Andrea Sciuto - Tra i piani e tra le sbarre

Lettura della novella di ser Ciappelletto offerta da una classe di scuola in carcere

Muovendo dall'analisi narratologica di Franco Fido, il lavoro propone una lettura, elaborata con una classe della sezione femminile di una scuola carceraria, della prima novella del Decameron: da un lato il contributo arricchisce l'analisi dei piani narrativi introducendo un elemento finora trascurato dalla critica, dall'altro collega quest'arricchimento all'esperienza diretta della detenzione.

L'esercizio precario della professione ha spinto chi scrive queste righe, per l'anno in corso, a insegnare in maniera imprevista Lettere italiane e storia nella scuola superiore della locale casa circondariale. [1]Quando il programma arriva al punto giusto, si leggono con le alunne (ed è significativo che si tratti di una sezione femminile, si capirà poi il perché) alcune novelle del Decameron
A proposito della novella di ser Ciappelletto, il libro di testo riporta la nota analisi proposta da Franco Fido. [2]
Fido propone uno schema dei piani narrativi di questo tipo:

La spiegazione dello schema è molto semplice: il testo è definito "novella esterna" perché al proprio interno esso contiene un'altra narrazione, la "novella interna", cioè il falso racconto della vita di santità condotta dal protagonista.
Quindi, dentro la novella, uno dei personaggi (P), ser Ciappelletto, è anche narratore (N); la sua novella ha due narratari: uno, il frate (No') crede che il personaggio (p') della storia che sta ascoltando (la novella interna) coincida col narratore di essa; l'altro, i due usurai (che rappresentano un unico attante, No''), è invece consapevole di come p' sia diverso da N.
Trovo che sia un'acquisizione teorica molto importante: la stessa storia, la novella interna, assume significati diversi a seconda della nostra preconoscenza del narratore. Il frate si basa solo sugli elementi interni alla storia stessa, i due usurai conoscono personalmente il narratore e la interpretano in un modo diverso. Il discorso di ser Ciappelletto non dà alcun segnale della propria falsità, e per darne un'interpretazione diversa bisogna avere conoscenze extratestuali. Generalizzando: formalmente un discorso non contiene al proprio interno alcun segnale sulla propria natura di romanzo o di storia vera. 
E il segnale extratestuale che ci permette l'attribuzione del messaggio all'uno o all'altro genere è strettamente connesso con la fiducia che noi attribuiamo all'emittente: agli occhi del frate Ciappelletto è un inerme, agli occhi dei due usurai egli conserva invece il potere di perderli o salvarli; anche perché, col personaggio, sarebbe perfettamente coerente anche l'altra scelta, quella di andarsene all'altro mondo lasciando i due nei pasticci. 
Getto parla addirittura di «omertà» di Ciappelletto, come estrema espressione della sua solidarietà di classe; [4] per i miei alunni sarebbe certo comodo riconoscersi in questa interpretazione; e tuttavia, onestamente, bisogna sottolineare che nessun elemento del testo fa pensare che Ciappelletto abbia interiorizzato alcun codice di alcun tipo di onorata società. D'altra parte, è certamente giusto (e va anche di moda negli ambienti letterari) considerare che le mafie funzionano, per molti aspetti, come le borghesie mercantili: ma sotto questi aspetti Ciappelletto non si attiene affatto ai modelli delle une né delle altre, che prevederebbero comportamenti improntati al risparmio e all'attenta valutazione del rischio; egli, al contrario, ci è presentato come personaggio che si lascia trascinare dal gusto delle proprie azioni e non a caso, quando Musciatto lo contatta, si trova davanti un disoccupato in bolletta, non un imprenditore di successo.
Proprio in virtù di questo suo gusto, ci piace pensare che il protagonista abbia in un primo momento preso in considerazione come altrettanto plausibili l'una e l'altra soluzione cui si accennava, tirar fuori dai guai i due o cacciarli in una grana ancora peggiore, e si sia deciso per quella che trovava l'uscita più spettacolare. 
La letteratura su questa novella non può fare a meno di confrontarsi con tale duplicità di narrazione, della quale sottolinea la gratuità dell'«esecuzione di un grande 'numero' di attore» (M. Baratto)[4]: ma l'attore non è tale senza un pubblico, e il pubblico di Ciappelletto (ecco l'importanza della distinzione di Fido) non è certo il frate, sono i due usurai – il protagonista prevede certo che, come egli aveva origliato i loro ragionamenti, anch'essi avrebbero origliato la sua confessione. I due usurai, che sono consapevoli della doppia possibilità che Ciappelletto si è riservato, si adattano ad andare a cercare il frate poco convinti, seguendo il piano solo in quanto non hanno più niente da perdere. Ciappelletto, dal canto suo, non ha rivelato che cos'ha in mente per il suo pubblico, come un buon regista vuole conservare la sorpresa per la sua «prima».
E tuttavia… possiamo osare? questo schema ci è sembrato troppo semplicistico.
L'impressione è che il critico non tenga nel debito conto [5] la presenza di un'altra esposizione della novella interna, importantissima dal punto di vista della nostra interpretazione complessiva del testo: il racconto della vita di «san Ciappelletto» riferito dal santo frate ai suoi confratelli e al popolo.


