Sessione Ordinaria 2023-24
Le tipologie di prova scritta d’italiano entrate in vigore dal 2019 sono ormai ben collaudate, e dovrebbero far parte stabilmente della didattica dell’intero percorso di studi secondari superiori, a partire (con gli adattamenti e le semplificazioni del caso) dalla classe prima. Quest’anno, forse per la prima volta dopo qualche tempo, sembra davvero pressoché unanime il consenso degli esperti per la scelta delle tracce: basti ricordare il commento ‘a caldo’ di Claudio Marazzini, che, pur avvertendo che «non sono tutte facili», ne ha apprezzato l’attinenza a «questioni di largo respiro e di attualità», giudicandole in definitiva «fattibili e interessanti».[1] Se Marco Prando, da parte sua, ha scritto che esse «partono dalla realtà quotidiana di chi non ha ancora vent’anni senza indugiare nel semplicismo, ma al contempo ruotando intorno a parole-chiave capaci di travalicare il tempo e le generazioni»,[2] Fabrizio Foschi ne ha tentato una interessante lettura complessiva, considerando le sette pagine ministeriali come se si trattasse di «una prova olistica».[3] Fra le poche voci dissonanti va invece annoverata quella di Claudio Giunta, secondo il quale «più che invitare ad apprezzare la qualità di un testo, o la sua coerenza, praticamente tutte le tracce proposte sollecitano una risposta virtuistica», conformemente alla «curvatura moralistica» che a suo giudizio avrebbe assunto l’insegnamento letterario nelle scuole.[4] Anche i cronisti, comunque, hanno registrato che presso l’opinione pubblica «le sette tracce sono accolte con favore: sono sagge, su temi affrontati durante l’anno e prevedibili».[5]
In questa sede, sperando di fare cosa non inutile, prendiamo in considerazione le tracce assegnate il 19 giugno scorso nella prima prova della sessione ordinaria 2023-2024.[6] Le scelte dei candidati sembrano essersi ben distribuite fra le diverse tipologie, segno forse dell’efficacia della didattica scolastica in tutte e tre le diverse caratteristiche formali: il 24,2% ha scelto una traccia afferente la tipologia ‘A’ (valore che scende però al 14% negli istituti tecnici, e, ancor più drasticamente, al 9% negli istituti professionali); il 35,4% ha scelto una delle tre tracce comprese nella tipologia ‘B’; e infine il 40,4% ha preferito una proposta nell’ambito della tipologia ‘C’.[7] Il dato che colpisce a prima vista è che negli ultimi due anni le opzioni relative alla tipologia ‘A’ non avevano mai superato, assieme, il venti per cento: difatti i valori registrati erano pari al 19,5% nel 2019, al 19,4% nel 2022 e al 13,7% nel 2023 (percentuale, quest’ultima, dovuta alla scarsa familiarità degli studenti con Quasimodo e Moravia).
Ungaretti e Pirandello sono stati accolti fin da subito come «due autori che decisamente si aspettavano»,[8] al punto che alcuni quotidiani hanno persino raccolto le proteste di diplomati dello scorso anno che lamentavano di essersi dovuti cimentare su letterati poco conosciuti, dimenticando tuttavia che il Ministero non ha l’obbligo morale di intercettare le scelte abituali dai docenti, riassumibili in un ideale canone scolastico, poiché l’analisi di un testo letterario si compie con strumenti di narratologia, retorica e metrica utili anche per affrontare e apprezzare l’ignoto, servendosi di poche indicazioni orientative e della propria esperienza di lettori, ed è un’analisi deliberatamente svincolata dalla ‘programmazione’ (il punctum dolens è semmai che la didattica è sempre più erosa dal ‘progettificio’ dominante, soprattutto negli indirizzi che più ne avrebbero bisogno, come i professionali e i tecnici).
La proposta ‘A1’ (la poesia Pellegrinaggio di Ungaretti) è presentata in modo molto efficace: in neanche tre righe il candidato è avvertito che il componimento «trae ispirazione» dall’esperienza di guerra (espressione che suggerisce implicitamente come l’interpretazione non si risolva solamente in essa), e che da un lato «testimonia l’intensità biografica e realistica», e dall’altro persegue «la ricerca di forme nuove». C’è già uno schema interpretativo in nuce, insomma. Nella batteria di domande di ‘Comprensione e analisi’ la prima è quella, ormai consueta, del riassunto. A seguire, in altre tre domande si chiede al candidato, rispettivamente, di individuare le similitudini e illustrarne il significato; di spiegare il senso dell’espressione «uomo di pena»; e infine di chiosare l’immagine del riflettore come «volontà di sopravvivenza». Si tratta di richieste ‘oneste’, diremmo quasi ‘minime’, alle quali qualsiasi candidato mediamente conoscitore di Ungaretti (e non può non esserlo) dovrebbe saper rispondere; e tuttavia si tratta di sollecitazioni che aprono la strada a un livello più profondo di esame.
A proposito dell’analisi, dunque, anche laddove non sia richiesto essa non dovrebbe mai escludere due aspetti della poetica de Il porto sepolto: la disorganicità e il lessico come fulcri dell’espressione. La frammentazione del discorso poetico (sotto l’aspetto metrico, nell’assenza di punteggiatura, nell’uso dello spazio bianco) corrisponde alla frammentarietà delle sensazioni, derivante, come gli studenti dovrebbero ben sapere, sia da precise istanze poetiche acquisite durante il soggiorno parigino fra il 1912 e il 1914, sia dallo sconvolgimento mentale provocato dalla guerra, ricostruito meticolosamente da Antonio Gibelli nel suo ormai classico L'officina della guerra.[9] In tale prospettiva risulta quanto mai convincente l’affermazione di Guido Guglielmi secondo cui gli atti di parola di Ungaretti «hanno l’intensità dei traumi», e si collegano soprattutto alla poesia di Apollinaire,[10] prima ancora di trovare una correlazione nella poesia giapponese haiku, e dati per assodati i molteplici e noti contatti con la cultura poetica francese, la quale, conferendo a Ungaretti quella che Pier Vincenzo Mengaldo ha chiamato «extraterritorialità culturale»,[11] gli ha fornito le basi per l’attacco diretto agli istituti formali tradizionali della poesia italiana.
