Andrea Virga - La complessità in classe

La fabbrica della peste di Franco Cordero

 

La sorte di un’opera come La fabbrica della peste è indubbiamente curiosa, al punto di aver influenzato la stesura stessa di questa relazione, perlomeno nelle sue tempistiche: un libro pubblicato nel 1983, da un editore di indiscusso spessore come Laterza, e tuttavia da tempo fuori catalogo, irreperibile se non sui siti dei rivenditori, spesso a prezzi gonfiati, o in alcune sparute biblioteche. Valga l’esempio del presente ateneo, dove le sole copie sono state relegate a giurisprudenza, calpestando con indifferenza l’insopprimibile interdisciplinarità di questo testo, altrettanto indubbiamente geniale nel suo restar sospeso tra diritto, letteratura e storiografia.

Questa relazione si propone anche di suggerire il possibile motivo di questa dimen- ticanza, ma si articola principalmente su tre piani interconnessi: innanzitutto, il libro e il suo autore, considerati nel proprio contesto e coi propri contenuti; la ricchezza dei temi sollevati dall’opera, e il dibattito che ne emerge, secondo una serie di linee di faglia che vanno intersecandosi; e infine, in linea con la dicitura di questo insegnamento ma soprattutto con gli interessi precipui dell’autore di questa relazione, le applicazioni del testo sul piano didattico, nella realtà concreta dell’insegnamento scolastico.

 

La fabbrica della peste

L’autore, Franco Cordero (1928-2020), poteva sicuramente vantare un impatto rilevan- te nel mondo giuridico italiano, per il suo triplice impegno come studioso di diritto penale – probabilmente insuperato il suo manuale di procedura –, come saggista –– particolarmente attento alla storia del diritto penale, andando a toccare casi celebri come nella tetralogia dedicata a Gerolamo Savonarola ––, e infine come romanziere, vincitore del Premio Viareggio, sempre intrecciando storia, diritto e finzione.

Della sua lunga vita, però, qui in breve menzioniamo appena due episodi, che intagliano la caratura del personaggio, e ci saranno d’aiuto per il nostro discorso. Il secondo, in tarda età, già in questo secolo, lo trova nelle vesti di editorialista di “Repubblica”, coniatore del fortunato appellativo di «Caimano» per l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, oltre a diversi altri epiteti, non sempre altrettanto fortunati, ma certo testimoni del suo talento e della sua fantasia linguistico-letterari.

Il secondo, oltre trent’anni prima, lo vede – da penalista ma titolare anche dell’inse- gnamento di Filosofia del Diritto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – accusato dall’ateneo di aver insegnato e sostenuto posizioni avverse alla dottrina cattolica, e quindi rimosso dal suo incarico. La Corte Costituzionale, con una sentenza (195/72) che destò fior di discussioni, diede ragione all’università. Vale la pena di aggiun- gere che, un quarto di secolo dopo, un suo successore su quella stessa cattedra, Luigi Lombardi Vallauri, ebbe simile destino, senonché si rivolse infine alla CEDU e ottenne, mutatis temporibus, ragione. È da allora vox populi, tra gli studenti di giurisprudenza dell’ateneo milanese, che per questa nobile disciplina si preferisca assumere studiosi di basso profilo, pur di evitare una terza cause célèbre.

Aneddotica a parte, non è un caso irrilevante, dal momento che uno dei fil rouge della produzione scientifica del Cordero è la critica serrata alla cosiddetta «ideologia cattolica», in nome di una prospettiva, che potremmo definire neo-illuminista, caratterizzata sì dall’uso della ragione, ma senza trascurare, anzi approfondendo, la realtà emotiva e psicologica dell’uomo. Così, l’indagine dei fondamenti della religione cristiana condotta in opere quali Gli osservanti (1967) e L’Epistola ai Romani (1972) non poteva che riuscire sgradita al mondo cattolico, che pure non poteva ignorarla, dato il valore della mente che vi stava dietro. Una risposta dura, ma non banale, alle tesi del Cordero la troviamo nelle pagine di Metamorfosi della gnosi del giovane filosofo Emanuele Samek Lodovici, allievo di Augusto Del Noce.

