[19] e poi ancora, nel biennio in particolare, si può lavorare sul lessico, costruendo scrigni materiali di parole anziché fermarsi alla storica rubrica, perché le parole dimorino matericamente nelle loro mani, utilizzando anche i device elettronici e la rete per la ricerca in aula, così che la velocità digitale in questo caso diventi stimolo, ludico, per una ri-appropriazione informativa; si può lavorare sul testo conducendo analisi linguistiche contrastive, muovendosi tra passato e presente, gerghi e registri, ed anche comparando i testi con loro transcodificazioni,[20] esponendo i ragazzi alle arti non verbali perché provino a trovare nelle parole ciò che quelle altre espressioni dell’animo umano rappresentano, non per alimentare un ingenuo impressionismo, ma perché sperimentino il rapporto anima forma, forma e contesto, e riconoscano che la parola è molto di più di quel carrello veicolare su cui far scivolare velocemente ciò che della realtà vi arriva, affinché oltre l’esatta designazione dell’esistente – che è già un guadagno conoscitivo – essa possa esercitare un attrito, aiutando il lettore–scrivente a marcare un’impronta, come direbbe Calvino, sulla carta quanto nella vita.[21] E da ultimo, forse più incisivamente del resto, si potrà far scoprire i volti e ascoltare le voci di giovani interpreti dell’epos contemporaneo: i tanti giovani dei Sud del mondo che della parola scritta e udita hanno fatto la loro spada e il loro scudo, penso a tanti giovani migranti che alla parola hanno affidato i propri sogni e il proprio riscatto e, più in generale, a tutte quelle narrazioni che da qualche decennio alimentano la narrativa occidentale, facendone riemergere una vocazione epica, consentendo al presente di vivificare il mai sopito bisogno di affabulazione, non attraverso l’inerte e iconica rappresentazione dei social media, che troppo spesso genera omologazione e afasia sentimentale, ma attraverso il vivido racconto di un’umanità alla ricerca.

 

 


[1] Cfr. r. simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Bari-Roma, Laterza, 2000; id., Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Milano, Garzanti, 2012.

[2] I. Calvino, Lezioni americane (1985), Milano, 1993, pp. 60- 61, 76-77. Scrive ancora Calvino: «La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume’’» (Leggerezza, Ivi, p.19) e ancora: «La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire agilità, mobilità, disinvoltura, tutte caratteristiche di una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’ altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte. [E riferendosi al Galilei de Il saggiatore] la rapidità, l’ agilità del ragionare, l’ economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono qualità del pensare bene.» (Rapidità, Ivi, p. 45)

[3] h. gardner, Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences (1983), tr. it., Formae mentis: sulla pluralità dell’intelligenza, Milano, Feltrinelli, 1987.

[4] D. Kahneman, Thinking, fast and slow (2011), tr. it., Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori, 2012.

[5] B. S. Bloom, M. D. Engelhart, E. J. Furst, W. H. Hill e D. R. Krathwohl, Taxonomy of educational objectives: The classification of educational goals, Handbook I: Cognitive domain, New York, McKay Company, 1956; P. W. Airasian, K. A. Cruikshank, R. E. Mayer, P. R. Pintrich, J. Raths, M. C. Wittrock, A taxonomy for learning, teaching, and assessing: A revision of Bloom's taxonomy of educational objectives, a cura di L. W. Anderson e D. R. Krathwohl, Boston, Allyn and Bacon, 2000.

[6] Si suggerisce l’articolata quanto agevole riflessione di D. Buckingham, The Media Education Manifesto (2019),  tr.  it., Un manifesto per la Media Education, Milano, Mondadori, 2020.

[7] Cfr. C. Clavé, Baisse du QI, appauvrissement du language et ruine de la pensée, www.agefi.com del 17/11/2019; molti hanno osservato il processo di impoverimento in corso da anni, tra loro segnaliamo per i ricorrenti interventi sulla stampa e nella pubblicistica online Umberto Galimberti, oltre a linguisti come Tullio De Mauro e Luca Serianni.

[8] Per una riflessione sul contesto psico-antropologico del tempo presente, interessanti le riflessioni di M. recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Milano, Raffaello Cortina, 2019; M. BENASAYAG, G. SCHMIT, Les passions tristes. Suffrance psychique et crise sociale (2003), tr. it. L'epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004.

[9] J. Kruger, D. Dunning, Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One's Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments, in «Journal of Personality and Social Psychology», vol. 77, n. 6, 1999, pp. 1121-34. Cfr. anche T. nichols, The Death of Expertise: The Campaign Against Established Knowledge and Why it Matters (2017), tr. it. La conoscenza e i suoi nemici. L'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia, 2018, Roma, Luiss University Press.

