Rosa Rita Marchese - Le opportunità della crisi: letteratura latina, formazione, ricerca

Governare il cambiamento / Quali sfide per chi insegna (e impara) la letteratura latina? / Operare per un disegno più ampio: quali linee di ricerca privilegiare? / Una cultura a lungo termine in una società e in una economia di soggetti a breve termine / Contenuti, strumenti? Quali sono i veri oggetti della conoscenza letteraria / Essere capaci di affrontare il cambiamento senza invocare generici protezionismi / Sunt aliquid Manes

1. Governare il cambiamento

 

Per cominciare, entriamo nella cornice narrativa del Brutus di Cicerone: sono i primi mesi del 46 a.C., ed egli si trova a Roma. La città è quasi deserta, in attesa di quanto si decide sui campi di battaglia in Africa. Nella solitudine della sua casa, senza più alcuna delle occupazioni che impegnavano la sua vita precedente, l’ex pompeiano si trova oppresso da cure e da sollecitudini che si rischiarano solo quando il suo amico di sempre, Attico, e il giovane che egli desidererebbe investire della sua eredità culturale, Bruto, lo vanno a trovare e reclamano un dono ad essi dovuto: il ricordo e il racconto del posto che gli oratori romani hanno avuto nella definizione del modello più importante che la società repubblicana abbia saputo costruire, quello della parola usata per intervenire nella realtà e introdurre in essa un cambiamento. Ora che il cambiamento è indotto da altre forze e da altri soggetti, Cicerone cerca comunque di governarne e di temperarne gli effetti sulla sua vita personale e su quella dei suoi amici salvando e trasmettendo al futuro il meccanismo della competizione e della reciprocità che è stato alla base del modo di agire e intervenire nella realtà. In una stagione in cui le regole della condotta politica e del vivere comune hanno perduto il proprio abituale valore, perché la cornice di riferimento è stata stravolta, Cicerone ha la pretesa di salvare con il ricordo la funzione produttiva del confronto interpersonale e intergenerazionale, e di trasmetterlo come eredità a coloro che dovranno assumersi le responsabilità del nuovo in un futuro che non sarà res publica e che egli neppure sa immaginare. La speranza delineata da Cicerone nel Brutus è che il filo della memoria possa continuare a garantire a chi verrà dopo di lui coesione, identità, proiezione nel futuro.

 

2. Quali sfide per chi insegna (e impara) la letteratura latina?

 

