Giovani e Nongiovani / Chi sono i nongiovani di Don Milani? / Gianni di chi è vittima?
Quando oggi si dice “giovani” si intende, come tutti sanno, una categoria sociale anagraficamente imprecisabile. Non ha infatti più senso parlare di teenager, dove teen- indica una fascia d’età, ovvero dai tredici ai diciannove anni (in inglese, le parole per nominare tali cifre terminano in –teen: thirteen, fourteen, …, nineteen), perché “giovani” è una categoria che ha sciolto i lacci anagrafici per arrivare a esprimere una condizione sociale che definisce, o meglio indica, una realtà che si è evoluta nel tempo.
I “giovani” sono un mondo umano, sociale, culturale che nasce, in Europa, negli anni Cinquanta[1]. Nasce nel secondo dopoguerra, dopo l’incontro-scontro con la cultura americana, dopo l’avvento degli Alleati e dei loro indumenti, delle loro gomme da masticare, della loro musica, del loro cinema, dei loro fumetti… Elementi che diventano canali e simboli di un benessere da conquistare, di una diversità da raggiungere, di un’alterità che sottragga alla miseria, al tradizionalismo, al conservatorismo. Diventano quindi i simboli non tanto di una rivolta politica, quanto sociale, culturale, antropologica. Il benessere è un orizzonte possibile e sentito a portata di mano da una popolazione stremata.
La rinascita europea nel dopoguerra è pensabile, metaforicamente, pur con i dovuti distinguo, come una sorta di drammatica “corsa all’oro”: un moto di faticosa emancipazione che passa attraverso anni di duro lavoro per la riedificazione strutturale di paesi devastati dai combattimenti e dai bombardamenti, verso un domani migliore. Città da ricostruire, fabbriche da riavviare, infrastrutture da inventare, istituzioni da riformare, relazioni culturali da ripensare, servizi sociali da rianimare… In questa “corsa all’oro” in tutta Europa ci si rimbocca le maniche e si riparte tra infinite difficoltà. È una stagione di grandi contrapposizioni e scontri (basti pensare alla Guerra Fredda e al sistema di equilibri e di relazioni internazionali che essa comporta), ma è anche un momento fervido e fertile di rinascita.
Anche in Italia, pur in un clima di scontro politico, avviene la “corsa all’oro”. La rinascita economica (problematica e dolorosa) porta al miracolo economico[2], agli anni del boom. Porta alla fuga dalla miseria e all’inseguimento del benessere, fatto che comporta mutamenti antropologici e conseguenze positive per certi aspetti e negative per altri. Maggiore libertà di movimento, disponibilità economica, miglioramento nelle condizioni materiali della vita (l’uso di elettrodomestici e automobili) sono esempi delle prime, che hanno però come contrappasso le seconde: industrializzazione spesso selvaggia, inquinamento, morte del mondo contadino, edilizia forzata, emigrazione interna ed esterna, scarsa ridistribuzione delle ricchezze sul territorio nazionale, induzione a consumi prima sconosciuti, cui conseguirà un consumismo esasperato.
È in questo quadro caotico e in metamorfosi continua che nasce il “giovane”, ovvero il ragazzo che gode dei frutti della “corsa all’oro”, delle sue migliorie materiali, economiche, professionali. Per la prima volta nella storia un ragazzo ha una disponibilità economica significativa, ha possibilità di spendere e apre nuovi spazi di consumo. Diventa la nuova frontiera del commercio, del mercato.
