Alessandro Ferioli - Le tracce della prima prova dell’esame di Stato

(Sessione Ordinaria 2024-2025)

 

1. Qualche polemica e la débâcle della tipologia ‘A’

In questo contributo prendiamo in considerazione le tracce assegnate il 18 giugno scorso nella prima prova della sessione ordinaria 2024-2025 dell’esame di Stato.1 L’analisi sommaria delle scelte dei candidati, al contrario dello scorso anno, in cui le preferenze erano alquanto ben distribuite fra le diverse tipologie, registra quest’anno una situazione un po’ diversa: spicca intanto la ‘regressione’ della tipologia ‘A’, svolta da appena il 9,7% dei candidati (valore che scende al 3,5% negli istituti tecnici, e, in modo ancor più preoccupante, al 2,9% negli istituti professionali); il 61,3% ha optato invece per una delle tre tracce ricomprese nella tipologia ‘B’; e infine il 29% ha preferito una proposta nell’ambito della tipologia ‘C’.2 Il dato che colpisce di più, insomma, è la débâcle della tipologia ‘A’, se si considera che le percentuali registrate dall’entrata in vigore della ‘nuova’ prima prova furono pari al 19,5% nel 2019, al 19,4% nel 2022, al 13,7% nel 2023 e al 24,2% nel 2024. Se la bassa percentuale delle scelte della tipologia ‘A’, che appare particolarmente preoccupante nei professionali, dovesse essere confermata anche il prossimo anno, ciò dovrebbe indurre a nostro avviso a un ripensamento del ruolo dell’insegnamento di Italiano negli istituti professionali.

Quest’anno le tracce sono state accompagnate da qualche risvolto polemico, soprattutto incentrato su due questioni. La prima è quella della presunta ‘banalità’ delle proposte ministeriali: segnaliamo appena l’articolo di Maurizio Crippa, ove si dice che «sono le scelte della commissione ministeriale – il più grande apparato burocratico dell’Antropocene – che sembrano davvero fatte con ChatGPT, ma la versione gratis».3 Ci chiediamo, al proposito, se l’autore del brillante ‘pezzo’ abbia tenuto nella debita considerazione che le stesse tracce vengono somministrate a tutti i candidati di tutti gli indirizzi di studio, dal liceo classico al professionale meccanico: il che, come è logico, obbliga a cercare una mediazione tra i diversi profili in uscita, mentre naturalmente si auspica che i candidati ben preparati non si siano appiattiti davanti a una traccia ‘semplice’, bensì ne abbiano colto attentamente tutti gli stimoli per esprimere il meglio di sé e della propria preparazione. L’altra questione controversa è la presunta politicizzazione delle tracce: se per Simone Giusti l’aver incentrato due tracce sui concetti di ‘rispetto’ e di ‘regole’ (ma riguardo alla ‘C1’ egli ha citato, a supporto dell’argomentazione, parole non incluse nel testo assegnato) sarebbe funzionale alla valorizzazione delle nuove Indicazioni nazionali per la scuola del primo ciclo, e quindi avrebbe un intento politico, Corrado Ocone, muovendo da un punto di vista completamente diverso, ha così sintetizzato il suo apprezzamento per le tracce ministeriali: «nessuna ideologia, nessun politicismo, un appello ai valori civili ma senza retorica e ipocrisia».4 Il nostro debole parere, sul punto, è irrilevante: prendiamo soltanto atto dell’ennesima dimostrazione della massima: quot capita, tot sententiae.

 

2. Le proposte della tipologia ‘A’

Pasolini e Tomasi di Lampedusa sono due autori rilevanti, sebbene non sempre compresi nel canone della classe quinta: pertanto la scelta di un loro testo è totalmente condivisibile (ma con qualche riserva, nel primo caso, per la scelta di una poesia della giovinezza, sicuramente non tra quelle più lette; e nel secondo caso per l’individuazione di un brano che ha senza dubbio un certo rilievo nella ‘storia’ del romanzo, ma che, una volta isolato, difficilmente si presta a un’analisi corretta). Vedremo di misurare queste prime osservazioni tenendo conto altresì che l’analisi di un testo letterario non è necessariamente vincolata alla ‘programmazione’ didattica dell’anno scolastico, né presuppone la conoscenza dell’opera integrale, basandosi piuttosto sui metodi della narratologia, della retorica e della metrica, oltre che sulla personale esperienza dei candidati in quanto lettori.

La proposta ‘A1’, con la poesia Mi ritrovo in questa stanza di Pasolini, costituisce una decisione senz’altro controversa: per un verso essa è tra i testi meno conosciuti del poeta, e forse fra i meno significativi, ma che tuttavia testimonia, per dirla con Davide Rondoni, «lo spiccare da bruco a farfalla di una grande personalità»;5 per un altro verso, invece, proprio per il fatto di essere un testo quasi certamente ignoto a tutti i candidati (e sinora anche a non pochi docenti, compreso chi scrive) ben si presta per mettere in azione le competenze di analisi e interpretazione, le quali – giova ricordarlo – dovrebbero misurarsi proprio sul ‘nuovo’ piuttosto che sul già noto. La critica ha più volte ribadito l’importanza del Pasolini poeta, rimarcandola anche nelle maggiori antologie di poesia italiana. Scrive ad esempio Andrea Zanzotto: «Con tutto quello che ha scritto, e creato nei più vari campi, è giusto qualificare Pasolini soprattutto col nome di poeta? Sì; e nell’accezione più imbarazzante, ‘intempestiva’ e persino desueta che questo termine può assumere».6 Ancora più netto appare il giudizio di Ermanno Krumm, che denuncia una ‘distorsione’ nella ricezione:

 

La lettura di Pasolini poeta è disturbata dal Pasolini regista, romanziere, giornalista e polemista. E forse dal poeta stesso che ha prodotto anche testi così gridati, ‘parlati’ e ideologici da rendere poi illeggibili tante altre sue poesie che sono, invece, fra le più alte del secondo dopoguerra. Il ‘mito’ Pasolini, insomma, ha ostacolato, finora, una effettiva valutazione del poeta. Almeno della parte più viva e più nuova della sua opera.7

 

Fernando Bandini dà invece della poesia pasoliniana l’idea di un genere onnicomprensivo, che quindi va studiato anche in rapporto con gli altri generi praticati dall’autore, che della poesia costituiscono l’orizzonte e a essa rimandano, in una perenne trasmigrazione e transcodificazione di temi:

 

Un discorso critico che si ponga di fronte alla totalità dell'opera poetica di Pasolini deve fare i conti con la eterogeneità delle esperienze che la contraddistinguono nel corso degli anni. L'unica cosa che permane identica a se stessa è il modo con cui, nella teoria e nella pratica, Pasolini pensa alla scrittura poetica come scrittura privilegiata, luogo dell'assoluto, dove ogni asserzione diventa verità e il privato può presentarsi come un universale. A questa perenne tensione verso la poesia vanno ricondotte anche tutte le altre sue scritture, compreso il cinema. In numerosi interventi egli ascrive le sue molteplici esperienze a questa volontà poetica ininterrotta e onninclusiva.8

 

Tutto ciò conferma, con l’importanza del Pasolini poeta, anche la correttezza della decisione ministeriale di proporlo, e dovrebbe suggerire di conseguenza una sua maggiore presenza nelle antologie del biennio. Paolo Di Stefano ha così sintetizzato il tema della poesia assegnata all’esame:

 

È un Pier Paolo Pasolini poco noto, quello proposto. Giovanile e pascoliano, com’è giusto vista la sua passione per il poeta del fanciullino, sul quale nel 1944, studente a Bologna, si accinge a scrivere la tesi di laurea. Un Pasolini intimo che ha nell’orecchio anche la luna leopardiana e qualche eco montaliana; lontano dal poeta ideologico-politico e dal corsaro degli anni che verranno: un Pasolini poco sorprendente, trasognato e ancora al riparo dalla civiltà moderna che sarà il suo cruccio e la sua condanna.9

