Alessandro Di Muro - Tra DeLillo e Paul Auster: una breve ricognizione tra i rifiuti

Un pianeta disabitato, dove esseri alieni il cui sistema respiratorio è adattabile al biogas discendono e constatano l’enorme discarica, la stipata congerie di ciò che la specie è stata. Palazzi fossili, muri crollati, macchine sospese. Per secoli, silenzio: il regno del biogas. Mutazioni della vegetazione. La vita che continua strenuamente, inutilmente, priva di progetto, allo stato preprimario. Noi, i rifiuti.

Giuseppe Genna, Dies irae

 

1 - DeLillo: da oggetti a rifiuti

 

Se ipotizzassimo l'esistenza di un filone 'oggettistico' della letteratura americana postmoderna, dovremmo senza dubbio includervi uno scrittore come DeLillo. Proviamo a spiegare questa affermazione occupandoci del suo capolavoro, Underworld. In questo oceanico romanzo il tema dei rifiuti è a tal punto fondamentale che si è tentati di pensare al discorso sulla spazzatura come al suo nucleo narrativo più autentico. In realtà non si tratta soltanto di rifiuti: l'intera struttura narrativa è basata sul ciclo di nascita vita e morte degli oggetti materiali. Per quasi novecento pagine DeLillo ci fa sentire la presenza di oggetti di ogni tipo, tanto che potremmo affermare che un ipotetico campionario degli articoli materiali nominati in questo romanzo potrebbe quasi esaurire la totalità degli oggetti esistenti. Elencati, descritti, celebrati o soltanto sfiorati nella narrazione, gli oggetti di DeLillo non sono affatto immobili. Il loro movimento è ben visibile e assomiglia ad un cerchio che ruota dall'alto al basso e viceversa. Si tratta di un percorso obbligato, ossia quel cammino che nella civiltà consumistica americana dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri porta ogni giorno milioni di beni di consumo a essere gettati via e a putrefarsi sottoterra. Tuttavia, quel 'sottomondo' che emerge sin dalle prime pagine in forma di rifiuti organici, tossici e nucleari sembra destinato a prendere lentamente il posto del 'mondo superiore', disegnando nuovi scenari per le metropoli americane. Ma Underworld (come la leggendaria pellicola del regista Eisenstein, Underwelt) significa anche sottomondo storico: in questo senso, il capolavoro di DeLillo è un incrocio di narrazioni di piccoli eventi che fanno da contraltare ai grandi eventi della storia ufficiale. Vicende private o comunque scartate dalla grande storia vengono recuperate e messe in primo piano all'insegna di un solo grande credo filosofico: ciò che apparentemente sembra un rifiuto senza alcuna importanza merita pari (se non più) considerazione delle cose ancora integre.

Underworld

Waste, ovvero rifiuti, è una parola interessante, che si può rintracciare nell'inglese antico e nel norvegese antico e si può far risalire al latino, con derivati quali vuoto, svanire e devastare.

Don DeLillo, Underworld


La trama di Underworld assomiglia a una serie di rimbalzi temporali di una palla da baseball, la palla protagonista di una celebre partita giocata a New York nel 1951. Quando viene colpita da Thomson per l'incredibile fuoricampo che regala il campionato ai Giants, la palla non smette più di viaggiare: da quel momento, non tanto più nello spazio, quanto nel tempo. La palla diventa un feticcio di valore sempre più crescente, un oggetto da collezione, un pezzo di storia e di società dell'America del dopoguerra, un'America segnata dal consumismo e dalla paura dell'atomica sovietica. Underworld è la storia a ritroso di quella palla e di tutte le persone che l' hanno posseduta, perciò è una storia che contiene molte altre storie che procedono e si intersecano nel tempo. Si tratta di un arco temporale di quasi cinquant'anni, nel quale l'unica certezza assoluta sembra essere la costante presenza di rifiuti di ogni genere. La palla diventa nel corso degli anni un cimelio epocale, un oggetto dall'alone magico conservato come le reliquie di un santo. Naturalmente è anche il simbolo della società americana produttrice di spettacolo e di eventi collettivi memorabili, di una società benestante che va allo stadio a divertirsi e a produrre tonnellate di spazzatura senza quasi accorgersene. Chi invece se ne accorge è il protagonista Nick, il quale lavora in una compagnia per lo smaltimento dei rifiuti. Il suo è un compito delicato e fortemente simbolico: occuparsi dello smaltimento degli ordigni nucleari mai utilizzati nella guerra fredda. A differenza degli altri personaggi, Nick ha un'altra fondamentale caratteristica: diventando l'ultimo possessore della famosa palla da baseball, egli può finalmente raccontare la storia. Da semplice personaggio egli diviene voce narrante, con il compito di rimettere assieme i cocci della storia. Da una parte, dunque, il Nick personaggio occulta rifiuti nucleari, dall'altra, con un movimento opposto e complementare, la sua voce narrante rievoca cinquant'anni di storie private e collettive del mondo americano del dopoguerra, il tutto osservato e raccontato sotto la luce inquietante della spazzatura. In pochi lo vogliono ammettere, ma i rifiuti sono divenuti un'entità importantissima nella società odierna, la loro mole cresce a vista d'occhio e finisce per modificare aspetto e morfologia delle città.
Se selezioniamo un brano che si riferisce alla primavera 1978, una sezione centrale del libro, osserviamo come la commistione tra paesaggio naturale e mondo dei rifiuti non solo venga percepita come naturale, ma persino, senza alcuna retorica, esaltata.