I “giovani” iniziano ad avere una propria riconoscibilità anche grazie all’abbigliamento. Negli anni Cinquanta vedono la luce i primi “ribelli” in blue-jeans, emettono i primi vagiti i “dritti”, matti per la musica rock’n’roll e i miti del cinema. Appaiono inoltre i primi dancing, fatto culturalmente fondamentale per l’Italia. Se infatti fino a quel momento esistevano “balere” frequentate da genitori e figli, ora vengono offerti luoghi solo per i secondi. È una frattura netta. L’eterno conflitto genitori-figli, che nella tradizione doveva concludersi con un “seguire le orme paterne”, ora non ha più un esito così scontato. Nella realtà italiana avviene una frattura culturale: l’educazione di tipo verticale, fino a quegli anni vissuta in famiglia, viene sostituita da una di tipo orizzontale, vissuta nel confronto coi coetanei[3]. È un mutamento di modelli, ormai esterni e non più interni al nucleo familiare. Talmente esterni da poter essere mutuati dal cinema o dalla televisione, ad esempio. È l’inizio di quel percorso antropologico di mutamento del quale Pier Paolo Pasolini leggerà la degenerazione e la definirà “acculturazione”, ovvero il processo omologante che tende ad annullare in chiunque ogni tipo di diversità e di peculiarità, siano esse legate al luogo di provenienza, alla lingua o alla cultura in senso lato.
I giovani ribelli in blue-jeans, “dritti” con il mito delle moto, delle ragazze, del rock’n’roll, di James Dean e Marlon Brando, figli dei modelli cinematografici e musicali d’oltreoceano, sono il primo campanello d’allarme di una società che, se da un lato sta raggiungendo una condizione di benessere economico o presunto tale, dall’altro mina alla base una struttura solida e nota, fondamento di una convivenza, di un sistema relazionale risalente alla notte dei tempi. I giovani ribelli vogliono godersi la loro gioventù e la disponibilità economica, seppur misera, di cui possono usufruire. Ricercano un proprio spazio, si rendono visibili attraverso il look, acquistano oggetti di consumo (motociclette, automobili, dischi, vestiti). Vogliono costruirsi una nuova identità, loro, peculiare, che li distingua dai genitori e da tutte le generazioni che li hanno preceduti. Vogliono vivere senza dover diventare immediatamente dei “giovani-adulti”, ovvero ragazzi che, non appena in età da lavoro, spesso ancor prima di essere liberi dagli obblighi scolastici, iniziano a calcare le orme lavorative dei padri. Ragazzi subito adulti perché devono affrontare, appunto da subito, problemi da adulti.
Ai giovani ribelli seguiranno altri movimenti giovanili, ognuno con le proprie peculiarità. Semplificando e schematizzando: arriveranno i beat[4], arriverà “l’esercito del surf”, la musica continuerà ad avere un ruolo fondante. Si appannerà il mito di James Dean, ma ne nasceranno di nuovi. I “giovani” avranno sempre più disponibilità economica, inizieranno a prendere coscienza del loro esserci, della loro potenzialità, muteranno look purché siano sempre riconoscibili e individuabili, ambiranno a “dire la loro”, a decidere per sé e per il proprio futuro, si impegneranno a cambiare il mondo, lo contesteranno, prenderanno posizioni politiche e pagheranno le conseguenze di certe degenerazioni in tale ambito, poi abbandoneranno la politica, si disimpegneranno, vorranno “semplicemente” divertirsi, senza troppe preoccupazioni, si frammenteranno in subculture e movimenti, avranno tutto e si annoieranno, diventeranno (a seconda di chi li osserva) scapestrati, incomprensibili, senza valori, “menefreghisti”, capaci di gesti sorprendenti. Diventeranno multiformi. In altre parole, a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta i “giovani” conquisteranno la scena per non abbandonarla mai più.
I giovani “giovani” invecchieranno e verranno sostituiti da altri. Ogni volta, chi si trova su questo palco, vestirà secondo determinate mode, ascolterà generi musicali piuttosto che altri, consumerà, viaggerà, si comporterà secondo particolari modelli o li contesterà, muovendosi secondo schemi alternativi.