Venendo al lessico, il libro d’esordio del poeta è caratterizzato dal cosiddetto ‘versicolo’, atto a valorizzare «una parola che si presenta in un’enorme sospensione, come attimo totale, e si dilata nello spazio».[12] La pregnanza di una parola spesso isolata nel bianco come in un silenzio infinito è qui esemplificata in alcuni vocaboli che vale la pena di marcare:
- ‘budella’, metafora riferita a un paesaggio che ormai si è antropizzato entrando sin dentro le viscere dei combattenti, come attesta la sostituzione dell’espressione «in questi budelli», originariamente presente ne Il porto sepolto, con l’espressione «in queste budella» de L’Allegria, dove il trasferimento di senso è più evidente;[13]
- ‘strascicato’ e ‘carcassa’, termini che andrebbero considerati tenendo conto che in quel momento, anche di là dalla giovane età anagrafica effettiva, l’autore aveva forse già bruciato la sua ‘giovinezza’ ideale, ossia quella che, come interventista anarchico, l’aveva spinto ad arruolarsi gioiosamente volontario in nome di un radicale rinnovamento della società;
- ‘usata’, termine che forse in questa poesia risente anche del francese user, assumendo quindi la sfumatura di ‘consumata’, ‘logorata’, ‘sciupata’;
- ‘Ungaretti’, che è un’apostrofe quasi ironica del poeta a sé stesso per farsi forza (secondo un modo ripreso, per dire, da Vecchioni in Luci a San Siro), ma è anche un accorato aggrapparsi alla propria identità, che il meccanismo di spersonalizzazione imposto dalla guerra tende ad annullare;
- lo stesso titolo Pellegrinaggio, che allude a un percorso difficile e doloroso per raggiungere chissà quale destinazione.
Sull’importanza della parola ungarettiana nella didattica ci si sofferma sempre adeguatamente, con il conforto dello stesso autore, che nel presentare il Sentimento del Tempo scrisse, in riferimento appunto a L’Allegria: «il mio primo sforzo è stato quello di ritrovare la naturalezza e la profondità e il ritmo nel senso d’ogni singola parola».[14] E quella parola, come già molto tempo fa avvertì Giansiro Ferrata, «vien presa fino in fondo dalla sua realtà», conservando sempre il suo realismo anche nel vivo di una musicalità evocativa.[15] Difatti, come è stato osservato, «nella scrittura di Ungaretti agisce non solo il linguaggio dell’‘alto’, ovvero di una secolare tradizione letteraria – di frequente, com’è noto, soprattutto di derivazione petrarchesca o leopardiana – bensì quello del ‘basso’, che traduce in forme originali il parlato e l’immaginario del mondo militare.[16] Perciò riteniamo che sia stato superfluo spiegare in nota il significato di ‘spinalba’, dal momento che i candidati sono dotati di dizionario; al limite, si sarebbe potuto riportare letteralmente la nota dello stesso autore, che così spiegava: «La spinalba, il biancospino, prospera in ogni giardino d’Alessandria» (il che apre notevolmente l’orizzonte geografico e spirituale evocato da quel vocabolo).[17]
La parte di ‘Interpretazione’ richiede al candidato, a partire dalla produzione poetica di Ungaretti e/o di altri autori, o cogliendo spunti da altre forme d’arte, di elaborare una «riflessione sulle modalità con cui la letteratura e/o altre arti affrontano il dramma della guerra e della sofferenza umana». Quest’ultimo aspetto, ossia la ‘sofferenza’, sembra allargare il concetto di ‘guerra’, conformemente al motto del noto personaggio leviano di Mordo Nahum secondo cui «guerra è sempre», consentendone l’estensione ad altri ambiti che non siano strettamente contraddistinti dalla presenza di un conflitto armato. Qui sta invero la perenne attualità della poesia di Ungaretti, ossia nel farci guardare alla situazione, storica e ben definita, del fante nella trincea della Grande guerra come alla condizione umana tout court, che si può riscontrare oggi sul fronte ucraino, in Medio Oriente, o nella ‘guerra’ quotidiana che uomini come Satnam Singh (il lavoratore agricolo morto a Latina proprio in questi giorni per dissanguamento, dopo l’amputazione di un braccio) combattono per garantire il benessere a qualcun altro. Nella poesia ungarettiana c’è dunque tutto: il dolore, autentico, concreto, percepibile nelle ‘macerie’ che non sono solo di edifici ma anche dell’animo, e la speranza data da una luce, che però è artificiale e dilaga (come suggeriscono i deittici) «di là», in uno spazio altrove rispetto a «queste budella», secondo un’istanza che è reale, ma è anche inequivocabilmente memoria dantesca, poiché l’esperienza di guerra è essenzialmente, come ci ha suggerito fra i primi Giuseppe Langella, una descensio ad inferos.[18] Difatti, se (come vedremo) i suoi esiti possono sconfinare nell’eterno, la poesia de Il porto sepolto è sempre radicata nella realtà vissuta, come le parole elementari, asciutte e dure (da far recitare allo stesso autore, nella didattica scolastica, grazie ai filmati facilmente reperibili in Internet) suggeriscono; talché il candidato avrebbe potuto inferire, con una certa approssimazione, che il «riflettore / di là» è un mezzo tecnologico usato a fini militari, e che la nebbia di cui si parla nell’ultimo verso è verosimilmente il fumo dei colpi d’artiglieria. Insomma, considerato che la percezione sensoriale del nuovo modo di combattere la guerra «è condizione e al tempo stesso sostanza dell’espressione» poetica, come scrive Andrea Cortellessa nella sua eccellente antologia, «Ungaretti è il poeta di guerra per eccellenza».[19]
Ma c’è anche, in questa poesia, il barlume di una possibilità di ‘redenzione’ da tutto ciò, sia nell’immagine del «seme / di spinalba», che rammenta il ciclo naturale di morte e nascita, sia nell’allusione a una destinazione sacra, suggerita dal ‘pellegrinaggio’ del titolo (che l’impostazione grafica della traccia non valorizza adeguatamente, poiché esso andrebbe collocato in testa alla poesia, nel posto che gli compete, anche a costo di ripeterlo, e non soltanto nel riferimento bibliografico), a cui poi rimanda il ‘mare’ del v. 17, come a chiudere il discorso. Insomma, «le immagini della prima parte, tutte in presa diretta, proprio nel loro scrupoloso aderire alla refrattaria situazione commemorata suggeriscono un inatteso passaggio dall’estrema abiezione fisica alla rinascita potenziale».[20] Si tratta di un’illusione ingannevole, ovviamente, poiché il mare non è mare e la nebbia non è nebbia. Tuttavia, come ha avvertito Davide Rondoni, «è un testacoda meraviglioso e profondo l’evocazione di un cammino sacro in una situazione di guerra»;[21] il che ci sembra costituire una lettura più complessa e articolata, ma forse anche più ardita rispetto alle intenzioni dell’autore, di quella di Donatella Di Pietrantonio, secondo cui «in un altro vuoto, quello in cui non è più tollerabile stare, cerchiamo una direzione nel pellegrinaggio che tocca anche a noi».[22] Dall’epistolario ungarettiano emerge piuttosto l’urgenza di un pellegrinaggio della fantasia: «Senza adesione e senza meta va il pellegrino dei sogni, come un’ombra sulla neve che sembra squagliarsi con un fastidio infinito […]».[23]
Sulla base di quanto osservato, è evidente che l’assegnazione di questa poesia all’esame di Stato conferma l’importanza capitale di Leopardi nella poesia del Novecento, e specialmente nella produzione di Ungaretti, che qui, muovendo da una percezione della realtà contingente dominata dall’angoscia e dal patimento, giunge attraverso l’abbandono all’illusione di un ‘altrove’ (magari collocato nell’eternità?) più degno dell’uomo, e a ritrovare la forza e il coraggio di vivere: «queste budella / di macerie», insomma, agiscono come «questa siepe», mentre il «mare / nella nebbia» corrisponde al mare in cui fa dolcemente naufragio il poeta di Recanati, con la differenza che la condizione del combattente in prima linea pone le questioni del ‘tempo’, della ‘vita’ e dell’‘eternità’ con un’urgenza e un’ambascia nuove.