Ecco dunque l'amore incondizionato per l'oggetto materiale, un amore che si spinge ben oltre il processo vitale dell'oggetto stesso. In fin dei conti oggetti e rifiuti sono la stessa cosa vista in un momento diverso del ciclo di produzione, utilizzo e morte che li contraddistingue. Prima o poi ogni oggetto sarà rifiuto. Gli oggetti speciali, quelli che tramandano una storia ed emanano una luce speciale, come la palla del fuoricampo di Thomson, acquistano con il tempo un valore quasi religioso, di quella religione laica e collettiva che contraddistingue ogni immaginario sociale. Ma anche i rifiuti, a loro modo, possono diventare entità religiose.
È possibile provare riverenza religiosa osservando una discarica? Si può amare un rifiuto come si ama un oggetto bello e ancora in vita? Questi sono gli interrogativi che DeLillo ci spinge a porci. Soprattutto, Underworld appare come un interminabile monito a non ignorare i rifiuti, a smettere di fingere che non esistano. Che ci piacciano o ci disgustino, ciò ha poca importanza: essi sono parte della nostra vita e lo saranno per sempre. Se proprio non riusciamo ad amarli, almeno proviamo a rispettarli, come si rispetta una vecchio ricordo di se stessi.
Underworld insegna anche che è possibile trasformare qualsiasi tipo di rifiuto in qualcosa di bello, o almeno di migliore. L'artista Klara Sax recupera B-52 pronti per lo sfascio e li utilizza per grandiose creazioni artistiche nel mezzo del deserto, mentre suor Hoover si occupa di riabilitare relitti umani di ogni genere, scartati da tempo dal consorzio civile. Lo stesso DeLillo, come autore (ma anche il protagonista Nick in quanto voce narrante), fa un'operazione del tutto simile. Nel raccogliere materiale per la sua opera sembra non voler privarsi di nulla, utilizza e riutilizza con maestria assoluta scarti di storie private e collettive, personaggi noti a tutti e figure inventate, stralci di autobiografia e microstorie di gente sconosciuta, eventi che hanno cambiato la storia e pure finzioni narrative. Il risultato assomiglia a un enorme mostro narrativo composto di materiali diversi amalgamati tra loro, un'infinita rete di storie collegate tra loro la cui struttura racchiude il significato intero dell'opera.

 

2 - Paul Auster: linguaggio e rifiuti

 


dedicato ai batteri, agli scarabei stercorari, ai saprofagi,
agli artigiani delle parole – i trasfiguratori, i restauratori

A.R. Ammons, Garbage


Paul Auster è uno scrittore molto interessato agli oggetti e ancor di più al linguaggio, essendo anch'esso, in fin dei conti, un insieme di oggetti con i quali interagire. Sia nel primo romanzo della Trilogia di New York[1], Città di vetro, che nel quasi contemporaneo Nel paese delle ultime cose [2], si osserva da parte dello scrittore newyorkese un'attenzione quasi spasmodica per la tematica del rapporto tra oggetti e parole. Tale rapporto viene visto in entrambi i casi in chiave negativa, come un vecchio legame ormai usurato e pronto a sfilacciarsi e trasformare tutto in rifiuti. Come ha giustamente evidenziato Mili Romano [3], Il paese delle ultime cose sembra influenzato in maniera decisiva dal saggio di Michel Foucault Le parole e le cose (e lo è, se pure in modo misura minore, anche Città di vetro). Se tuttavia nel saggio del filosofo francese la caduta del rapporto tra cose e parole è proposta in senso metaforico, a suggerire, più che a spiegare, la fine del valore interpretativo del linguaggio, in questi due romanzi Auster trasferisce il discorso su un piano concreto, fisico.
Il vecchio Stillman, figura-chiave di Città di vetro, è un pazzoide che va a caccia di rottami e scarti di ogni genere nelle strade di New York, perseguendo il suo folle disegno atto a salvare l'umanità. La sua attività principale è quella di dare nuovi nomi agli oggetti di volta in volta raccattati per strada, nella speranza di ricomporre, letteralmente pezzo per pezzo, la prima incorrotta lingua usata dall'uomo, quella edenica.
Il figlio di Stillman, segregato in una stanza dal padre per nove anni e divenuto cavia di un brutale esperimento linguistico (nella folle speranza che il piccolo parlasse spontaneamente la lingua edenica), è stato rifiutato dal padre stesso a esperimento fallito. Dopo essere stato segregato per così tanto tempo, il povero Peter Stillman non è capace di parlare in modo articolato, ma si esprime confusamente e ripete spesso le stesse cose. A fare da contraltare alla cianfrusaglia che il vecchio padre raccoglie per le strade, dunque, sono questi scarti linguistici e semantici del figlio:

