Agostino Arciuolo - La nostra casa è dove siamo

 

- Nuove voci; nuove identità

 

«Che significa essere italiana per me… Una risposta, poche righe, qualche secondo per digitare sulla tastiera. Ma non mi veniva in mente niente».

 

È quanto si legge alla terzultima pagina de La mia casa è dove sono (Milano, Rizzoli, 2010), autobiografia episodica e parziale della scrittrice italosomala Igiaba Scego. Un intero libro, più di centocinquanta pagine cariche di moti d’animo e attraversate da cadute e rinascite e ricadute, per giungere a non avere più le parole, la successione dei tasti in risposta a una delle domande che fin dalle prime pagine s’intrufolano nel terreno, fertile, del testo. «Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia, uno svincolo».

Una possibile via d’uscita si scorge alla pagina successiva, la penultima. In un racconto che l’autrice ricorda di avere letto da ragazza, Il primo racconto del Cardinale di Karen Blixen, viene chiesto al protagonista «Ma tu chi sei?» e lui risponde raccontando una storia, la sua. Che è poi quanto ha cercato di fare Igiaba Scego nel gruzzolo delle pagine precedenti. Lei figlia di un ex politico somalo esiliato in Italia e «di una donna che non ha mai ripudiato la sua cultura nomade». Non c’è altro modo, del resto, per ricomporre i tasselli di una soggettività frammentata, in bilico tra le faglie di due continenti e presa nella morsa tra due città come Roma e Mogadiscio, raminga nonostante il bisogno improrogabile di mettere radici.

Raccontare una storia, la sua storia. L’autrice lo fa con una voce che suona sincera, profonda e leggera insieme, ironica e autoironica, traendo spunto dall’idea di costruire una mappa dei luoghi, esistenti o neanche più, a cui il suo percorso di crescita è legato. Uno per capitolo. Prima per gioco, poi sempre più sul serio. Ne viene fuori una sorta di geografia interiore, frastagliata come può esserlo la memoria, da cui emerge forte il senso di un’identità che ha molto faticato per tenersi in piedi. Da un’infanzia in cui «mi sognavo trasparente», ancora ignara che «avere la chiappa africana è un grande vantaggio», fino a una maturità buscata a colpi di dita ficcate in gola, passando per un’adolescenza in cui «le partite della Roma di Rudi Voeller racchiudevano tutta la salvezza del mio piccolo io di allora» (si veda il brano riportato al link_2).

 

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Proprio facendo leva sul potere salvifico che le storie assumono nella cultura popolare somala, l’autrice dà l’incipit alla sua autobiografia. Lo stesso incipit di tutte le fiabe appartenenti a quella tradizione, lontano parente del nostro «c’era una volta»: «Sheeko sheeko sheeko xariir…». Per mai che Igiaba Scego smetta di sentirsi italiana, d’altro canto, il suo legame con la Somalia appare fin da subito indissolubile, radicale. Al punto da enfatizzare e persino mitizzare, a tratti, certi aspetti di quella terra vessata per anni da una «guerra bastarda», che pure troppo poco l’autrice ha potuto visitare e conoscere.

«Alla Somalia, ovunque essa sia» si legge nella dedica in esergo al libro, forse a rimarcare l’intangibilità di un simile legame, l’incolmabilità di una distanza che non è più solo fisica, nel segno di quella che altrove l’autrice ha definito «dismàtria».[1]

 

Raccontare una storia, dunque: tale centralità della dimensione narrativa si riscontra alla pari in tutta la produzione letteraria, più o meno recente, di autori e autrici nati e cresciuti in Italia, che a questa come ad altre culture africane si sentono in qualche modo legati.

Si tratta di testi perlopiù autobiografici ma sempre con un marcato accento narrante, a rimpolpare uno spicchio di letteratura che, dovendo allestirne uno scaffale in libreria, non riuscirei a definire meglio che con l’aggettivo «afroitaliana» – o al più «italoafricana». Termini che potrebbero suonare come etichette sterili, e che peraltro il correttore automatico del mio programma di scrittura continua a sottolinearmi in rosso – come anche, prima, la parola «italosomala», con o senza trattino in mezzo, che in ogni caso ometterei.