 

A ogni modo, la presentazione che la traccia fa della poesia inquadra sinteticamente il periodo della composizione del testo («primi anni ’40») e il tema («una riflessione profondamente intima»). Nella batteria di domande di ‘Comprensione e analisi’ la prima è quella, ormai consueta, del riassunto, con la richiesta di individuare le figure di stile. Tra le figure retoriche segnaliamo appena «la stanca luce» e l’allitterazione della ‘m’ nel v. 3, a fare da eco alla congiunzione avversativa ‘ma’, mentre sul piano lessicale non può sfuggire la pregnanza del verbo ‘mutare’ (v. 3 e v.6) in due forme verbali diverse. Inoltre potremmo indicare l’antitesi fra luce viva del giorno versus il soffuso chiarore lunare (tema ricorrente nel poeta), tra apertura di ampi spazi versus il chiuso della stanza, e infine tra la passione dell’impressione naturale versus la ragione espressa nella consapevolezza del ‘perfetto inganno’. A seguire, in altre tre domande si chiede al candidato, rispettivamente, di riconoscere «la relazione tra la vita della natura e la vita del poeta», facendo riferimenti al testo; di discutere della funzione assunta dalla luna nella riflessione poetica di Pasolini; e infine di attribuire un significato «al canto dei grilli che si ode nella quiete notturna».

Riguardo alla relazione uomo-natura ci sembra notevole l’espressione «perfetto inganno» (v. 17), dove si allude a un ‘inganno’ (la cui etimologia oscilla tra frode e burla) che proprio mentre sembra ‘esausto’, cioè esaurito del tutto, si rinnova con la luna nuova e il canto dei grilli. Questi ultimi – come una delle tante manifestazioni delle molteplici voci della natura – sono assai presenti in Pascoli, che qui ci sembra evidentemente una fonte d’ispirazione di Pasolini: i grilli ricorrono almeno in Romagna, v. 42, e in Stoppia, v. 11 (Myricae), dove sono associati alle lucciole; ne L’Uccellino del freddo, v. 13, ne Il mendico, v. 100, ne Il nido di ‘farlotti’, v. 52 e v. 59 (Canti di Castelvecchio), e infine – o almeno per quanto ricordiamo – ne I campi, v. 3 (Primi poemetti).

A noi però colpisce soprattutto l’ambientazione della riflessione del poeta. La stanza, dove egli dice di ‘ritrovarsi’ (vocabolo dal significato ambiguo, si noti, poiché vale sia per ‘trovarsi un dato luogo’, sia per ‘riconoscersi’), e che peraltro è presente anche in altre poesie del Diario, o perché nominata espressamente («Io sono vivo, nella stanza, solo; Forse la luna. Forse voci fuori»)10 o perché a essa si allude («Altra notte. Altri istanti»)11 ci sembra evocare la ‘camera’ cui fa sovente riferimento Dante nella Vita nuova, e che è luogo di necessaria separazione dagli altri per compiere una meditazione interiore e, talora, anche per comporre poesia: «lo solingo luogo d'una mia camera» (cap. III); «misimi ne la mia camera» (cap. XII); «anzi ch'io uscisse di questa camera, propuosi di fare una ballata» (Ibidem); «mi ritornai ne la camera de le lagrime» (cap. XIV), ecc.. E che cosa suggerisce alfine questa meditazione pasoliniana? Che c’è uno scarto quasi antitetico fra il tempo dell’uomo (che si misura nella crescita, da ragazzo a uomo) e quello della natura (un tempo ciclico): due tempi che parimenti interrogano il poeta, il quale, nonostante il rapporto fra loro oppositivo scandito da quel «ma», cerca di comprenderli e d’includerli nella scrittura.

La parte di ‘Interpretazione’ presenta consegne che, dopo aver fornito un orientamento interpretativo che forse sarebbe stato più opportuno inserire fin nelle righe di presentazione, formulano una richiesta che lascia ampi spazi di trattazione su due temi fondamentali come il tempo e il rapporto fra uomo e natura: «In questa poesia l’autore osserva la natura mettendola in relazione con la propria esistenza. Facendo riferimento alla produzione poetica di Pasolini o di altri autori o ad altre forme d’arte a te noti, elabora una tua personale riflessione sulle modalità con cui la letteratura e/o altre arti trattano il tema del trascorrere del tempo e della relazione con la natura». Non si comprende bene, tuttavia, per quale motivo la trattazione letteraria di quei due temi così importanti e forieri di suggestioni e riflessioni sia stata limitata alla poesia, escludendo di fatto – o almeno così a noi sembra d’intendere – gli altri generi letterari. Anche Lina Grossi ha espresso qualche perplessità al proposito:

 

Dal momento però che Pasolini è un autore non sempre trattato con uno spazio adeguato in classe, per evitare perplessità e rinunce nell’affrontare la Proposta A1, la traccia avrebbe potuto puntare con maggiore decisione su aspetti solo marginalmente presenti nelle piste interpretative. Avrebbe potuto chiedere di evidenziare connessioni tematiche e rimandi intertestuali più o meno espliciti con altre scritture letterarie, sulla base dei testi e degli autori studiati nel percorso scolastico e/o di letture personali.12

 

In definitiva, però, la poesia di Pasolini – anche se poco conosciuta, e forse anche per questo – ha riportato l’attenzione su un nodo cruciale della critica letteraria su Pasolini, sintetizzabile alfine così:

 

Considerando la mole dei quattro volumi postumi in cui è raccolta l’intera produzione in versi, si può agevolmente comprendere quanto l’esperienza poetica, forse quella a cui viene dato minor rilievo dal grosso pubblico, sia stata centrale nella vita di Pasolini, probabile eredità della giovanile adesione ai modi dell’Ermetismo, nel cui clima era cresciuto, maturando però anche sui Simbolisti francesi e su Pascoli, oltre che su Machado e Lorca.13

 

La proposta ‘A2’ è, come anticipato, un brano tratto da Il Gattopardo, il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa pubblicato nel 1958 presso Feltrinelli, per volere di Giorgio Bassani che ne firmò la prefazione. Tra i commentatori della prima ora, non pochi hanno messo giustamente in rilievo l’azione mediatica svolta dalla serie Netflix: secondo Paolo Conti ha giocato a favore dell’individuazione di un brano da Il Gattopardo proprio la circostanza che «il mondo della fiction si è imposto come mezzo di conoscenza».14 Ma questo poco importa, qui. Si tratta di un romanzo appartenente al genere che Spinazzola ha definito ‘antistorico’, cioè una narrazione ambientata nel momento storico della spedizione dei Mille e della successiva inclusione del Meridione nel Risorgimento italiano. Al pari degli altri due grandi romanzi analizzati dal critico, ossia I Viceré di De Roberto (1894) e I vecchi e i giovani di Pirandello (1913), anche Il Gattopardo ha uno stretto legame con il modello manzoniano, assume la Sicilia come sineddoche del Meridione, e con grazia letteraria esprime una visione negativa del processo storico unitario, da un lato negando qualsivoglia esito ‘rivoluzionario’ degli eventi del 1860 e dall’altro estendendo la riflessione a una concezione pessimistica: «l’esito delusivo del processo risorgimentale viene peraltro assunto come prova dell’inaffidabilità di ogni ideologia, ogni mitologia di progresso, giacché nulla cambia nelle vicende umane, e se una evoluzione si produce è verso il peggio, non verso il meglio».15 Secondo Giuseppe Lupo, invece, se i due citati romanzi di De Roberto e Pirandello possono effettivamente definirsi ‘antistorici’, quello di Tomasi di Lampedusa andrebbe piuttosto considerato come appartenente al genere della ‘non-storia’; in altre parole una narrativa che nega la storia e rappresenta un Meridione che non è attraversato da alcun mutamento, e che alle trasformazioni è impermeabile: su questa linea, dunque, Il Gattopardo si troverebbe in buona compagnia con la novella Libertà di Verga (1883) e con Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945).16