La proposta ‘A2’ è un brano significativo tratto dalle prime pagine di Quaderni di Serafino Gubbio operatore, un romanzo di Pirandello dalla complessa vicenda editoriale: la prima versione, con il titolo Si gira…, fu pubblicata a puntate su «Nuova Antologia» e in volume presso Treves nel 1916, proprio quando gli entusiasmi del tardo Positivismo e del Futurismo s’infrangevano contro una realtà di trincea che sembrava piuttosto riportare l’uomo allo stato primordiale, e soltanto nel 1925, dopo un rimaneggiamento, uscì per i tipi di Bemporad col titolo appunto di Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Nella batteria di domande di ‘Comprensione e analisi’ la prima è quella del riassunto. A seguire, altre tre domande in cui si chiede al candidato, rispettivamente, d’individuare alcuni «espedienti espressivi» impiegati dall’autore e d’illustrarne lo scopo; di commentare la frase «Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?»; e infine di delineare la «visione del futuro» prefigurata dal protagonista quando dice: «Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io». Si tratta di quesiti (soprattutto il secondo) che fanno entrare in gioco anche le competenze di narratologia (la scelta dell’uso del monologo interiore è determinante per filtrare la realtà, osservata dal protagonista e da questi registrata nei quaderni quasi ‘in presa diretta’, analogamente a quanto avviene nella cinematografia, e con lo stesso distacco della macchina) e di retorica (la mano è una potente sineddoche). L’individuo che si dà in pasto alla macchina segna la passività, l’inerzia, la rinuncia ad agire dell’uomo, che in parte viene consegnato alla macchina dai detentori del potere e in parte vi si abbandona egli stesso per inerzia, come nella scena del Moloch del coevo film Metropolis di Fritz Lang del 1927, che per il discorso sul rapporto fra macchine, masse e individuo può considerarsi «il primo grande film sulla complessità dei problemi del mondo produttivo contemporaneo».[24] E come non pensare alla guerra che, mentre Pirandello componeva la prima redazione del romanzo, letteralmente inghiottiva le vite umane? Del resto lo stesso autore (secondo le sue parole, citate in una lezione di Gino Tellini) vedeva il conflitto come una macchina divoratrice:
«Io vedo così questa immane guerra, sotto questa specie. Guerra di macchine, guerra di mercato. L’uomo [...], buttati via i sentimenti, come ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, doveva fabbricarsi di ferro le sue nuove divinità e divenir servo e schiavo di esse. Ma non basta fabbricarle, le macchine: perché agiscano e si muovano debbono per forza ingoiarsi la nostra anima, divorarsi la nostra vita. Ed ecco, non più soltanto idealmente, ma ora anche materialmente, se la divorano. Sette uomini – dicono – al minuto: per il trionfo dei prodotti industriali d’una nazione diventata, non pur nei cantieri, anche negli animi e negli ordini, metallica, un immenso macchinario».[25]
La parte dedicata all’‘Interpretazione’ richiede di approfondire ulteriormente l’esegesi del brano, facendo ricorso a conoscenze e letture personali, riguardo al tema degli «effetti che lo sviluppo tecnologico può produrre sugli individui e sulla società contemporanea». Come si vede, la trattazione è aperta a qualsiasi direzione e a qualsiasi atteggiamento, da quello più diffidente verso la tecnologia a quello viceversa più entusiasta, non senza la possibilità di attualizzare il problema nel presente, mettendo in luce i rischi insiti non tanto nella tecnologia in sé quanto nel suo uso, sino alla prospettiva di una macchina che, dopo esser stata servita dall’uomo, arrivi a farne a meno, come sembra peraltro avvalorare un passo del romanzo:
«Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:
– Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi:
– Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo?»[26]
La scelta di questo brano è senz’altro esemplificativa di un atteggiamento di diffidenza verso il progresso tecnologico che ha come illustre predecessore Leopardi, e che trova riscontri storici nel naufragio del Titanic nel 1912 e, soprattutto, nell’impiego della bomba atomica nell’agosto 1945. Talché lo scrittore Dario Voltolini, cui è stato chiesto un commento, ha scritto che vorrebbe ribaltare il testo con il proposito «di dare la parola direttamente alla manovella, facendo emergere tutta la tristezza della tecnologia in mano all’umano», da questi evocata, creata e impiegata, e infine additata come ‘nemico’.[27] Ma soprattutto il brano pirandelliano è un ripensamento del rapporto fra verità e menzogna che appartiene alla vita, prima ancora che alla tecnica, e che l’uomo porta per propria scelta nell’ambito tecnologico. Il nodo vero/falso emerse soprattutto allo scoppio della Prima guerra mondiale, allorquando operatori cinematografici degli Stati coinvolti si mobilitarono per documentare tutti gli aspetti del conflitto attraverso la macchina da presa, rendendosi però conto ben presto che i governi e le autorità militari intendevano far uso delle riprese principalmente a scopo propagandistico. La facoltà delle immagini cinematografiche di coinvolgere emotivamente lo spettatore (e, nel caso di una fiction, di consentirgli di immedesimarsi nella vicenda ‘esemplare’ del protagonista) faceva della macchina da presa non soltanto un mezzo artistico, ma anche un prezioso strumento di mistificazione ideologica ed estetica.[28] Il protagonista, Serafino Gubbio, sebbene ‘giri la manovella’ non riesce a fermare alcuna verità, dal momento che i soggetti che egli inquadra, ossia gli attori, sono sempre sfuggenti sia come persone, giacché la loro vita è insulsa, sia come personaggi, poiché il film di cui fanno parte è insulso e meramente commerciale.