Mi chiamo Peter Stillman. Non è il mio vero nome. Il mio vero nome è Peter Coniglio. D'inverno sono mister White, in estate mister Green. Ne pensi quel che le aggrada. Lo dichiaro di mia spontanea volontà. Clic succhiello scricchiabriciola ciac ciac. È bellissimo, non crede? Creo parole come queste in continuazione. Non posso farne a meno. Mi escono di bocca da sole. Non sono traducibili [4].

Da una parte i rifiuti verbali del figlio, dall'altra i rifiuti materiali raccolti dal padre in una sacca: entrambe le attività non fanno altro che dichiarare l'impossibilità di relazionarsi al mondo contemporaneo nonché la difficoltà di decifrarlo, descriverlo, ridurlo a un oggetto semplice con cui collaborare.
In modo del tutto simile, anche se il contesto cambia decisamente, nel Paese delle ultime cose la possibilità stessa di comunicazione appare minacciata nelle sue fondamenta, poiché l'erosione degli oggetti trascina con sé quella del linguaggio. È la protagonista Anna Blume a raccontarci questo processo e a testimoniare la devastazione della città pagina per pagina, per evitare che anche il racconto si trasformi in rifiuto.

Le parole di solito hanno una durata leggermente più lunga delle cose, ma alla fine anch'esse decadono insieme con le rappresentazioni che un tempo evocavano. Intere categorie di oggetti scompaiono – vasi da fiori, per esempio, o filtri di sigarette, o elastici – e per un certo periodo di tempo sei in grado di riconoscere queste parole anche se non ricordi il loro significato. Ma poi, a poco a poco, le parole divengono solo suoni, una collezione a casaccio di gutturali e fricative, una tempesta di roteanti fonemi, e finalmente il tutto va a finire in discorsi inarticolati [5].

Nella postmetropoli apocalittica dove Anna Blume è giunta, in cerca del fratello, la principale risorsa energetica è rappresentata dai Centri di Trasformazione che convertono rifiuti di ogni tipo (soprattutto cadaveri ed escrementi) in energia. Povertà e violenza hanno raggiunto livelli estremi, e di conseguenza ogni attività intellettuale è ridotta al minimo indispensabile per sopravvivere. Il linguaggio, come testimonia la protagonista, si sfalda in piccoli oggetti inqualificabili che assomigliano in tutto e per tutto ai rifiuti, in un tragico processo che decreta non soltanto la fine della cultura, ma finisce anche per tracciare i confini materiali del linguaggio, la morte fisica delle parole. Se da un lato i rifiuti vengono recuperati e riciclati in un processo perpetuo, dunque, al linguaggio non resta che la penna di Anna Blume, la quale è costretta ad agire nella propria waste land opponendosi con tutte le proprie forze alla devastazione.
Linguaggio e rifiuti, dunque, rappresentano un binomio tematico che Auster gestisce secondo modalità diverse e attraverso uno spettro emotivo che svaria dal comico al tragico, dal burlesco all'angoscioso. Ancora una volta è il vecchio Stillman a fornirci la giusta chiave di lettura in questo dialogo con Quinn.

Naturalmente, tra le numerose parole che Stillman resuscita dal lessico inglese, non si può certo fare a meno di notare tin (latta) e bin (pattumiera), due lemmi che rimandano direttamente all'idea della spazzatura, confermando l'ossessione del vecchio, e, parimenti, quella dell'autore.

Forse questo nostro dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell'Oriente.