E noi? Pare proprio, tutti lo dicono, che l’epoca che stiamo vivendo abbia fatto del cambiamento e dell’innovazione perenne il suo motore. Non siamo stati costretti ad affrontare le trasformazioni indotte da una guerra, come era accaduto ai genitori di chi appartiene alla mia generazione, ma abbiamo vissuto passivamente la crescita esponenziale e incontrollata del modo occidentale di costruire la ricchezza e di farla circolare nelle nostre società, di utilizzare la terra come risorsa inesauribile da sfruttare. Siamo nel fondo del vaso di Pandora, dice Spencer Wells in un suo recentissimo libro (Il seme di Pandora, tr. it. Codice edizioni, 2011), dove si trovano le conseguenze non previste della nostra civilizzazione: diffusione di malattie non conosciute prima, tensioni sociali, lo stremo del nostro pianeta inquinato e consumato. A chi tocca governare questo cambiamento? L’opinione più diffusa è che a salvarci possano essere le stesse capacità creative e innovative, capacità intellettuali, che hanno consentito agli uomini come specie di arrivare sin qui, purché (e qui le posizioni si differenziano) si voglia di meno, si sostituisca il modello della crescita con quello della decrescita, si elabori un terzo paradigma oltre l’utilitarismo e il sostanzialismo, si reagisca con risposte culturali alla fine del sociale, si coltivi l’umanità, e potrei ancora continuare per un bel pezzo nell’elenco. Ma quel che conta è che tutti i campi del sapere, tutti i frutti dello sforzo intellettuale e culturale dell’animale-uomo sono chiamati all’appello. Sarebbe ben strano che non potessero giocare la propria parte proprio i saperi che creano strumenti di riflessione e di intervento nella vita dei gruppi umani. Quei saperi sono adesso ai margini della riconoscibilità sociale, non fanno successo, non creano ricchezza. Molti sospettano quasi che non creino neanche conoscenza. Dall’eccesso di specializzazione, che fino a qualche tempo fa faceva dei classicisti un gruppo ristretto di persone dotate di strumenti e conoscenze raffinate, persone orgogliose della propria rarefazione, siamo arrivati in breve all’eccesso di genericità: in effetti, la maggior parte delle persone con cui parlo crede per esempio che apprendere/insegnare la letteratura latina non abbia bisogno di strumenti specifici, perché non ha altra utilità del conseguimento di una conoscenza autoreferenziale. La vera ricerca è altrove, la vera formazione si fa in altri ambiti. La cifra specifica dell’apprendere/insegnare latino, per esempio la capacità di riflettere sulla lingua, l’insieme delle competenze complesse necessarie ad affrontare l’esperienza della traduzione da una lingua all’altra, la capacità di distinguere i contesti di riferimento del testo e del suo lettore, appare di per sé non significativa: le politiche dell’istruzione scolastica e universitaria hanno tagliato sui contenuti e sulle ore, hanno scelto politiche della valutazione della ricerca tarate sui comparti “tecnico-scientifici” del sapere. Eppure, per me e i miei studenti, insegnare e apprendere la letteratura latina significa insegnare e apprendere un metodo di lavoro complessivo sui testi, fatto di comprensione e riflessione linguistica, di controllo critico sulla traducibilità di tali testi nella nostra lingua e nella nostra cultura, di interpretazioni, di vigile distinzione tra le opposizioni e le dinamiche che hanno generato i testi e che essi hanno incarnato per i loro contemporanei e quelle che invece sono generate dalle nostre domande e risposte, di passaggi delicati ma consapevoli tra le spoglie delle interpretazioni precedenti alle nostre. Insegnare e apprendere una simile pratica di lavoro ha un valore intrinseco per gli studi letterari, ma il vero problema è che la bontà dell’acquisizione di strumenti di un mestiere si scontra con l’impossibilità di una immediata e consequenziale destinazione professionale. La cornice sociale ed economica ha posto ai margini la possibilità di usare competenze e conoscenze come quelle che si maturano in un corso di laurea in Lettere per costruire una figura professionale definita e riconoscibile per il suo ruolo e i suoi compiti specifici. In questi anni di assedio della compagine professionale e sociale legata alla produzione e alla circolazione dei saperi umanistici, la domanda deve essere un’altra, e deve riguardare non il perché, ma il come: come questa pratica di lavoro, marginale tra le competenze professionali richieste dalle nostra società, possa valorizzare ciò che comunque possiede, e cioè una funzione formativa riutilizzabile in altri contesti, la capacità di sviluppare, esercitare e consolidare abilità trasversali. Dobbiamo ripartire, molto banalmente, dalla restituzione di questo valore educativo alle nostre pratiche di lavoro.

 

3. Operare per un disegno più ampio: quali linee di ricerca privilegiare?

 

Per un certo periodo, per chi si occupava professionalmente di letterature classiche è stato necessario innovare gli oggetti di studio, disoccultare quelli che per tanto tempo erano rimasti privi di visibilità e lontani da ogni interesse perché poco in linea con una certa idea di antico e di classico. Questa tendenza si è utilmente coniugata con quella che ha indotto gli antichisti a confrontarsi con metodi di studio e di indagine distanti dalle pratiche tradizionali, e ha dato un contributo importante alla riconfigurazione del canone degli autori e dei saperi espressi dalla storia della letteratura latina. In questa stagione nella quale i confini stessi delle istituzioni universitarie, nelle quali gli studi di antichistica sono praticati in termini di formazione e di ricerca, sembrano avere smarrito la loro funzione di luogo deputato all’elaborazione di pensiero libero e critico, il problema del novum deve essere riaffrontato per provare a saldare la cultura umanistica con quelle che a livello europeo sembrano le sfide cruciali per la società contemporanea: circolazione della conoscenza, realizzazione di strumenti di critica informata e di intervento nella realtà, costruzione di identità e di integrazione, approfondimento delle dinamiche di relazione in direzione di costruzione del rispetto e della comprensione fra uomini (sto citando non casualmente in ordine sparso gli obiettivi strategici di HORIZON 2020, il grande Framework “per la Ricerca e l’Innovazione” elaborato dalla Commissione europea). Allora non tanto sugli oggetti di studio mi pare che debba essere rivolto lo sforzo del rinnovamento, ma alla definizione della cornice, ai rapporti di senso che lo studio e la ricerca in questi ambiti possono, ma hanno anche il dovere di istituire con il mondo contemporaneo e le sue sfide (mi piace pensare che questa sia l’opportunità che la crisi che attraversiamo ci offre). La mancanza di collegamento è il dato che appare più macroscopico in tutti i settori specifici del cosiddetto comparto umanistico; tanto è vero che tale lacuna viene per lo più colmata provando a trovare spazi di interazione con le cosiddette nuove tecnologie, che del novum sembrano avere in ambito scientifico l’esclusiva. Ma tali tentativi spostano lontano gli studi umanistici da quella che sembra essere contemporaneamente la più specifica e la più contagiosa, trasversale risorsa: mettere in circolo conoscenze che non semplicemente pesano e contano come tali, ma per le trasformazioni che riescono a determinare negli strumenti con i quali ogni uomo legge, interroga e interpreta la realtà in cui è chiamato a vivere, a operare, a fare delle scelte.