L’immagine che esce da questa schematizzazione sembra indurre a pensare che l’educazione “orizzontale” sia in realtà diventata (o sia sempre rimasta) “verticale”, con la sola variazione del baricentro educativo: i modelli esterni non sono gli amici, ma ciò che induce comportamenti in essi: la moda, la pubblicità, il mercato… Soprattutto, però, un disegno come quello abbozzato sembra render conto di una realtà comune, una fenomenologia sociale che nasce, cresce e si sviluppa uniformemente, rivelandosi concreta e individuabile. L’Italia in cui ciò avverrebbe, però, è un paese culturalmente, socialmente, economicamente non uniforme, in cui i giovani, i ragazzi e le ragazze, non sono tutti “giovani”. È una realtà culturale, sociale, economica, linguistica variegata e complessa quella che si trova a vivere il miracolo economico. Un boom che avrà il suo epicentro nel triangolo Milano-Torino-Genova, da cui si espanderanno benefici, gradualmente, a tutto il Nord, ma verso il quale si dirigeranno flussi migratori (non solo dal Sud, ma anche, per citare un caso noto, dal Veneto) e cioè spostamenti di massa e conseguenti incontri-scontri tra culture, diverse anche se tutte italiane, in quanto antecedenti alla creazione dello Stato e perdurate indipendenti fino ad allora. Le differenze culturali, sociali, economiche e linguistiche non esistevano solamente tra Nord e Sud del paese, ma anche all’interno della stessa fascia geografica.
Non solo. A questo panorama già variegato e complesso va aggiunta la presenza di una realtà, ovvero il mondo contadino, che, per secoli centrale nell’economia e nella cultura del paese, è ora in agonia. Anche se tutt’altro che defunto. Si ricordi, in proposito, quanto afferma nella sua Lettera a Katia, in apertura di Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Mario Lodi, nel 1964, raccontando la situazione alla scuola di Vho, in Lombardia, quindi ben vicino al triangolo industriale del benessere:
In breve, ecco le notizie. Ho una prima di nove bambini, tre maschi e sei femmine, per ora. Mai avuto una scolaresca così esigua. Ma forse ne verranno presto altri tre e probabilmente altri ancora a San Martino. Qui, come sai, c’è l’insediamento temporaneo o definitivo di famiglie contadine che lasciano i cascinali e i piccoli centri per sistemarsi in frazione, dove l’affitto è meno caro. Vengono a colmare i vuoti prodotti dall’esodo contadino, che è un po’ diminuito ma non accenna a finire.[5]
A queste parole segue una nota dello stesso Lodi:
San Martino cade l’11 novembre, data in cui nella nostra zona si rinnovano i contratti agrari e quindi anche le assunzioni contadine. Fino a quella data gli elenchi degli iscritti sono provvisori per l’inserimento eventuale di immigrati o la cancellazione di trasferiti.
Si tratta dunque di una testimonianza significativa. Il mondo contadino c’è ancora, anche se sta vivendo l’esodo verso la città e le sue fabbriche, anche se in agonia, anche se ha ceduto il suo primato a quello industriale. Le realtà che sembrano avviarsi al tramonto negli anni del boom sono ancora presenti e non possono essere ignorate, e tra di esse non va certo dimenticata quella montanara, altrettanto in agonia.
Sono due realtà, quelle contadina e di montagna, “scomode”, che appartengono a un passato molto (o forse fin troppo) recente per un’Italia che corre sui binari del progresso verso l’orizzonte del benessere. Una nazione al cui interno si parlano la lingua italiana, italiani regionali e dialetti, in cui il semianalfabetismo e l’analfabetismo sono ancora una piaga per larga parte da risolvere, in cui le differenze culturali sono un ostacolo concreto al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita di tutti. Un paese che necessita evidentemente di riforme: nel mondo del lavoro, in quello dei servizi sociali, della sanità, ma anche in quello dell’istruzione, per il quale nel 1962 nascerà la Scuola Media Unica, che però dovrà superare ancora molte difficoltà di vario tipo negli anni a venire.