[10] «Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo?//Dov’è la saggezza che abbiamo perso con la conoscenza?//Dov’è la conoscenza che abbiamo perso con l’informazione?» T.S. Eliot, The Rock, Choruses, tr. it. di chi scrive.

[11] «Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta.» G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632).

[12] w. benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1955), tr. it., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966.

[13] G. Leopardi, Zibaldone, 26 Novembre 1821.

[14] C. Baudelaire, Il vecchio saltimbanco (Le vieux saltimbanque, ne Les Fleurs du mal, 1857), ID., Perdita d’aureola (Perte d’aureole in Petits Poèmes en Prose, 1864-7); cfr. J. Starobinski, Portrait de l'artiste en saltimbanque (1970), tr. it. Ritratto dell'artista da saltimbanco, Torino, Bollati Boringhieri, 1984.

[15] Si ricorda qui l’intervento di Luperini al Convegno ADIsd “Letteratura a scuola: è tutta un’altra storia”, Liceo Cavour di Roma, 16-17 novembre 2007. La riflessione dello studioso sull’insegnamento della letteratura nella scuola italiana trova una sua esemplare espressione già nel volume r. luperini, Il professore come intellettuale. La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Milano-Lecce, Lupetti – Piero Manni, 1988, e poi uno sviluppo in ID., L’insegnamento della letteratura: canone europeo ed etica planetaria, in AA. VV., Letteratura Europa Scuola, vol. I, Roma, Armando editore, 2006 e ID., Insegnare la letteratura oggi, Lecce, Manni, 2006.

[16] Cfr. tra i molti, y. chevallard, La transposition didactique, du savoir savant au savoir enseigné, Grenoble, La Penséé Sauvage,1985; M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Torino, Einaudi, 2014.

[17] Cfr. G. L. Beccaria, Tra le pieghe delle parole. Lingua storia cultura, Torino, Einaudi, 2007. La parola (dal latino parabola, impostasi sul più classico verbum), infatti, racconta, anche solo denotando, e poi connota, moltiplicando le direzioni del racconto, in aneddoti che svelano scorci di storia, locale e planetaria, individuale e comunitaria, «le usanze perdute, le abitudini da tempo dismesse» (p. 52), tali da poter trasformare, afferma lo studioso, la lettura di un Dizionario Etimologico in quella appassionante di un romanzo. Sull’esperienza cognitiva della decodifica verbale, resta un classico t. de mauro, Capire le parole, Bari, Laterza, 1994, autore a cui si rimanda anche per i tanti interventi di riflessione sull’uso della lingua nella storia del nostro Paese e sul rapporto tra parola e cittadinanza democratica.

[18] Cfr. T. Festa, La poesia nascosta, Molfetta (BA), La Meridiana, 2019. Inoltre: L. De Marco, T. A. Piscitelli, Tre anni di «filosofia nascosta». Il progetto sperimentale di rete tra scuole «hidden philosophy», «Comunicazione Filosofica» 43 – www.sfi.it, pp.57-78.

[19] «La civiltà verbale era in pericolo. Allora ho cominciato a cancellare parole: non per distruggerle ma per sottolineare il valore. Se cancelli il superfluo dimostri quel che è necessario, dai spazio alla riflessione e al ragionamento, attivi il pensiero. Perché se uniformi le culture c’è solo la pace dei cimiteri. Il Talmud dice: dove c’è il conflitto là c’è Dio. Dio è la creazione, l’arte è la divinità degli uomini: l’arte deve generare conflitto, la cultura comune è la fine di ogni cosa. La fine della civiltà», intervista a Emilio Isgrò di Concita De Gregorio, La vela di Isgrò per l’Edipo Re di Pasolini, «La Repubblica», 9/8/2022, p. 30. Cfr anche E. Isgrò, La cancellatura e altre soluzioni, Losanna, Skira, 2007, volume in cui l’artista ha raccolto scritti pubblicati su quotidiani e riviste come corredo critico-teorico dell'attività creativa. 

[20] Si segnala qui un articolato percorso su fiaba, mito e affabulazione, da me condotto nel primo anno liceale, nel quale centrale è l’attività di lettura e ricerca svolta intorno al testo di C. COLLODI, Pinocchio (1881-1883), proposto come primo dei classici della letteratura italiana di un curricolo quinquennale di letture.

[21] Cfr. I. Calvino, Il cavaliere inesistente (1959).

 

 

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B. VERTECCHI, La scuola italiana da Casati a Berlinguer, con la collaborazione di P. Lucisano, E. Nardi, I. Volpicelli, Milano, F. Angeli, 2001.

ID., La scuola disfatta, Milano, F. Angeli, 2006.

 

 

28 ottobre 2022