Agostino Arciuolo - Su Sciascia lettore

tracce, rimandi, percorsi

 

Si propone un testo che può fornire utili indicazioni per un percorso di lavoro sul genere poliziesco. Argomento canonico nella pratica scolastica, ma di cui non si intende qui riproporre le note linee di sviluppo (da Poe, al poliziesco ‘scientifico-cerebrale’ della Christie, all’hard boiled americano ecc,), ma fornire suggestioni che, partendo dalle riflessioni di un lettore d’eccezione come Leonardo Sciascia, giallista egli stesso (per quanto sui generis) indichino possibili letture.

Un possibile percorso didattico potrà fare spazio così, accanto ad esempi narrativi concreti (Simenon, o lo stesso Sciascia di Una storia semplice o di A ciascuno il suo), alla stessa scrittura critico-saggistica dello scrittore siciliano: un modello notevole di chiarezza e razionalità, che si propone come terreno didatticamente utile per un lavoro a scuola sulla scrittura critica e argomentativa.

 

Su Sciascia lettore: tracce, rimandi, percorsi

Di Agostino Arciuolo

 

Tanto si è detto sul Leonardo Sciascia scrittore. Di questi tempi specialmente, col centenario della nascita a fungere da ulteriore occasione – se di occasioni ci fosse mai bisogno – per rileggerlo e ricordarlo. Meno si è detto, invece, sul Leonardo Sciascia lettore. Lettore di classici, certamente – tra cui, come vedremo, Cervantes e Manzoni. Ma lettore di gialli, anche, genere etichettato all’epoca come narrativa di puro intrattenimento, e dentro cui Sciascia intravide nondimeno quel potenziale letterario che in molte sue opere troverà espressione.

Numerose sono le interviste e le fonti d’archivio che possono fornire suggestioni utili, non solo al critico, naturalmente, ma anche all’insegnante che voglia proporre agli allievi un percorso di approfondimento. Segnaliamo in particolare l’intervista rilasciata nel 1987 alla Radio Svizzera, il cui testo è stato pubblicato da Maura Formica e Michael Jakob su «Doppio zero» nel gennaio di quest’anno, quasi in apertura dell’anno sciasciano (link: https://www.doppiozero.com/materiali/leonardo-sciascia-scrivere-e-curiosita). Per altro prezioso materiale si rimanda al sito «Leonardo Sciascia Web».[1]

Da tali testimonianze e interviste emerge l’immagine di un lettore vorace, che sottolinea la propria vocazione verso una scrittura di secondo grado, che parte dai libri per parlare non solo di libri, ma del mondo. Un universo letterario vasto e variegato, nel quale agli amatissimi Stendhal e Manzoni, Diderot, Voltaire e Borges si affianca la lettura di romanzi “di seconda categoria”. Anche nella cosiddetta lettura di evasione (seriale, di consumo, o trivialliteratur, per riprendere un termine in disuso, ma caro alla sociologia tedesca degli anni ’60 e ‘70) Sciascia vedeva uno strumento utile a comprendere la realtà. E la scrittura, in questo senso, non poté che essere per lui la prosecuzione di tale intento, solo con altri mezzi – da quelli della narrativa a quelli del saggio d’inchiesta, quando non di entrambi contemporaneamente, in quell’inesplorata terra di confine dentro cui ebbe il coraggio di inoltrarsi, e in cui – forse più di ogni altro – seppe mettere a frutto la grande lezione manzoniana della Colonna e delle tormentate pagine del saggio Del romanzo storico.

Parlando di letteratura ‘di consumo’, è nota la passione di Sciascia per il genere poliziesco, al quale lo scrittore dedica un succinto ma acuto saggio, edito in volume nella raccolta critica Cruciverba (Einaudi, 1983): si tratta della Breve storia del romanzo poliziesco, uscito per la prima volta nella raccolta Cruciverba, edita da Einaudi nel 1983 (e riapparso presso Adelphi nel 1998).

