Agostino Arciuolo - Leggere mastodonti

Su e intorno Horcinus Orca

 

Si celebrano, nel 2025, i cinquant’anni dalla prima pubblicazione di Horcinus Orca.

Se è vero che “leggere è toccare con gli occhi”, sarà anche vero che toccare un libro è già in qualche modo cominciare a leggerlo, con le dita, con la pelle. Il contatto fisico, coi libri di carta, è sempre il primo, inevitabile approccio. La filigrana della copertina, il dorso poggiato sul palmo, il pollice dell’altra mano che sfiora l’orlo delle pagine chiuse e le fa arieggiare, dando soffio all’inchiostro delle parole con l’odore inconfondibile della carta stampata.

Ci sono libri che già di primo acchito rivelano qualcosa di sé, di ciò che contengono, di ciò che tengono dentro. Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo è stato, per me, uno di questi. Fin dal momento in cui l’ho tirato fuori da uno scaffale in libreria ha preso a esercitare su di me, sul mio appetito da lettore, un certo ostinato magnetismo. La copertina semiruvida dell’edizione Rizzoli, le più di milleduecento pagine compresse nello spessore di pochi centimetri, il notevole peso specifico. Al punto che quasi stava per cadermi dalle mani, la cui presa non s’aspettava una simile compattezza. Ho dovuto soppesarlo due o tre volte, per calibrare la forza con cui reggerlo.

Nello sfogliarlo, poi, mi sono presto reso conto di quanto sottili fossero le pagine, dalla consistenza più prossima alla carta velina o a quella di certi quotidiani. Voltarle è stata un’azione compiuta ogni volta con una certa perizia, oltre al po’ di saliva sul polpastrello per girarne una soltanto, e non due o tre insieme.

Non ho potuto insomma far altro che comprarlo, portarlo a casa e trovargli un posto tra i ripiani del mobile che ho dovuto riadibire a libreria, esauritosi lo spazio su quella vera e propria. Da lì ha continuato, nelle settimane e nei mesi successivi, a lanciarmi il suo richiamo, nell’impazienza che arrivasse il suo turno di lettura. Una presenza che ho avvertito via via più ingombrante, come poche volte mi era capitato, perlopiù con libri la cui mole fisica e letteraria è talmente imponente da fare quasi genere a sé: Infinite Jest di Foster Wallace col suo iper-realismo grottesco e disperato, 2666 di Bolaño col suo infra-realismo (o real-visceralismo?) paranoide e spiraleggiante, Terminus radioso di Volodine col suopost-esotismo radioattivo.

Libri per intraprendere i quali occorre pure un certo slancio, una certa preparazione mentale (oltre che fisica, appunto – bicipiti in particolare, visto il peso da reggere nelle lunghe sessioni di lettura). Quando ho tentato la prima volta di incignare Horcynus Orca, intorno alla metà di settembre, non ero andato oltre la ventina di pagine, lette per giunta a spizzichi e distrattamente, la testa presa da tutt’altri pensieri.

Quando ci ho riprovato, al rientro da un breve viaggio, ho subito capito che fosse la volta buona: i fatti di cui leggevo si svolgevano nella stessa data di quel secondo tentativo: il quattro di ottobre, dettaglio che mi era sfuggito alla prima lettura, o a cui non avevo comunque dato molto peso.

Dal quattro all’otto di ottobre del 1943: questo l’arco temporale in cui s’inscrive la storia narrata da D’Arrigo (il quale, per contro, impiega vent’anni per scriverla e riscriverla, dandola infine alle stampe nel 1975). Quattro giorni in poco più di milleduecento pagine, con la media di trecento circa per ognuno. Nelle pagine finali, però, già a ridosso della millesima, il tempo del racconto si dilata a dismisura rispetto a quello della storia, che per converso s’azzera o quasi. Fosse un film, l’equivalente sarebbe un ralenti talmente bradipsichico da risultare indistinguibile da un’istantanea. Puro accavallarsi di ricordi sensazioni pensieri, flusso che escresce nella mente di ‘Ndrja, il protagonista, a fronte di una realtà che rimane pressoché immobile davanti alla punta del suo naso – o per meglio dire, come sa chi ha letto il libro,

delle sue orecchie. Viene da pensare, a proposito di mastodonti letterari, ad alcune tra le pagine più dense di Proust o Dostoevskij, come pure all’Ulisse di Joyce, con le sue ventiquattr’ore in un migliaio di pagine.