Il personaggio frate, oltre che narratario (No'), è qui anche a sua volta narratore (N') della stessa novella a un nuovo narratario, il pubblico dei fedeli (No'''). 
All'arte della parola, si sa, Boccaccio attribuisce grande valore; ma in questa novella non si sa mai bene che senso dare a questo entusiasmo, visto che se Ciappelletto è un rappresentante di quest'arte noi dovremmo poter leggerlo come personaggio positivo, mentre è chiaro che non lo è, e se invece è negativo non sappiamo come interpretare il frate, vittima di un personaggio che, per statura morale, non è certo alla sua altezza. 
Per non dir del popolo, che tanto rimane beffato da provare un'autentica venerazione per un furfante che, a uno sguardo più disincantato, avrebbe meritato esecrazione: non è mancato chi ha accostato questo popolo di fedeli alla «stolta moltitudine» dei contadini certaldesi intortati da frate Cipolla. [6] Paragone quanto mai improvvido: qui non siamo tra sciocchi villici, siamo in uno dei centri della «umana industria», nella Borgogna dalle città fiorenti di arte e commercio, e gli abitanti della regione son presentati come «riottosi e di mala condizione e misleali» tanto che messer Musciatto manda non per caso, ma dopo una meditata scelta, un uomo del calibro di Ciappelletto a tener loro testa.
Il fatto è che non è di Ciappelletto che il popolo si fida: è del frate. E, notiamo di sfuggita: l'eventuale sovrapponibilità, o meno, del protagonista della novella interna che il frate racconta (p', il ser Ciappelletto "santo") col personaggio reale (P/N) non ha alcuna rilevanza, tanto l'assemblea No''' non ha mai conosciuto quest'ultimo. 
Insomma, noi abbiamo usato fin dall'inizio con disinvoltura l'espressione "novella interna". Ma è solo a questo punto che questa storia è diventata una vera e propria novella: prima era teatro. [7] Il protagonista metteva in scena una rappresentazione, offrendo il proprio corpo e il proprio sangue in pasto al pubblico (di cristologia dell'attore sono piene le riflessioni sul teatro); ora la memoria dello spunto originario si è persa, il protagonista è morto, e il «santo frate» che racconta, quando racconta, è di se stesso che racconta. È la sua affabulazione a trasformare, magari al di là delle sue stesse intenzioni, questo popolo di furfanti in una massa di devoti; e la storia che egli racconta è la loro storia, storia di uno della loro risma, ma vista attraverso le sue categorie. Egli non si cura dell'eventualità che Ciappelletto menta nel raccontarsi: non per dabbenaggine, né per una furbizia di livello superiore alla menzogna e in grado di aggirarla, ma perché, ancora più profondamente, la menzogna non fa parte del suo sistema di valori; ed è questo sistema di valori ad esser trasmesso dalla storia, non quello del popolo: santo, alla fine, è anche «san Ciappelletto».
E del vero Ciappelletto che ne è stato? Lo sa Dio, non possiamo escludere che si sia convertito davvero – noi lettori del Decameron, narratari di un livello tre volte superiore, ci sentiamo di escluderlo (perché tre volte superiore? perché, sempre secondo l'analisi di Fido, ci sono altri tre livelli di diegesi tra Ciappelletto e noi: Panfilo che racconta ai suoi compagni, tutti questi che sono personaggi della storia che il Narratore del Decameron racconta al suo ideale pubblico di donne, e anche costoro sono creazioni che stanno nel racconto che il Giovanni Boccaccio in carne e ossa ordisce per noi lettori empiricamente determinati), ma il suo pubblico ideale, l'onesta brigata, non si sente di escluderlo.
E perché questa differenza? Perché per quel pubblico i personaggi delle novelle sono, in molti casi, persone realmente esistite, ed esso, da pubblico moralmente attento, non può che lasciare aperto lo spiraglio al dubbio.
Noi, invece, possiamo dare per chiusa la questione perché di Ciappelletto conosciamo tutto quel che c'è da sapere; e non perché lo conoscessimo davvero, nella sua empirica determinazione – anzi, per noi non cambia niente se egli non è mai esistito. Per noi la questione è chiusa semplicemente perché quella conversione non sarebbe nel personaggio, perché noi lo abbiamo conosciuto già dentro una novella (la "novella esterna" di Franco Fido): e, contrariamente a quello che accade all'onesta brigata, ma solidarmente al popolo della città, per noi questo personaggio arriva già mediato da un racconto (ancorché nel nostro caso sia con una caratterizzazione opposta a quella della "novella interna" raccontata dal frate) e il racconto ha bisogno della sua coerenza; noi siamo nella situazione di quella città di malfattori: abbiamo bisogno, per interpretare la realtà, di servirci di un modello interpretativo forse non del tutto rispondente a essa realtà. Non è detto che, per chi la realtà indaga, per il popolo bisognoso di salvezza, questo sia un problema, ma lo è certo per il protagonista della storia, il quale deve, sempre più cristologicamente, scomparire per rinascere in quanto mito, e assumere su di sé le speranze di salvezza e la remissione dei peccati dell'intero popolo.
La prima novella della prima giornata presenta il novellare come nascita del mito. 
L'arte del novellare, siamo stati ammoniti nel Proemio, comprende «novelle o favole o parabole o istorie»: attraverso queste apprendiamo a «cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare»: questa attività ci permette di dominare la realtà non perché si debbano poi seguire i modelli di comportamento proposti dai personaggi, che sono transeunti come le loro vite, e che il Narratore si diverte a smontare pezzo per pezzo nel corso di cento novelle, ma perché questa attività si realizza conoscendoquesti modelli e facendo di noi stessi dei narratori: le «dilicate donne», che il Proemio ci presenta recluse, relegate da mariti fratelli padri e preti che decidono del loro corpo, sono poi la maggioranza dell'onesta brigata e quelle che reclutano e organizzano; queste narrazioni di ogni genere, dall'exemplum al fabliaux, sono "boccaccesche" (e cioè trasgressive, nel senso che scardinano sistematicamente le figure sociali – della donna, dell'uomo di chiesa, dell'amante cortese – per come siamo abituati a sentirle) proprio per la loro molteplicità. Sono certamente letteratura d'evasione; ma un'evasione presuppone un carcere, e raccontare – non "raccontarsi": anche Ciappelletto si racconta, ma proprio raccontare – è l'unico modo per non restare prigionieri dell'essere raccontati dai nostri carcerieri.