Solo sul finire del secolo scorso si è cominciato a parlare, qua in Italia, di letteratura «post-coloniale», «migrante» o talvolta, con un termine forse meno felice, «italofona». Un contributo notevole in tal senso è giunto da Armando Gnisci, professore e critico letterario scomparso nel 2019, che ha avuto il merito di affrontare la questione di una «letteratura della migrazione» (con particolare attenzione ai flussi dalle ex colonie e, in subordine, dal continente africano) già a partire dai primissimi anni Novanta, con la pubblicazione del suo Il rovescio del gioco (Roma, Sovera, 1992). Fu, quello, un primissimo tentativo di fare il punto su un contesto letterario all’epoca decisamente «di nicchia», in anni in cui nessun altro era giunto a occuparsene in maniera organica e strutturata.

Mettendo per ora da parte le ragioni del ritardo italiano rispetto a un processo che nel resto d’Europa era già avviato da decenni, ciò che viene da notare è anzitutto il fatto che l’aggettivo «migrante» sia nel frattempo diventato desueto, non più appropriato per indicare autori che per la gran parte sono tutt’altro che «migranti», essendo nati e cresciuti in Italia. Igiaba Scego, per dire, è nata a Roma nel 1974 ed è di nazionalità italiana.[2]

Altro elemento degno di nota è che gli autori in questione sono per la maggior parte non già autori, bensì autrici. Non trovo dati più aggiornati in rete, ma nel 2010[3] la percentuale di autrici era del 43%. Oggi, a un decennio e più di distanza, basta dare un’occhiata nelle biblioteche o fare qualche ricerca in rete per rendersi conto di quanto quella percentuale, già allora in crescita, non possa che essere ulteriormente incrementata. Un dato per molti versi sorprendente, se si pensa alla netta predominanza di voci maschili nelle letterature di ogni genere e tempo.

Scrittrici come Cristina Ali Farah, Gabriella Ghermandi, la già menzionata Igiaba Scego, Randa Ghazy, Ingy Mubiayi (che con Igiaba Scego è tra le coautrici della raccolta Pecore Nere di cui si è detto, tutte donne anch’esse) e poi Djarah Kan e Espérance Hakuzwimana, per nominarne due dell’ultimissima generazione, sono solo alcune tra le tante italiane afrodiscendenti che vengono oggi pubblicate e lette.

Le ragioni sociali e culturali di una tanto nutrita presenza femminile meriterebbero di essere prese in esame con un lavoro a parte, non avendone chi scrive il titolo né le competenze. Credo tuttavia che un approccio «intersezionale» (altro termine che il correttore sottolinea in rosso, ma largamente in uso nel dibattito attuale sulle disuguaglianze sociali e di genere) sia il più utile e interessante per affrontare la questione.[4]

 

Tra i libri di più recente pubblicazione spiccano senza dubbio la raccolta Future (Effequ, 2019), che fa dialogare le voci di undici autrici afroitaliane emergenti, e Ladri di denti della summenzionata Djarah Kan (Busto Arsizio, People, 2020), giovane italoghanese (altra parola che il programma di scrittura mi dà come sbagliata) cresciuta a Castel Volturno e trasferitasi poi a Napoli. È una penna mordace e provocatoria, la sua, che si scaglia indignata contro la pervasività di certi stereotipi e pregiudizi, spesso striscianti, di cui l’autrice mostra le cicatrici sulla propria pelle.

Il libro è una raccolta di scritti di vario genere, che spaziano dal racconto di finzione alla testimonianza autobiografica fino all’articolo di denuncia, in maniera però ibrida, senza che se ne possano distinguere in maniera netta i confini. L’autrice affronta tematiche esistenziali e politiche con un taglio intenzionalmente sociale, oltre che militante e femminista, non mancando di riferirle, come la Scego, al proprio vissuto personale. Il perno è la propria esperienza, anche intima, di donna nera, in un paese dove essere donne nere comporta una serie nient’affatto trascurabile di difficoltà, seccature, timori, pericoli. E chissà che l’alto numero di scrittrici, in ordine a quanto detto pocanzi, non abbia in ciò qualche ragione.[5]

Tra i bersagli critici di Djarah Kan c’è l’immagine che un certo giornalismo sedicente progressista propina delle persone immigrate, «pacchi regalo per la stampa, tutti incartati in quelle coperte termiche argentate e dorate», con «una voce narrante che aggiunge fronzoli a una vita supposta, ricostruita, alleggerita dalla verità»; oppure il «sistema dell’accoglienza», descritto come «tutta quell’economia umanitaria, cattolica e di sinistra, che si crea intorno allo scintillante e remunerativo mondo dell’immigrazione», spesso popolato di «white saviors» che «si ammantano di paternalismo e falsa gentilezza» e trattano i migranti come «contenitori scemi da riempire di concetti e nozioni», finendo per esercitare un «dominio dei corpi» altrettanto violento di quello istituzionale; oppure ancora l’immagine, preconfezionata a uso e consumo dei bianchi europei, di un’Africa «selvatica, ancestrale, tribale» che oscilla senza soluzione di continuità dagli scenari esotici de Il Re Leone ai «famosi bambini del Biafra».