Ma va ricordato che la dimensione storica è soltanto una delle dimensioni del romanzo, e che non meno importante è l’altra, ossia quella esistenziale incentrata sull’opposizione tra vita e morte:

 

emerge sempre dalla pagina la ricostruzione di un clima, un ambiente, un paesaggio in cui convivono vicini sensualità e morte, in una ricerca dei contrasti della realtà fisica ai quali corrispondono, quasi trovando in essi una spiegazione, le differenziazioni sociali; perché è costante la meditazione esistenziale su una società in crisi, in cui stanno morendo quelle condizioni di perennità che rappresentano le uniche certezze del protagonista.17

 

In questa prospettiva anche la visione della storia del Tomasi di Lampedusa, immersa in un tempo ‘fermo’ e quasi mitico, va intesa «come visione di una trascendentale storia, liricamente considerata come correlativo metafisico della propria esistenza individuale»; e lo stesso va detto dell’ambientazione, che nel romanzo è «una Sicilia anch’essa metastorica, corrispettivo figurativo di una disperata situazione individuale».18 Il Gattopardo, insomma, porta con sé, più che la velleità di rappresentazione di un mondo, «la concezione della vita come proustiana fucina della memoria», ma di una memoria immersa in una concezione barocca del tempo visto come agente «dello sfacelo e della distruzione».19 E fu indubbiamente questo, prima ancora della vicenda storica, a colpire Bassani.

La contestualizzazione della storia è chiaramente definita nella traccia, così come è sommariamente presentato don Fabrizio, indicato come principe e protagonista del romanzo. Tuttavia, dalla lettura del brano (tratto dal capitolo quarto, lo stesso del famoso dialogo fra il principe e Aimone Chevalley di Monterzuolo, col rifiuto della nomina a senatore e le tesi sul carattere dei siciliani) si fatica un po’ a comprendere le relazioni che intercorrono fra gli altri personaggi, e le ragioni di certi comportamenti. Proviamo a interrogarci fingendo di non aver mai letto il libro. Dunque: Angelica è fidanzata di qualcuno della famiglia Salina, ma non è così scontato che sia fidanzata di quel Tancredi che parrebbe averle suggerito «il contegno» da tenere; allo stesso modo non è chiaro se «il padre», che Angelica «piantò lì» prima di salire le scale, sia da riconoscere poi in quel don Calogero che sale le scale subito dopo di lei; né si comprende perché la moglie di don Calogero non si sia presentata alla dimora del principe, al punto da costringere il marito a inventare ben due giustificazioni di seguito (a che vale, per il candidato, formulare ipotesi in merito?). Qualche problema di contestualizzazione c’è, quand’anche sia stato scritto che siamo di fronte a «un pezzo di storia nazionale sintetizzato magistralmente in poche righe».20

Questa sorta di difficoltà di inquadramento preliminare, per chi non conosca già la storia, a nostro avviso ha poi conseguenze nel momento di affrontare la batteria di domande di ‘Comprensione e analisi’. Se il riassunto del brano non crea problemi, la seconda domanda («Individua e analizza le differenti modalità attraverso le quali Tomasi di Lampedusa presenta i tre personaggi protagonisti di questa scena») aiuta un po’ a isolare il principe, Angelica e don Calogero, quand’anche forse non risulti del tutto chiara la posizione di quest’ultimo, astro nascente della nuova classe dirigente che si va affermando nella Sicilia che si avvia a entrare nell’Italia unita. A seguire, un’altra domanda chiede d’illustrare «con precisi riferimenti al testo i rispettivi atteggiamenti di Angelica e di don Calogero nei confronti del Principe di Salina»: orbene, se è evidente lo scopo della leziosa Angelica di entrare nelle grazie del principe, simulando al contempo somma deferenza e desiderio di familiarità (dalla salita delle scale all’abbraccio e ai «due bei bacioni», sino al rossore degno di una prim’attrice e al confidenziale «Zione!» pronunciato in punta di piedi), con il risultato di mandare «in visibilio il cuore semplice del Principe», meno chiaro al candidato – come detto – dev’essere apparso il motivo per il quale l’imbarazzato don Calogero, mellifluo quanto la figlia ma meno disinvolto, voglia nascondere la propria moglie al principe, e di conseguenza meno facilmente spiegabile il suo comportamento (di lui colpisce qui soltanto la similitudine poco aristocratica; «“Ha il collo del piede come una melanzana, Principe”»). L’ultima domanda («In quale punto del brano e con quale accorgimento linguistico l’autore rende evidente che don Calogero sta mentendo sulle reali condizioni della moglie?») ci sembra che non dovesse essere difficile individuare il verbo ‘appioppare’, di cui peraltro i dizionari Zingarelli e Garzanti segnalano l’appartenenza al registro familiare (e qui forse il candidato avrebbe potuto osservare come, in una pagina contrassegnata dall’eleganza stilistica, il termine esprima una generale tendenza dell’autore al plurilinguismo).

La parte dedicata alla ‘Interpretazione’ richiede di approfondire «l’interpretazione complessiva del brano, elaborando una [...] riflessione più generale relativa ai contraddittori rapporti tra aristocrazia e borghesia e sulle inquietudini più profonde che vengono a determinarsi nei periodi di cambiamenti politici». Dati i limiti, già evidenziati, che lo stralcio pone a chi non conosca il romanzo, sembra alquanto arduo scavarvi ulteriormente, così come non sembra facile delineare i rapporti fra nobiltà e borghesia nei momenti storici «di cambiamenti politici» al di fuori di quel frangente che fu la costruzione dell’unità d’Italia. Giustamente Simona Baldelli, nel suo commento ‘a caldo’, ha invitato a «partire dai temi del Gattopardo per immaginare il mondo che verrà, in tutto difforme da questo, in cui non ci sia spazio per gli errori del passato e del presente».21 Ma è un po’ poco, nel senso che può significare tutto e niente, e i candidati non amano ‘osare’ proprio nella prova d’esame. Invece se la traccia avesse prospettato la possibilità di collegarsi ad altri autori, come è già stato osservato da altri,22 il candidato avrebbe potuto fare emergere qualche conoscenza di quella vasta letteratura che, per usare un’espressione di Stefano Jossa, palesa e misura il ‘tradimento’ delle promesse che l’unità portava con sé (da I Malavoglia di Verga a I Viceré di De Roberto sino a I vecchi e i giovani di Pirandello);23 oppure, se si vuole spostare il punto di vista su un’altra angolazione, il candidato avrebbe potuto trattare delle ‘menzogne’ della storia, a partire da quell’impostura ordita dal potere che copre la verità e obbliga pochi coraggiosi ad ammonire, vanamente, al controllo della ragione, come in Morte dell’Inquisitore (1964) di Leonardo Sciascia, un autore che del resto ha basato tutta la sua opera su un «continuum di sconfitte della ragione».24

Quest’ultima traccia è stata scelta dal 2,3% dei candidati, con un picco verso l’alto di 3,2% nei licei e uno ‘scivolone’ verso il basso negli istituti professionali, dove la preferenza si è fermata a 1,2%. In definitiva, rileggendo le due tracce della tipologia ‘A’ viene il sospetto che siano stati scelti una poesia di un autore centrale del Novecento e un brano poco frequentato di un grande romanzo per contrastare la possibilità che i candidati attingessero a svolgimenti preconfezionati in rete. Se tale sospetto avesse qualche fondamento, tuttavia, considerata la débâcle delle tracce della tipologia ‘A’ sarebbe consigliabile un ripensamento della strategia, orientando le prossime scelte su testi più significativi e, oseremmo dire, più popolari.

