Il muro di Jean Paul Sartre e Un altro muro di Beppe Fenoglio
Una proposta didattica per una seconda e una quinta liceo
Un confronto tra i due racconti esclusivamente narratologico e per blocchi di testo è stato proposto ad una classe seconda liceo. Lo scopo è stato quello di constatare come a partire da trame simili si arrivi a rese narrative diverse: lo stile epico di Fenoglio, ricco di rimandi ai classici già nella narrativa breve e ancor più ne Il partigiano Johnny, e le scelte lessicali nel racconto Un altro muro si distinguono dalle soluzioni narrative adottate nel racconto di Sartre. In quest’ultimo l’autore attraverso il protagonista non maschera lo scopo di rendere in veste narrativa la propria visione filosofica. Il confronto è stato anche proposto ad un’ultima classe di liceo: sistemato e completato il lavoro di divisione in blocchi di testo, un’analisi più accurata e più consapevole dei due racconti, anche grazie alle conoscenze filosofiche degli studenti, ha dato dei risultati interessanti.
L’argomento dei due racconti
Entrambi i racconti ci pongono di fronte alla domanda sul senso della morte, che sembra mettere in discussione l'intera esistenza e la scelta originaria effettuata. I due autori adottano lo sguardo inevitabilmente autentico di un condannato a morte durante la guerra civile: Sartre la guerra civile tra miliziani e falangisti in Spagna; Fenoglio, che aveva combattuto lui stesso tra i badogliani per la causa partigiana, lo scontro tra partigiani e repubblichini durante la seconda guerra mondiale.
Sintesi dei due racconti
Il muro dello scrittore e filosofo Jean Paul Sartre è il primo dei cinque racconti della raccolta omonima pubblicata nel 1939, l’anno successivo al romanzo filosofico La nausea.
Il racconto inizia in medias res. Il protagonista e voce narrante Pablo Ibbieta, catturato dai franchisti, dopo l’interrogatorio è condotto con altri due prigionieri, Tom e Juan, in una fredda cantina di ospedale adibita a cella.
Alla sera un ufficiale con due falangisti comunica loro che la mattina successiva saranno fucilati. Di fronte a questa sentenza i condannati diventano definitivamente consapevoli del loro imminente destino e reagiscono in modi diversi. Tom non si rassegna alla propria sorte e, non riuscendo a capire il senso della propria morte, comincia a parlare a vuoto per non soffermarsi sui suoi confusi pensieri; Pablo assume un atteggiamento indifferente verso la morte e la vita e tutto quello che queste comportano; Juan, il più giovane, preso dal panico e dalla paura, reagisce in modo disperato con pianti e gemiti.
L'arrivo di un medico belga durante la notte, incaricato di assistere i condannati, ha il compito narrativo di effettuare un'autopsia della morte grazie all'osservazione attenta dei comportamenti dei condannati. Proprio la presenza del “vivo”, il medico, induce Pablo a confrontare le due condizioni esprimendo la visione filosofica sartriana: gli oggetti che visti dai vivi assumono significato, appaiono ora ai condannati privi di senso. Così l'amore, la libertà, la bellezza, il sapore della manzanilla e i bagni d'estate, tutto ciò a cui Pablo aspirava e che ritorna a presentarsi nella memoria, hanno subìto un totale svuotamento di significato perché tutto ciò che si fa ha senso solo nell'esistenza: la morte si rivela assurda e non naturale.
La mattina successiva, mentre Tom e Juan vengono fucilati, Pablo viene di nuovo interrogato dai falangisti perché riveli dove si nasconde un suo amico ricercato, Ramon Gris, con la promessa di aver salva la vita. Anche se la sorte del compagno ricercato gli è ormai indifferente, Pablo, pur conoscendo il nascondiglio di Ramon, decide, quasi per burlarsi dei carcerieri, di sviarli con una falsa confessione. Con un colpo di scena, che conferma la casualità e il non senso della vita, Ramon Gris viene arrestato proprio nel luogo indicato da Pablo, che così, almeno per ora, scampa alla morte.
La narrazione di Fenoglio in Un altro muro è affidata ad un narratore eterodiegetico. I personaggi principali del racconto sono due partigiani ventenni con i nomi di battaglia Max e Lancia. Il racconto, che esordisce in medias res, adotta la focalizzazione interna su Max.
Nella cella buia come un pozzo e fredda come una ghiacciaia in cui i repubblichini introducono il partigiano badogliano Max, c'è già un altro partigiano, il garibaldino Lancia, reso malconcio dalle botte.
I due, che aspettano di essere fucilati senza sapere esattamente quando, perché il giorno dell’esecuzione dipende dall’esito della partita a poker del maggiore, hanno di fronte alla morte un diverso atteggiamento.
Il garibaldino Lancia non si fa illusioni sulla possibilità che uno scambio tra prigionieri gli restituisca la libertà, mentre la ipotizza per il badogliano Max. È consapevole e disincantato, ma non sembra pentito di aver speso la sua vita per i compagni e per la causa.
Il badogliano Max, invece, arriva a odiare gli altri che sono fuori, padroni della loro vita, non si rassegna alla morte e, come Achille nei famosi versi della Nέκυια, pur di vivere preferirebbe essere un bifolco o un diseredato (Omero, Od. XI, 488-491). Per lui, come per il Pablo di Sartre, la morte non è naturale, ma, a differenza di Pablo, ormai indifferente a tutto, Max ama ancora la vita; anche lui ricorda, ma i suoi ricordi del tempo trascorso da vivo sono ancora dolorosi, non indifferenti come per il Pablo del racconto di Sartre.
Durante la notte, mentre Lancia dorme, Max non riesce a prendere sonno, pensa al muro dove lo fucileranno e cerca di “vedere” la sua morte.
Il mattino successivo è quello dell'esecuzione. La spannung si prolunga magistralmente per alcune pagine di grande effetto: la fucilazione avverrà contro il muro del cimitero, bisogna arrivarci, e la strada da percorrere la percorriamo anche noi con Lancia e Max, le cui grida disperate rivolte alla gente d'Alba annegano nel canto dei soldati che li scortano.
Come nel racconto di Sartre, abbiamo anche qui il colpo di scena finale (ἀπροσδόκητον): i fascisti fucilano Lancia e risparmiano Max perché durante la notte è stato raggiunto un accordo per uno scambio con uno dei loro, prigioniero dei partigiani.