Nel saggio Sciascia ripercorre a volo d’uccello la storia del genere poliziesco – “giallo” in Italia e “noir” in Francia, come tiene a precisare in prima battuta, dal colore della copertina delle rispettive collane di polizieschi che gli editori Mondadori e Gallimard scelsero rispettivamente negli anni Venti del secolo scorso.

Da attento e vorace lettore, Sciascia mette subito in chiaro una cosa: che cioè sa bene trattarsi di un genere disimpegnato, che avvince un lettore-fruitore che è in una condizione di passività, di «assoluto riposo intellettuale» (per dirla con le sue parole). Neppure gli è chiesto (non come cooperazione necessaria al suo ruolo di lettore) di cercare la soluzione dell’enigma: «Il medio lettore sa che la soluzione c’è già, alle ultimissime pagine (che si guarda bene dallo sfogliare nel timore che anche subliminalmente il nome del colpevole gli entri nell’occhio)».

Eppure, a dispetto di quanti vedono nel genere poliziesco solo un prodotto di consumo dell’industria culturale contemporanea, Sciascia non manca di sottolinearne le radici antichissime e archetipiche: da rintracciare nella Bibbia, e in particolare nel libro del profeta Daniele, in cui vediamo costui smontare, con una serie di controprove irrefutabili, l’impianto accusatorio che aveva portato alla condanna a morte per adulterio dell’innocente Susanna.

Ma a prescindere dalle radici ancestrali dello spirito di detection, Sciascia analizza il poliziesco a partire dalle atmosfere tetre dello statunitense Edgar Allan Poe e dai casi del suo investigatore parigino Auguste Dupin, personaggio che reca in nuce i caratteri, più o meno stereotipati, di molti futuri detectives. Ivi compreso il più famoso Sherlock Holmes, partorito dopo quasi mezzo secolo dalla penna di Arthur Conan Doyle, e di cui Dupin è senza dubbio antesignano.

Viene in mente, al proposito (ed è un altro testo di cui si potrebbe proporre la lettura agli studenti) l’Indagine preliminare in forma di dialogo che la “premiata ditta Fruttero & Lucentini” scrisse a introduzione de Il cane dei Baskerville per la collana BUR di Rizzoli: con l’acume e la sottesa, inconfondibile ironia che li connota, i due “indagano” sulle origini letterarie di Sherlock Holmes, giungendo alla conclusione che il suo autore sarà pure stato un “serio artigiano della penna” ma non fu “un titano della letteratura”, tant’è che molti tratti del suo eroe sono elementi già presenti nel Dupin di Poe: la frequentazione occasionale di salotti aristocratici e borghesi, la convivenza in un appartamento d’affitto con l’amico che funge da assistente e narratore, la predilezione per il metodo deduttivo, fino all’iconica lente d’ingrandimento.

Tornando a Sciascia, tra le righe della sua Breve storia traspare una certa avversione per l’approccio razionale, distaccato, persino “freddo” (e non solo per le ambientazioni londinesi e parigine) del giallo ottocentesco. Già con Agatha Christie e col suo Hercule Poirot, l’investigatore belga dai baffi a punta, il genere acquista una maggiore profondità d’analisi e «giunge a vette di straordinario virtuosismo» – dal romanzo in cui il colpevole è ognuno dei personaggi (tranne la vittima e Poirot medesimo) a quello in cui, di contro, sono tutti destinati a essere vittime (e nessuno, pare invece, il colpevole): e si parla, naturalmente, di Ten little Niggers (1939) e Murder on the Orient-Express (1933)

Dopodiché Sciascia torna oltreoceano per una rapida incursione nel mondo dell’hard boiled americano, di cui individua l’esponente di punta nel Philip Marlowe di Chandler: brusco nelle maniere, alcolista irrecuperabile, disilluso e abituato alle asprezze della vita di periferia. È qui che il poliziesco statunitense prende la piega di genere d’azione, gettando le basi per un certo cinema hollywoodiano ancora oggi in voga. Eppure, anche lì, i detective «sono propriamente tipi, non personaggi. […] Senza età, senza figli, senza variazioni di stato civile».