 

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oppure, infine, l’immagine della persona nera, migrante o meno che fosse, schiacciata in un dualismo senza via d’uscita che la vede ora come «vittima», «eroe», «simbolo d’integrazione», «deserving migrant», e ora come «minaccia alla nostra sicurezza», «delinquente», «spacciatore», «carnefice».

C’è da dire che la penna caustica di Djarah Kan rischia talvolta di mutarsi in accetta e non porre in rilievo le sfumature, la complessità di certi ambienti che descrive, come quello del giornalismo o dell’associazionismo, e contro cui a ragione si scaraventa. Quasi che per demolire certi stereotipi ne proiettasse altri in controluce (il “salvatore bianco”, il giornalista sciacallo), che pure colgono appieno certi modi, purtroppo diffusi, d’essere e di agire. Questa almeno è l’impressione che, da lettore, ho avuto leggendo alcune pagine. Impressione che resta però quella di un maschio bianco, preso qui nella contraddizione di dare voce a storie che restano potenti finché a raccontarle è la voce di chi le ha vissute – col rischio, che ho scelto malgrado tutto di correre, che tutto ciò suoni come l’ennesimo, irritante «mansplaining».

 

Di maschi bianchi che fanno discorsi su donne nere, d’altra parte, sono pieni i media nazionali. Basti pensare, a riprova di quanto radicati siano i cliché di cui sopra, ai fiumi d’inchiostri vergati negli ultimi mesi, in toni ora polemici ora compiaciuti, sulla campionessa di pallavolo Paola Egonu per il fatto di essere stata proposta come portabandiera per l’Italia del Comitato Olimpico Internazionale. Peggio di quanti non ne riconoscono l’italianità c’è solo, a parere di chi scrive, quanti ne sfruttano l’immagine di donna nera (e lesbica) per reclamizzare, con enfasi da falsa retorica, le presunte conquiste di un paese votato all’integrazione.[6] Paese che troverebbe il suo specchio più fedele nelle nazionali femminili di sport come il calcio o, per l’appunto, la pallavolo, le cui rispettive capitane, Sara Gama e Miriam Sylla, sono entrambe nere e afrodiscendenti.

Dimenticano costoro, opinionisti e commentatori, sportivi e non, che queste donne sono italiane non in virtù di una politica accogliente quanto piuttosto malgrado essa, invischiate nella ragnatela di una legislazione in materia decisamente antiquata e con un parlamento che non s’è mai preso la briga di tracciare un percorso di cittadinanza che fosse lineare, equo, coerente. Il colmo in tal senso si è raggiunto, credo, con la proposta da parte del presidente del CONI Giovanni Malagò di uno ius soli sportivo, che garantirebbe in tempi brevi la cittadinanza italiana a chi sui campi di gioco dimostri abbastanza bravura da meritarsela. Come se la cittadinanza e le annesse libertà fossero qualcosa da sudarsi (letteralmente) e a cui solo le eccellenze possono accedere, e non invece diritti da garantire a chiunque non abbia altro mezzo per tutelarsi.

Altra donna assurta suo malgrado a «simbolo d’integrazione», andando qualche altro mese addietro e passando dalle pagine di sport a quelle di cronaca nera, è Agitu Gudeta, ambientalista e allevatrice etiope trapiantata in Trentino, rimasta vittima di omicidio per mano di un suo dipendente, nero anch’egli. Le modalità con cui la stampa ha raccontato a suo tempo la vicenda sono particolarmente indicative, avendo finito per rafforzare simultaneamente entrambi gli stereotipi di cui si diceva, quelli della donna «eroina e martire» e del «mostro» da sbattere in prima pagina, due facce estreme di una stessa medaglia (d’oro, magari) che priva le persone nere della possibilità di emergere per ciò che sono, nella loro umanità e con le loro vite problematiche come tutte, con le loro luci e le loro ombre, con le loro storie particolari. Ascoltarle, leggerle nella loro complessità, è un primo passo per ispessire i bordi di quella medaglia, per renderla più sfaccettata e disintegrarne le storture, i cliché. È la chiave per essere «non più fenomeni da baraccone», come scrive Igiaba Scego, «ma persone tra le persone».[7] Non più «oggetti» dei discorsi altrui (non escluso il mio, qui e ora), ma «soggetti» dei propri.