Quest’ampio (forse troppo) cappello introduttivo ci consente idealmente di inqua- drare la presente opera nella fase matura del Cordero, in un periodo dedicato soprattutto all’indagine scientifica sulla storia del diritto penale, con libri quali Riti e sapienza del diritto (1981) e Criminalia. Nascita dei sistemi penali (1986), ai quali seguirà la monumentale biografia di Gerolamo Savonarola (1986-88), che si propone di render conto non solo del lato strettamente biografico, ma di tutto il contesto storico-politico e teologale, tanto quanto quello sociologico e antropologico, legato alla psicologia delle masse. La fabbrica della peste ne rappresenta, per certi versi, una sorta di prova generale.

Il libro è diviso in due parti: la prima (Unzioni a Milano) ricostruisce la vicenda del processo agli untori dell’estate 1630, dedicando il primo capitolo ai primi due, e più famosi, imputati, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, e il secondo all’estendersi delle maglie della giustizia, fino ad arrivare a Juan Gaitán de Padilla, assolto da ogni accusa. Nella seconda (Matrici), lo sguardo si allarga ad un contesto molto più ampio: prima di tutto ricostruendo contesto e moventi dell’autore della Colonna infame, poi, con sguardo non sempre organico e sistematico, l’epoca dei fatti, dall’atmosfera teologica della Controriforma al clima sociale e politico della Milano spagnola.

Tuttavia, nel mirino del giurista vi è l’Autore par excellence del cattolicesimo meneghino, Alessandro Manzoni, e specificamente in rapporto alla sua Storia della colonna infame. Troppo vasto ed erudito per essere un semplice pamphlet, è non di meno un saggio a tesi: in discussione è l’opera di Manzoni come storico. Secondo il Cordero, lo scrittore milanese, organico ad una prospettiva cattolica, avrebbe voluto difendere l’epoca della Controriforma, con la sua cultura e le sue istituzioni, rispetto alla visione negativa espressa dalla storiografia illuminista. Da qui deriverebbero la critica di Manzoni alle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri e soprattutto le pesanti accuse di plagio mosse a Pietro Giannone, autore invece difeso dal Cordero, che gli dedica addirittura l’opera. Giannone anzi, colpevole di aver attaccato il potere temporale del Papa, sarebbe il principale obiettivo polemico di Don Lisander. Non solo, ma quest’ultimo sarebbe colpevole di un’effettiva incomprensione del contesto storico-culturale e dei procedimenti giuridici dell’epoca, in particolar luogo quello inquisitorio.

Da questo punto di vista, il Cordero è debitore verso l’opera dello studioso napo- letano Fausto Nicolini, vicinissimo alle posizioni di Benedetto Croce e autore di alcuni testi ancor oggi rilevanti per comprendere il quadro storico manzoniano: oltre al più fa- moso Arte e storia nei Promessi Sposi (1939), troviamo Aspetti della vita italo-spagnuola nel Cinque e Seicento (1934) – dove si approfondiscono, tra le altre cose, il Tumulto di San Martino, descritto nel cap. XII dei Promessi Sposi, e la genealogia di Don Gonzalo Fernández de Córdoba – e, ancor più specificamente, Peste e untori: nei "Promessi sposi" e nella realtà storica (1937). Il Nicolini, in sintesi, accusa Manzoni di non tenere conto del contesto storico dell’epoca, per cui i giudici, influenzati dalla realtà del loro tempo, si sarebbero attenuti ai criteri morali e legali vigenti, ritenendo peraltro concretamente reali le «unzioni». Nel ritratto moralistico e antistoricistico della Storia della colonna infame, si perderebbe dunque la complessità morale della situazione, tacendo ad esempio l’uso della tortura anche da parte di un «buono» manzoniano, quale il Card. Federico Borromeo, nonché la contiguità di molti accusati al sottobosco dell’illegalità e della criminalità milanese. Peraltro, lo stesso Nicolini, esperto studioso di Vico e conoscitore dell’Illuminismo napoletano, già difende Giannone, in sintonia con Croce e Gentile.