Uno dei primi a essere «personaggio e non tipo» fu il commissario Maigret di Simenon, per il quale lo Sciascia lettore nutrì una sincera predilezione, fin da quando era dai più considerato un autore “di serie B”. Diversi sono gli elementi di Simenon che attraggono lo scrittore siciliano: la fiducia nelle istituzioni e nella possibilità di fare giustizia con gli strumenti della legge (essendo il Maigret di Simenon uno dei pochi investigatori letterari a ricoprire un ruolo di rilievo nella polizia, a non indagare dunque in qualità di detective privato); c’è poi una parentela riscontrabile tra il titolo di un racconto di Simenon (La linea del deserto, di recente anch’esso ripubblicato da Adelphi) e una delle più celebri metafore narrative di Sciascia, la “linea della palma” di cui si legge nelle pagine conclusive de Il giorno della civetta, a preconizzare già all’inizio dei Sessanta, in tempi per nulla sospetti, l’avanzata verso settentrione della mafia; c’è pure, non da ultimo, che entrambi gli autori sono scomparsi nello stesso anno, l’89.

Comunque sia è con Simenon, nella lettura fornita da Sciascia, che il giallo si affranca, forse definitivamente, dall’approccio scientifico e apodittico della tradizione “classica” e si accinge ad assumere un tono più psicologico, introspettivo, in cui trova spazio l’intuizione a scapito del solo ragionamento, non meno che l’intima conoscenza dell’animo umano da parte dell’inquirente protagonista.

«Ci basta ora finire con Gadda, che ha scritto il più assoluto ‘giallo’ che sia mai stato scritto, un «giallo» senza soluzione»: è così, senza preannunci e senza ulteriori parole, che si conclude la Breve storia del romanzo poliziesco. Il riferimento è naturalmente a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, romanzo incompiuto e, proprio per questo, assurto qui a immagine fedele della vita oltre la pagina scritta.

Va detto però che della Breve storia esiste un’altra versione, inclusa in Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo a cura di Paolo Squillacioti (Adelphi, 2018).[2] Versione che, leggermente rimaneggiata già a partire dal titolo, si presenta come Breve storia del romanzo giallo e comprende in chiusura anche un riferimento a Borges, che nella prima versione manca. Non perché Sciascia se ne fosse scordato, anzi. L’omissione a quanto pare – secondo quanto ricostruisce il curatore - fu dovuta a una svista editoriale, essendo le ultime pagine del dattiloscritto finite a confondersi in mezzo ad altre. Il che spiega anche il perché di quel finale così epigrafico – che pure, bisogna dire, ha un suo perché.[3]

Per Sciascia anche Borges è un giallista, per quanto i suoi racconti muovano da «investigazioni filosofiche e metafisiche» aventi più a che fare con questioni di «apocrifa filologia, invece che con una materia propriamente criminale». A integrazione del passo citato va aggiunto che, malgrado Borges giochi in un modo tutto suo col genere poliziesco, la «materia propriamente criminale» risulta comunque presente in alcuni dei suoi racconti: nella raccolta Finzioni (la cui prima edizione italiana fu tradotta, guarda caso, dal Lucentini della “premiata ditta” di cui sopra) se ne contano almeno un paio in cui c’è da indagare su una morte sospetta – sebbene poi manchi del tutto il ricorso alle tecniche narrative tipiche del genere, che a Borges evidentemente non interessavano (come appunto non manca di far notare Sciascia).

Si tratta di La morte e la bussola (in cui, tra le altre cose, è apertamente citato Auguste Dupin) e di Tema del traditore e dell’eroe (lo scritto più breve della raccolta, quattro paginette appena, in cui il bisnipote di un celebre eroe nazionale, ucciso più di un secolo prima alla vigilia della rivolta che lui per primo aveva contribuito a fomentare, appura una verità scomoda al termine di una lunga e meticolosa indagine storico-letteraria).