Fenoglio ha sapientemente inserito nel racconto degli indizi per farci sperare in un esito di salvezza per Max, e quando questa si realizza ricominciamo a respirare dimenticandoci di Lancia, il partigiano comunista che nessuno ha voluto scambiare.
L’esistenzialismo e il muro
L’immagine del muro della fucilazione, a cui rimanda il titolo dei due racconti, esemplifica bene la condizione di finitezza dell’uomo e la sua solitudine davanti ad ogni scelta e davanti alla morte. Proprio al centro dell’attenzione della filosofia esistenzialista, dal danese Kierkegaard al primo Heidegger, a Jaspers e a Sartre, è l’uomo con la sua finitezza, con la sua nausea e angoscia e con la sua libertà, o meglio, secondo Sartre, con la sua condanna alla libertà.
Nei suoi testi letterari narrativi - il romanzo La nausea del 1938 e la raccolta di racconti Il muro del 1939 - e nel saggio filosofico L’Essere e il Nulla del 1943, il tema del rapporto uomo/nausea/nulla/morte viene affrontato con esiti pessimistici che sembrano togliere spazio e valore all’impegno politico. Solo successivamente, con l’esperienza della guerra e della Resistenza, Sartre si apre a una lunga stagione di engagement. In uno scritto del 1944, La Repubblica del silenzio, esordisce con «mai siamo stati tanto liberi come sotto l’occupazione tedesca», individuando nell’esperienza resistenziale l’occasione per una scelta autentica in quanto necessaria.
La Resistenza diviene il momento in cui, come scrive il professore di filosofia di Beppe Fenoglio, grande studioso dell’esistenzialismo, Pietro Chiodi, in appendice proprio ad un libro su Sartre, «la campana suona per tutti e suona per tutto l’uomo. Non si può restare uomini ed assistere indifferenti alla disumanizzazione di un altro uomo o di una parte di se stessi».[1] Questa posizione è confermata e approfondita da Sartre negli anni successivi e trova una formulazione definitiva della necessità della scelta e dell’impegno nella conferenza del 1946 L’esistenzialismo è un umanismo.
“L’uomo al muro” di Fenoglio
A distanza di alcuni anni dal racconto di Sartre, Beppe Fenoglio, che fin dagli anni del liceo, il “Govone” di Alba, era stato iniziato alla filosofia esistenzialista dal suo professore, amico e partigiano Pietro Chiodi, intitola un suo racconto, inserito nella raccolta I ventitré giorni della città di Alba, Un altro muro, con un esplicito richiamo a Il muro di Sartre. Nel primo tentativo di pubblicazione dei racconti inviati alla casa editrice De Silva diretta da Franco Antonicelli, il titolo originario del racconto era Raffica al lato. Nella raccolta poi pubblicata nel 1952 da Einaudi Fenoglio decide di intitolarlo Un altro muro e lo colloca come ultimo dei sei racconti dedicati alla guerra civile. A tale proposito si vedano le lettere di Beppe Fenoglio a Italo Calvino, in particolare quelle del 2 e del 30 gennaio 1952, le cui copie dattiloscritte sono conservate presso l’Archivio di Stato di Torino.[2]
Link_1_Fenoglio a Calvino (lett. 2 gennaio)
Link_2_Fenoglio a calvino (lett. 30 gennaio)
La scelta del titolo potrebbe anche dipendere dal fatto che è un muro altro e diverso rispetto ai muri reali o metaforici delle esecuzioni presenti nei racconti precedenti: il “muro” di Vecchio Blister, in cui un vecchio partigiano è condannato e giustiziato dagli stessi partigiani perché aveva commesso un furto a danno di alcuni contadini che appoggiavano la causa partigiana; il muro dell’esecuzione sognato da Raoul ne Gli inizi del partigiano Raoul; il “muro” dell’esecuzione del fascista ne Il trucco e poi i muri della morte in tanti altri racconti. A proposito dei suoi racconti, in un’intervista in parte riportata nell’articolo di Vittorio Riolfo sul «Corriere Albese» del 12 giugno 1952, Fenoglio afferma: «Solo questo: l’uomo al muro».[3] Con il nuovo titolo Un altro muro l’autore vuole contemporaneamente rendere esplicito il riferimento al modello; egli ricava dal racconto di Sartre alcuni particolari concreti, li inserisce nel diverso contesto reinterpretandoli dialetticamente, a volte anche con scarti di significato. È evidente che Fenoglio conosce direttamente le opere del filosofo francese e a volte arriva a ripensare e a riscrivere adattando al nuovo contesto alcuni episodi significativi presenti nei suoi saggi. Citiamo come esempio un episodio narrato da Sartre nella sua lezione del 1946, pubblicata con il titolo L’esistenzialismo è un umanismo, in cui racconta di un suo allievo che durante la guerra civile si era recato da lui per un consiglio: si trattava di scegliere se lasciare la madre, che aveva già perso un figlio, da sola o aderire alla lotta rischiando la propria vita. Per Sartre solo all’uomo è affidata la scelta. Ebbene, Fenoglio ne Gli inizi del partigiano Raoul riprende questo stesso tema della scelta dell’aspirante partigiano tra restare con la madre, che insiste perché il figlio non metta a repentaglio la propria vita facendo morire lei di crepacuore, e la causa partigiana.[4]
Analogie tra i due racconti
1. Luoghi, condizioni di detenzione, tempo della storia (un’intera nottata di attesa)
2. Riflessioni sulla propria morte imminente
3. Comportamenti e gesti
4. La propria morte nel volto dell’altro
5. La morte inflitta al nemico
6. Tema dei ricordi
7. Indizi che lasciano presagire il colpo di scena finale
8. La vita è una sporca menzogna
1. Luoghi, condizioni di detenzione, tempo della storia (un’intera nottata di attesa)
In entrambi i racconti i luoghi e le condizioni di detenzione presentano le medesime caratteristiche. Diversamente da Sartre, che decide di lasciare indeterminato di quale città e di quale ospedale si tratti, nel racconto di Fenoglio, invece, troviamo l’indicazione precisa del luogo: i sotterranei del Seminario Minore di Alba, che era stato adibito a caserma dai fascisti.
Link_3_Seminario minore di Alba (cortile)
Link_4_Seminario minore di Alba (lucernario)
Si vedano questi confronti testuali:
Il muro:
In realtà, quella che ci serviva da cella era una delle cantine dell’ospedale. Ci faceva un freddo cane per via delle correnti d’aria. Tutta la notte avevamo battuto i denti e durante la giornata non era andata meglio.