In definitiva, ci sembra che entrambi i testi proposti nella tipologia ‘A’, contrariamente a quanto è stato affermato nel citato articolo di Giunta sopra ricordato, non impongano svolgimenti moralistici, bensì aiutino il lettore a prendere consapevolezza di alcune realtà ambigue del mondo di ieri e di oggi. Tanto c’è da dire su ciascuna delle due proposte, e ciò conferma appieno l’osservazione di Gabriele Cingolani, secondo il quale è ingiustificato l’entusiasmo di chi le ha qualificate sbrigativamente come ‘facili’.[29] Per inciso, è stato notato da taluni che entrambi gli autori proposti avevano dato la loro convinta adesione al fascismo. Francamente questo ci sembra irrilevante, data la loro statura artistica ed etica (l’opera di Pirandello, poi, funge davvero come un antidoto non soltanto ai regimi totalitari, ma anche al conformismo e alla massificazione), mentre sarebbe forse più interessante osservare la loro diversa posizione davanti alla guerra, con un Ungaretti decisamente filo-francese e un Pirandello altrettanto convintamente filo-tedesco (si veda la novella Berecche e la guerra), a testimonianza dei legami culturali che i letterati avevano stabilito in una loro ideale ‘Europa delle lettere’, legami che determinavano simpatie e affinità di là dalle scelte diplomatiche nazionali, e che conferivano all’intellettuale uno sguardo diverso e difficilmente riducibile a categorie di comodo.[30]
La proposta ‘B1’ presenta uno stralcio riguardante la Guerra fredda, tratto da un saggio storiografico generale di Giuseppe Galasso sulla storia europea nell’età contemporanea. Il brano proposto, privo di tagli, è del tutto chiaro nel linguaggio, come si conviene all’autore, e dovrebbe essere inquadrato correttamente da un candidato di medio livello. Esso è stimolante proprio nel suo ‘dire poco’, poiché fornisce soltanto gli elementi essenziali, con una terminologia ridotta alle espressioni di ‘guerra fredda’ e di ‘equilibrio del terrore’, lasciando in tal modo ampio spazio ai candidati per una ricostruzione più puntuale del quadro storico internazionale. Quest’ultimo, nella libera elaborazione degli studenti, anche senza fare troppo ricorso al nozionismo, dovrebbe però includere alcuni aspetti fra quelli che indichiamo di seguito. In primo luogo, è possibile fornire una spiegazione dei fondamenti alla base della contrapposizione fra le due ‘superpotenze’ sotto gli aspetti ideologico (liberalismo vs comunismo), economico (liberismo vs pianificazione centrale), dell’organizzazione politica di riferimento (democrazia liberale vs ‘democrazie’ popolari a partito unico), delle scelte strategico-militari (NATO vs Patto di Varsavia). In secondo luogo, è opportuna una disamina delle strategie di confronto diplomatico, in particolare della dottrina Truman (sintetizzata, in base alla fortunata espressione di George Kennan, nell’espressione di Containment), del blocco di Berlino, e della costituzione del Patto Atlantico a guida USA (con la NATO) e del Patto di Varsavia a guida URSS. Va detto che il brano non cita le guerre che le superpotenze hanno provocato e combattuto alternativamente, affrontandosi a distanza sui campi di battaglia di Corea e Vietnam attraverso le loro ‘pedine’ internazionali (è fin troppo facile riscontrare esempi nella bruciante storia ‘in corso’).[31]
Le richieste della traccia invitano i candidati a presentare sinteticamente il contenuto del testo; a spiegare «il significato delle espressioni “guerra fredda” ed “equilibrio del terrore”»; a chiarire «per quale motivo l’uso dell’arma atomica provocherebbe una catastrofe totale delle possibilità stesse di vita dell’intera umanità»; a individuare «le considerazioni che, secondo l’autore, motivano la lotta contro la proliferazione delle armi atomiche e per il disarmo». Riguardo all’equilibrio determinato dall’arma atomica, giustamente Galasso scrive che il potenziale distruttivo dei nuovi ordigni «costringeva tutti i contendenti al paradosso di una pace obbligata», ma pone altresì in rilievo la responsabilità dei decisori politici ai massimi livelli nel riconoscere il punto di non ritorno insito nell’impiego di tale arma; tema cui si aggiunge, di contro, il dilemma su che cosa sarebbe potuto accadere se l’arma atomica fosse stata nelle mani di capi «fanatici o irresponsabili o disperati o troppo potenti». E qui sta l’attualità del problema, poiché, come ha scritto Antonio Carioti, «il fatto che oggi possiedano bombe atomiche Paesi al centro di gravi tensioni impone sforzi per impedire un’ulteriore diffusione di quelle armi, ancora più necessari di quando ne scriveva Galasso».[32] Permane il dubbio implicito, tuttavia, su chi decida, e come, i casi in cui ricorrano tali caratteristiche: su chi e perché, insomma, abbia il diritto di detenere armi generalmente classificabili come non convenzionali.