Quasi mezzo secolo dopo, La fabbrica della peste riprende questi rilievi ma collocan- doli in un quadro più ampio e complesso. Principale elemento di novità è l’attenzione sistematica ai moventi psicologici e alle dinamiche psichiche ed emotive tanto dei singoli quanto delle masse, non senza paralleli all’esperienza novecentesca, ad esempio i frequenti riferimenti ai processi di Mosca del 1936-38 – il Cordero è, dopotutto, a differenza di Manzoni o Verri, uomo del Novecento, «secolo di ferro» non meno che il Seicento. Non si limita, infatti, a rilevare come casi di «unzione» fossero avvenuti real- mente, ma li spiega alla luce dei fenomeni di suggestione e d’isteria di massa, e anzi ad- dirittura rilevandone la dimensione di conflitto sociale. Di questi, noi stessi contemporanei abbiamo recentemente compiuto esperienza, in ampio e variegato campionario, negli ultimi anni. In aggiunta, egli rincara la dose sullo scrittore milanese, accusandolo di sostanziale malafede nel approcciarsi all’argomento, a partire da un approccio selettivo alle fonti (cherry picking) e vere e proprie manipolazioni di queste, tese a favorire la propria linea interpretativa. In un famoso brano dell’opera, accusa addirittura Manzoni di aver attaccato il Giannone per screditare l’autore del Triregno, opera di cui avrebbe sospettato l’esistenza prima della sua pubblicazione.

 

Un Manzonistreit?

Al di là della concisione con cui è stata riassunta l’opera, appare nondimeno evidente la vena polemica che anima tutta La fabbrica della peste, amplificata per altro da uno stile particolare, certo molto vivo ed efficace, caratterizzato dalla sovrapposizione e dal con- trasto di stilemi divergenti: tecnicismi giuridici, calembour, riferimenti eruditi, espressioni latine, anglismi gratuiti.  Non a caso, alcuni critici cattolici del Cordero – valga ad esempio il coccodrillo del collega Francesco D’Agostino su “Avvenire” – gli avevano rinfacciato quest’eccessivo polemismo. È un’accusa esplicitamente di parte, ma oggettivamente inconfutabile, anche solo alla luce di questo testo, dove giudizi apodittici tranchant e insulti gratuiti si rincorrono, tra un riferimento decontestualizzato a Hitler e uno a Stalin, in un’inizialmente godibile performance da consumato principe del foro. È però incontestabile che la sua polemica avesse suscitato un vivace dibattito o, meglio, ne avesse ravvivato uno già esistente da anni. Si è già accennato alla dura critica portata avanti dal Nicolini negli anni ’30, sulla scia delle posizioni crociane. Al contra- rio, Leonardo Sciascia prese le difese della Storia della colonna infame, definendola vero e proprio «romanzo inchiesta», e tracciando un parallelo con gli eccessi nella repressione della violenza politica, a lui contemporanei. Allo scrittore siciliano si deve anche una corposa introduzione alla sceneggiatura del film di Nelo Risi La colonna infame (1973), dedicata proprio alla storia manzoniana.

In esplicita risposta a Cordero, scrisse invece Mino Martinazzoli, avvocato bresciano e importante politico democristiano, autore di Pretesti per una requisitoria manzoniana (1985), in cui difendeva a spada tratta l’operato di Manzoni, rivendicando la legittimità del suo approccio. Lo scrittore milanese, che nelle sue opere narrative aveva saputo tracciare un quadro storico così ampio e realistico della Lombardia seicentesca, non poteva essere certo accusato di ignoranza o di malafede, se nella sua analisi del processo a Piazza e Mora aveva voluto insistere sulle responsabilità individuali dei giudici. Questo «personalismo etico» non avrebbe dunque costituito un modo per scaricare tutte le ingiustizie di un’epoca su pochi individui, bensì per sottolineare come l’iniquità di quel processo rispondesse a scelte deliberate, e per nulla obbligate, ancorché magari favorite, dal contesto.