 

3. Le tracce della tipologia ‘B’

La proposta ‘B1’ presenta uno stralcio tratto da un saggio di Piers Brendon sugli anni Trenta, ove si focalizza il tema del New Deal rooseveltiano soprattutto intorno ai nodi del salvataggio delle banche più sane e solide e del rapporto diretto del presidente con i cittadini attraverso i discorsi alla radio. Il brano proposto, con due tagli, presenta una notevole chiarezza di linguaggio, e non pone difficoltà d’inquadramento storico. Tuttavia, come ha osservato Umberto Gentiloni, per la complessità dei temi trattati esso «presuppone una frequentazione non episodica degli argomenti e dei riferimenti storici indicati. Una traccia impegnativa».25 Sintetizzando, ci sembra che una corretta contestualizzazione non possa eludere il principale limite del programma repubblicano messo in luce dalla Crisi del 1929, ossia «un modo di governare privo di ogni strategia che non sia quella di un illimitato ma generico favore per il mondo degli affari».26 E, date queste premesse, tanto più ‘rivoluzionario’ si dimostra il New Deal, che per la prima volta assegna allo Stato federale compiti nuovi e prima impensati, quali l’intervento nelle realtà economiche, l’ingresso nell’economia come ‘datore di lavoro’, le funzioni di programmazione economica, nonché la tutela dei cittadini dagli operatori finanziari malsani. Un riformismo, in definitiva, che mirava a salvare il ‘sistema’ inaugurando un nuovo liberalismo diverso dal modello lockiano, ma non propriamente alternativo, bensì una sua versione più adeguata ai tempi. Il salvataggio del ‘sistema’ implicava interventi nel settore bancario, appunto, ossia quel settore che il repubblicano Hoover non aveva voluto toccare, mantenendo le dovute distanze: al contrario Roosevelt, appena entrato nelle sue funzioni nel marzo 1933 – secondo una linea interventistica sperimentata già nel corso della Grande guerra, ma attenendosi anche all’esempio tedesco del luglio 1931 – ordinava la chiusura delle banche per un giorno e si faceva attribuire dal Congresso poteri straordinari che consentivano al segretario del Tesoro di riaprire gli istituti più solidi e di controllare la circolazione dell’oro.27 La definizione di questo ‘nuovo’ liberalismo passò attraverso la radio, che in quel frangente servì a rassicurare gli americani invitandoli a riportare i loro risparmi in banca, e poi divenne lo strumento attraverso il quale Roosevelt spiegò ai cittadini il suo nuovo orientamento. Proprio ai fini della comunicazione radiofonica i contenuti della sua politica furono sintetizzati in efficaci slogan (il che era una frontiera tipicamente novecentesca della retorica):

 

Oltre a essere un politico esperto, Roosevelt era un maestro di retorica politica. Primo presidente a utilizzare la radio per portare il suo messaggio direttamente nelle case americane, egli era particolarmente abile nell'appellarsi ai valori tradizionali a sostegno dei nuovi orientamenti. In tal modo, sollecitando l'approvazione della legge sui salari e sull'orario di lavoro, evocava i diritti del ‘lavoro libero’. Roosevelt abbandonò consapevolmente il termine ‘progressista’ e scelse invece di utilizzare ‘liberale’ per descrivere se stesso e la sua amministrazione. In tal modo, trasformò il termine ‘liberalismo’ da sinonimo di governo debole e di economia del laissez-faire, nella fede in uno Stato interventista e socialmente impegnato, un'alternativa sia al socialismo sia al capitalismo senza regole. Rivendicò inoltre il termine ‘libertà’ dai conservatori e lo rese uno slogan mobilitante del New Deal. [...] Ma fin dal 1934, nella sua seconda serie di ‘discorsi al caminetto’, Roosevelt affiancò la propria definizione di ‘libertà’ come “maggiore sicurezza per l'uomo medio” alla più antica nozione di libertà di contratto, che salvaguardava gli interessi di “pochi privilegiati”. D'ora in avanti Roosevelt avrebbe coerentemente legato la libertà alla sicurezza economica e avrebbe identificato la consolidata disparità economica come il suo maggior nemico. Al culmine del secondo New Deal, egli trasformò le elezioni del 1936 in una crociata contro i ‘realisti dell'economia’ e garantì che il governo federale avrebbe stabilito una “democrazia delle opportunità per tutto il popolo”. Il ‘diritto al lavoro’ e il ‘diritto alla vita’ non erano meno centrali tra i diritti dei cittadini del ‘diritto di voto’, e lo stesso governo federale che proteggeva la ‘libertà politica’ aveva il dovere di agire contro la ‘schiavitù economica’.28

 

Davanti alla Seconda guerra mondiale, poi, il presidente declinò il concetto di ‘libertà’ in quattro tipologie indispensabili a costruire un nuovo ordine mondiale: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. E, di nuovo in un appello radiofonico alla nazione, ribadì queste quattro libertà come il segno distintivo della differenza cruciale fra gli USA e la coalizione dell’Asse.29

Venendo alla traccia, la prima parte, quella di ‘Comprensione e analisi’, chiede ai candidati di presentare sinteticamente il contenuto del testo; di specificare «le motivazioni che indussero Roosevelt ad affrontare la situazione di emergenza», e d’illustrare «le difficoltà affrontate dai cittadini sia pure solo per alcuni giorni»; di discutere sul ruolo svolto dagli ispettori governativi; e infine di precisare «in che modo il presidente statunitense riuscì a infondere nel popolo americano la speranza di superare la crisi economica e sociale che aveva messo in ginocchio la nazione». Si tratta di quesiti sin troppo ‘facili’, dai quali sembra trapelare la volontà di attirare i candidati verso la traccia di argomento storico, sia per rimediare alla soppressione di una tipologia di traccia espressamente dedicata alla storia, sia per sostenere doverosamente la cultura storica e valorizzare la preparazione disciplinare dei candidati. L’apparente semplicità non deve però trarre in inganno, dal momento che la facilità del rispondere può condurre alla banalità della risposta (e la banalità, in questo caso sarebbe ad esempio la mera riscrittura delle parti del brano di Brendon chiamate in causa dalle domande 2, 3 e 4). Al contrario, ci aspetteremmo dal candidato, già nella risposta alla prima domanda, una breve definizione del New Deal, una periodizzazione sommaria (il fatto che Roosevelt sia entrato nelle sue funzioni nel marzo 1933, la Seconda guerra mondiale come conclusione dell’esperienza del New Deal), e magari anche la sottolineatura che il partito democratico è stato, per lungo tempo nel Novecento, più ‘interventista’ di quello repubblicano (si pensi alla New Frontier di Kennedy e alla Great Society di Johnson, ma anche a quel riformismo wilsoniano già messo in luce nei primi anni Cinquanta da Eric Goldman).30 Riguardo alla seconda e alla terza domanda, che vertono su un aspetto specifico del New Deal, ci sembra che esse ben si prestino alla definizione della reale natura del programma rooseveltiano, che prima che dottrina è prassi politica di fronte ai disastri prodotti dalla Crisi. Riguardo alla quarta domanda, non sarebbe forse insignificante osservare che i continui appelli alla nazione rivolti da Roosevelt attraverso la radio erano volti non soltanto a infondere speranza, bensì anche a rassicurare una certa parte della popolazione (nell’area repubblicana e all’interno del suo stesso partito) sulle sue intenzioni tutt’altro che ‘rivoluzionarie’; e inoltre che la rappresentazione mediatica degli effetti dei provvedimenti assunti, e della situazione contingente, non era sempre pienamente aderente alla realtà:

 

Con i suoi discorsi, le conversazioni accanto al camino, le apparizioni in pubblico, Roosevelt sviluppò l’arte di trasformare la malinconia degli americani in speranza, di far loro credere che le cose andavano meglio, anche quando non andavano bene. Egli inculcò negli americani l’immagine di un paese che stava ritrovando la prosperità, proprio quando gli indici economici restavano su livelli insoddisfacenti. Ma, dopo tutto, più che la realtà stessa, ciò che conta è la rappresentazione che della realtà si fanno coloro che la stanno vivendo. […] Il New Deal non costituì un successo, ma i contemporanei americani e non, lo concepirono come un’esperienza riuscita, capace di generare modelli e imitazioni.31

 

Perciò non condividiamo né l’accusa di una presunta banalità della traccia, né tanto meno la critica di chi ha giudicato la traccia stessa «tutt’altro che facile e abbastanza respingente»,32 poiché sia la difficoltà sia la capacità di richiamo del brano dipendono anche dalla preparazione storica del candidato.