Quanto al tempo di lettura, invece? Sarebbe possibile, mi sono chiesto, iniziare e finire il romanzo entro una durata che fosse identica alla storia? Divorare l’Ulisse in un solo giorno, per dire, sarebbe un’impresa impensabile, ma Horcynus Orca in quattro? Trecento pagine fitte fitte nelle più o meno sedici ore quotidiane di veglia si potrebbero pure leggere, una ventina di pagine all’ora senza però fare nient’altro, a meno di non rinunciare finanche al sonno. In linea di principio sì, si potrebbe fare, ma in tutta franchezza non ci ho manco provato. Un paio di mesi, tra una cosa e l’altra, è il tempo che mi ci è voluto.

 

I rimandi con l’Ulisse, comunque sia, non si limitano a questi improbabili arzigogoli sulle tempistiche. Intanto perché D’Arrigo conosceva bene l’opera di Joyce e ne trasse ispirazione; e poi perché entrambi i romanzi hanno nell’Odissea omerica il loro illustre antenato comune. La più diretta delle linee parentali è già nella trama: Horcynus Orca racconta le vicissitudini di un marinaio sopravvissuto alla guerra che cerca, tra mille impedimenti, di tornare a casa. E lo fa attraversando lo Stretto di Messina, da Scilla a Cariddi, in compagnia di una certa Ciccina Circé, personaggio il cui nome è già tutto dire. La guerra in questione è la Seconda Mondiale, nel periodo appena successivo all’armistizio, ma D’Arrigo ne parla più coi toni del mito che con quelli della storia, mescolando l’epica alla cronaca, il passato recente col passato remoto.

Un narrare il cui incedere sembra riprodurre i movimenti del mare, a tratti facendo da culla e a tratti da burrasca, con una punteggiatura più funzionale al ritmo e alla musicalità del periodare che non alla sintassi. Le virgole tra un’onda e l’altra, i punti che quasi faticano a fissarsi in mezzo alla marea, parole e pezzi di frasi che ritornano e fanno come da risacca. L’impressione è di trovarsi a bordo di una barca in mezzo a un ondeggiare incessante, una mareggiata che non può trovare pace se non nel punto finale, per l’appunto, “dove il mare è mare” (citando l’explicit del romanzo).

Il linguaggio di D’Arrigo è florido e polimorfo, in grado di toccare vette di lirismo e bassezze di volgarità in uno stesso giro di frase. È “inconversarsi”, è “apparolarsi”, è un susseguirsi di “parolette” che insieme compongono un favellare ammaliante, mescolanza spumosa di espressioni dialettali (sfantasiato, ciuciulìo, muccuso), termini stranieri italianizzati (abitué, sciantiglì, ferribò), neologismi talmente azzeccati da non sembrarlo (improcintarsi, scantesimare, acconchigliato, sempreterno), giochi di parole mai fini a se stessi e pregni anzi di significato (verso avverso e traverso, dalla riva alla deriva, falsimile, oreocchio, usabuso). Un linguaggio che più che un linguaggio, potremmo dire, è una lingua vera e propria.

Immagini memorabili, visioni tra l’onirico e il materico, emergono dall’increspatura delle pagine: pesci-rondine con le “pinn’ali”, delfini (nel romanzo chiamati “fere”, nemiche giurate dei pescatori) che allo scoccare dei trent’anni d’età vanno a gettarsi nel cratere fiammeggiante di Stromboli, un calco della testa di Mussolini usato come pisciatoio fino a vederlo sfaldarsi in concomitanza col regime, un anziano vestito con rattoppi cuciti insieme di divise nemiche – immagini, queste ultime due, che potrebbero valere da sole come manifesti, rispettivamente, di antifascismo e antimilitarismo.

Fa da sfondo il tópos del viaggio, della ricerca. Che non si esaurisce nel momento in cui ‘Ndrja Cambrìa, l’Ulisse di D’Arrigo, raggiunge l’oggetto esteriore del suo cercare, ovvero la casa natale e il padre che ancora ci vive, ma che si rivela invece pretesto per una ricerca più profonda, esistenziale, interiore. Uno scandaglio doloroso, agitato come le acque del mare che se ne fa specchio, e che porterà all’unico possibile degli esiti immaginati.

 

Non può che tornare in mente il già citato 2666 di Bolaño e, tra i personaggi che vi compaiono, l’improbabile scrittore tedesco Benno Von Arcimboldi, la cui ricerca attraversa quell’opera come inseguimento di qualcosa che sfugge e che pure, al contempo, rimane là, al centro di tutto. Viene anche in mente, restando in tema di letteratura latinoamericana, Rayuela di Cortázar col suo capitolo 55, che la numerazione alternativa, pur girandoci intorno a mo’ di trottola, non arriva mai a far leggere. Cosicché, alla fine, neanche ha più senso chiedersi cosa c’è, in quel centro misterioso, sul fondale di quel mare che sta e permane sotto gli occhi di tutti.