L’Italia, insomma, è una realtà complessa, di cui fanno parte anche i “giovani”, ma non solo. Esistono infatti ragazzi “nongiovani”, che solo apparentemente vivono nello stesso paese dei loro coetanei “giovani”. La loro è una realtà differente, con opportunità diverse, per certi aspetti dimenticata. I giovani “nongiovani” sono quelli che staranno a cuore a Don Milani e ad altri (quali il già citato Mario Lodi) che, come lui, hanno cercato di difendere la dignità di chi era estraneo allo schema vincente, escluso dai modelli principali e omologanti, alle prese con difficoltà materiali e culturali di ostacolo a qualsiasi possibilità di miglioramento. Miseria, ignoranza e soggezione sono piaghe diffuse in tutte le regioni d’Italia. Il “benessere” che la Scuola di Barbiana voleva offrire ai suoi studenti “nongiovani” era l’emancipazione da queste piaghe: un orizzonte decisamente concreto, ma tutt’altro che materialistico e consumistico.
Il 6 dicembre 1954 Don Lorenzo Milani giunge a Barbiana, nella montagna fiorentina, dopo aver già fatto parlare molto di sé. Il suo è un esilio, dovuto alle imprese nella parrocchia di San Donato[6]. Nella nuova parrocchia, però, riprende subito da dove aveva terminato nel precedente incarico: fonda una scuola popolare. Su di essa Giorgio Bocca, in un articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica” in prossimità del cinquantesimo anniversario dell’arrivo a Barbiana del prete esiliato, ricorda storie e voci della gente zona, incontrata negli anni Sessanta:
Ragazzi poveri che al mattino presto partivano dai loro villaggi, dalle loro povere case per raggiungere Barbiana. La gente del posto li chiamava “i Pinocchi” e del prete aveva fatto un personaggio terribile nelle sue virtù, sicché dicevano ai bambini «attenti, se non studiate vi mandiamo da don Lorenzo».[7]
La Scuola di Barbiana è rivolta ai ragazzi della zona, ma non solo. I “Pinocchi” sono contadini, montanari, figli di operai che vivono in montagna. Analfabeti, destinati a un destino di sfruttamento e soprusi. In una parola: abbandonati. Nessuno considera queste persone. Sono gli ultimi baluardi di un’Italia del passato, ma ancora esistente in quegli anni. Un mondo povero, di sofferenza e sacrifici, che un paese lanciato verso l’orizzonte del benessere vuole dimenticare, come non esistesse più, o non se ne volesse più ricordare l’esistenza. Mentre i loro coetanei “giovani” vivono, pur nelle loro difficoltà, la loro gioventù, le loro esperienze, la loro ribellione, i “nongiovani” di Don Milani lavorano nei campi, nelle valli, nelle stalle, con gli animali… Lavorano, come da sempre avviene per i “giovani-adulti” nel loro mondo.
Queste persone emarginate sono reali. Il prete esiliato lo sa e vuole agire per intervenire in loro aiuto. La Scuola di Barbiana nasce sotto il segno del celeberrimo motto I care, mi importa, contrapposto al “me ne frego” di fascista memoria. Queste persone importano, contano, e hanno il diritto, proprio in quanto persone, di vivere dignitosamente. Il che non significa vivere negli agi, nel lusso, nella ricchezza. Non è questo il “benessere” che Don Milani cerca di offrire loro. Non è nemmeno una parola di conforto, né il consiglio di pregare per cercare consolazione. È un concreto strapparli dall’ignoranza e dalla miseria culturale in cui naufragano. Dare loro la parola, la possibilità di discutere per difendersi. Solo una scuola popolare, a “pieno tempo”, 365 giorni all’anno, come quella di Barbiana, può colmare secoli di emarginazione e abbandono, miseria e soprusi, che negli anni del boom diventano ancora più evidenti e abissali.
Gli abitanti della zona lo sanno bene. Lettera a una professoressa (1967), il testo forse più celebre scritto dai ragazzi della scuola con Don Milani, lo rivela fin dalle prime pagine. Un padre, umiliato dalle parole dell’insegnante, è convinto che non è vero che il proprio figlio non sia «adatto per studiare»[8], ma è incapace di reagire a una tale violenza e riesce solo a pensare che, in un altro posto, con un’altra persona come docente, suo figlio «sarebbe adatto». Quel posto è la Scuola di Barbiana. Nella sua ignoranza, il padre sa che solo là suo figlio potrà trovare la strada per, un domani, vivere meglio, dignitosamente, facendosi rispettare.