 

4. Una cultura a lungo termine in una società e in una economia di soggetti a breve termine

 

Stiamo attraversando le conseguenze di quello che viene chiamato capitalismo flessibile nelle nostre vite personali: la mobilità, l’incertezza, la perenne innovazione che gli scenari del lavoro contemporaneo ci chiedono determinano negli stessi soggetti senso di fallimento e di frustrazione, perché le qualità richieste dal lavoro e quelle richieste dalla morale non sono le stesse. E’ l’esito di quello che mirabilmente Richard Sennett chiama “the corrosion of character”, un processo di corrosione delle personalità che ha prodotto individui ai quali si chiede di agire a breve termine, abbandonare rapidamente le esperienze passate, rinunciare a un progetto complessivo di realizzazione (L’uomo flessibile, tr. it. Feltrinelli 2001, ma anche La cultura del nuovo capitalismo, tr. it. Il Mulino 2006). Quali saperi possono rispondere al desiderio di costruire attaccamento, fiducia, profondità da parte di chi non riesce a trasformare la propria vita personale in una narrazione continuata? Cosa può impedire che il desiderio di comunità che nasce da soggetti che non riescono a costruirsene una con il proprio lavoro non si trasformi in un noi escludente, che si esprime in termini di difesa, nella forma del rifiuto dell’altro? Sono i compiti che, tra l’altro, una cultura a lungo termine, definita storicamente e dotata di meccanismi di autoriflessione come la cultura umanistica può assumersi, per offrire stabilità, strumenti critici, memoria, strategie di auto narrazione agli uomini del nostro tempo, che si sentono vittime di sfide troppo grandi, di cui non riescono ad assumersi pienamente la responsabilità. Come è possibile che quel mondo che incita al recupero di connessioni tra uomini sia tanto miope da non valorizzare i saperi che possono offrire un contributo di sostanza all’assunzione di queste sfide? Non è che per caso anche tra coloro che operano professionalmente entro le cornici di insegnamento e di ricerca della cultura umanistica è prevalsa l’idea che la capacità di innovazione spetti alle cosiddette nuove tecnologie e ai saperi tecnici, connessa come essa sembra ai più agli effetti commerciali, di marketing, di vendita della scoperta? Perché persino noi stiamo venendo meno a questo desiderio, adesso che è così forte e così essenziale? Perché non siamo disposti a mettere in gioco, in tutte le sedi nelle quali operiamo, la sensibilità e le implicazioni sociali dei nostri studi? C’è un qualche ritardo disarmante nella nostra reazione a questo appello, in molti, come Carla Benedetti nel suo assai discusso Disumane lettere (Laterza 2011), denunciano il sonno e la paralisi che paiono imprigionare i saperi umanistici in Italia.

 

5. Contenuti, strumenti? Quali sono i veri oggetti della conoscenza letteraria

 