Una storia del giallo scritta oggi, tuttavia, per quanto “breve” possa essere, non può non annoverare tra i principali autori proprio Leonardo Sciascia. Suo il merito, alla luce di questo excursus, non solo di avere rinfrescato il genere con tinte mediterranee ma di averlo anche arricchito di una componente sociale nuova, mai esplorata fino in fondo: i romanzi di Sciascia, prima che intriganti polizieschi, sono degli spaccati antropologici e culturali della terra che lo ha nutrito (ovvero la Sicilia, e la provincia di Agrigento in particolare), ritratti che ne mettono in risalto i nodi e problemi endemici, le contraddizioni irrisolte, gli innumerevoli coni d’ombra.

I suoi saggi d’inchiesta, d’altro canto, come quello sull’affaire Moro o sulla scomparsa di Ettore Majorana, seguono un’andatura che ricalca il ritmo proprio della trama investigativa, con l’autore nei panni del detective di turno, Definito da qualcuno come «lo Sherlock Holmes di quell’incredibile romanzo poliziesco che è l’Italia», Sciascia tenne però a chiarire, a conferma di quanto emerso, che Sherlock Holmes fosse «troppo rigoroso, troppo tecnico». E aggiunse: «In compenso […] mi pare di avere qualche tratto di Maigret; il colpevole non mi interessa, mi interessa invece studiare una situazione, un contesto».[4] L’intreccio criminale, insomma, assume per Sciascia il valore di un espediente narrativo atto a parlare di tutt’altro, di qualcosa che viene prima di qualsiasi suspense o colpo di scena. Ci sembra nei suoi libri di stare seguendo il filo di una serie di indizi, e in realtà stiamo dietro al dipanarsi di una matassa ben più ingarbugliata.

Se quindi con Simenon il giallo guadagna in profondità psicologica, con Sciascia esso si carica di una funzione civile quasi del tutto assente negli autori passati in rassegna finora. Lo scopo è scuotere il lettore medio da quella passività intellettuale di cui s’è detto, costringerlo a porsi domande che non riguardino solo l’identità dell’assassino, e magari a cercarne le risposte non all’ultima pagina, ma tra le righe di ognuna.

Fu anche grazie a Sciascia, per dire, che un fenomeno come la mafia assurse agli onori della cronaca nazionale almeno a partire dal ’61, anno di pubblicazione de Il giorno della civetta. E fu proprio ispirandosi a Il giorno della civetta che un altro maestro del giallo siciliano prese le mosse, nel ’78 con Il corso delle cose, fino poi a inaugurare la più fortunata serie poliziesca degli ultimi anni: quella, cioè, del commissario Montalbano, concepita dalla penna di un Andrea Camilleri che andrebbe ricordato (anche lui, sì) con un contributo a parte.

Quello della mafia, d’altronde, è un tema costante nella produzione sciasciana – che non spetta a noi sciorinare qui nei suoi molteplici titoli. Basti citarne due, scelti a testimoniare l’ironia e la leggerezza con cui egli fu capace, nonostante tutto, di affrontare la questione: “Questo non è un racconto” (un virgolettato dall’incipit di Jacques il fatalista dell’amato Diderot) e Una storia semplice (che semplice non lo è per niente).

Una misura di quanto Sciascia fosse attento al fenomeno mafioso, sempre a proposito della sua fame insaziabile di letture, la si può avere riportando un cuioso aneddoto di cui Sciascia parla in un articolo uscito per «L’Espresso» nel 1978

 

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scovata per caso la parola “mafia” in un elenco redatto dal Manzoni (che vi aveva raccolto le espressioni spagnole del Don Chisciotte ancora in uso nella Milano del suo tempo), Sciascia andò a rileggersi l’intera opera di Cervantes in lingua originale per rintracciare il contesto entro cui quella parola sarebbe saltata fuori, salvo poi scoprire che il termine in questione non era “mafia” bensì “maña”, ovvero “astuzia”. L’equivoco sorse, anche qui, per una svista editoriale, un’altra, e tra le più frequenti: un banalissimo difetto di stampa.