Italo Calvino, Le città invisibili

 

3 - Background reale: i collezionisti di 'mongo'

 

Se è vero che una buona parte della critica mette in risalto il lato fittizio della narrativa di Auster e il suo costante utilizzo, nei romanzi, di materiali letterari altrui, in questa sede occorre porre in evidenza anche un altro aspetto e cioè la corrispondenza esatta tra la realtà newyorkese e alcune pagine narrate da Auster. I personaggi di Stillman e Anna Blume, raccoglitori di scarti e ciarpame, sia pure in circostanze diverse, sono figure molto interessanti poiché derivano, più che dalla fantasia dell'autore o da antecedenti letterari, direttamente dalle strade di New York. I loro corrispondenti reali sono persone in carne ed ossa che il giornalista sudafricano Ted Botha ha deciso di raccontare in un reportage giornalistico molto interessante. Il libro si chiama Mongo [6] e nasce dall'osservazione diretta di quei cittadini di New York che l'autore chiama 'collezionisti'. In questa insolita inchiesta, per certi versi sbalorditiva, Botha racconta un mondo ai più sconosciuto e sorprendentemente vicino a certe situazioni narrative incontrate nei romanzi di Auster. Il mongo, in gergo il bottino recuperato dalla spazzatura di cassonetti e marciapiedi, ha forgiato di fatto una nuova categoria di 'collezionisti' provenienti dalle più svariate estrazioni sociali e attitudini comportamentali. Si tratta di un'eterogenea tribù metropolitana composta da avventurieri, visionari, cacciatori di rarità, semplici amatori del 'ripescaggio' o convinti adepti di un nuovo stile di vita all'insegna del riciclaggio e contro lo sperpero di ogni bene, anche se minimo. Pur divergendo per tipo di oggetto cercato, modus operandi e motivazioni intrinseche al bizzarro atto di rovistare tra ogni genere di rottami, tutti i collezionisti, siano essi 'di professione' o semplici 'amatori', operano nella fondata convinzione che non tutto ciò che viene buttato sia veramente privo di valore. La città di New York, in altre parole, nasconde tesori di ogni tipo senza che la stragrande maggioranza dei suoi abitanti ne sia al corrente, e ciò avviene soprattutto a causa di un forsennato consumismo che spinge le persone a disfarsi troppo in fretta delle cose, senza valutarne bene il valore. Mongo offre un campionario davvero sterminato di oggetti finiti nella spazzatura e abilmente riabilitati dai cercatori: libri rari, gioielli finiti nelle fogne, vecchi gadget divenuti oggetti da collezione col il solo scorrere degli anni, cibi ancora impacchettati fuori dai ristoranti, mobili da arredo, monete e bottiglie antiche, vecchi documenti firmati da personaggi famosi, ma anche semplici lattine da rivendere a compagnie specializzate nel riciclaggio. I cercatori che si occupano di lattine rientrano nella categoria che Botha definisce degli 'esperti di sopravvivenza', forse meno nobile per certi versi ma in alcuni casi addirittura redditizia.

Nel Paese delle ultime cose [7] la giovane Anna Blume ci racconta gli orrori quotidiani e le difficoltà che è costretta ad affrontare per procurarsi qualche misero oggetto. Nell'immaginaria città che Auster dipinge come agghiacciante scenario del romanzo (New York vi si intuisce appena), le strade dissestate e pericolose diventano terra di conquista per i loro abitanti, pronti a tutto pur di sopravvivere.

Nella finzione letteraria pare evidente come Auster porti ai limiti estremi la caratterizzazione dello stesso personaggio di cui parla Botha. La differenza principale è che Anna Blume è costretta a raccattare rifiuti perché altrimenti non potrebbe sopravvivere, mentre la maggior parte dei collezionisti descritti da Botha iniziano quest'attività per tutt'altro genere di motivi, e col passare del tempo comprendono che non smetteranno mai più. Lo fanno per sfida o per divertimento, per un atto politico o per pura mania di collezionismo, per senso dell'avventura o semplicemente per evitare di comprare le cose. Tuttavia le qualità necessarie descritte da Anna Blume sono le stesse individuate da Botha: oltre all'abilità di saper scegliere tra quali rifiuti frugare, il collezionista di scarti deve avere la necessaria dote di immaginare le cose come fossero intere, anche se si trovano a pezzi o in condizioni pessime. Ed è esattamente ciò in cui eccelle Iver, un collezionista con l'hobby dell'arredo cui Botha dedica il capitolo nove, Il conservatore.

 

Note:


[1]P. Auster, Trilogia di New York, Torino, Einaudi, 1998.

[2]P. Auster, Nel paese delle ultime cose, Torino, Einaudi, 2003.

[3]M. Romano, Aritmie. Ultime visioni metropolitane, Bologna, CLUEB, 2003.

[4]P. Auster, Trilogia di New York, cit., p. 21.

[5]P. Auster, Nel paese delle ultime cose, cit., p. 81.

[6]T. Botha, Mongo, Milano, Isbn, 2006.

[7]P. Auster, Nel paese delle ultime cose, cit.