I contenuti dei nostri studi sono strumenti, e i nostri strumenti, le nostre pratiche di lavoro, sono contenuti buoni a rimettere in prospettiva il breve termine delle nostre vite e la relazione perduta con un sociale che è diventato globale e che ha bisogno di paradigmi culturali per essere governato. La mia idea è che di fronte ad un elevato numero di ricette teoriche, la reazione di chi opera nell’ambito delle humanities debba riguardare l’assunzione decisa di buone pratiche, che dell’apprendimento/insegnamento umanistico individuino come risultato più importante quelle abilità che si depositano nel soggetto in termini di formazione: quelle abilità che in questo momento non possono essere pesate, misurate, valutate per le loro ricadute nel mercato del lavoro, ma che hanno un ruolo enorme nella formazione di un self che abbia cittadinanza attiva e consapevole in un mondo sempre più grande in cui, come ho detto, appartenenza e affezione sembrano parole proibite, mentre però si cercano (e talvolta si creano, come con i social networks) forme di comunità alle quali appartenere. Spero di chiarire quello che intendo attraverso un’altra storia, che Seneca racconta in ben. 1, 8-9, anche se non mi nascondo il fatto che la considero esemplare perché nella vita faccio la latinista; ma in fondo qui di questo devo parlare. Dunque, Seneca racconta lo scambio di munera, di prestazioni e contraccambi, che circola tra un maestro e i propri allievi. Il maestro istruisce e ogni allievo gli offre quanto può in base alla propria disponibilità economica. Capita anche a Socrate, che ha tra i suoi allievi giovani molto ricchi, ma anche Eschine, un giovane poverissimo e pieno di talento. Come farà quel giovane a ricompensare il suo maestro per i doni del suo insegnamento? Eschine il modo lo trova: gli dona se stesso, l’unica cosa che ha, e accompagna questo dono sottolineando come esso sia un investimento ben più prezioso di quello fatto dal più ricco dei suoi compagni. Socrate non è da meno: riconosce il valore estremamente prezioso di quel dono, e si impegna a occuparsi di Eschine, per renderlo migliore di com’era quando lo aveva ricevuto. Tra i due circola una trasmissione di conoscenze delle quali Eschine, ingeniosus adulescens, coglie la parte migliore: la capacità di distinguere e di valutare (pretium se sui facere) se stesso e la qualità del rapporto con gli altri. In piena sintonia con lui, Socrate riconosce in questa capacità il risultato migliore della sua pratica educativa.

 

6. Essere capaci di affrontare il cambiamento senza invocare generici protezionismi

 

Ma torniamo a noi, a questo presente scivoloso. Siamo allora, noi che ci occupiamo di letterature ‘classiche’, noi che facciamo i latinisti, parte di un sapere da proteggere? Dove, e come? Il nostro sistema di istruzione secondaria ha goduto di una posizione privilegiata rispetto alle articolazioni europee. Il latino è ancora presente come insegnamento e apprendimento obbligatorio in diversi percorsi liceali, sia pure con articolazioni orarie e obiettivi disciplinari differenziati, mentre altrove, già a partire dagli anni 60 del secolo scorso, le lingue classiche hanno conseguito un posto solo tra le discipline opzionali. E oggi, con i tagli lineari che si sono abbattuti sulla scuola secondaria nel corso dell’ultima legislazione, l’opzionalità è sbandierata, promessa, minacciata come la prossima necessaria tappa. Non possiamo nasconderci il fatto che a questo punto assai critico ci ha condotto anche una qualità assai bassa dell’insegnamento del latino (e del greco). Se neppure il liceo classico, nel quale gli insegnamenti disciplinari del latino e del greco sono caratterizzanti del percorso di studi, riesce a disegnare nel profilo delle competenze in uscita un’impronta compiuta e riconoscibile non dico solo in termini di contenuti, che possono essere recuperati in segmenti di formazione successivi, ma in termini di habitus e di pratiche metodologiche, cosa possiamo sperare dagli altri ordini di studio secondario? Certo, le valutazioni ministeriali ci dicono che egualmente basso è il livello che caratterizza insegnamenti e apprendimenti di matematica, fisica e scienza. Ma questi ambiti disciplinari hanno reagito, istituendo percorsi volti a valorizzare insegnanti e studenti, come nell’assai riuscito Piano delle Lauree Scientifiche che, nato nel 2004 per correre ai ripari rispetto alla flessione degli iscritti nei corsi di laurea di competenza, gode di ottima salute e rilancia l’obiettivo di mettere a sistema le pratiche migliori e di sperimentare nuove azioni che rafforzino i rapporti Scuola e Università e tra Università e mondo del lavoro. Nessuno si sogna di dire che occorre ridurre le ore di matematica, addirittura questi saperi sono fortemente (ed esplicitamente) valorizzati nei documenti europei che esortano allo sviluppo di “competenze chiave” per l’apprendimento permanente (come nelle “Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio” del dicembre 2006). Le reazioni degli antichisti sono state generiche, devo dire con scarsa consapevolezza della velocità con la quale si passa dalla genericità al silenzio, e colpevolmente, in tutte le occasioni di rinnovamento degli ordinamenti, ci siamo persi dietro alla frammentazione dei nostri sentieri accademici. A raccogliere la sfida sono, in questo quadro, le associazioni disciplinari, come l’impegno meritorio esplicato in questi intensi mesi dalla Consulta di Studi Latini. Sono convinta che questa sia una strada da perseguire, in un duplice senso: migliorare la qualità dei nostri protocolli di insegnamento/apprendimento disciplinare, valorizzarne gli esiti sia in termini di formazione professionale sia in termini di ricadute formative trasversali (purché queste siano assunte seriamente come compito e non come pretestuosa giustificazione della propria utilità cognitiva: mai più vorrei sentire che il latino “promuove la logica”, ma mi piacerebbe sentire più spesso che “non controlla l’uso delle nostre lingue, dell’italiano e dell’inglese in particolare, chi non si è nutrito di latinità”, come fa De Mauro nell’introduzione a M.C. Nussbaum, Non per profitto, tr. it. Laterza 2011); promuovere linee di intervento concrete entro un quadro generale che è disposto a riconoscere lo scandalo dell’impoverimento culturale delle giovani generazioni ma trova assai più facile marginalizzare ciò che funziona per piccolissimi numeri. Insegnare (e apprendere) le letterature classiche deve essere in primo luogo un’operazione dotata di senso in tutti i segmenti della formazione, capace di contribuire al consolidamento di competenze e abilità trasversali utili ai cittadini delle nostre società democratiche, pronta a realizzare profili professionali di insegnanti in grado di preparare i propri studenti ad esplorare cosa sta dietro il presente delle loro vite e il breve termine dei loro progetti, e di restituirli al mondo, come Socrate con Eschine nel racconto di Seneca, più dotati di mezzi per viverne la complessità.