 

«Perciò ho bisogno di questa storia», sostiene Djarah Kan. Che scrive pure, qualche pagina dopo: «Per tutta la vita mi avete chiesto se conoscessi la mia storia. Ma voi conoscete la vostra

Già, ecco, la “nostra” storia. Il nostro passato coloniale che pesa come un macigno sullo stomaco della coscienza nazionale, ma con cui ancora fatichiamo a fare, storicamente, politicamente, culturalmente, i conti. Una sorta di rimozione collettiva della memoria storica, che impedisce oggi di affrontare in maniera seria e civile questioni sempre più urgenti come quelle della cittadinanza, dell’accoglienza dei rifugiati, dell’immigrazione. Tanto più che, laddove le rotte migratorie del presente seguono in larga parte le dominazioni coloniali di ieri, un numero crescente di migranti approda sulle coste siciliane partendo da – o comunque transitando per – le ex colonie in cui l’Italia, fascista ma anche non, ha saccheggiato e raso al suolo, massacrato senza ritegno, avvelenato e fatto danni incalcolabili. Danni i cui effetti a lungo termine sono ben lungi dall’essere risolti e continuano anzi a ricomparire – là sottoforma di guerre civili e divisioni sociali insanabili, qua di barconi sovraffollati al largo delle coste del Mediterraneo (quasi una specie di ritorno del rimosso che pure, con la punta dello “stivale”, ci ostiniamo a respingere via).

In altri paesi europei, scrive bene Igiaba Scego:

 

«dopo la fine della seconda guerra mondiale c’è stata una discussione, ci si è accapigliati […]; ci si è interrogati sull’imperialismo e i suoi crimini; sono stati pubblicati studi; il dibattito ha influenzato la produzione letteraria, saggistica, filmica, musicale. In Italia invece silenzio. Come se nulla fosse stato».

 

Lo scriveva già più di dieci anni fa, e da allora non sembra che la situazione sia molto cambiata. Prova ne sia, per dirne una, che un film come Il leone del deserto (Akkad, 1981), ricostruzione cinematografica della lotta di resistenza libica contro il Regio Esercito Italiano tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, è rimasto censurato in Italia per quasi trent’anni e, ad oggi, ancora non è mai stato mandato in onda sulla televisione pubblica.

Certo non è mancato chi, specie dagli anni Settanta in poi, ha tentato di fare luce sui nostri trascorsi coloniali e provato a decostruire il mito degli “italiani brava gente”, meno feroci e più benevoli degli altri colonizzatori. Uno storico come Angelo Del Boca, ad esempio, morto un anno fa alla veneranda età di 96 anni, ha speso un’intera vita nello sforzo di portare questi temi all’attenzione del dibattito pubblico, mostrando, fonti alla mano, come l’Italia fascista avesse, tra le altre cose, costruito lager in Libia prima ancora che Hitler prendesse il potere in Germania; oppure avesse sganciato bombe all’iprite, un gas mortale vietato dalla convenzione di Ginevra, sulla popolazione etiope inerme.

Il fatto curioso, in tutto ciò, è che in tante città italiane perdurano monumenti e toponomastiche espressamente associate, quando non addirittura inneggianti, a quel passato coloniale. A Bologna, per citare un esempio a me vicino, il quartiere limitrofo a quello dove sto ora scrivendo si chiama Cirenaica ed è attraversato da una strada che porta il nome di via Libia. Viene allora da pensare che la nostra storia di paese colonizzatore ci stia ovunque davanti agli occhi, eppure non facciamo che voltarli dall’altra parte. Col pretesto autoassolutorio, parente stretto della falsa retorica di cui sopra, per cui invece il nostro è un paese aperto, accogliente, solidale. Aperto, di contro, è il vuoto di memoria, il macigno tuttora indigesto sulla coscienza nazionale.

«Accettatelo e lasciateci urlare» scrive Djarah Kan, che così conclude un suo scritto intitolato, non per niente, Conosci la tua storia.

«Sarebbe bello un giorno avere un monumento per le vittime del colonialismo italiano», rilancia al proposito Igiaba Scego, «qualcosa che ricordi che la storia dell’Africa orientale e dell’Italia sono intrecciate».