Ciò valga anche a riprova del fatto, cui s’è fatto cenno in apertura, che Sciascia fu accanito lettore, oltre che di gialli, dei classici della letteratura di ogni tempo. Del Manzoni, nella fattispecie, lesse tutto e con grande puntiglio, al punto da spendersi in una certosina e, direi quasi, “borgesiana” indagine storica, poi confluita in La strega e il capitano, avente a oggetto la vita e l’ingiusta condanna al rogo per stregoneria di una serva nella Milano del 1617: Caterina Medici, citata dal Manzoni sia ne I promessi sposi che in Storia della colonna infame – ma entrambe le volte di sfuggita e senza approfondire la vicenda.

Sciascia, Cervantes, Manzoni: un triangolo che si estende a formare un quadrato se includiamo nell’incastro pure il già menzionato Borges, che casca qui a puntino col suo Pierre Menard, autore del Chisciotte. Un racconto nel quale, dopo avere snocciolato una accurata bibliografia (con tanto di note a piè di pagina) di questo autore immaginario, Borges scrive della sua folle intenzione di “riscrivere” il Don Chisciotte: non un’altra delle tante rivisitazioni in chiave contemporanea, né una trascrizione o una semplice ricopiatura, quanto piuttosto una riscrittura vera e propria, la stesura da principio di un’opera che fosse identica all’originale, dopo avere “indagato” a fondo (perché, anche qua, è pur sempre di questo che si tratta) la vita, il pensiero, le abitudini, lo stile, insomma tutto quanto fosse riconducibile all’essere stato Miguel de Cervantes nella Spagna tra sedicesimo e diciassettesimo secolo.

Se c’è un trait d’union a tenere insieme tutto ciò, dalle sviste editoriali alle storie letterarie e non, esso è l’attenzione maniacale per il dettaglio, nel tentativo di cercare per suo tramite una possibile chiave interpretativa del reale. Il tutto racchiuso nella parte, la storia “maiuscola” intesa come un frattale che nasconde la propria natura in ogni piega, nella più “minuscola” delle storie particolari. Quasi che quella lente d’ingrandimento, immancabile nella cassetta degli attrezzi dei primi investigatori, valesse per l’infinitamente piccolo come per l’infinitamente grande, microscopio e cannocchiale insieme.

Un mistero destinato a rimanere, come nel Pasticciaccio di Gadda, senza soluzione. Opera che per Sciascia resta, non a caso, “il più assoluto «giallo» mai scritto”, secondo quel finale che poi finale non era. Ennesima ultima pagina che si rivela penultima a ogni lettura, rispetto a una verità che sfugge e che va cercata oltre. Una quadratura impossibile in linea di principio, nella misura in cui, anche chiudendo tutti i triangoli o quadrati letterari che fossero, rimarrà pur sempre aperta la circonferenza entro cui quelle figure – i nostri autori con le loro storie – s’inscrivono.

 

Giugno 2021



[1] Il sito è a cura dell’associazione “Amici di Leonardo Sciascia). Questo il link: https://www.amicisciascia.it/leonardo-sciascia/sciascia-su-sciascia.html

[2] Del pregevole libretto parla su «Doppiozero» uno dei maggiori studiosi di Sciascia, Giuseppe Traina. Si segnala qui il link all’articolo: https://www.doppiozero.com/materiali/leonardo-sciascia-il-metodo-di-maigret

[3] Il testo dell’introduzione di Squillacioti in https://www.academia.edu/37890424/Leonardo_Sciascia_Il_metodo_di_Maigret_e_altri_scritti_sul_giallo_a_cura_di_Paolo_Squillacioti_Adelphi_2018_

[4] Le parole sono tratte da una lunga intervista rilasciata dallo scrittore a «Le Nouvel Observateur», n. 719, giugno 1978, pp. 86-114).