La seconda parte della traccia, relativa alla ‘Produzione’, chiede al candidato di sviluppare un testo coerente e coeso «centrato sul rapporto tra i leader politici e i cittadini attraverso i mezzi di comunicazione di massa attuali (radio, televisione, testate giornalistiche, social media)», avvalendosi «degli spunti di riflessione offerti dal testo proposto, delle [sue] letture, informazioni e conoscenze sull’argomento e delle [sue] opinioni personali». La traccia consentiva al candidato di spaziare ad abundantiam fra la storia e l’attualità, ragionando sia sul rapporto fra esponenti politici e cittadini, divenuto cruciale nel Novecento, sia sulla mediazione che i molteplici mezzi di comunicazione possono svolgere in tale rapporto: per restare a Roosevelt, è noto come la sua relazione con la popolazione non avvenisse soltanto attraverso la radio, bensì anche per mezzo di articoli sui quotidiani e in comizi a cadenza settimanale, realizzando una presenza ‘fisica’ (con la sola voce) come nessun presidente degli USA prima di lui aveva fatto, come attestano le migliaia di lettere giornaliere che riceveva da parte di cittadini. La radio consentiva a Roosevelt di raggiungere vaste platee in ogni parte degli USA, e al contempo di occultare la propria disabilità fisica, a tutto giovamento per il suo carisma:

 

Il New Deal fu più della semplice somma degli ingredienti che ne componevano la ricetta, ed esercitò un fascino specifico sugli americani. In questo senso lo stesso Roosevelt si comportò come un vero e proprio attore e fu una sorta di schermo su cui si proiettavano le speranze e le paure della gente. Il presidente incarnò l’avvento di un nuovo tipo di leadership e l’uso di nuove, sofisticate tecniche di comunicazione di massa. Nel corso della sua presidenza, in effetti, fu impiegata la più recente tecnologia: Roosevelt era la radio, e la radio era Roosevelt. Il New Deal non sarebbe stato la stessa cosa se non avesse rappresentato il presidente come un leader carismatico che, restando al di sopra della politica dei partiti, porta il paese fuori dalla Depressione. Il presidente usava i suoi discorsi a Washington e altrove, cosi come gli interventi alla radio, alla stregua di altrettanti canali attraverso cui parlare al popolo americano, aggirando il Congresso, le altre istanze del sistema politico e la stampa. Con la radio Roosevelt riusciva ad accedere alla scena più intima della vita sociale: il focolare domestico e la famiglia. Riusciva a creare un legame diretto con la gente, parlando al pubblico come se si rivolgesse a ciascun individuo, riconoscendolo nella sua singolarità. La sua leadership politica era reale. immediata e personale. Durante le celebri ‘chiacchierate al caminetto’, Roosevelt si presentava come un guaritore e interpretava il ruolo del medico di famiglia che cura i mali di ‘una nazione scossa dalla Grande depressione.

Di Roosevelt gli ascoltatori apprezzavano il tono della voce, caratteristico, gradevole: il presidente sapeva combinare il suo innato talento per i discorsi in pubblico con un duro lavoro di preparazione che consisteva nel rifinire accuratamente e provare il manoscritto prima di andare in onda. Inoltre il suo modo di parlare, sicuro e dinamico, era perfettamente in linea con le ultime tendenze dell’oratoria. A differenza della maggior parte delle trasmissioni politiche di quegli anni, i discorsi di Roosevelt erano confezionati seguendo le esigenze specifiche del mezzo di comunicazione usato, e ciò conferiva loro un’aura di autenticità. Si trattava di discorsi accessibili a tutti: Roosevelt verificava che le ‘chiacchierate al caminetto’ impiegassero solo le parole di uso più comune nell’inglese americano. Il pubblico gradiva il modo in cui il caratteristico accento di Groton del presidente si combinava con il suo tono informale e loquace: il suo modo di parlare era quello tipico dell’aristocratico privilegiato che si prende cura della gente comune. Già durante la campagna del 1932, il presidente aveva cominciato a rivolgersi al pubblico dicendo “my friends”, “amici”.33

 

Posto che un qualsiasi regime, democratico o autoritario che sia, ricerca e tende a costruire un consenso quanto più possibile ambio intorno al proprio operato, le differenze fra i sistemi liberali e quelli totalitari sono tante, a partire dalla presenza o meno di un’opposizione parlamentare e di una stampa libera da condizionamenti politici. Su questo nodo un candidato mediamente preparato sul programma di Storia dell’ultimo anno avrebbe potuto costruire una degna trattazione, sottolineando altresì il ruolo ambiguo dei mezzi di comunicazione, che possono essere veicoli di idee che aiutano a leggere la realtà o, al contrario, mezzi asserviti alla più becera propaganda, oppure infine partecipare un po’ dell’una e un po’ dell’altra qualità. Ma anche l’attualità offre spunti di discussione stimolanti, a partire da una domanda provocatoria che avanziamo sommessamente: in questo momento in cui i cittadini sono sottoposti a un’alluvione di video, di post e di messaggi politici sempre unidirezionali, esiste ancora una comunicazione politica basata sui fondamenti di una politica sana, o non siamo piuttosto tutti soggetti a una ‘comunicazione’ indifferenziata, che da un lato veicola messaggi politici e vendite di pentole senza una reale distinzione fra le diverse modalità, anche sotto l’aspetto etico, e dall’altro si fonda su slogan privi di consistenza? Inoltre – e non è questione di poco conto – oggi si ripropone il nodo cruciale delle ‘regole’ a presidio dell’accesso ai mezzi di comunicazione, da una gestione del servizio pubblico imparziale e trasparente alla risoluzione di situazioni di conflitto d’interessi.

La proposta ‘B2’ propone un brano tratto da un articolo di Riccardo Maccioni pubblicato su «Avvenire» del dicembre scorso. Dedicato al vocabolo ‘rispetto’, scelto da Treccani come parola dell’anno 2024, l’articolo apre lo sguardo a tutto ciò che latamente a esso si ricollega, ossia l’attenzione per gli altri, la solidarietà e il senso di appartenenza a una comunità fondata sul principio di civile convivenza. Giustamente, come già avvertito da altri, «il rischio di un testo con poco mordente e piuttosto retorico e paternalistico è alto»;34 ma vogliamo confidare che anche il saper aggirare le tentazioni della retorica più stucchevole e il saper andare al cuore di un problema reale facciano parte delle competenze di uno studente maturo. Da rilevare che la traccia ‘B2’ è stata la più scelta dai candidati, con il 40,3% di preferenze generali (dato che scende di un solo punto percentuale nei licei e aumenta al 45,7% nei professionali).