Ora, nella requisitoria di Cordero contro Manzoni, si possono ricondurre le variegate e fantasiose invettive a due capi d’imputazione principali, la prima delle quali è la sua sostanziale imperizia, prima ancora che interessamento, nel maneggiare i documen- ti storici e nel comprendere dunque il contesto di cui si andava occupando. Che Don Lisander non fosse uno storico di professione, è pacifico, anche se il suo approccio alla narrativa aveva una tale insistenza sulla verosimiglianza storica, da portarlo comunque ad approfondire in maniera metodica la questione, allacciando un vero e proprio dialo- go con le fonti a lui precedenti, come il Tadino e il Ripamonti. Si aggiunga che la scienza storica, ai suoi tempi, non aveva ancora maturato un metodo rigoroso e articolato come quello degli studiosi successivi.

D’altro canto, lo stesso Cordero, pur nella sua indiscutibile erudizione, aveva una formazione eminentemente giuridica, dunque non storica, né sociologica o psicologica, né tanto meno teologica. Anzi, nel suo empirismo spiccio, finiva per liquidare quest’ultima disciplina come fantasiosa e inconsistente. Ci si permetta di dubitare della possibilità che chi definisce S. Carlo Borromeo «un tecnocrate della polizia psichica», per di più poco riuscito «sul piano cromosomico», comprenda storicamente l’epoca della Controriforma e ne colga realmente lo Zeitgeist.

Quest’anticlericalismo d’antan, tanto divertente sul piano letterario quanto noio- so su quello intellettuale, sarebbe legittima opinione del Cordero se non rischiasse di condurre a conclusioni difficilmente sostenibili sul piano storico. Del resto, l’accumulo di nozioni erudite vale a poco, in termini metodologici, se queste sono selezionate e rilette a proprio uso e consumo. Valga ad esempio lampante l’omissione dalla biografia del sacerdote genovese Eustachio Degola del suo impegno nella Repubblica Ligure giacobina, e a favore in particolare di una riforma religiosa in senso anti-papista.

Infatti, la qualifica da parte del Cordero di Manzoni come intellettuale in fin dei conti organico all’ideologia cattolica cozza con la vita e il pensiero di quest’autore. In primo luogo, appunto, la sua religiosità era di forte influenza giansenista, corrente ete- rodossa più volte condannata dalla Santa Sede e, storicamente, specie nelle sue ramifica- zioni italiane, fortemente legata al riformismo ecclesiastico in senso giurisdizionalista, come nel Sinodo di Pistoia (1786). Non a caso, il giurista cerca in ogni modo di sminuire l’afflato religioso di Manzoni, facendone una sorta d’insicuro burattino nelle mani degli ecclesiastici Degola prima e Tosi poi. Inoltre, lo stesso impegno politico di Manzoni, dal ’48 in poi, lo smentisce, nel momento in cui lo scrittore milanese si schiera a favore del movimento risorgimentale, fino alle estreme conseguenze del tutto sgradite al Sommo Pontefice, come la progressiva annessione degli Stati della Chiesa e la fine del potere temporale. E come cattolico liberale e filo-rivoluzionario fu considerato appunto dai clericali e gli intransigenti del suo tempo, come l’Albertario e i gesuiti de “La civiltà cattolica”.