Pubblicato il 24/10/2014

 

Note:


[1]L'anno era il 2012-2013. La scuola è l'istituto "Vittorio Emanuele II" di Bergamo, nella sezione staccata presso la casa circondariale "Gleno". La classe era la III femminile, a indirizzo Sirio, composta da poche alunne: Leyla B., Rossana C., Stefania C., Sonia P.. Per ragioni didattiche, ci si è serviti dei testi (tanto del Decameron quanto della letteratura secondaria) per come antologizzati e annotati da Guido Baldi, Silvia Giusso et al., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, vol. 1. Dalle origini all'Umanesimo, tomo B, Torino, Paravia, 2000; le citazioni di Giovanni Getto e di Mario Baratto sono mutuate da questo manuale.

[2]F. Fido, I piani narrativi del Decameron e le novelle interne e Vita morte e miracoli di San Ciappelletto: risarcimenti di una semiosi imperfetta, in Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul «Decameron», Roma, Franco Angeli, 1988, pp. 37-44, 45-64.

[3]G. Getto, Struttura e linguaggio nella novella di Ser Ciappelletto, in Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Torino, Petrini, 1972, pp. 34-77: 52.

[4]Realtà e stile nel «Decameron», Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 296.

[5]Nel senso che vi accenna, ma non ne sviluppa le implicazioni Questa, naturalmente è una mia precisazione tardiva: il manuale scolastico non fa cenno a questo aspetto della lettura di Fido.

[6]Il parallelo tra le due novelle è avanzato da diversi autori; più specificamente la confrontabilità tra le due moltitudini è implicita nelle letture che tendono a sottolineare, della novella di Ciappelletto, il motivo dell'irrisione del culto popolare delle reliquie. Nel manuale cit., che abbiamo studiato in classe, il confronto è proposto a pp. 809 sgg (l'autrice della scheda di analisi potrebbe essere Silvia Sanverini).

[7]L'osservazione è tanto comunemente accettata da non aver quasi bisogno di ulteriore supporto autorevole. Mi limito a segnalare che nello studio che abbiamo poc'anzi citato Mario Baratto conduce l'analisi di questa novella in un capitolo sulle dinamiche teatrali nel Decameron, intitolato significativamente «La commedia» (pp. 271-322).