La parte relativa alla ‘Produzione’ chiede al candidato se «il cosiddetto ‘equilibrio del terrore’ possa essere considerato efficace anche nel mondo attuale», oppure se ritenga che «l’odierno quadro geopolitico internazionale richieda un approccio diverso per affrontare gli scenari contemporanei», con l’invito a sviluppare le argomentazioni facendo riferimento alle sue conoscenze degli avvenimenti internazionali (e qui il candidato aveva la possibilità di espandere più o meno il discorso, a proprio giudizio, sia sulla Guerra fredda sia sulla situazione attuale), anche richiamando «opere artistiche, letterarie, cinematografiche e/o teatrali attinenti all’argomento». Per quanto riguarda la risposta alla domanda, Tommaso Montesano non ha avuto dubbi: «Rispondendo alla traccia, scriverei: no, non ritengo che l’‘equilibrio del terrore’ sia replicabile oggi: la formula è giusta, ma gli attori attuali la rendono inapplicabile».[33]
La proposta ‘B2’ propone un brano tratto da un articolo di Maria Agostina Cabiddu sulla ‘bellezza’ dell’Italia, ovvero su quell’«immenso patrimonio naturale e culturale» della penisola, considerato con lo sguardo della docente di Diritto amministrativo e pubblico presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani del Politecnico di Milano. Si tratta di uno stralcio di indubbio interesse, estrapolato da un più ampio saggio (di cui però la traccia non riporta purtroppo l’illuminante titolo di Diritto alla bellezza),[34] e presenta contenuti sostanzialmente chiari nonostante i ben tre tagli operati. Unico supporto al testo è una nota a piè di pagina con la spiegazione del vocabolo ‘pretermesso’, che si coniuga come ‘mettere’, e non dovrebbe creare alcun problema a un candidato al termine del quinto anno nell’individuarne l’infinito per cercare la voce nel dizionario (al contrario avrebbe richiesto la traduzione in nota, per ovvi motivi, l’espressione pleno iure).
Le consegne, nella prima parte di ‘Comprensione e analisi’, come ormai è di regola chiedono al candidato di riassumere il contenuto del brano «nei suoi snodi tematici essenziali»; di seguito lo studente è sollecitato a riflettere sull’aggettivo ‘lungimirante’ in riferimento alla «intuizione dei Costituenti»; a precisare le ragioni dell’affermazione secondo cui «la coscienza della funzione civile del patrimonio storico-artistico non è mai, nel frattempo, venuta meno»; e infine a spiegare perché, secondo la studiosa, la crescente domanda di bellezza non possa rientrare nella «categoria dei ‘beni di lusso’». Nella parte relativa alla ‘Produzione’ si invita il candidato a elaborare un testo in cui sia sviluppato un «ragionamento sulla tematica proposta nel brano», curando di organizzare gli argomenti «in un testo coerente e coeso».
È noto che in tema di tutela dell’ambiente la legge costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 2022 è intervenuta sugli articoli 9 e 41 della Costituzione, sia con l’inserimento del comma finale all’art. 9, che indica i beni comuni da tutelare («l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» nonché gli animali) e i soggetti che partecipano di questo interesse giuridico («anche nell’interesse delle future generazioni»), sia con alcune integrazioni ai commi 2° e 3° dell’art. 41, dove la funzione sociale del diritto di proprietà viene meglio declinata e precisata nella sostenibilità ambientale, un concetto nel cui ambito devono trovare realizzazione i principi di solidarietà e di uguaglianza sostanziale. Tuttavia il discorso dell’autrice risale a due anni prima della legge citata, e ciò costituisce un motivo di perplessità riguardo alla scelta del brano, poiché esso inevitabilmente induce ad affrontare il tema in prospettiva ‘storica’, mentre (almeno a nostro avviso) sarebbe stato forse più vantaggioso fornire ai candidati elementi utili a considerare l’attualità della modifica costituzionale.
La Costituzione dunque, in linea con l’Obiettivo 11 di Agenda 2030, pone oggi un limite più cogente all’iniziativa privata, affinché la legittima libertà economica non sia il presupposto per una rottura dell’equilibrio dell’ecosistema. Per favorire l’azione didattica il MIM, in coerenza con il PNRR, ha avviato un Piano di RiGenerazione Scuola,[35] ed ha approvato una Carta per l’educazione alla biodiversità.[36] Tali testi costituiscono un punto di riferimento sicuro per rilanciare il tema nella didattica di Educazione civica. Per quanto riguarda l’educazione ambientale, riteniamo che la letteratura possa fornire spunti culturali ed etici di grande rilevanza, soprattutto tenuto conto che gli studi critici di ecologia letteraria[37] hanno compiuto notevoli progressi nell’analisi di opere di autori che non fanno dell’ambiente un mero scenario della loro narrazione, bensì ne fanno la sostanza della narrazione attraverso molteplici istanze: la ricerca nel mondo naturale di nuovi temi narrativi, e l’originalità del modo di raccontarli; la conservazione e la trasmissione di un ‘sapere’ ecologico che nella società odierna, urbanizzata e tecnologizzata, rischia di andare perduto; l’intuizione dell’interdipendenza fra uomini, piante e animali in un ecosistema ove le relazioni, ben più complesse di quanto non appaia all’ottica antropocentrica, sollecitano una nuova consapevolezza del principio di collettività per garantire la convivenza di specie diverse. I ‘classici’ che possono essere proficuamente inclusi nella didattica sono di tutta evidenza, a cominciare da Mario Rigoni Stern. Ci limitiamo qui a rammentare, per l’utilità di una ricognizione diacronica, il pregevole volume antologico I boschi dei poeti (1995),[38] e a indicare alcuni romanzi di recente pubblicazione nell’ambito della letteratura ambientale: Cuore nero di Silvia Avallone, Il ritorno è lontano di Alessandra Sarchi, L'età fragile di Donatella Di Pietrantonio, Giù nella valle di Paolo Cognetti, Le altalene di Mauro Corona, La conca buia di Claudio Morandini, e infine – come ultimo titolo di questo catalogo imperfetto – La tribù degli alberi, originale opera narrativa del botanico Stefano Mancuso.[39]
La proposta ‘B3’ verte su un brano estrapolato dal saggio di Nicoletta Polla-Mattiot, Riscoprire il silenzio, ove la studiosa offre un’interpretazione del silenzio secondo la prospettiva originale di una sorta di preparazione alla comunicazione e sostanza della comunicazione stessa. Il silenzio è difatti a suo giudizio necessario perché da esso scaturisce una parola autentica, che cerca il dialogo e lo mantiene alternandosi al silenzio inteso come momento di ascolto. La provocazione nei confronti dei giovani candidati risiede proprio nella sfida a concepire il silenzio sotto un duplice aspetto: il silenzio non è un vuoto che si debba riempire a ogni costo (se la logorrea contraddistingue ormai certi dirigenti scolastici e insegnanti, come si constata negli organi collegiali, come potrebbe non sedurre anche gli studenti?), ma non può neanche essere l’unica dimensione della persona, poiché la natura umana è predisposta alla relazione e l’individuo non può confinarsi nella taciturnità; cosicché la parola (propria e altrui) è necessaria, ma deve essere pesata, chiarita, trovata nel silenzio. L’esercizio della parola rivolta a un destinatario, dunque, presuppone il suo contrario, ossia il silenzio, e proprio in esso si prepara la voce, che potrà saturare quel vuoto di nulla (come fanno tanti, troppi) oppure potrà colmarlo di idee e sentimenti, per poi ritornare silenzio nel tempo dell’ascolto e dell’arricchimento mediante idee e sentimenti altrui. In quel dire preparato nel silenzio, allora, si gioca la nostra libertà, poiché esso costituisce da un lato un diritto garantito nell’art. 21 della Costituzione, e dall’altro una responsabilità, come sanno i nostri migliori scrittori del secondo dopoguerra, che hanno cercato di liberare la lingua dalle incrostazioni retoriche del Ventennio fascista, e non solo.