[…] La luce entrava da quattro spiragli e da un’apertura rotonda praticata sul soffitto, a sinistra, e che dava sul cielo.
Un altro muro:
Deviarono verso una porta sfumata nell’oscurità e scesero un paio di scale da sotterraneo. A metà delle scale gli occhi già gli (a Max) lacrimavano per il freddo, poi intravide un barlume di luce e si asciugò gli occhi col dorso della mano.
[…] si voltò a guardare il posto. Era buio come un pozzo, salvo per una ragnatela di luce grigiastra che pendeva da una botola in un angolo del soffitto. Ed era una ghiacciaia, il freddo l’attanagliò tutto e prontamente come se ad esso fosse affidata la prima tortura.
[…] (Max) “Dove ci troviamo?”
(Lancia) “Nelle cantine del Seminario Minore.”
2. Riflessioni sulla propria morte imminente
La condanna alla fucilazione è l’occasione per riflettere e pensare alla morte, per cercare di afferrare il momento in cui ancora si è ma poi non si è più, cercando di capire se tutto il senso della vita sia in quel momento, nel momento della morte. Come Tom ne Il muro, che dà voce, in parte, a molti dei pensieri del protagonista Pablo, anche Max in Un altro muro esprime a voce alta le sue riflessioni in modo concitato.
Il muro:
(Tom) “Sta per succederci una cosa che non posso capire […] Voglio avere coraggio ma bisognerebbe almeno che sapessi… Senti, ci condurranno nel cortile. Bene. Quelli si schiereranno davanti a noi. Quanti saranno?[ …] Va bene, saranno otto. Gli ordineranno: “Puntate!” E io vedrò gli otto fucili spianati su di me. Penso che vorrò rientrare nel muro, spingerò il muro con la schiena con tutte le mie forze ed il muro resisterà come negli incubi. Tutto questo posso immaginarlo. Ah! Tu sapessi come posso immaginarlo! […] Sento già le ferite...Non dei veri dolori. Ma dopo?” (Pablo, voce narrante) Capivo benissimo quel che voleva dire ma non volevo averne l’aria.
[…] (Tom) “Mi dico non ci sarà più nulla. Ma non capisco cosa vuol dire. […] Vedo il mio cadavere. Non è difficile ma sono io che lo vedo, con i miei occhi. Bisognerebbe riuscire a pensare...a pensare che non vedrò più nulla e che il mondo continuerà per gli altri. Non siamo fatti per pensare questo, Pablo. Puoi credermi: mi è già capitato di vegliare tutt’una notte aspettando qualcosa. Ma questa cosa qui è differente: ci prenderà di soppiatto, Pablo, e non avremo potuto prepararci.” […]
(Pablo) Naturalmente ero del suo parere, tutto ciò che diceva avrei potuto dirlo anch’io: non è una cosa naturale morire.
Per spiegare quest’ultima affermazione di Pablo vale la pena leggere quanto scrive lo stesso Sartre in L’Essere e il Nulla, che, in polemica con Heidegger di Essere e tempo, sottolinea il carattere assurdo della morte:
Quello che bisogna fin d’ora osservare è il carattere assurdo della morte. In questo senso ogni tentativo di considerarla come un accordo di risoluzione che conclude una melodia deve essere rigorosamente scartato. […] La morte non può essere attesa se non è specificamente designata come la mia condanna a morte, perché non è altro che la rivelazione dell’assurdità di ogni attesa. […] La morte non è la mia possibilità di non realizzare più una presenza del mondo (come sostiene Heidegger), ma è un annullamento sempre possibile dei miei possibili, che è al di fuori delle mie possibilità.[…] La morte non è mai quello che dà senso alla vita, è invece ciò che le toglie ogni significato.[5]
Un altro muro:
Era naturale che a quell’ora la luce venisse meno, stava cadendo la sera d’inverno. “Non è naturale! - gridò Max dentro di sé, - non è naturale!”
[…] Ora che Lancia dormiva, lui rimaneva solo con se stesso, avrebbe pensato soltanto a se stesso. Era necessario, forse era già persino un po’ tardi, ma pensare a se stesso l’atterriva, non raccoglieva la forza di cominciare. Così stette attento al respiro di Lancia e ai moti del suo corpo. […]
(Soliloquio di Max) “Questa è soltanto la fine, non è ad essa che debbo pensare. Il difficile è arrivare alla fine, è su questo punto che mi debbo preparare.” […] “Ci porteranno a un muro qualunque e a un certo punto toccheremo questo muro con la schiena. No, ci faranno mettere con la faccia al muro, vorranno fucilarci per la schiena, noi per loro siamo traditori…” e in quel momento pensò la scarica e atrocemente indurì il petto per non lasciarle il passo dentro il suo corpo. […] come lui ora guardava Lancia, i suoi esecutori avrebbero guardato lui, dopo. […] “Ti ricordi di tuo cugino?...Ti fucileranno domani. Sei nato vent’anni fa apposta per questo.”
Nel passo sopra citato abbiamo un esempio di come Fenoglio dialoghi con il modello: Max, come Tom nel racconto di Sartre, immagina il momento dell’esecuzione con la schiena appoggiata al muro, ma subito dopo corregge l’immagine con un dettaglio realistico che riguarda il diverso contesto: rivolta al muro sarà la faccia, non la schiena.
L’epifonema posto a conclusione del ragionamento di Max sottolinea come il partigiano ha nella e per la morte la sua realizzazione.[6] Fenoglio propone, così, una correzione del pensiero di Sartre di segno heideggeriano, con allusione all’opera Essere e Tempo di Heidegger, che in quegli anni l’amico e professore Pietro Chiodi stava traducendo. Dopo la guerra la stima nei confronti del professore di filosofia si era tramutata in un saldo rapporto di amicizia che, pur non escludendo posizioni diverse su alcune questioni, traeva nutrimento da un costante e vivace scambio di idee.
3. Comportamenti e gesti
Come Tom ne Il muro, anche Max in Un altro muro parla molto: Tom si occupa di Juan per non pensare a se stesso, Max guarda Lancia così non pensa a se stesso.
Il muro:
(A Tom) sarebbe piaciuto consolare il ragazzo (Juan); questo l’avrebbe occupato e non sarebbe stato tentato di pensare a se stesso. Ma ciò l’atterriva: non aveva mai pensato alla morte perché l’occasione non si era mai presentata, ma adesso l’occasione era lì e non c’era nient’altro da fare che pensarvi.