La fiducia nella Scuola di Barbiana da parte degli abitanti della zona è evidente. È fiducia in ciò che Don Milani fa, come già faceva a San Donato. In Esperienze pastorali, del 1958, il prete esiliato ricorda la situazione drammatica in cui versava il borgo, la necessità di agire, di intervenire fondando una scuola popolare, e di come essa conquisti la fiducia dei giovani abitanti della zona, pur dovendo affrontare diversi ostacoli. Una situazione non diversa da quella che si vive a Barbiana, stando alla descrizione che se ne ha nella Lettera ai giudici, scritta da Don Milani il 18 ottobre 1965 e letta al processo a suo carico per l’intervento pubblicato su “Rinascita” il 6 marzo precedente, in risposta alle dichiarazioni di alcuni cappellani militari toscani apparse sulla “Nazione” di Firenze il 12 febbraio dello stesso anno. In un passaggio della Lettera ai giudici, infatti, si legge:
La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati.[9]
I “nongiovani” che giungono da Don Milani sono molti, e tutti accomunati da un aspetto: la timidezza. È una componente atavica, ancestrale, propria del carattere della gente di montagna, che Don Milani conosce, comprende e affronta in maniera ferma e mirata. È il frutto di anni di emarginazione, chiusura, miseria, umiliazione e ignoranza. I “nongiovani” non sanno imporsi sulla scena, non sanno salire sul palco da protagonisti, non ne hanno l’opportunità né l’avranno mai. Non è però solo una questione economica, né, ovviamente, di partecipazione a mode e a divertimenti. Il giovane che dice “io” in apertura della Lettera a una professoressa ricorda come l’insegnante della scuola da cui è stato cacciato lo «intimidiva». Ciò che causava tale timidezza era una mancanza, che Don Milani illustrava già nel suo articolo apparso sul “Giornale del Mattino” il 20 maggio 1956 e intitolato Giovani di montagna e giovani di città[10]. Ai “giovani di montagna” manca la parola. Non sono muti, ma non la padroneggiano. Il non saper parlare correttamente, il non sapersi esprimere, il non saper difendersi dai soprusi di chi la sa usare come mezzo di prevaricazione, e la consapevolezza di tutto ciò, sono la causa della timidezza atavica. Serve un’educazione lessicale e linguistica del vulgo per cambiare lo stato delle cose.
La realtà sociale che frequenta e vive la Scuola di Barbiana ha bisogno di tale cambiamento. I ragazzi ne prendono coscienza e capiscono il valore di una scuola che aiuti a realizzarlo. Loro sono contadini, pastori, lavoratori nelle stalle. I loro genitori scappano verso la città cercando un lavoro sicuro, un guadagno fisso, un futuro migliore, verso il benessere. Eppure, arrivati nelle città, non riescono a inserirsi, sono emarginati. Loro, i figli, vanno nelle scuole di città, tra i figli dei signori, e vengono emarginati e umiliati anch’essi. Don Milani sapeva che l’esodo dalla montagna e dalla campagna era ormai inarrestabile e, per arginarlo, aveva proposto già alla fine degli anni Cinquanta le quattro celeberrime riforme tanto «imprescindibili» quanto tardive. Quattro provocazioni dettate dalla pericolosità e dalla drammaticità di quanto stava avvenendo e dall’urgenza di porre rimedi.
Gli attori dell’esodo, attratti dalle sirene del benessere, in cerca giustamente di una vita migliore, sono impreparati ad affrontare la città, la sua cultura borghese. Solo nella scuola possono trovare strumenti per non essere schiacciati. Don Milani offre loro una scuola popolare proprio per questo motivo. Anche se faticosa, senza ricreazione, dalla mattina alla sera. Una scuola decisamente impegnativa, che subisce anche critiche, ma che, come dice Lucio (uno dei ragazzi di Barbiana, «che aveva 36 mucche nella stalla»), «sarà sempre meglio della merda»[11]. Che non è una metafora, ma la realtà nella quale viveva.