Su questo punto, è opportuno citare il recente intervento di un vero storico, rivelatosi molto più acuto nel trattare la questione, alla luce di decenni di studi in materia. Si tratta di Adriano Prosperi, certo non imputabile di organicità all’ideologia cattolica, e autore di studi ormai imprescindibili sull’Inquisizione in età moderna, nonché di una lunga introduzione proprio alla Storia della Colonna Infame, nella nuova edizione Einaudi. Il Prosperi, da addetto ai lavori, concorda sul fatto che Manzoni sottovalutasse, nella vicenda, il ruolo dell’Inquisizione come istituzione e come macchina giudiziaria. Del resto, potremmo aggiungere, ai suoi tempi, si contrapponevano una marcata reticenza all’autocritica da parte cattolica e una pubblicistica a tinte forti, propria dei romanzi gotici e della stampa anticlericale, dalle quali era difficile trarre una conoscenza adeguata dei complessi meccanismi, ricostruiti in Tribunali della coscienza (1996).

Con molto acume, il Prosperi, però, individua un’altra causa nell’esitazione man- zoniana a coinvolgere nella sua accusa l’intero sistema politico, giudiziario, religioso, culturale: non già la parzialità, bensì una fede sincera, che tendeva però, non ultimo in virtù di un’impronta giansenistica, ad una visione razionale della spiritualità. In questo quadro, la componente fideistica e irrazionalista che aveva suscitato la caccia all’untore, spingendo o addirittura forzando alla fabbricazione di colpevoli da giustiziare a pubblica edificazione ed espiazione, non appartiene alla fede religiosa, bensì alla superstizione tout court. E quest’evocazione dei deliri collettivi consente allo storico toscano di evoca- re il tema del complottismo e del cospirazionismo che hanno dilagato nel contesto della recentissima pandemia Covid-19. È una spiegazione molto più convincente dell’impostazione manzoniana, che non rinuncia a segnalarne i limiti, ma senza tramutarlo in un fantoccio, contro cui scagliare i propri argomenti (strawman’s fallacy).

In conclusione, al netto di tutto, l’opera del Cordero resta una lettura ineludibile. In quattrocento pagine, non cita una sola volta Foucault, il cui Sorvegliare e punire aveva pubblicato Einaudi pochi anni prima, ma delinea nondimeno una vera e propria microfisica del potere, che circonda e penetra l’opera manzoniana, quello messo in scena nel testo, degli apparati giudiziari e inquisitoriali ispano-milanesi, e quelli circostanti l’autore, nel loro dispiegarsi fisicamente e nei loro presupposti psichici. Il giurista conduce un’acuta decostruzione dell’ancien régime assolutistico-cattolico, tracciandone una demonologia convincente e dipinta a colori vivaci, anticipatrice dei totalitarismi novecenteschi. Certo, ansioso com’è di ritrarre l’inquisitore come precursore del commissario politico, dimentica la matrice illuministica di questi ultimi, già in nuce nel paradosso di una rivoluzione borghese che umanizza la pena di morte, inventando la ghigliottina, ma poi se ne serve per mietere più teste di quante potesse contarne Luigi XIV. Il Cordero, non diversamente dagli inquisitori manzoniani, interroga sotto tortura la storia, estorcendole confessioni ancor oggi di straordinario interesse.

 

Dall’archivio alla classe

Venendo infine all’utilizzo didattico de La fabbrica della peste, l’obiezione che sorge- rebbe spontanea, specie in quest’epoca segnata dalle laudationes temporis acti mastrocoliane, e di sostanziale sfiducia nei cosiddetti zoomer, è relativa alla difficoltà di un testo come quello del Cordero. Falso problema, a parer di chi scrive, dal momento in cui gli studenti del 2023 – al netto di ipotizzate conseguenze neurologiche di un uso scriteriato delle novissime tecnologie – non sono costituzionalmente meno intelligenti di quelli del 1983: piuttosto siamo spesso noi docenti a istupidirli ammannendo loro pappette omogeneizzate e sussidiari semplificati, in nome di un malinteso senso d’inclusione, i cui risultati si avvertono ormai nelle stesse università. Il problema della difficoltà non sta dunque nella capacità di comprensione dei discenti, ma nella competenza didattica del docente, e nell’impegno concreto richiesto da ogni tentativo di uscire seriamente dal rapporto edipico col manuale e dall’automatismo spiegazione-studio-interrogazione.