Mare che, in Horcynus Orca, funge da presenza fissa, dalla prima all’ultima pagina. Un mare ipnotico, ricettacolo di vita e di morte, sostentamento e scomunica per chi ci vive a ridosso; un mare rispetto a cui la terraferma pare esistere solamente per contrasto, pura costa priva d’entroterra; un mare stretto, di nome e di fatto, ma che pure contiene vastità, carico di allegorie e stratificazioni; un mare che è “duemari”, come scrive D’Arrigo, tra “Scill’e Cariddi”, così, con l’apostrofo, quasi a volerne accorciare ulteriormente le distanze. Jonio e Tirreno fusi in uno, spazio di confine che per chiusura d’orizzonti s’inabissa in verticale, giù negli sprofondi (un po’ come anche il tempo, che si dilata in intensità – dicevo pocanzi – più che in estensione).

Ed è dagli sprofondi, non per niente, che dopo decenni di letargo riaffiora la bestia marina che domina e intorno a cui fa perno la terza e ultima parte del romanzo. Un’orca gigantesca e, a detta dei compaesani di ‘Ndrja, immortale, con una piaga purulenta e mai cicatrizzata lungo un fianco, voragine oscena da cui non cessano di esalare fetori di decomposizione – la quale, però, stante la presunta immortalità dell’orca, potrebbe non avere mai fine.

Impossibile non pensare, ancora a proposito di mastodonti letterari – in senso figurato e non, in questo caso – al Moby Dick di Melville, che certamente D’Arrigo aveva ben presente (insieme con quell’altro capolavoro della letteratura statunitense che è Il vecchio e il mare di Hemingway). Il mare di Melville è l’oceano, la “parte acquea del mondo” (secondo la traduzione italiana di Cesare Pavese), laddove invece il mare di D’Arrigo è “stretto”, si diceva, in tutti i sensi, pur riguadagnandone in profondità. E però l’oceano è più volte evocato in Horcynus Orca, come matrice primordiale da cui l’orca stessa, con le altre “fere”, proviene.

In entrambi i romanzi, poi, ci sono pagine di natura per così dire “enciclopedica”. In quello di D’Arrigo, nella fattispecie, la bestia viene a volte descritta per bocca di un delegato di spiaggia sulla base delle informazioni contenute in un libro illustrato e scritto, non forse a caso, in inglese. Ma è in altre pagine che lo scrittore regala le descrizioni più intense e suggestive dell’“orcaferone”, come in esse vi si riferisce – benché sia poi il nome scientifico a dare, per curiosa ironia, titolo alla ventennale fatica.

Della sua balena bianca, da par suo, Melville parlava biblicamente come un “Leviatano” e scriveva che fosse «l’unica creatura al mondo che dovrà restare senza ritratti sino alla fine» (sempre nella traduzione di Pavese). Lo stesso si potrebbe dire dell’orca “orcinusa” di D’Arrigo, a dispetto di ogni enciclopedia o libro illustrato che fosse. Descriverla, parlarne, è già di suo un’impresa epica. Impresa che accomuna i due autori e che pare quasi riflettersi nella volumetria e nel peso specifico di entrambi i romanzi, imponenti come le bestie marine che contengono, che tengono dentro. Come intrappolate, in letargo, nell’attesa di essere risvegliate a ogni lettura. A partire già dai titoli, dalle copertine, prima ancora che vengano scoperte. A pelle, da quel primissimo contatto che, sulla scorta di quanto detto in apertura, è già a modo suo un cominciare a leggere.

Per giungere al termine, tuttavia, per poter richiudere la risma di pagine dal lato opposto, sotto la quarta di copertina, occorre che tutto si smargini e si spalanchi. Ecco allora perché lo squarcio sul fianco dell’orca non potrà mai rimarginarsi: perché per leggerne si fa necessario ogni volta il gesto dell’aprire, dello squadernare la compattezza del libro-orca e rinnovare tra le mani quella ferita, quella contraddizione che è la vita stessa e che la letteratura ha il compito di mostrare, di portare e riportare a galla.

E d’altro canto, per citare una scritta illuminante in cui mi ero imbattuto camminando sotto i portici della bolognese via del Pratello, «non sono le persone ad aprire i libri, ma i libri ad aprire le persone».

Ecco: meglio di così non si può dire.

 

 

14 novembre 2025