Don Milani vuole una scuola legata al mondo reale, che permetta ai suoi allievi, un domani, di capire quello che gli verrà detto da sindacalisti, politici, preti, o ciò che avviene nel mondo in cui vivono. Saper leggere i giornali e i contratti di lavoro da firmare. Avere il coraggio di guardare in faccia e saper rispondere all’avvocato, al notaio, al dottore. Vincere la timidezza. Raggiungere la dignità, la consapevolezza di essere uomo, con diritti e doveri. E, soprattutto, poterli rivendicare. Il “benessere” che Don Milani offre ai suoi “nongiovani” è questo: il traguardo dell’uguaglianza.
Don Milani è consapevole degli “ostacoli” economici, sociali, politici e culturali che lui, insieme ai suoi ragazzi, deve affrontare. Sa anche, però, che tra i più tremendi ci sono la moda, l’induzione al consumo e tutto ciò che sia puro divertimento fine a se stesso. Si tratta di “tentazioni” che i suoi ragazzi, specie i più piccoli, subiscono, e il prete scomodo comprende questa situazione fin dai tempi di San Donato.
Il bombardamento mediatico, la pubblicità, la televisione, il cinema, propongono modelli che sempre più provocano e alimentano le richieste di benessere e di divertimento, che trovano sfogo nel consumo edonistico, implicando così un sempre maggior bisogno di disponibilità economica. Non si pensi che nelle valli sopra Firenze non arrivassero echi o addirittura materialmente mode e oggetti di consumo diventati simboli del nuovo modo di essere, secondo il quale si deve essere in una data maniera. Essi attecchiscono ovunque, si diffondono e omologano usi e costumi. Ciò che per Don Milani è peggio è che, in alcuni casi, essi annullano le persone, raggirandole. Esse sono indifese come gli indigeni di fronte alle biglie e ai vetri colorati dei conquistatori. Il consumismo e i suoi elementi materiali avanzano anche nei monti sopra Firenze. Se i “giovani” italiani degli anni Sessanta inseguono vestiti, locali, dischi, modi di aggregazione nuovi, e si impongono sulla scena come realtà con la quale confrontarsi, i “nongiovani” vivono il dramma di subire l’invasione di tutto ciò. Dischi, televisione, juke-box e altro ancora li affascinano e li catturano. Per Don Milani sottraggono loro tempo prezioso per recuperare quei secoli di arretratezza culturale che li hanno emarginati e resi timidi. Sono specchietti per le allodole, di fronte ai quali sono facili vittime.
“Gianni”, in Lettera a una professoressa, è l’emblema di questa condizione. A lui si contrappone “Pierino”, figlio di signori che non ha nessuna difficoltà a scuola, che non ha nessun problema a relazionarsi coi libri, con penne e quaderni, che parla bene l’italiano. “Gianni” è figlio di contadini, di un padre che a 19 anni aveva imbracciato il fucile partendo coi partigiani per regalare al figlio che sarebbe venuto un futuro migliore, «un mondo più giusto che gli facesse eguale almeno Gianni»[12]. Il ragazzo, invece, è una facile vittima del mondo che lo circonda.
Un giorno, a proposito della televisione, Gianni ci disse: «Ce le danno queste cose. Se ci dessero una scuola s’andrebbe a scuola».
Con quel soggetto impersonale voleva dire la società, il mondo, qualcuno di indefinibile che guida le scelte dei poveri.
Noi si coprì d’insulti: «Di scuole ne avevi due e le hai lasciate». Ma, detto fra noi, è proprio vero che ha scelto liberamente?