 

7. Sunt aliquid Manes


Né la cornice del Brutus né la storia di Socrate e di Eschine parlano di noi, me ne rendo conto. Ma hanno il potere di relegare l’attualità delle nostre vite al rango di rumore di fondo (sto citando la pagina ‘classica’ di Calvino su ‘perché leggere i classici’) e nel contempo costituiscono il rumore di fondo persistente quando l’attualità, nelle nostre vite, la fa da padrona. Insegnare/apprendere queste storie, questi contenuti/strumenti che sono i classici non ci serve per conoscere un “dover essere”, ma per avere filtri che diano spessore alla nostra esperienza della realtà, filtri senza i quali pare di restare troppo permeabili alle verità univoche, veloci e di brevissima durata che il mondo contemporaneo ci offre, ma con i quali possiamo operare strategie di lettura e di orientamento critico nelle nostre vite a breve termine. Come diceva Franco Fortini (nella voce Classico dell’Enciclopedia Einaudi, vol. III), storie come quelle che vi ho raccontato io si trovano in testi molto diversi da noi per linguaggio e visione del mondo, ma questa diversità ci appare “nel massimo della somiglianza. I classici di una lingua e di una letteratura o di una civiltà hanno con il nostro presente un rapporto perturbante, di familiarità e di estraneità. Sunt aliquid Manes” (Fortini citava con altera noncuranza Properzio, l’apertura dell’elegia 4,7, un testo che si interroga sul modo pregnante in cui chi non c’è più riesce comunque a essere presente nell’esistenza dei vivi). Pensate un po’ a tutte le volte che ci sentiamo dire che ci occupiamo di lingue e di culture morte, come si ama fare per declassare gli studi umanistici a forme morbose e inutili di necrofilia. Certamente sì, ci occupiamo di cose non più vive, ma altrettanto certamente quel qualcosa che sono le spoglie di una letteratura e di una civiltà sunt aliquid, sono qualcosa che consente di esperire, attraverso la conoscenza e la padronanza di strumenti linguistici e cognitivi forti, la propria relazione con la nostra contemporaneità, della quale occorre fare emergere la complessità sfuggendo al rischio di dare una sola, parziale, superficiale lettura dei fenomeni che accompagnano le nostre vite. E’ la grande lezione di E. Said, un intellettuale che nella sua ultima opera raccomandava agli americani vittime dell’11 settembre di ripartire dall’umanesimo come forma di critica verso tutti gli integralismi, come strumento per vivere pienamente una forma di cittadinanza consapevole del mondo (Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, tr. it. Il Saggiatore 2007). Non sentite anche voi di nuovo un persistente rumore di fondo, diverso ma simile alla storia che ho raccontato all’inizio di questo contributo?


Pubblicato il 11/10/2012