Ecco allora perché è importante raccontare, ricordare, mettere le cose in una prospettiva che ne colga le stratificazioni, le sfumature, l’intima complessità. «Storicizzare», secondo l’invito mai abbastanza accolto di Fredric Jameson, o «passare la storia a contrappelo», come invece direbbe Walter Benjamin. Ed ecco, di nuovo, perché è imprescindibile quella dimensione narrativa di cui a suo modo è pregna la letteratura fin qua definita «afroitaliana».

Occorre insomma «fare un grosso lavoro sull’immaginario», usando le parole della Scego in una bella intervista di qualche anno fa,[8] decolonizzarlo e costruirne uno che stia al passo di una società che cambia più di quanto non sia in grado di fare la politica, una società che sta «molto più avanti di quello che è il racconto della società stessa». Occorre arricchire il nostro vocabolario, mettere in fila le parole che oggi mancano e togliere magari la sottolineatura rossa a tante di esse. E la letteratura non può che avere, in questo, un ruolo di primo piano.

 

- La letteratura e l’insegnamento, la scuola

In quella stessa intervista, la scrittrice italosomala spende più di una parola sull’importanza della scuola come luogo di confronto e d’apertura. Lei stessa ha contribuito alla stesura di un’edizione «scolastica» della propria autobiografia (Torino, Loescher, 2012), con tanto di schede didattiche ed esercizi di comprensione e riflessione finale. Alcune appassionate pagine del libro sono peraltro dedicate all’incontro per lei decisivo, in una delicata fase di passaggio e di crescita, con una maestra delle elementari.[9]

L’interesse dell’autrice verso l’infanzia e l’adolescenza, che l’ha portata inoltre a conseguire un dottorato di ricerca in Pedagogia, è di recente sfociato nella scrittura di un romanzo per adolescenti dal titolo Figli dello stesso cielo (Milano, Piemme, 2021). Un testo concepito, anche questo, per approdare sui banchi scolastici, in particolare tra l’ultimo anno delle medie e i primi delle superiori. «Il razzismo e il colonialismo raccontato ai ragazzi» recita il sottotitolo. Dove a mio parere la parola chiave è ancora una volta quel «raccontato», giusto quanto detto sulla centralità della narrazione. Non “spiegato” o “illustrato” o “esposto”, bensì “raccontato”.

Spunti utili per chi insegna si trovano anche nella rivista quadrimestrale «Educazione interculturale» della Erickson, che raccoglie approfondimenti e segnalazioni di progetti spesso poco noti ma non per questo meno interessanti. Non mancano suggerimenti di percorsi e unità didattiche, o finanche proposte di integrazione alla manualistica, soprattutto di materia storica, in cui spesso le vicende del colonialismo italiano sono esposte in maniera frammentaria, «in capitoli diversi e lontani tra loro molte pagine», col risultato che diventa difficile per uno studente «cogliere lo spessore temporale [e non solo, aggiungerei – ndr] della dominazione italiana in Africa».[10]

A cercare, insomma, di materiale ce n’è e se ne trova. Ciò che manca sono forse i canali d’informazione e di circolazione, l’offerta formativa per l’aggiornamento, gli stimoli alla ricerca e a un’innovazione che sia davvero tale, non solamente di facciata. Ciò che manca è forse la consapevolezza diffusa che sentirsi italiani è per tutti, non solo per i migranti, né per i loro figli o i loro nipoti, il risultato storico di una miriade di influenze, filiazioni, culture. Un coacervo, un garbuglio di storie interconnesse, anche per chi italiano crede di esserlo da generazioni o, peggio, “da sempre”.

È una questione che riguarda in maniera diretta la composizione sociale e, restando in tema d’istruzione, delle classi scolastiche d’ogni ordine e grado, caratterizzate da una multiculturalità e un’estrazione sempre più multietnica e variegata, rispetto alle quali l’offerta formativa dovrebbe porsi quantomeno all’altezza. Affrontare in maniera più mirata il tema del rapporto tra identità e alterità in chiave storica e socioculturale, di come la soggettività di ognuno si costruisca sempre in relazione agli altri e secondo dinamiche plurime di coevoluzione, può essere uno spunto da non buttare via, uno tra i tanti, da sviluppare magari attraverso esercizi di scrittura in prima persona o anche, in situazioni più complesse, tramite finzioni narrative in terza.