Un altro muro:
(Max) Ora che Lancia dormiva lui rimaneva solo con se stesso, avrebbe pensato soltanto a se stesso. Era necessario, forse era già persino un po’ tardi, ma pensare a se stesso l’atterriva, non raccoglieva la forza di cominciare. Così stette attento al respiro di Lancia ed ai moti del suo corpo.
4. La propria morte nel volto dell’altro
Se Tom e Pablo sono specchi l’uno per l’altro, Max, mentre Lancia dorme, immagina di avvicinarglisi, di voltarlo e di vedere nel volto di Lancia la faccia del suo cadavere.
Il muro:
E sapevo bene che, per tutta la notte, a cinque minuti l’uno dall’altro, avremmo continuato a pensare le cose nel medesimo tempo, a sudare o a rabbrividire nel medesimo tempo. Lo guardai di straforo e, per la prima volta, egli mi parve strano: portava la morte in faccia. Ero ferito nell’orgoglio: durante ventiquattr’ore ero vissuto accanto a Tom, lo avevo ascoltato, gli avevo parlato, e sapevo che non avevamo nulla in comune. E ora ci rassomigliavamo come due gemelli, semplicemente perché stavamo per crepare insieme.
Un altro muro:
Lancia si lasciava fare con la greve docilità dei cadaveri. Ma rigirato che l’ebbe, vide innestata sul corpo di Lancia la sua testa, la sua faccia, in tutto e per tutto la sua. Era la faccia del suo cadavere, cogli occhi sigillati, la bocca schiusa e la gola ferma.
5. La morte inflitta al nemico
Nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza sono frequenti le dichiarazioni d’innocenza che danno allo spargimento del proprio sangue il valore attribuito al sacrificio della vittima innocente.[7] Nel passo sotto riportato del racconto di Fenoglio troviamo la dichiarazione d’innocenza associata al tema del sacrificio. Nella parte iniziale del racconto il riferimento al sacrificio è esplicito: «(le frasi dei fascisti) all’orecchio di Max suonavano misteriose e terribili come voci di una moltitudine di selvaggi africani che hanno catturato uno sperduto uomo bianco e si apprestano a sacrificarlo. Lui era l’uomo bianco.»
Il muro:
Nel dialogo Tom chiede se Pablo ha ucciso qualcuno: lui sì, Pablo non risponde.
(Tom) ‘Hai ammazzato mai qualcuno tu?’ Mi chiese. Non gli risposi. Cominciò a spiegarmi che ne aveva ammazzati sei dal principio d’agosto; non si rendeva conto della situazione e vedevo bene che non voleva rendersene conto.
Un altro muro:
Max, dopo aver chiesto a Lancia se se la sentiva di morire per l’idea, confessa di non aver mai ucciso nessuno.
(Max rivolto a Lancia) “Io non ho mai ucciso. Ho visto uccidere, questo sì. […] Una volta ho preso un repubblicano, io da solo. Gli sono arrivato dietro e gli ho puntato la pistola nella schiena. A momenti sveniva per lo spavento […] Ti giuro che ho sentito pietà […]. Poi l’ho portato su al comando, l’ho consegnato […]. Quando ho vinto non ho intascato la posta, e adesso che ho perduto devo pagarla per intiero. Ma mi sembra di pagare per degli altri.”
6. Tema dei ricordi
In entrambi i racconti i ricordi dei protagonisti rivestono un ruolo centrale anche per le visioni non sovrapponibili che propongono.
Nel racconto di Sartre Pablo tramite i ricordi finisce per rendersi conto dell’assurdità della vita e dell’inconsistenza di qualsiasi scelta; nel racconto di Fenoglio i ricordi di Max, invece, sono pieni di rimpianto per la vita di prima.
Il muro:
Pablo non vuole dormire, anche per timore di avere incubi, non vuole crepare inebetito dal sonno, non vuole morire come un cane, vuole capire; per distogliersi da quelle idee comincia a pensare alla vita passata, ci sono ricordi buoni e cattivi, almeno secondo la valutazione di prima.
Rividi il viso di un novillero che si era fatto incornare a Valencia durante la Feria, quella d’un mio zio, quello di Ramon Gris. […] Con quale ardore correvo dietro alla felicità, alle donne, libertà! Per farne? Avevo voluto liberare la Spagna, ammiravo Pi y Margall, avevo aderito al movimento anarchico, avevo parlato in comizi: avevo preso tutto sul serio, come se fossi stato immortale.
Un altro muro:
Grani di pane e fili di tabacco che Max sente nelle tasche sotto i polpastrelli, resti di un tempo imprecisato in cui era libero, attivano i suoi ricordi:
(Soliloquio di Max) “Mi sembra tutto un vigliacco gioco di prestigio. Il terribile è che non ci sarà nessun gioco di prestigio per tirarmi fuori.” Rivide la madre...Rivide il fidanzato di Mabì, che era stata anche la sua fidanzata...per lui provava un’invidia travolgente, ma solo perché lui non doveva essere fucilato.
7. Indizi che lasciano presagire il colpo di scena finale
In entrambi i racconti è presente un indizio che lascia presagire un colpo di scena.
Ne Il muro la mattina dell’esecuzione il tenente falangista chiama Tom e Mirbal, ma non Pablo, che infatti subirà un altro interrogatorio: la conclusione del racconto di Sartre dimostra l’assoluta contingenza della vita e l’assurdità della morte.
Nel racconto di Fenoglio il sergente repubblichino si fa consegnare solo da Lancia le scarpe per sostituirle con delle pantofole.
Il muro:
Quando feci per uscire il tenente mi fermò:
“Siete voi Ibbieta?”
“Sì”
“Aspettate qui: verranno a prendervi fra poco.”
Un altro muro:
La porta si aprì e comparve un sergente. […] Il sergente nascondeva una mano dietro la schiena e fissava Lancia. Lo stesso la guardia, e Max pensò che era strano, che Lancia già dovevano conoscerlo bene e che era più logico prendessero interesse a lui che era nuovo. Il sergente portò avanti quella mano, stringeva un paio di pantofole. Le buttò sulla paglia accanto a Lancia dicendogli: - Cambiati le scarpe.