Ora, le Indicazioni Nazionali relative all’insegnamento della lingua e letteratura italiana nelle scuole secondarie di secondo grado sono sostanzialmente uniformi, tra i vari indirizzi. La lettura commentata de I promessi sposi è affrontata nel secondo anno, mentre Manzoni, come autore di spicco della letteratura italiana, è normalmente trattato verso la fine del quarto anno. Negli istituti tecnici e professionali, ma ormai anche in alcuni Licei, è un docente di italiano ad insegnare anche storia, e quindi ha la possibilità di stringere maggiori rapporti interdisciplinari tra la programmazione nelle due materie. Il programma di storia del secondo anno copre tutto il I millennio dell’era cristiana, dall’epoca di Cesare e Augusto fino all’Anno Mille, mentre al quarto anno si dovreb- be trattare il periodo compreso tra le Paci di Vestfalia e la fine del XIX secolo. Non solo, la sperimentazione attualmente in vigore per l’insegnamento dell’Educazione Civica prevede che ciascun docente del consiglio di classe contribuisca all’insegnamento e alla valutazione di questa disciplina, talvolta – a seconda dell’organizzazione prevista in ciascun istituto – assegnando al docente di storia il ruolo di coordinatore.

Queste premesse tecniche mostrano dunque come un insegnante abbia la facoltà reale di costruire una vera e propria Unità Didattica di Apprendimento (UDA), che ab- bracci non meno di tre discipline distinte. Nulla ovviamente toglierebbe la possibilità di coinvolgerne altre, dalla filosofia alle scienze umane, dal diritto alle scienze naturali, alle letterature straniere. Tuttavia, è noto a chiunque abbia un’esperienza diretta del mon- do scolastico, come il più delle volte ci si concentri ciascuno sul proprio programma, senza trovare il tempo e l’impegno necessari a creare percorsi multidisciplinari organici. Nondimeno, anche solo italiano, storia ed educazione civica, riunite in uno stesso docente, permetterebbero un lavoro di una certa ampiezza, quanto a contenuti e metodi. Per un docente che sappia organizzare adeguatamente il proprio tempo, è perfettamen- te possibile prendersi due o tre settimane di tempo (12-18 ore totali) da dedicare a questa UDA.

Com’è ormai noto anche ai non addetti al lavoro, l’UDA, oltre che per il suo ca- rattere non strettamente disciplinare, si distingue dalla semplice Unità Didattica (UD), perché trova la sua finalità nell’acquisizione di competenze. Non è qui il luogo per soffermarsi sulla vexata quaestio dell’opposizione tra conoscenze e competenze, ma non è peregrino supporre che una didattica moderna non possa prescindere da alcuna delle due. In fase di progettazione, dunque, è importante tenere conto di entrambe, sia in relazione ai presupposti, sia in merito agli obiettivi. Per conoscenze pregresse, da accertare e rinforzare in fase iniziale, di ripasso, si intendano la lettura dei Promessi Sposi e la conoscenza sommaria della dominazione spagnola in Italia e della Guerra dei trent’anni, argomenti generalmente svolti alla fine del terzo o all’inizio del quarto anno. Quanto alle competenze, è ragionevole supporre che uno studente del quarto anno, ormai in procinto di attingere la maggiore età, sia in grado di confrontarsi, sia pure con l’aiuto del docente, con differenti materiali testuali e svolgere operazioni semplici, quali la comprensione o il riassunto.

Un’opera come questa del Cordero ha una grande utilità di fondo: insegnare la complessità. Prima di tutto, essa mostra una ricostruzione diversa, rispetto a quella manzoniana, degli stessi fatti. Ad esempio, confrontare, passo dopo passo, come uno stesso evento è trattato dai due autori costituirebbe un esercizio scolastico stimolante.