Non che, beninteso, manchino gli e le insegnanti capaci di rimboccarsi le maniche, di accogliere le sfide del presente (e perciò stesso del futuro) con le giuste motivazioni. Da qui a ricalibrare in maniera strutturale programmazioni e metodologie didattiche, però, di strada ce n’è da fare. Di strada e di lavoro: quello di maestri e insegnanti, come di chiunque abbia una qualche responsabilità educativa nei confronti di allievi e allieve, studenti e studentesse, grandi e piccini.

Così come emerso in precedenza per la politica e per la comunicazione mediatica, d’altro canto, anche per la scuola le indicazioni di legge e le direttive ministeriali arrivano sempre con un ritardo eccessivo, non in grado come sono di stare al passo delle trasformazioni che avvengono oltre la cattedra. Trasformazioni di cui può avere il polso solo chi ha lo stimolo e la spinta a non starci seduto dietro tutto il tempo.

 

Sia Igiaba Scego che Djarah Kan raccontano, ognuna a modo suo, episodi della propria esperienza scolastica, alcuni dei quali riportati nella parte antologica – cui si rimanda di seguito.

Come si evince dai tre estratti, la scuola è descritta da entrambe come un ambiente nel quale hanno trovato conferma le discriminazioni e i luoghi comuni circolanti nel resto della società, di cui le mura scolastiche si sono rese specchio fedele, quando non cassa di risonanza. Discriminazioni subite non solo dai coetanei e dai compagni di classe, bensì finanche a volte dagli insegnanti.[11]

Senza infingimenti e senza retorica, né vittimistica né tantomeno celebrativa, le autrici si soffermano su cosa abbia voluto dire per loro sentirsi bersagliate, fin da tenera età, da sguardi non in grado di vederle per ciò che erano, ricoperte da marchi spersonalizzanti ai quali finivano esse stesse per aderire, in maniera perlopiù inconsapevole e in nome di un «quieto vivere» che presto si sarebbe rivelato illusorio, tutt’altro che «quieto».

Un ruolo fondamentale in questa presa di coscienza è assunto, per ambedue le autrici, dalle rispettive figure materne, con dinamiche che al lettore si rivelano sorprendentemente – ma neanche poi tanto, a pensarci – simili tra loro.[12] Sia in un caso che nell’altro, infatti, a dispetto della distanza generazionale che le separa, sono i racconti e le storie della tradizione (somala per l’una, ghanese per l’altra) a dare spessore alle loro identità, rimaste fino ad allora schiacciate, pressate sotto il peso delle etichette e dei pregiudizi. È tramite le vicende rispolverate dalle madri intorno a un passato ancora vivo, vicino o lontano, recente o remoto che fosse, che le due figlie e future scrittrici scoprono in sé la scintilla di qualcosa che mai avevano potuto avvertire prima: il fatto cioè che le loro vite avessero un senso, un’origine di cui andare fiere, una dignità al pari di tutte quante le altre.

La madre di Igiaba Scego, in particolare, la illumina su un passato glorioso che la piccola Igiaba non aveva (né avrebbe poi) avuto occasione di studiare a scuola, oltre quell’antichità greca e latina che era stata portata a credere come l’unica di rilievo nella storia delle civiltà umane. La madre di Djarah Kan, dal canto suo, le racconta di un passato più recente, quello del processo di decolonizzazione del loro paese e delle grandi speranze, puntualmente tradite, sortevi negli anni Cinquanta del secolo scorso.[13]

A essere di nuovo decisivo è, in entrambi i casi, il ricorso alle storie, l’atto del narrare come via d’uscita da uno stato di soggezione culturale, sociale e persino antropologica, che risulta essere paralizzante per la crescita personale – specie in fasi delicate quali, appunto, l’infanzia e l’adolescenza. «Per i nomadi somali», scrive del resto Igiaba Scego, «nella storia c’è sempre nascosta la soluzione». E ancora, poco più avanti: «Con i suoi racconti mia madre mi ha liberato dalla paura che avevo di essere la caricatura vivente nella testa di qualcuno. Con i suoi racconti mi ha reso persona. In un certo senso mi ha partorito di nuovo».

Significativa è, rispetto a ciò, l’insistenza con cui ricorre la parola «storia» (e affini) in due dei tre passi riportati. Tant’è che, proprio facendo leva sul potere immaginifico delle fiabe, una maestra delle elementari – tra le protagoniste del passo cui rimanda il Link_3 - esorta la piccola Igiaba a uscire dal proprio guscio.