8. La vita è una sporca menzogna
Pablo, che somiglia sempre di più ad uno dei personaggi ragionatori di Pirandello, nel corso del racconto diventa sempre più indifferente: ha maturato la convinzione che la vita è una sporca menzogna, che non vale nulla dal momento che è finita; per il Sartre degli anni de Il muro, de La nausea e de L’Essere e il nulla «l’uomo è una passione inutile».
Max, che a differenza di Lancia non ha fatto una scelta ideologica, non sembra aver aderito con totale convinzione e consapevolezza alla causa e ha solo seguito gli amici, («maledetti i miei amici!» esclama nella parte iniziale del racconto), afferma di preferire la vita del pitocco, come Achille nel noto episodio della Nέκυια, a cui Fenoglio si è sicuramente ispirato.[8]
Probabilmente il diverso comportamento di Lancia dipende anche dal fatto che è in cella da otto giorni e si sta abituando all’idea di dover morire, ma sa, e lo confessa a Max, che al muro anche lui avrà una grande paura e non sa come reagirà. A Max che lo incalza perché ammetta che di fronte alla fucilazione imminente non sente più in sé ‘l’idea’ egli non risponde, ma neanche oppone alcun argomento.
Aggiungerei che nei famosi versi dell’ambasceria ad Achille del canto IX dell’Iliade anche l’eroe acheo sostiene che niente è più importante della vita: cosa lo spinge a tornare in battaglia se non il desiderio di vendicare l’amico Patroclo? Nel racconto di Fenoglio è proprio il legame dell’amicizia un altro aspetto degno di attenzione insieme all’altro, altrettanto importante, del legame con la madre Langa, che si percepisce in tutta la narrativa dello scrittore albese.
Il riferimento all’amicizia e ad una sorta di dimensione anche ludica non è un dettaglio di poco conto, ma trova continui riscontri nelle testimonianze raccolte nel libro di Claudio Pavone[9] e nel Diario di Ada Gobetti, la cui dedica ad epigrafe del testo recita: «Dedico questi ricordi ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia – legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti - m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia».[10]
Per Max l’amicizia, ossia la solidarietà e la lealtà verso i compagni anche a costo della propria vita, è un valore importante. Questo elemento si scorge nel tentativo di trovare anche nella morte un sostegno nell’altro (chiede a Lancia: «facciamoci forza tra di noi») e nell’odio che afferma di provare contro gli amici che lo hanno coinvolto nell’avventura partigiana, che non è nient’altro che un sentimento di amore tradito perché, come ricorderemo più avanti, in realtà lo sappiamo capace di atti generosi. Il sentimento comune di questi ragazzi era che lottando insieme fosse possibile cambiare le cose: questa è la dimensione di Max.
Il muro:
In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: ‘E’ una sporca menzogna’. Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze: non avrei mosso neppure il dito mignolo se soltanto avessi potuto immaginare che sarei morto così.[…] Avrei voluto potermi dire: è una bella vita. Ma non si poteva formulare un giudizio su di essa , era un abbozzo; avevo passato il mio tempo a rilasciar cambiali per l’eternità, non avevo capito niente. Non rimpiangevo nulla...la morte aveva privato ogni cosa del suo incanto.
Un altro muro:
(Max) “Se me la cavo, se il maggiore ritira l’ordine della mia fucilazione e mi libera…[…]… esco e non mi intrigherò mai più di niente. Nei partigiani non ci torno, tiro una croce sulla guerra e sulla politica. Purché me la cavi, faccio voto di solo guardare e non toccare nella vita, sono pronto a fare il pitocco tutta la vita, lavorerò a raccogliere lo sterco delle bestie nelle strade.”
(rivolto a Lancia) “Te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? Se ti cerchi dentro, tu te la trovi l’idea? Io no. E nemmeno tu.”
Differenze tra i due racconti
1. Numero dei personaggi principali
2. Indifferenza di Pablo vs attaccamento alla vita di Max
3. Tema del caso
4. Spalle vs faccia al muro
5. Momento della fucilazione
6. Assenza vs presenza del paesaggio
1. Numero dei personaggi
I personaggi principali ne Il muro sono tre, Pablo, Tom, che sembra esprimere a voce i pensieri, le riflessioni e lo sguardo sulle cose che Pablo tiene solo per sé, e Juan. I partigiani Max e Lancia sono i due personaggi principali di Un altro muro.
2. Indifferenza vs attaccamento alla vita
Come abbiamo visto, Pablo nel corso del racconto diventa sempre più indifferente. Quando nel secondo interrogatorio gli chiedono in cambio della vita di rivelare il nascondiglio di Ramon Gris, l’amico anarchico che i falangisti stavano cercando, solo per ostinazione e per testardaggine non rivela dove si nasconde. Ne è quasi divertito. Dirà che Gris si nasconde nel cimitero pur sapendo che si trova presso alcuni parenti. Pablo, così, verrà rilasciato perché Gris, che nel frattempo ha lasciato la casa del cugino per dissapori, si trovava proprio nel cimitero. Lo scoppio di riso con cui si conclude il racconto dimostra una volta di più l’assurdità della vita. Max, invece, continua ad essere attaccato alla vita. Invidia il fidanzato di una ragazza che anche lui aveva amato perché è vivo.
Il muro:
Preferivo crepare piuttosto che denunciare Gris. Perché? Non volevo più bene a Ramon Gris. La mia amicizia per lui era morta un po’ prima dell’alba contemporaneamente al mio amore per Concha, contemporaneamente al mio desiderio di vivere.[...] La sua vita non aveva più valore della mia; nessuna vita aveva valore. Avrebbero messo un uomo al muro e gli avrebbero sparato addosso fino a che non fosse crepato: che fossi io o Gris o un altro era lo stesso.
Un altro muro:
Ora rivedeva il fidanzato di Mabì e provava per lui un’invidia travolgente, ma solo perché lui non doveva essere fucilato, lui sarebbe vissuto e per l’enorme numero di anni che compongono la vita normale di un uomo avrebbe potuto fare un’infinità di cose delle quali il possedere Mabì era assolutamente la più trascurabile.
3. Tema del caso
Pablo ne Il muro scampa alla fucilazione per mero caso. In Un altro muro, invece, Max, grazie ad uno scambio di prigionieri, possibilità anticipatagli da Lancia, ottiene di aver salva la vita. Il tema del caso nel racconto di Fenoglio, rappresentato dalla partita a pocker del maggiore, il cui esito deciderà il giorno dell’esecuzione, dimostra, in linea con il pensiero di Sartre, che non è possibile esistere se si conosce in anticipo il momento della propria morte.