Le domande di ‘Comprensione e analisi’ sollecitano il candidato al riassunto del contenuto del brano, con l’individuazione della tesi generale e delle argomentazioni a supporto; a spiegare l’affermazione secondo cui «la scelta di ‘smettere di tacere’ è un atto rituale di riconoscimento dell’altro»; di illustrare «le funzioni peculiari del silenzio e i benefici che esso fornisce alla comunicazione»; di chiarire l’espressione «spazio mentale prima che acustico» come luogo ove avviene la relazione tra parola, silenzio e pensiero. La parte relativa alla ‘Produzione’ sprona a commentare il brano proposto e a elaborare una riflessione sull’argomento, «organizzando la [...] tesi e le argomentazioni a supporto in un discorso coerente e coeso».
La proposta ‘C1’ rende onore alla scienziata Rita Levi-Montalcini (1909-2012), insignita di Premio Nobel per la scoperta del Nerve Growth Factor (NGF), il fattore di crescita nervoso, ossia una proteina essenziale nella crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche.[40] Sulla base degli spunti forniti dal brano citato nella traccia, al candidato è stato chiesto di riflettere, anche tenendo conto di esperienze, conoscenze e letture personali, «su quale significato possa avere, nella società contemporanea, un ‘elogio dell’imperfezione’». Il discorso della Levi-Montalcini s’inquadra ovviamente in una riflessione scientifica, che nel libro muove dall’australopiteco Lucy e giunge sino alle ricerche della studiosa, ma apre la strada anche ad altre riflessioni, come quella contenuta nell’Epilogo, in cui l’autrice si rivolge a Primo Levi come maestro negli studi sulle «tragiche conseguenze della devozione servile, dell’obbedienza incondizionata, della supina accettazione di ordini impartiti da fanatici e paranoici conduttori di popoli», chiedendogli, e chiedendosi, se sia giustificato «tessere l’elogio dell’imperfezione», e se ci si debba rallegrare «di appartenere a questa specie così esposta alle tragiche conseguenze del prevalere delle facoltà emotive su quelle cognitive nel guidare la nostra condotta».[41] Come ben si comprende, dunque, il problema è non soltanto scientifico, bensì anche etico tout court.
Viene facilmente di pensare che un tema siffatto dovrebbe costituire motivo di seria meditazione per studenti e docenti, anche attraverso un opportuno rispecchiamento nella quotidiana routine scolastica, sia negli istituti ove gli alunni sono quasi per statuto incalzati (da professori, genitori e finanche da sé stessi) alla competizione sfrenata, anziché a una più sana emulazione, sia nei consigli di classe più restii ad attribuire il dieci in Comportamento, poiché nel corso della discussione emerge regolarmente che tutti, anche i più meritevoli, hanno qualche mancanza (o, se si vuole, ‘imperfezione’) da scontare, per lieve che sia. Come ha scritto Enrico Paoli, «sentirsi imperfetti, a volte pure non all’altezza, assomiglia quasi a una vertigine»,[42] poiché oggi la perfezione sembra essere l’idolo a cui tutti devono sacrificare, a dispetto del fatto che il mondo in cui viviamo sia, con tutta evidenza, imperfetto. Pertanto, come ha osservato Beppe Severgnini, «imperfezione non vuol dire sciatteria. La sciatteria è la rinuncia preventiva a far bene. La consapevolezza dell’imperfezione, invece, spinge a cercare il meglio».[43] L’imperfezione, dunque, rivalutata in questo brano della Levi-Montalcini, può costituire un’occasione di ripensamento delle relazioni in un’ottica di inclusività, oltre che di impiego dell’errore come opportunità didattica.