Emerge forte, da un simile esito, una delle funzioni essenziali che la scuola dovrebbe assolvere in una società come la nostra, più eterogenea e “meticcia” a ogni nuova generazione. Perché la scuola è sì, come detto pocanzi, un luogo in cui si riverberano certi pregiudizi diffusi, ma è anche il luogo in cui tali pregiudizi possono – e devono – essere distrutti, smontati uno per uno. Una scuola che sia “buona” di fatto e non solo di nome (secondo il vuoto slogan di un passato governo) dovrebbe, a mio parere, essere anzitutto questo: il posto in cui s’insegna e s’impara a guardare l’altro per quello che è, lasciando che ognuno abbia l’agio e la libertà di schiudersi nella propria identità, nella propria unicità di essere umano, e dalla cui diversità trarre magari stimolo, curiosità, beneficio reciproco.

Non è intento del presente contributo sciorinare ricette didattiche che non tengano conto dei contesti dentro cui si opera. Ogni insegnante ha i suoi metodi, i suoi strumenti. Senza contare che per ogni classe, come per ogni studente, andrebbe fatto un discorso a parte. Mi limiterei soltanto a un invito generico: uscire dall’eurocentrismo e dalla prospettiva occidentalizzante che caratterizza, già a partire dalle primarie, le programmazioni disciplinari, per cui neppure è contemplata la possibilità di leggere la storia del mondo attraverso un’ottica che sia effettivamente policentrica, plurale, sincronica oltre che diacronica.

Sarebbe già tanto, credo.

 

Nella terzultima pagina di cui in apertura, dopo essersi chiesta il significato del proprio essere italiana, Igiaba Scego scrive: «Essere italiani a ben vedere significa far parte di una frittura mista […] fatta di mescolanze e contaminazioni». E aggiunge: «In questa frittura io mi sento un calamaro molto condito». Il senso di queste parole può emergere solo, ancora una volta, “storicizzando”, lasciando che i fili delle storie particolari («meno pietistiche e più reali», precisa l’autrice in un’altra intervista)[14] si annodino in un’unica vasta rete, che è poi quella di cui tutti facciamo parte – e dentro cui tutto si tiene.

Perché se da un lato l’essere italiano (o non forse «euroitaliano»?) non può oggi esulare dalla consapevolezza di un passato coloniale feroce, nemmeno può, dall’altro, trascurare l’intima e antica mescolanza delle culture che nel corso di secoli e millenni hanno attraversato la nostra penisola.[15]

Riconoscere e valorizzare tale pluralità, il molteplice che soggiace non solo alle società ma alla soggettività di ognuno, dovrebbe essere la norma, mai l’eccezione. E se lo è, a mio modesto avviso, è perché le frontiere e i confini nazionali, con la supposta identità che essi dovrebbero proteggere, hanno ancora priorità rispetto al fatto, semplice e persino banale, di essere tutti quanti umani.

In una società appena più giusta, venire al mondo come risultato di un intreccio geografico e culturale più manifesto di altri, quale appunto quello delle persone afroitaliane, sarebbe percepito come una ricchezza e non invece qualcosa di spurio che rischia, come nelle vite e nelle storie delle scrittrici che abbiamo letto, di portare donne e uomini all’esasperazione.[16]

La prevalenza di voci femminili nello spicchio di letteratura preso fin qua in esame può essere anche letta, alla luce di ciò, in chiave «letteraria» prima ancora che «sociologica», con la scrittura a fungere in qualche modo da rifugio, rimedio di fronte a un disagio vissuto in prima persona da soggettività che si sentono più in bilico di altre. Uno strumento che consente a chi quel disagio lo subisce in misura maggiore di esprimerlo – avendone i mezzi – in una forma emancipatrice, potenzialmente liberatoria, attraverso la quale provare a ricomporre i cocci di identità calpestate, scisse, in frantumi.

«Cosa significa essere italiano per me» è in ogni caso una domanda che dovremmo porci tutti. E la risposta sarebbe ancora la stessa: raccontare una storia, darne testimonianza. Nell’idea che conoscere la «nostra», di storia, vuol dire giocoforza conoscere anche la «loro». E viceversa. Perché quelle storie sono anche le nostre. E lette in filigrana, alla fine dei conti, le stesse. In ogni senso possibile.

Perciò, se è vero che «la mia casa è dove sono», è anche vero, declinando al plurale il bel titolo della Scego, che «la nostra casa è dove siamo». La casa in cui ci è toccato vivere, e convivere.