4. Spalle vs faccia al muro
I personaggi del racconto di Sartre immaginano di dare le spalle al muro nel momento della fucilazione. Nel racconto di Fenoglio i partigiani, trattati da traditori, sono fatti mettere con la faccia rivolta al muro in attesa della raffica finale.
5. Momento della fucilazione
Nel racconto di Sartre Pablo non è presente all’esecuzione degli altri compagni e ode solo le scariche che lo fanno trasalire. Max, nel racconto di Fenoglio, è davanti al muro a fissare un punto rosso. Dalle testimonianze raccolte nel libro di C.Pavone sappiamo che false esecuzioni per puro terrorismo venivano adottate dai fascisti e, in maniera sporadica, anche dai partigiani.[11]
Le ginocchia gli si sciolsero, ma il segno rosso rimaneva all’altezza dei suoi occhi. Sentì il rumore della fine del mondo e tutti i capelli gli si rizzarono in testa. Qualcosa al suo fianco si torse e andò giù morbidamente. Lui era in piedi e la sua schiena era certamente intatta, l’orina gli irrorava le cosce...Ma non svenne e sospirò: -Avanti!
6. Assenza vs presenza del paesaggio
Nel racconto di Sartre il paesaggio è praticamente assente. In Un altro muro il paesaggio, la città di Alba con le colline sullo sfondo, con la presenza (e non presenza) di figure umane riveste un’importanza determinante anche per il suo significato e valore simbolico. La strada che percorriamo fino al cimitero con Max e Lancia ci consente di osservare alcuni comportamenti della gente, che teme le rappresaglie fasciste, e di seguire il processo di maturazione di Max, che ora va incontro consapevolmente al suo destino di morte e non rinnega la scelta fatta in precedenza.
“Dev’essere mezzogiorno e la gente è ritirata a mangiare e così non può essere testimone dei loro assassinamenti” […] Alle loro spalle i fascisti scoppiarono a cantare: San Marco…[…] Max alzò gli occhi alle rade finestre di quella via: non una che si aprisse, nessuna tendina che si scostasse, nemmeno un’ombra guizzava dietro ai vetri [...] “Gente di Alba! Gente di Alba, non puoi non sentire! Affacciati a vedere, non ti chiediamo di salvarci, vieni soltanto a vederci!” […] In quella piazza c’era un gruppo di spalatori che avevano fatto mezzogiorno e stavano allontanandosi dalle loro pale piantate nei mucchi di neve. Li videro venire, riandarono ai mucchi, sconficcarono le pale e si rimisero a lavorare […] A destra vide prati sepolti da neve stendersi fino ai primi argini del fiume. “Io parto. Mi butto verso il fiume. Sarò nella neve come una mosca nel miele, mi ammazzano infallantemente, ma io parto lo stesso. Così è più facile, non c’è preparazione”. Così pensò Max, ma non poteva, non poteva fare un passo fuori della cadenza del drappello.[…] Max […] frugò cogli occhi la nuda campagna e gridò dentro di sé “Dove siete, o partigiani? Cosa fate, partigiani? Saltate fuori dal vostro nascondiglio! Saltate fuori e sparate! Fateci tutti a pezzi!” Nessuno venne in vista, solo una vecchia, lontano, oltre il cimitero, saliva un sentiero sul fianco dell’acquedotto, tirandosi dietro una capra.
Nella totale assenza delle figure invocate, unica ad apparire lontano è una vecchia che sale un sentiero tirandosi dietro una capra: una di quelle figure femminili dell’universo fenogliano, come ha fatto notare Elisabetta Soletti, testimone e custode del senso religioso e pacificato dell’esistenza.[12] Lo sforzo che la vecchia sembra sostenere nel trascinare la capra, immagine della dura vita nella Langa, rinvia ad un topos letterario con una lunga tradizione letteraria da Lucrezio a Virgilio, da Petrarca a Leopardi.
Conclusioni su Max
Riformuliamo allora il giudizio su Max. Il personaggio che ci sembrava, rispetto a Lancia, aver aderito alla causa partigiana con leggerezza, nel momento supremo dimostra tutta la sua umanità: ha paura ma non si sottrae. Il segno rosso nel muro, la scrostatura che denuda il mattone rosso vivo tra il grigio vecchio e sporco dell’intonaco che Max decide di fissare fino alla fine rappresenta la scelta etica autentica.
Che Max fosse un partigiano valoroso e generoso avremmo dovuto notarlo quando nel corso del suo pensiero sproloquiante aveva fatto riferimento all’epico scontro di Valdivilla[13] del 24 febbraio 1945, in cui aveva dimostrato il suo coraggio e la sua solidarietà ai compagni «tirando fuori dalla strada di Valdivilla» un suo compagno, Luis, da cui ora si aspetta un aiuto per un debito di riconoscenza. Il nostro pensiero va all’eroico Maté dell’Erba brilla al sole, dietro cui si cela Dario Scaglione, Tarzan, che, pur potendo mettersi in salvo durante il fatidico scontro, coraggiosamente e a prezzo della vita rimase fedele ai principi di solidarietà e di amicizia in cui credeva.[14]
Capiamo che anche il protagonista di Un altro muro ha attraversato e superato i momenti più difficili, come lo smarrimento causato dal Proclama Alexander (novembre 1944) e il terribile inverno successivo con i rastrellamenti nazifascisti, e ha comunque riconfermato sempre la sua risoluzione iniziale. Diversamente da Johnny nel Partigiano, Max, sopravvissuto a Valdivilla e alla fucilazione, sembra avere il destino di chi, come Ettore ne La paga del sabato, ma anche come Primo Levi, è destinato a dare testimonianza, in questo caso della morte che ha vissuto per interposta persona attraverso Lancia.
I classici in Fenoglio
Nella narrativa di Fenoglio è possibile rintracciare continuamente suggestioni che rimandano ai grandi classici della letteratura mondiale anche greca e latina e ai testi biblici, mai fini a se stesse, ma funzionali al carattere epico del grande stile.
L’immaginario letterario greco e latino impiegato nella Spannung del racconto è di grande potenza espressiva: L’espressione «le ginocchia gli si sciolsero» è la traduzione letterale di Od. XXII, 68: la scelta del verso inserito nell’episodio della strage dei Proci non è casuale: nei versi precedenti Odisseo ha appena detto «Ora davanti a voi sta soltanto lottare o fuggire, chi riesca a evitare la morte e le Chere: ma credo nessuno potrà sfuggire alla morte imminente» (Od. XXII, vv. 65-67).