In secondo luogo, permette di confrontarsi con un testo polemico, anche feroce- mente sarcastico nei confronti di Manzoni e della sua opera, introducendo un concetto fondamentale, dal punto di vista pedagogico: il pensiero critico, a partire dallo stesso canone di autori presentati dal manuale di letteratura o di (storia della) filosofia. È giusto e opportuno che uno studente liceale prossimo alla cosiddetta maturità sia reso consa- pevole di come programmi e canoni corrispondano a scelte ben precise, e non a dati di natura obbligati.

Inoltre, lo stile stesso usato dal Cordero, proprio perché difficile, si rivela coinvol- gente, dal momento che ogni parola, ogni citazione, ogni affondo hanno una propria ragione. È la possibilità per gli studenti di confrontarsi direttamente con un registro complesso, stratificato, sia pure con la guida del docente.

Infine, la ricchezza e la molteplicità dei temi e delle tracce proposte da questo testo, particolarmente nella sua seconda parte – una volta superato lo spaesamento iniziale – predispone a una visione interdisciplinare, che è ormai esplicitamente richiesta tanto nella programmazione scolastica quanto in sede di esame di Stato, dove l’esame orale prevede attualmente un colloquio in cui lo studente deve essere in grado di collegare tutte le materie a partire da un singolo spunto.

Le modalità possono variare ma su un punto non si può prescindere, cioé lo stesso testo del Cordero – che difficilmente potrà essere assegnato come lettura integrale in asincrono, ma dovrà dare luogo a una selezione di brani da parte dell’insegnante – non può prescindere da un inquadramento critico, pena vanificare gli obiettivi stessi che ci si era posti. Oltre all’ineludibile inquadramento fornito dal docente, il confronto con altri autori che discutono lo stesso tema – ad esempio, i succitati Martinazzoli, Nicolini, Prosperi, Sciascia – consente di mostrare una vera e propria dialettica critica, che dischiude la realtà di una storia della letteratura che è sempre suscettibile di discus- sione, e mai data per definitiva, come potrebbe invece apparire da un uso acritico della manualistica. Altre letture possono essere proposti nel momento in cui si scelga di ap- profondire una o più delle tematiche affrontate nel libro, ad esempio la questione del libero arbitrio, che ci rimanderebbe ad autori quali Erasmo, Lutero, Molina, Giansenio, da affrontare con il collega di filosofia. Oppure, progettando un modulo di educazione civica, la questione molto attuale delle teorie del complotto e delle psicosi di massa, relative ad un’epidemia.

Né bisognerebbe trascurare le possibilità aperte dalla gamification, ad esempio, tra- sformando la storia della Colonna Infame in un gioco di ricerca e ricostruzione delle fonti, magari configurato come un’indagine poliziesca o una escape room. Più specifi- camente, un’altra metodologia – particolarmente adatta a parere di chi scrive, che ha modo di utilizzarla regolarmente – è quella del debate, ossia il dibattito organizzato e strutturato con tempi e ruoli precisi, a favore o contro una data mozione. Le squadre di studenti, a cui è assegnata una mozione legata all’argomento, si troveranno giocoforza a doverlo approfondire, alla ricerca di argomenti da sviluppare e sostenere a favore della propria tesi.

Naturalmente, questo tipo di didattica, di taglio laboratoriale e multidisciplinare, ha il difetto di richiedere ai docenti un impegno lavorativo molto maggiore rispetto alle metodologie tradizionali, che possono servirsi di materiali già pronti, come il manuale. Nondimeno, la loro capacità di coinvolgere gli studenti e promuovere efficacemente gli obiettivi didattici proposti, a partire dalla capacità di sviluppare un pensiero critico e consapevole della complessità della realtà, costituisce una ricompensa di per sé.

 

 

11 maggio 2024

 

 

Bibliografia

 

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