Le consegne, nella prima parte di ‘Comprensione e analisi’, chiedono al candidato di riassumere il contenuto del brano «nei suoi snodi tematici essenziali»; poi lo studente è sollecitato a individuare gli argomenti addotti dall’autore a sostegno dell’importanza del rispetto; inoltre, si richiede di riconoscere «parole e atteggiamenti che quotidianamente negano il rispetto»; e infine di indicare «quali sono, a parere di Maccioni, gli atteggiamenti concreti per opporsi alla mancanza di rispetto». Il brano è di sicuro interesse, e foriero di più spunti di discussione: tuttavia l’argomentazione presente in esso è alquanto carente, trattandosi di articolo giornalistico informativo, al punto che le richieste contenute nei quesiti 2, 3 e 4 potrebbero anche compendiarsi in una sola domanda, più ampia e strutturata, poiché il rispetto è complementare al riconoscimento degli altri come persone degne di rispetto. Inoltre il terzo quesito nasconde il rischio di una risposta costituita semplicemente dalla trascrizione del ‘catalogo’ esposto nel testo («indifferenza […] spregio»), senza neanche una riformulazione della frase (e con quale utilità, del resto?) e senza un approfondimento dei concetti. Dopo queste considerazioni, ci sembra di poter affermare che nella didattica vadano affrontate anche le ‘banalità’, o se vogliamo le affermazioni ‘semplici’ e prive di spessore, allo scopo di abituare gli studenti a dare essi stessi alle parole quel senso che immediatamente sembrano non avere.

Nella parte relativa alla ‘Produzione’ si invita il candidato a confrontarsi «criticamente con il contenuto del brano proposto» e a elaborare «un testo nel quale sviluppi il [suo] punto di vista sulla tematica trattata, motivando le [sue] riflessioni». Viene di pensare che questo brano, oltre a scontare una certa povertà argomentativa, manchi altresì di una prospettiva alternativa a quella fornita: difatti il tema proposto non è dirimente, e può essere affrontato percorrendo un’unica direzione (quale punto di vista alternativo potrebbe essere preso seriamente in considerazione per arricchire il dibattito?). A questo punto, al candidato restava soltanto di articolare il concetto di ‘rispetto’: come ha scritto lo psichiatra Vittorio Lingiardi, «rispetto è riconoscimento nella reciprocità, principio di tutte le convivenze: con noi stessi, l’altro, gli altri. Mancanza di rispetto non è la poca gentilezza, è una forma specifica di cancellazione dell’altro».35 Un candidato intraprendente avrebbe forse potuto discutere la frase, riportata nel brano, dei curatori del vocabolario («la mancanza di rispetto è alla base della violenza esercitata quotidianamente nei confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del mondo animale»), chiedendosi quale attinenza reale abbia la chiamata in causa delle ‘istituzioni’ in quel catalogo, e perché in quel catalogo risultino assenti i soggetti che forse più di tutti oggi subiscono la mancanza di rispetto sotto più punti di vista, ossia gli anziani (e, per converso, se in quel catalogo non vi sia anche un po’ di retorica à la page).

La proposta ‘B3’ verte su un brano estrapolato dall’articolo di Telmo Pievani, Un quarto d’era (geologica) di celebrità, pubblicato sulle pagine della rivista «Sotto il vulcano» diretta da Marino Sinibaldi. Il testo, riportato con cinque tagli, è incentrato sulla produzione spropositata di ‘oggetti’, una caratteristica dell’attività umana dagli ultimi decenni del Novecento che rischia di passare inosservata, ma che avrà conseguenze importanti e gravi sul Pianeta. L’articolo di Pievani ha la caratteristica peculiare di proporre una questione molto seria, sebbene in questi ultimi tempi un po’ accantonata dal discorso pubblico, muovendo da un punto di vista inusuale: la nostra proiezione nel futuro. È un po’ ciò che lo stesso Pievani e Mauro Varotto avevano fatto in quel bel libro che è Viaggio nell'Italia dell'Antropocene (2021), inventando un tour nell’Italia del 2786 a opera di un protagonista chiamato Milordo, dove il ribaltamento delle tradizionali basi del reportage, che è per statuto il resoconto di un viaggio avvenuto, ha il fine di prefigurare le sorti della Penisola: la descrizione del territorio è allarmante, poiché, a contesto invariato, dopo la fusione delle calotte polari la superficie dell’Italia si ridurrebbe del 18%, con la conseguenza che molte città finirebbero sott’acqua, e altre finirebbero come sulla battigia, formando «uno scenario di estese ‘palafitte urbane’, con edifici abitabili forse dal terzo piano a Verona, Bologna, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Firenze…».36 Un libro da leggere.

Lo stesso autore, informato che un suo testo era contenuto nelle tracce d’esame, ha commentato a caldo: «Non è una traccia facile perché richiede uno sforzo di immaginazione su come i posteri ci vedranno ma se gli studenti hanno spirito di proiezione può essere molto interessante. E poi è un argomento che permette loro di esprimersi sulla crisi ambientale tanto cara ai nativi climatici».37 Al brano avremmo soltanto aggiunto in nota, per evitare equivoci nella lettura e agevolare i candidati a focalizzare correttamente alcuni termini-chiave, il significato di alcuni vocaboli: in primis ‘Antropocene’, la cui data di nascita risale al 2000 e, verosimilmente, non è presente in molti dizionari in possesso dei candidati al momento dell’esame,38 ma anche ‘tecnosfera’ e ‘massa antropogenica’ (sebbene il significato di quest’ultima espressione si evinca facilmente dalle righe successive del testo).

Le domande di ‘Comprensione e analisi’ sollecitano il candidato a riassumere il contenuto del brano, «evidenziando il punto di vista dell’autore sull'Antropocene e sul ruolo umano in questo periodo geologico»; a spiegare l’espressione «vicolo cieco in cui ci siamo infilati» (a proposito: se nella traccia l’espressione è racchiusa fra virgolette, non c’è bisogno che sia anche in caratteri corsivi); a individuare «quali esempi l'autore fornisce per descrivere l'insieme della ‘tecnosfera materiale’»; a chiarire l’espressione «geologico quarto d’ora di celebrità». Si tratta di domande che non necessitano di particolari sforzi cerebrali per trovare risposte complete e adeguate; tuttavia, a nostro avviso il compito del candidato dovrebbe essere soprattutto quello di ‘far parlare’ il testo ulteriormente, beninteso senza tradirne il senso e lo spirito. Per capirci, quando la seconda domanda chiede di spiegare l’espressione del «vicolo cieco», bisognerebbe valorizzare l’immaginazione stimolata dalla metafora, ipotizzando quindi le due opzioni che si pongono quando si è dentro a un vicolo cieco, ossia rimanere lì, o addirittura impattare contro il muro, oppure ritornare indietro con circospezione e cercare un’altra strada, ma sempre avendo presente dove si vuole davvero andare.

Inoltre non andrebbe mai sottovalutato, laddove sia meritevole di considerazione, il piano linguistico. In particolare la quarta domanda, ossia quella relativa agli esempi addotti dall’autore («tutti gli edifici sulla Terra […] rivista»), potrebbe risolversi in un mero elenco, più o meno preciso a seconda della diligenza del candidato nel ricopiare e nel trovare sinonimi. Tuttavia, in una prova di italiano, riteniamo che non si debba rinunciare a commentare lo stile di un validissimo scrittore come Pievani. Pertanto il candidato avrebbe potuto riconoscere nel brano in questione la figura dell’accumulazione, valorizzata dall’assenza di virgole («treni aerei navi auto camion moto biciclette e ogni altro mezzo di trasporto») e da un tocco d’ironia, a stemperare in un sorriso la gravità della situazione, laddove l’autore inserisce nell’ideale ammasso anche la carta della rivista su cui scrive. Lo stesso titolo dell’articolo è fortemente ironico, poiché la metafora parafrasa una celebre frase di Andy Warhol per sottolineare la scarsa rilevanza della presenza umana nella ben più lunga storia della vita sulla Terra (la proporzione dovrebbe essere all’incirca proprio quella del quarto d’ora).