Un’altra curiosità: quando Max è girato verso il muro e sente i fucili puntati contro la sua schiena, Fenoglio scrive che «tutti i capelli gli si rizzarono in testa», un’espressione in cui è evidente il richiamo al verso dell’Eneide (Aen. II, 774: Obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit) in cui Enea vede il fantasma di Creusa, verso che ritorna identico in Aen. III, 48, a descrivere l’orrore provato da Enea di fronte al macabro racconto di Polidoro. È presumibile che Virgilio abbia avuto presente la stessa espressione usata nello Ione di Platone per esprimere l’effetto sul rapsodo nel raccontare proprio l’episodio della vendetta dei Proci nel citato passo dell’Odissea: ὀρθαὶ αἱ τρίχες ἵστανται ὑπὸ φόβου. Se è un caso, si tratta di un incredibile caso. Le due espressioni utilizzate per esprimere l’orrore e il terrore di Max, che rimandano volutamente a τόποι consolidati e riconoscibili, sono collegate tra loro in modo raffinato.
L’ultima immagine con cui si conclude il racconto («Andando guardava l’erba spuntare gialla tra la neve sul fianco dell’acquedotto») fa pensare all’incipit dell’ode IV, 7 di Orazio: Diffugere nives, redeunt iam gramina campis/arboribus comae. Il terminus post quem del tempo della storia narrata è il 24 febbraio 1945: tutti aspettano la fine dell’inverno e con essa la fine della guerra; proprio l’eterno ritorno delle stagioni, che potrebbe essere motivo di gioia e speranza, deve farci riflettere sulla nostra vita che ha un’unica stagione non destinata a rinascere. In questa si impone la scelta per ogni partigiano: Max sceglierà ancora una volta la via giusta e forse per lui tornerà l’agognata primavera.
Il tema della scelta
Se nel racconto di Sartre non sembra esserci nessuna vera tensione ideale, anzi le scelte della vita, nella visione del protagonista, alla fine sembrano indifferenti, almeno di fronte alla morte, nel racconto di Fenoglio il confronto tra i due personaggi Lancia e Max riproduce il dualismo che ha segnato la scelta definitiva di Johnny nel Partigiano e che non a caso ritorna nella narrativa breve di Fenoglio ne Il padrone paga male. Il garibaldino Lancia in alcuni suoi interventi («A me non uscire non mi fa più nessun effetto. Pensaci un po’, cosa vuoi che me ne faccia di vedere un pezzo di mondo se tanto non posso vederlo come vorrei io?») e nel suo silenzio dimostra una spinta ideale, o forse ideologica, più matura di quella di Max denunciando la piena adesione al modello rappresentato dal professor Leonardo Cocito, l’insegnante di italiano di Beppe Fenoglio al liceo, del quale l’allievo ebbe sempre uno struggente ricordo per il coraggio con cui salì il patibolo per mano tedesca il 7 settembre 1944 a Carignano.[15] In un episodio fondamentale de Il Partigiano Johnny il professor Cocito sottopone un gruppo di studenti a un ‘esamino’ con il quale vuole dimostrare che per essere partigiano, la cui vita è fatta solo di casi estremi, bisogna dimenticare ogni vincolo affettivo in nome di una scelta che presuppone un fondamento ideologico; invece per Pietro Chiodi, il professore di filosofia, che spiega e corregge tale definizione, «partigiano è, sarà chiunque combatterà i fascisti».
Il tema della libertà
Argomento di stringente attualità, la questione della libertà nel testo di Fenoglio percorre il racconto imponendosi fin dall’inizio, più che nel testo di Sartre. Alla libertà intesa secondo il senso comune si contrappone la Libertà, frutto della riflessione etico-filosofica condivisa con il suo amico e professore Pietro Chiodi.[16] Per comprendere la riflessione filosofica che si cela nella narrativa dello scrittore di Alba non si può trascurare la grande influenza che il professore di filosofia esercitò su di lui e il legame di amicizia che li ha uniti fino alla morte dello scrittore.[17] È questo un periodo davvero straordinario in cui il legame che si stabilisce tra maestro e allievi è destinato a lasciare un segno in entrambe le parti. Così il filosofo Nicola Abbagnano, maestro di Pietro Chiodi, nel commosso ricordo che ebbe anche lui il grave compito di pronunciare per l’allievo, disse:
Si è dedicato alla filosofia per la stessa ragione per la quale, durante la lotta di Resistenza, fu partigiano combattente: per difendere la libertà e la dignità dell’uomo. Con un’indagine spregiudicata e rigorosa la filosofia deve mettere in luce i mezzi di cui l’uomo dispone per difendere e realizzare l’autentica umanità dell’uomo e per denunciare e smascherare ogni tentativo di evasione da una ricerca diretta in questo senso.[18]
Per Chiodi la filosofia ha il compito di chiarire e allargare le possibilità di scelta dell’uomo e ha il dovere di denunciare le situazioni di disumanizzazione, che l’azione deve contribuire a rimuovere, perché sia garantita la giustizia sociale e la libertà politica.[19]
La parola libertà, che per Cocito ne Il Partigiano Johnny non è sufficiente se resta priva di un fondamento ideologico, per Chiodi è invece fondamentale e deve guidare la lotta partigiana prima di ogni ideologia.
È proprio Nicola Abbagnano nel suo saggio sull’esistenzialismo del 1942 a chiarire il significato di libertà condiviso e messo in atto con coerenza dall’allievo Pietro Chiodi:
L’uomo non può spezzare i mille fili invisibili che subordinano i suoi moti interiori a determinazioni estrinseche di ogni genere. Quello che concretamente egli è e fa sembra interamente riportabile e riferibile, come a sua ragion sufficiente, alla situazione a cui è legato.