La proposta ‘C2’ è forse quella che ha incontrato meno favore presso docenti e opinionisti; tuttavia, sebbene si tratti in effetti di una traccia che ci ha lasciati un po’ interdetti, per una ragione che esporremo alla fine, va detto che senz’altro è stata quella meno compresa nel suo tema più autentico, che non riguarda tanto i social network, come il titolo dell’articolo lascerebbe intendere, bensì la riflessione su di sé nella scrittura diaristica (difatti l’intero numero 104 della rivista «Liber» era dedicato al diario).[44] Il brano proposto traccia l’evoluzione del diario dalla forma intima (ossia quella di un quaderno con annotazioni quotidiane a uso personale, per indagare in silenzio e solitudine la parte più nascosta di sé, in un processo di crescita e maturazione) alla forma pubblica (quella del diario pubblicato in rete, come «rappresentazione di sé rivolta immediatamente agli altri»). Vale però la pena di osservare che l’articolo è datato: dieci anni sono molti quando ci si riferisce ai social network, cosicché il senso del blog dieci anni fa è diverso da quello di adesso. Inoltre sembra legittima la critica avanzata da Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania, riguardante soprattutto la diversità di strategie e di medium comunicativo:
«È necessario avere una tassonomia dettagliata delle strategie di comunicazione online perché a piattaforma diversa corrispondono spazi sociali, quindi strategie di relazioni sociali profondamente diverse. Il blog riproduce l’esperienza di linearità del sito web. Ogni giorno sul blog pubblico qualcosa, con una cronologia rispettata nell’aspetto formale (ovvero mi appare giorno mese anno). Il blog ha una sorta di coerenza identitaria. I social network invece sono un posto profondamente diverso. Il patto comunicativo è che tu non devi dirmi il tuo flusso di coscienza, ma ti devi connettere con altre persone e sulla base di questa connessione costruisci una tua identità pubblica: ad esempio posti un video e racconti che ti ha divertito, che tizio o caio ti sono simpatici, pubblichi il link ad un articolo letto, ecc… è una forma identitaria di messa in scena».[45]
Per quanto ci riguarda, riteniamo che le due modalità menzionate nel brano (diario privato, alla Anna Frank, e blog pubblico) abbiano la loro principale diversità non tanto nel mezzo o supporto, quanto piuttosto nell’intenzionalità che presiede alla scrittura. Ciò si evince del resto anche dal brano. Perciò ci sembra che la presenza sui social network non possa essere considerata come la trasposizione in rete del diario privato (che resta uno scritto da redigere e rileggere nello spazio dell’intimità, e da preservare da occhi indiscreti), bensì debba essere qualificata come una forma di autobiografismo pubblico, che ha una tradizione letteraria nobilissima (da sant’Agostino a Marco Polo, da Dante a Petrarca) e che, dopo il modello delle Confessioni di Rousseau, ha avuto larga e popolare diffusione dall’Ottocento risorgimentale, soprattutto con il profluvio di memorie di guerra di garibaldini, di combattenti della Prima e della Seconda guerra mondiale, della Resistenza e dell’internamento nei lager, con lo scopo generale, se così possiamo dire, di far valere le ragioni della vita accanto a quelle della storia (si pensi, per citare un solo titolo, all’importanza anche come modello de I miei ricordi di Massimo d'Azeglio).[46] Dal carattere ‘pubblico’, fin dalle intenzioni, di un autobiografismo discende altresì la sua natura di scrittura non necessariamente e non del tutto attendibile, poiché se nello spazio esclusivamente privato il soggetto può misurarsi apertamente con la propria coscienza, in uno spazio pubblico si frappongono senz’altro filtri che diminuiscono o distorcono il grado di sincerità, in termini di amplificazioni di meriti, omissioni di verità ‘scomode’, deformazioni di sentimenti ed emozioni, che si aggiungono alle dimenticanze legate a fattori mnestici. Non è quindi il social network a trasformare il privato in pubblico, bensì l’intenzionalità dello scrivente. In definitiva, quindi, riteniamo che lo stralcio dall’articolo di Caminito possa aver indotto a banalizzare il problema, sotto gli aspetti ricordati, e che le consegne (ove si chiede di esporre il proprio punto di vista sul «mutamento che ha subìto la scrittura diaristica a causa dell’affermazione dei blog e dei social») possano aver orientato a semplificarne eccessivamente i termini.
[1] L. Beatrice, Ungaretti, Pirandello e l’incubo della guerra. Questa volta la maturità mette tutti d’accordo, «Libero», 20 giugno 2024.
[2] M. Prando, Prima prova, una proposta vera di libertà prima che la vita porti altrove, «Il Sussidiario.net», 20 giugno 2024 (pagina consultata il 21 giugno 2024).
[3] F. Foschi, L’io tra guerra, silenzio e pace: il filo che lega le 7 tracce della prima prova, «Il Sussidiario.net», 20 giugno 2024 (pagina consultata il 21 giugno 2024).
[4] C. Giunta, Abolire la maturità? No, teniamoci l’esame di stato e aboliamo Ungaretti, «Il Foglio», 20 giugno 2024.
[5] I. Venturi, La maturità degli Stregati. I sei finalisti del premio letterario si cimentano con le tracce. Uno studente su tre sceglie il diario nell’era digitale, «Repubblica», 20 giugno 2024.
[6] Vd. le Tracce della prima prova nel Sito web del Ministero dell’Istruzione e del Merito (pagina consultata il 21 giugno 2024).
[7] Per le scelte vd. Rapporto sintetico delle scelte della prima prova nel Sito web del Ministero dell’Istruzione e del Merito (pagina consultata il 21 giugno 2024).
[8] V. Conti, Profonde e attuali. Tracce “promosse”, «Il Tempo», 20 giugno 2024.
[9] A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, 3a ed., Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
[10] G. Guglielmi, Interpretazione di Ungaretti, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 21.
[11] Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 1990, p. 384.
[12] Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Krumm, T. Rossi, Milano, Skira, 1995, p. 280.
[13] Per l’alternanza del plurale budelli/budella vd. Budelli o budella?, in «La Grammatica italiana», Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012, ad vocem. La variante è registrata in Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Sanguineti, vol. 2, Torino, Einaudi, 1971, p. 852.
[14] G. Ungaretti, Sentimento del tempo, Roma, Edizioni di Novissima, 1936.
[15] G. Ferrata, Dai molti all’uno, in F. Mollia, Nostro Novecento. Antologia della critica, della poesia e della narrativa italiana contemporanea, Roma, Cremonese, 1961, pp. 376-382: 377.
[16] P. Guaragnella, Scritture dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande Guerra, in S. Magherini (a cura di) In trincea. Gli scrittori alla Grande Guerra. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze, 22, 23, 24 ottobre 2015), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2017, pp. 161-184: 164.
[17] G. Ungaretti, Tutte le poesie, a cura di C. Ossola, Nuova ed., Milano, Mondadori, 2009, p. 758.
[18] G. Langella, Ecce homo. Qualche conclusione sulla letteratura alpina di gesta, in M. Ardizzone (a cura di) Scrittori in divisa. Memoria epica e valori umani. Atti del Convegno in occasione della LXXIII adunata dell'Associazione Nazionale Alpini (Brescia, 8-9 maggio 2000), Brescia, Grafo, 2000, pp. 163-190.
[19] Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, nuova ed., a cura di A. Cortellessa, Milano, Bompiani, 2018, p. 267.
[20] G. Cambon, La poesia di Ungaretti, Torino, Einaudi, 1976, p. 42.
[21] D. Rondoni, Aprire gli occhi sulla guerra, «Quotidiano Nazionale», 20 giugno 2024.