La parte relativa alla ‘Produzione’ invita il candidato a elaborare «un testo in cui, a partire dal concetto di ‘tecnosfera’, riflett[a] sull’impatto ambientale ed economico della produzione e del consumo costante di oggetti, esprimendo la [s]ua opinione al riguardo e proponendo possibili soluzioni per ridurre tale impatto». Lo stesso autore, che ha commentato la ‘sua’ traccia per un quotidiano, ha indicato le possibili direzioni dell’analisi:

 

il brano poteva essere letto in chiave scientifica (il peso degli artefatti umani rispetto alla massa degli esseri viventi), in termini di invadenza degli oggetti tecnologici sulle nostre vite e sugli ecosistemi, di impatto di Homo sapiens sulla biosfera. Poteva essere spunto per raccontare il dibattito sull’Antropocene (quando comincia?) e per ricordare le giovinezza e la fragilità della nostra specie, virgulto recente nel grande albero della vita darwiniano».39

 

Tralasciando i rischi retorici insiti nella richiesta di proporre soluzioni, ciò che ci sembra di tutta evidenza, a margine di questa traccia, è che non possa più eludersi nella didattica scolastica la letteratura ambientale, come è stata definita dagli studi più recenti.40

 

4. Le tracce della tipologia ‘C’

La proposta ‘C1’ muove da un brano (con due tagli) tratto da una testimonianza rilasciata da Paolo Borsellino a Sergio Zavoli per una puntata del programma televisivo Viaggio nel Sud, andata in onda nel 1991. Dopo l’assassinio del magistrato, il 19 luglio 1992, il testo dell’intervento di Borsellino in quella trasmissione, trascritto e curato da Antonietta Garzia, fu pubblicato su «Epoca» del 14 ottobre, con un’introduzione dello stesso Zavoli. Al candidato si chiede: «Rifletti, alla luce delle tue esperienze come studente e come cittadino, sul significato profondo di questo messaggio del giudice Paolo Borsellino (1940-1992) e sul valore che esso può avere per i giovani, in particolare per quelli della tua generazione».

I nodi da cui si possono dipanare le riflessioni sono molteplici, e tutti legati fra loro: il consenso che la mafia era (ed è) capace di costruire intorno a sé e alle proprie attività; il ruolo dei giovani (cui Borsellino riconosceva una maggiore consapevolezza rispetto ai giovani della sua generazione) nel farsi protagonisti di un cambiamento radicale di mentalità; e, infine, la speranza in un futuro migliore e il bisogno di tempo (quel tempo che a Borsellino mancava…), e quindi di perseveranza, per alimentare e incoraggiare un nuovo atteggiamento. Ma la testimonianza completa, che può essere utilizzata proficuamente nella didattica, contiene anche un altro spunto, che nello stralcio a uso della traccia è appena accennato all’inizio: quello della speculazione edilizia, che stravolgendo l’urbanistica cittadina ha spostato l’asse geografico di Palermo, causando un trasferimento di persone verso le periferie, con una conseguente perdita d’identità per tutti. L’‘identità’, quindi, risulterebbe secondo Borsellino un discrimine decisivo per la possibilità di infiltrazione e stabilizzazione della cultura mafiosa, poiché la rimembranza di chi siamo e da dove veniamo, oltre che il legame atavico con il territorio, costituirebbe un antidoto alle devianze criminali.

Ci piacerebbe che i candidati si fossero soffermati, nello svolgimento della traccia, non soltanto sui ricchi stimoli forniti dalle parole del magistrato, ma anche su quelle da lui non dette, a cominciare dalla critica verso la sua generazione, che pure in quel momento costituiva la classe dirigente (soprattutto politica, ma non esclusivamente politica) che si era assuefatta e piegata alla mafia. Per questo motivo la ‘luce’ che le parole di Borsellino mantengono tuttora accesa riguardano i giovani: e sconcerta, in una società in cui tutti fingono di credere nei giovani, senza tuttavia affidare loro neanche un’aula scolastica di pomeriggio in autonomia, che a ribadire la fiducia nelle ultime generazioni sia stato uno, come Borsellino, che per affermare le ragioni della legalità ha dato la vita. Inoltre, soprattutto negli istituti fortemente caratterizzati in senso umanistico, come i licei classici e linguistici, i candidati avrebbero potuto senz’altro commentare brevemente lo stile dell’eloquenza spicciola di Borsellino, poiché in essa v’è anche la sostanza della persona: in tal senso le sue parole appaiono del tutto prive di retorica, anzi forse antiretoriche, e persino quando egli parla dei giovani – come ha osservato Lirio Abbate – «non li idealizza, ma li riconosce capaci di dire ‘mafia’ senza paura, di rompere l’ambiguità».41 Tuttavia l’analisi delle parole di Borsellino (risalenti al 1992, circostanza da non dimenticare) imporrebbero anche un esame critico sull’odierna classe dirigente: difatti, se i giovani del 1992 cui si rivolgeva il povero Borsellino sono oggi cinquantenni, in che cosa quella generazione, pur avvertita dagli esempi di Giovanni Falcone e di Borsellino (per non dire anche del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di don Pino Puglisi e di tanti altri e altre...) ha davvero dimostrato di essere migliore della precedente nel ripudio della mafia e della ‘mentalità’ che a essa si accompagna?

La proposta ‘C2’ è quella dedicata al ‘mondo social’ (pare davvero che all’esame di Stato non si possa proprio fare a meno di una traccia riferita a Internet o all’Intelligenza Artificiale o ai social network). Il tema centrale, tratto da un articolo di Anna Meldolesi e Chiara Lalli pubblicato su «7-Sette», supplemento del «Corriere della Sera», ci sembra essere, prima ancora che l’indignazione (apparente parola-chiave del brano, al punto da ricorrere anche nel titolo), la superficialità con la quale vengono lette le notizie e le informazioni che, attraverso i social network, scorrono rapidamente sullo schermo del nostro pc, sotto la ghigliottina implacabile della rotellina del mouse da noi azionata per rincorrere con la massima velocità (o frettolosità?) possibile altre informazioni e notizie, di cui leggiamo in realtà soltanto poche parole. Dinanzi a tale ridda verbale, il nostro cervello evidentemente coglie soprattutto ciò che suscita la nostra indignazione, che talora (ma non sempre, per fortuna) esprimiamo con commenti rabbiosi. La conseguenza di queste reazioni scomposte davanti e episodi marginali è che poi si perdono di vista temi davvero importanti. Al candidato è richiesto quanto segue: «A partire dai contenuti del testo proposto, traendo spunto dalle tue esperienze, dalle tue conoscenze e dalle tue letture, rifletti su questa rilevante caratteristica dei social».

Secondo il dizionario del Tommaseo, ‘indignazione’ è «sdegno vivo, grande». E fin qui ci siamo. Ma andrebbe precisato, prima di trattare dell’argomento, che l’‘indignazione’ è un sentimento nobile, che viene suscitato in noi al contatto diretto con ingiustizie, situazioni offensive per il senso morale o per la dignità nostra o altrui. L’indignazione, insomma, investe fortemente la coscienza individuale e collettiva. Tutti ricordiamo come nel cap. VI de I Promessi sposi, quello del confronto tra frate Cristoforo e don Rodrigo, alla proposta di quest’ultimo di suggerire a Lucia di mettersi sotto la sua protezione, «l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò», dando luogo a quella scena indimenticabile che segue, e che faceva sognare noi lettori-ragazzi di quinta ginnasio di entrare a forza nel romanzo per dar man forte al cappuccino. Se ne ricava – ma i candidati se ne saranno resi conto? – che l’‘indignazione’ che corre sui social è tutt’altra cosa: è sbotto burbanzoso; è parola (o ‘faccina’ che fa ‘grr’) che riempie di vuoto il nulla; è fors’anche, in ultima istanza, rinuncia ad agire nella vita vera. In questo senso bisogna dar ragione a Chiara Valerio, che nel commentare la traccia ha affermato che «l’indignazione sui social […] somiglia all’indifferenza che Gramsci veementemente sanzionava»: in altre parole, essa sarebbe una inquietante sfaccettatura dell’indifferenza.42 Un acuto commento di Ruggero Policastro ha inoltre insinuato il dubbio che il comportamento descritto nello stralcio dell’articolo riguardi non tanto i giovani, quanto piuttosto la generazione dei loro genitori:

 

Mi sembra evidente, infatti, che le autrici dell’articolo pensassero, scrivendolo, a Facebook e X (quello che si chiamava Twitter, prima che lo comprasse Musk), perché sono questi i social dove si verifica frequentemente il fenomeno di cui parlano, i social dove milioni di boomer mostrano il loro sdegno, spesso per questioni irrilevanti o secondarie. I ragazzi che sostengono l’Esame di Stato, però, non sono iscritti né a Facebook né a X, che ritengono ‘roba da vecchi’. I loro social sono TikTok e Instagram (il social, semmai, dell’invidia, più che dell’indignazione). Non credo che sappiano bene quello che succede ai loro genitori e ai loro nonni su Facebook.43

 

Non a caso il personaggio di Napalm 51, impersonato da Maurizio Crozza, è un uomo di mezza età, mica un ‘maturando’...

 

 

14 novembre 2025

 

 

1 Vd. le Tracce della prima prova nel Sito web del Ministero dell’Istruzione e del Merito (pagina consultata il 5 luglio 2025).

2 Per le scelte vd. Rapporto sintetico delle scelte della prima prova nel Sito web del Ministero dell’Istruzione e del Merito (pagina consultata il 5 luglio 2025).

3 Maurizio Crippa, No, i ragazzi alla maturità non hanno copiato dall’AI. Sono le banalissime tracce che sembrano fatte da ChatGPT, quello gratis, «Il Foglio», 19 giugno 2025.

4 Simone Giusti, La maturità di Valditara. Ossessione per le regole e le donne ai margini, «Domani», 19 giugno 2025; Corrado Ocone, La maturità senza ideologia mette tutti d’accordo, «Libero», 19 giugno 2025.

5 Davide Rondoni, La poesia di Pasolini. Il passaggio all’età adulta, «Quotidiano Nazionale», 19 giugno 2025.

6 Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, in Poesia italiana, vol. IV: Il Novecento, a cura di Piero Gelli, Gina Lagorio Milano, Garzanti, 1993, pp. 728-733: 728.

7 Ermanno Krumm, Pier Paolo Pasolini, in Poesia italiana del Novecento, a cura di Ermanno Krumm, Tiziano Rossi, Milano, Skira, 1995, pp. 607-611: 607.

8 Fernando Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, in Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Vol. 1, Milano, Mondadori, 2003, pp. XV-LVIII: XV.

9 Paolo Di Stefano, Pasolini intimo e l’isolamento del giovane poeta, «Corriere della Sera», 19 giugno 2025.

10 P.P. Pasolini, Tutte le poesie, cit., p. 635, p. 633.

11 Ivi, p. 636.

12 Lina Grossi, La Prova di italiano. Tipologia A. Proposta A1. Qualche riflessione e un suggerimento, «Insegnare», 23 giugno 2025 (pagina consultata il 5 luglio 2025).

13 Eugenio Ragni, Toni Iermano, Scrittori dell’ultimo Novecento, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. 9: Il Novecento, Roma, Salerno, 2000, p. 1012.

14 Paolo Conti, Angelica e Tancredi. Nel “Gattopardo” un po’ di storia d’Italia, «Corriere della Sera», 19 giugno 2025.

15 Vittorio Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 6

16 Giuseppe Lupo, L’unità d’Italia nella narrativa della non-storia, dell’antistoria e della controstoria, «Italianistica», XL, 2 (2011), pp. 211-219.

17 Giovanna Bellini, Vanni Mazzoni, Forme e storia. Modelli di lettura del testo letterario, Firenze, Paradigma, 1983, p. 207.

18 Furio Felcini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tradizione meridionalista ed educazione “europeizzante” per l’autobiografia ottocentesca dell’aristocrazia feudale siciliana nell’“Italia unita”, in Letteratura italiana. Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, direzione di Gianni Grana, vol. 8, Milano, Marzorati, 1982, pp. 7181-7193: 7189.

19 Rosario Contarino, Il Risorgimento e la Sicilia, in Letteratura italiana. Storia e geografia, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. 3: L'età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, 711-789: 780.

20 P. Conti, cit..

21 Simona Baldelli, Il brano del Gattopardo. Saper guardare oltre, «Quotidiano Nazionale», 19 giugno 2025.

22 Lorella Villa, Esami di Stato 2025: una panoramica sulle tracce, «Insegnare», 18 giugno 2025 (pagina consultata il 5 luglio 2025).

23 Stefano Jossa, L'Italia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 114-128.

24 Antonio Di Grado, Leonardo Sciascia: la figura e l'opera, Marina di Patti, Pungitopo, 1986, p. 41.

25 Umberto Gentiloni, La crisi del 1929 e l’obiettivo comune come ambizione, «la Repubblica», 19 giugno 2025.

26 Giuseppe Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 53.

27 Kiran Klaus Patel, Il New Deal. Una storia globale, Torino, Einaudi, 2018, pp. 69-75.

28 Eric Foner, Storia degli Stati Uniti d'America. La “libertà americana” dalle origini a oggi, Roma, Donzelli, 2017, pp. 249-250.

29 Ivi, pp. 270-286.

30 Eric F. Goldman, Rendez-vous with destiny. A history of modern American reform, New York, Knopf, 1952. Per il dibattito storiografico vd. Claude Fohlen, Il New Deal negli Stati Uniti, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, diretta da Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, vol. 9: L’età Contemporanea, t. 4: Dal primo al secondo dopoguerra, Torino, UTET, 1991, pp. 247-269.

31 C. Fohlen, cit., pp. 263-264.

32 S. Giusti, cit..

33 K.K. Patel, Op. cit., pp. 138-139.

34 L. Villa, cit..

35 Vittorio Lingiardi, Stare al mondo senza cancellare l’altro. E pensando a Aretha, «la Repubblica», 19 giugno 2025.

36 Telmo Pievani, Mauro Varotto, Viaggio nell'Italia dell'Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro, Sansepolcro, Aboca, 2021, p. 29.

37 Alex Corlazzoli, Maturità 2025. Telmo Pievani: “Una traccia su di me? Non me l’aspettavo. Non è facile perché richiede uno sforzo di immaginazione su come i posteri ci vedranno”, «Il Fatto quotidiano.it», 18 giugno 2025 (pagina consultata il 5 luglio 2025).

38Vd. la voce Antropocene nel Vocabolario Treccani.

39 Telmo Pievani, I “nativi climatici” e la mia traccia sul destino della Terra. Loro sono il futuro, «Corriere della Sera», 19 giugno 2025.

40 Joseph W. Meeker, The comedy of survival. Studies in literary ecology, New York, Charles Scribners sons, 1974; Writing the environment. Ecocriticism and literature, a cura di Richard Kerridge, Neil Sammells, London-New York, Zed Books, 1998; Ecocritica. La letteratura e la crisi del pianeta, a cura di Caterina Salabè, Roma, Donzelli, 2013; Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia: forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017.

41 Lirio Abbate, Contro la mafia che tutto può il rifiuto dei giovani, «la Repubblica», 19 giugno 2025.

42 Chiara Valerio, Esasperati di internet e indifferenti di Gramsci: così lontani, così vicini, «la Repubblica», 19 giugno 2025.

43 Ruggero Policastro, Una riflessione intorno alla proposta C2 della prima prova dell’Esame di Stato 2025, «Insegnare», 19 giugno 2025 (pagina consultata il 5 luglio 2025).