In paese pesano su di lui tutte le mode fuorché quelle buone. Chi non le accetta si isola. Ci vorrebbe un coraggio che non può avere lui così giovane, incolto, non aiutato da nessuno. Né dal babbo, che ci casca anche lui. Né dal parroco che vende giochi al bar delle ACLI. Né dai comunisti che vendono giochi alla Casa del Popolo. Fanno a gara a chi lo trascina più in basso.
Come se non bastassero le voglie che abbiamo dentro.[13]
La moda non è solo l’abbigliamento, ma un vero e proprio modo di essere. Le mode, per Don Milani, sono dunque assolutamente negative perché intaccano l’ideale figura di uomo responsabile, cosciente, consapevole, capace di interagire dignitosamente col mondo che lo circonda, senza inibizioni classiste e prevaricazioni culturali. La strada per diventare uomo passa anche dall’educazione linguistica, dal raggiungimento di una competenza lessicale e linguistica, intesa come elevamento interiore dell’uomo, raggiungimento di dignità, possibilità di partecipazione alla vita sociale. «Perché è solo la lingua che fa eguali»[14]. Moda è tutto ciò che ostacola il difficoltoso cammino verso questo “benessere” che il prete scomodo vuole offrire ai suoi ragazzi e per raggiungere il quale serve impegno e fatica, dovendo recuperare secoli di tempo perduto. “Gianni” è dunque vittima di un «soggetto impersonale» da cui può liberarsi solo attraverso un’adeguata formazione, educazione, istruzione che gli insegni l’importanza della parola, che gli permetta di conquistarla, farla propria e di usufruirne per difendersi e per affermare il proprio esserci, senza timidezza.
“Gianni” è solo uno dei tanti “nongiovani” che popolavano l’Italia in quegli anni. Non necessariamente contadini o montanari, proletari o sottoproletari, ma anche solo persone riconducibili a un particolare modo di essere legato a una località, a un territorio. Gianni è uno dei tanti inglobati, fagocitati dall’acculturazione, dall’omologazione di un Potere consumistico ed edonistico, come lo chiamava Pasolini, che non accetta altro da sé, che esclude ed elimina le culture e le realtà particolari, altre rispetto ai modelli principali, se non addirittura al modello unico. “Gianni” è una delle tante vittime indifese del «genocidio culturale» contro il quale Don Milani si è battuto, per i suoi “nongiovani”, perché diventassero “uomini”, uguali tra uguali.
Note:
[1] Sono recentemente apparsi diversi studi sull’argomento in una prospettiva storico-sociale, come il volume curato da Paolo Sorcinelli Identikit del Novecento (Roma, Donzelli, 2004), dal quale si segnala, perché fondamentale per questo articolo, il saggio di Luca Gorgolini, Un mondo di giovani. Culture e consumi dopo il 1950 (pp. 277-370), nonché il volume curato dallo stesso Sorcinelli e da Angelo Varni intitolato Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento (Roma, Donzelli, 2004).
[2] Cfr. Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989.
[3] Cfr. Luca Gorgolini, Un mondo di giovani. Culture e consumi dopo il 1950, cit., p. 280.
[4] Cfr. Nicola Sisto, C’era una volta il beat. Gli anni ’60 della canzone italiana, Roma, Lato Side, 1982.
[5] Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Torino, Einaudi, 1970, p. 15.
[6] Cfr. Liana Fiorani, Don Milani tra storia e attualità, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1997, pp. 13-74.
[7] Cfr. Giorgio Bocca, “Io e i Pinocchi di don Milani”, in “La Repubblica”, 28 novembre 2004.
[8] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1996, p. 11.
[9] Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici, in L’obbedienza non è più una virtù, a cura di Carlo Galeotti, Viterbo, Stampa Alternativa, 2004, p. 35.
[10] Cfr. Don Lorenzo Milani, Giovani di montagna e giovani di città, in L’obbedienza non è più una virtù, cit., pp. 94-100.
[11] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 13.
[12] Ivi, p. 62.
[13] Ivi, pp. 65-66.
[14] Ivi, p. 96.