Dove eravamo rimasti, a proposito? Alla terzultima pagina. No, anzi, alla penultima.

E l’ultima? L’ultima finisce così: «È Igiaba, ma siete anche voi».

Ecco. Ecco.

 

 

Bibliografia:

  • Aa.Vv., Future, Roma, Effequ 2019
  • Aa.Vv., Pecore nere, Bari-Roma, Laterza, 2005
  • Angelo Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Bari-Roma, Laterza, 1992
  • Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005
  • Armando Gnisci, Il rovescio del gioco, Roma, Sovera, 1992
  • Djarah Kan, Ladri di denti, Busto Arsizio, People, 2020
  • Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Milano, Rizzoli, 2010; Torino, Loescher, 2012
  • Igiaba Scego, Figli dello stesso cielo, Milano, Piemme, 2021
  • Nadeesha Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza, Roma, 66thand2nd, 2021

 

Sitografia:

 

Filmografia:

  • Il leone del deserto (Akkad, 1981)
  • Il Re Leone (Disney, 1994)

 

 

27 giugno 2022

 


[1] Cfr. un suo racconto tratto dalla raccolta a più mani Pecore nere (Roma-Bari, Laterza, 2005), in cui narra tra le altre cose della necessità vitale, da lei avvertita in piena gioventù, di trasferire i vestiti dalle valigie all’armadio una volta per tutte.

[2] L’espressione spesso utilizzata in proposito è «migranti di seconda generazione», come se l’immigrazione fosse un contrassegno, un carattere che si trasmette per via ereditaria. Si tratta però di italiani a tutti gli effetti, sebbene non sempre riconosciuti come tali da una legge che in tema di cittadinanza è rimasta ferma al secolo scorso e continua a non accogliere misure di civiltà quale, per dirne una, lo ius soli.

[3] Stando al valore fornito dalla «Basili», acronimo di Banca dati degli Scrittori Immigrati di Lingua Italiana, fondata dallo stesso Gnisci nel 1997.

[4] Si tratta, in breve, di un metodo di ricerca sociologica che pone al centro il sovrapporsi delle componenti sociali coesistenti nella soggettività di ogni individuo, sulla base di categorie quali l’etnia, il genere, l’età, la fascia di reddito, la nazionalità, eccetera. Ciò consente di definire un quadro più completo e aderente alla realtà delle rispettive forme di svantaggio e discriminazione, nonché per converso delle possibilità di emancipazione e riscatto, che la concomitanza di tali fattori comporta all’interno di una società iniqua e gerarchizzata come la nostra.

[5] In Italia, d’altronde, ancora non è facile essere L’unica persona nera nella stanza (Roma, 66thand2nd, 2021), per citare il titolo di un recente lavoro di Nadeesha Uyangoda, autrice italocingalese e non afroitaliana, dunque, ma la cui scrittura tanto ha in comune, al netto delle distanze, con le autrici in questione. L’intento, in particolare, è qua di smascherare i pregiudizi che si annidano in certe espressioni del linguaggio comune, dentro parole che a chiunque potrebbe capitare di usare anche in buona fede.

[6] E sorvoliamo pure sui limiti di tale concetto e sull’ipocrisia che vi si nasconde dietro, per cui a “integrarsi” debbano essere sempre e comunque loro, gli “stranieri”, e mai “noialtri”.

[7] Cfr. il passo riportato al Link_1.

[8] Riportata in Igiaba Scego - La mia casa è dove sono (Torino, Loescher, 2012).

[9] Cfr. il brano riportato al Link_1.

[10] Cfr. «Educazione interculturale», volume 11, numero 3, 2013.

[11] Come il caso narrato da Igiaba Scego nel brano riportato al Link_2.

[12] Cfr. in particolare i passi cui rinviano i Link_1 e Link_3. .

[13] Vale la pena notare come questi ultimi racconti demoliscano in un sol colpo tanto lo stereotipo della donna africana ammaliatrice – peggio se veicolato da altre donne, bianche europee in primis – contro cui l’autrice scaraventa parole di fuoco nel frammento intitolato Cacciatrici di negre, tanto quello della donna in generale, e non solo africana, che non sarebbe in grado di svolgere determinati mestieri.

[14] Uscita sulla rivista «Jacobin» (di Alegre) nel dicembre 2019.

[15] Una mescolanza che coincide poi con l’umanità stessa, oltre che, in ultima istanza, con la vita medesima su questo pianeta.

[16] Il racconto La storia di Topo di Djarah Kan è emblematico da questo punto di vista.