Dall’altro lato egli deve essere libero per il suo compito. […] Da lui si chiede impegno, decisione, energia. Gli si impone un fardello pesante che potrà portare solo se si sente ed è veramente libero per la sua missione. La libertà è opzione. Essa è conquista e possesso, ma non eliminazione del rischio. Non è atto puntuale ma continuità di una decisione che si rinnova incessantemente nel corso favorevole o sfavorevole degli eventi. Essere libero significa mantenersi fedeli a se stessi, non tradendo il proprio compito e salvando la serietà e la consistenza del mondo e la solidarietà inter-umana.[20]
In un altro famoso passo del secondo capitolo de Il Partigiano Johnny, a chi considera che leggere Kirkegaard non sia igienico, Chiodi risponde: «Vedi, l’angoscia è la categoria del possibile. Quindi è infuturamento, si compone di miriadi di possibilità, di aperture sul futuro. Da una parte l’angoscia, è vero, ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma dall’altra parte è il necessario ‘sprung’, cioè salto verso il futuro».[21] L’Angst e lo Sprung di Kirkegaard, interpretati alla luce di Heidegger, sono volti all’azione per il futuro degli uomini
In una bella e importante pagina del suo documentario storico Banditi, Pietro Chiodi spiega quando per lui la scelta etica si è imposta: prigioniero nel carcere di Bra ricordando l’episodio dei cadaveri della strage nazifascista del Mussotto:
Fuori si sentono voci tranquille di passanti e grida di bambini. Un terribile pensiero mi prende. Perché mi sono impegnato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti più sani di me vivono tranquilli sfruttando la situazione in ogni modo? Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto. Perché ho abbandonato tutto questo? Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: “È meglio morire che sopportare questo”. Sì è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo, ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve.[22]
Entrambi i professori di Fenoglio Pietro Chiodi e Leonardo Cocito, uniti da uno stretto legame di amicizia sostenuto da reciproco rispetto grazie all’adesione ai valori dell’antifascismo, al di là delle specifiche posizione politiche, furono catturati dalle SS italiane nello stesso giorno, il 18 agosto 1944. Il comunista Cocito fu impiccato dai tedeschi pochi giorni dopo, il 7 settembre 1944. Il professor Chiodi fu deportato in Austria, da dove, grazie ad un medico austriaco, riuscì a tornare a casa. Nel gennaio 1945, con il nome di battaglia Valerio, Pietro Chiodi riprese la guerriglia come comandante del battaglione garibaldino “Leonardo Cocito”.[23]
[1] P. Chiodi, Il concetto di “alienazione” nell’esistenzialismo, in Sartre e il marxismo, citato in, Pietro Chiodi, Beppe Fenoglio e la Resistenza, a cura di C. Pianciola, Roma, Edizioni dell’asino, 2020, p. 19.
[2] Per le altre lettere cfr. B. fenoglio, Lettere 1940-1962, Torino, Einaudi 2002.
[3] L’intervista è reperibile in «L’illuminista», n. 40/41/42 anno XIV a cura di G. Pedullà, pp. 163-65.
[4] m. porro, Chiodi e Fenoglio. R/esistenza in «Doppiozero», 2022 (https://www.doppiozero.com/chiodi-e-fenoglio-resistenza).
[5] J. P. Sartre, L’essere e il nulla, Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 639-49.
[6] A. Comparini, Letteratura ed esistenzialismo nel “Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio”, in «Rivista di Letteratura Italiana», XXXIV, 2016, pp. 135-60.
[7] Cfr. C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, ed. orig. 1991, rist. 2021, pp. 429-30.
[8] Teniamo presente, come rileva Gabriele Pedullà, che a chi sta rischiando la vita in guerra non piace sentirsi raccontare quanto è nobile immolarsi per un ideale e gli scrittori consapevoli di ciò hanno evitato la celebrazione astratta dell’adagio pro patria mori. Cfr. G. Pedullà, Una lieve colomba, in Racconti della Resistenza, a cura di gabriele pedullà, Torino, Einaudi, 2005, pp.V-XLII.
[9] C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, ed. orig. 1991, rist. 2021, pp. 23-41, in partic. pp. 27-30.
[10] A. Gobetti, Diario partigiano, Torino, Einaudi, ed. orig.1956, rist. 2014, p. 1.
[11] C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, cit., p. 436.
[12] E. soletti, Le figure femminili ne Il Partigiano Johnny in Le donne nella narrativa di Beppe Fenoglio a cura di p. gramaglia, l. ugona, m. ugona, Centro culturale “Beppe Fenoglio”, Murazzano, Angolo Manzoni, 2005, p. 73.
[13] La battaglia di Valdivilla occupa un ruolo particolarmente importante nella vita e nella narrativa di Fenoglio, che ne fa l’episodio conclusivo de Il partigiano Johnny e a cui dedica il racconto estratto da L’imboscata L’erba brilla al sole.
[14] b. fenoglio, L’erba brilla al sole, in Secondo Risorgimento, Torino, 1961 ora in Tutti i racconti, Torino, Einaudi, 2007. Per la commemorazione del partigiano Dario Scaglione Fenoglio scrisse un testo che si può leggere in b. fenoglio, Lettere 1940-1962, a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2004
[15] p. chiodi, Fenoglio, scrittore civile, in «La cultura», III, n.1, 1965, pp.1-7 ora in Pietro Chiodi, Beppe Fenoglio e la Resistenza, a cura di C. Pianciola, Roma, Edizioni dell’asino, 2020, p. 33-42: 37.
[16] Sempre dal già citato secondo capitolo de Il Partigiano Johnny apprendiamo quanto l’incontro con i due professori Pietro Chiodi e Leonardo Cocito sia stato fondamentale per la metanoia di Johnny; è proprio l’ultima battuta di Chiodi che lo fa decidere: «Ragazzi, teniamo di vista la libertà».
[17] Nell’intervista del 1962 pubblicata sulla “Gazzetta del Popolo” Fenoglio ricorda così il suo insegnante: «Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, […] sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza. Quanti di noi andammo nei partigiani perché sapevamo che c’era anche lui? E quanti gli devono la propria formazione intellettuale e civica?». Questa parte dell’intervista si può leggere in Pietro Chiodi, Beppe Fenoglio e la Resistenza, cit. p. 12.
[18] n. abbagnano, Pietro Chiodi, «Rivista di filosofia»,LXI, 1970, p. 447.
[19] Cfr. C. pianciola, Pietro Chiodi, in Pietro Chiodi, Beppe Fenoglio e la Resistenza, a cura di C. Pianciola, Roma, Edizioni dell’asino, 2020, p. 24-25.
[20] n. abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Milano, Il Saggiatore, ed. orig. 1942, rist. 2001, p. 87 e 104.
[21] B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 1978 e 1994, p. 22.
[22] p. chiodi, Banditi, Torino, Einaudi. 1975 e 2002, p. 41.
[23] C. pianciola, Pietro Chiodi, cit., p.14.
28 ottobre 2022