[22] D. Di Pietrantonio, Quegli uomini in trincea di Ungaretti così fragili e incredibilmente attuali, «Repubblica», 20 giugno 2024.
[23] G. Ungaretti, Lettere a Soffici: 1917-1930, a cura di P. Montefoschi, L. Piccioni, Firenze, Sansoni, 1981, n. 7, citato in P. Guaragnella, Op. cit., p. 173.
[24] P. Bertetto, Fritz Lang: Metropolis, 4a ed., Torino, Lindau, 2007, pp. 101-136: 104.
[25] L. Pirandello, Previsioni sulla fine e sugli effetti di questa guerra, in «Noi e il Mondo», I aprile 1915 (ora in Interviste a Pirandello, a cura di I. Pupo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 113). Si ribadisce la gratitudine a Gino Tellini per la segnalazione del brano nel corso di una sua lezione.
[26] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Milano, Mondadori, 1974, p. 5.
[27] D. Voltolini, La capricciosa manovella di Pirandello che gira con l’arte e frena sulla scienza, «Repubblica», 20 giugno 2024.
[28] G. Alonge, Cinema e guerra. Il film, la Grande Guerra e l'immaginario bellico del Novecento, Torino, UTET, 2001; G. Ghigi, Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande Guerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014; A fuoco l'obiettivo! Il cinema e la fotografia raccontano la Grande Guerra, a cura di A. Faccioli, A. Scandola, Roma-Bologna, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema-Persiani, 2014.
[29] G. Cingolani, Serafino va all’Esame: dove ci conduce questa traccia?, «La letteratura e noi.it», 24 giugno 2024 (pagina consultata il 27 giugno 2024).
[30] Vd. al proposito M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Bologna, Il Mulino, 2014.
[31] Per ricomporre un quadro di riferimento utile nella didattica scolastica vd.: S. Jeannesson, La Guerra fredda. Una breve storia, Roma, Donzelli, 2003; S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Milano, B. Mondadori, 1997, pp. 117-158; Idem, Storia degli ultimi cinquant'anni. Sistema internazionale e sviluppo economico dal 1945 a oggi, Milano, B. Mondadori, 1999; A. Lepre, Guerra e pace nel XX secolo. Dai conflitti tra Stati allo scontro di civiltà, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 267-305; P. Villani, La civiltà europea nella storia mondiale, vol. 3: L'età contemporanea: XIX-XX secolo, 3a ed., Bologna, Il Mulino, 1998; E. Di Nolfo, La guerra fredda, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all'età contemporanea, diretta da N. Tranfaglia, M. Firpo, Vol. 9: L’Età Contemporanea, t. 4: Dal primo al secondo dopoguerra, Torino, UTET, pp. 659-684.
[32] A. Carioti, Galasso, i due blocchi e la Storia d’Europa, «Quotidiano Nazionale», 20 giugno 2024.
[33] T. Montesano, Se la Guerra fredda faceva meno paura del mondo di oggi, «Libero», 20 giugno 2024.
[34] M.A. Cabiddu, Diritto alla bellezza, «Rivista AIC», 4 (2020), pp. 367-385. Non va taciuto che la studiosa è anche autrice di altre importanti opere (da noi non conosciute direttamente, ma che citiamo per completezza d’informazione), quali: Eadem, Bellezza: per un sistema nazionale, Napoli, Doppiavoce, 2021; Eadem, Bellezza, in La Costituzione… aperta a tutti, a cura di M. Ruotolo, M. Caredda, 2a ed., Roma, TrE-Press, 2020.
[35] Vd. il Sito del MIM alla pagina dedicata (pagina consultata il 25 giugno 2024).
[36] Vd. la Carta per l’educazione alla biodiversità nel Sito del MIM alla pagina dedicata (pagina consultata il 25 giugno 2024).
[37] Opere generali: Ecocritica. La letteratura e la crisi del pianeta, a cura di C. Salabè, Roma, Donzelli, 2013; N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017. Una pubblicazione recente su un autore centrale del canone, a cura del Liceo G. Leopardi di Recanati: Natura e paesaggio in Leopardi. Atti del primo seminario di didattica leopardiana, Loreto, Principato, 2023.
[38] Fondazione Sir Walter Becker pro-silvicultura-Ministero delle Risorse agricole, alimentari e forestali, I boschi dei poeti, a cura di A. Alessandrini, L. Bortolotti, Roma, ABETE, 1995.
[39] S. Avallone, Cuore nero, Milano, Rizzoli, 2024; A. Sarchi, Il ritorno è lontano, Firenze-Milano, Bompiani, 2024; D. Di Pietrantonio, L'età fragile, Torino, Einaudi, 2023; P. Cognetti, Giù nella valle, Torino, Einaudi, 2023; M. Corona, Le altalene, Milano, Mondadori, 2023; C. Morandini, La conca buia, Milano, Nottetempo, 2023; S. Mancuso, La tribù degli alberi, Torino, Einaudi, 2022. Del tema si è occupato più volte, nella sua veste di critico militante, Gino Ruozzi, che ringraziamo; vd.: G. Ruozzi, Quanto male (umano) tra i monti, «Il Sole 24 Ore», 4 febbraio 2024; Idem, Miraggio di un mondo migliore, «Il Sole 24 Ore», 14 aprile 2024.
[40] R. Levi-Montalcini, Nerve growth factor, in Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Roma, Treccani, 2007, ad vocem.
[41] R. Levi-Montalcini, Elogio dell'imperfezione, a cura di A. Boselli, E. Vinassa de Regny, Milano, Garzanti, 1988, pp. 228-229.
[42] E. Paoli, L’elogio dell’errore e l’imperfezione vista come qualità, «Libero», 20 giugno 2024.
[43] B. Severgnini, Levi Montalcini e “l’imperfezione”, «Corriere della Sera», 20 giugno 2024.
[44] Vd. il sommario di LiBeR 104, Ottobre/Dicembre 2014.
[45] D. Turrini, Maturità 2024, il prof di sociologia: “La traccia sul digitale con un articolo del 2014 sui blog? I ragazzi hanno tutta la mia vicinanza morale”, «Il Fatto quotidiano.it», 19 giugno 2024.
[46] M. d'Azeglio, I miei ricordi, a cura di A. Pompeati, Torino, UTET, 1979.