Patrick Fogli - Il racconto della paura. Parigi, 11, 2015

Scrivo in un luogo in cui la grammatica è il silenzio, scrivo con il mio gatto a fianco, dorme, ogni tanto apre un occhio, controlla che sia ancora qui, dorme di nuovo. Scrivo mentre fuori c’è una giornata di sole, una luce autunnale di foglie arancioni e rosse. Scrivo dopo Parigi, scrivo di paura.
Venerdì sera, steso sul divano, guardavo Facebook prima di andare a letto. L’ho saputo così.
Era ieri, poche ore quando comincio queste prime righe, eppure ho la sensazione che si tratti di un altro mondo, un’era geologica diversa.
Prima di aver avuto paura e dopo.
Ho acceso la televisione, ho guardato per un po’ gli speciali che tentavano di mettere ordine là dove ordine non poteva stare e alla fine sono andato a dormire.
Alla mattina i dettagli erano molto più chiari, quello che era accaduto già delineato nelle sue linee principali.
Ho aperto di nuovo Facebook, c’erano un paio di messaggi a cui rispondere, l’ho fatto e ho guardato la timeline.
La paura è arrivata lì, come un’onda di piena che scende a valle, che sai che arriverà e comunque ti sorprende, è in grado di coglierti alla sprovvista. Ho letto i post, tanti, un vomitatoio insensato di rabbia, slogan, odio. E mi sono sentito solo. Forse è presuntuoso, lo so, ma è accaduto. Solo. Così ho scritto due cose, sono uscito, ho continuato a pensarci e ho capito che quella solitudine che immaginavo di provare, in realtà era paura.


Non paura di Daesh. Non ho paura del Califfato e nemmeno del terrorismo globale con cui conviviamo dalle torri gemelle.
Mi spaventa l’incapacità di ascolto, l’assenza di ragionamento, le sciabole sguainate, i fascismi tronfi e rivendicati, lo sproloquio messo a sistema e anche il buonismo inutile, zuccheroso, fasullo, quasi bigotto.
Conosco bene i meccanismi della paura collettiva, ne ho scritto, continuo a ragionarci, li ho visti all’opera, sentiti addosso. Ma vederla lì, di colpo, tutta insieme, indovinarne i confini, aveva l’aria di una corrente troppo forte, capace di scardinare la forza delle gambe e trascinarti via.
È l’assenza di realtà, che mi fa paura.
In un mondo privo di confini ideologici circoscritti, la violenza verbale di quelle certezze, il numero delle persone da cui viene, mi ha terrorizzato più di quello che continuavo a scoprire sulla notte francese.
Così, per la minuscola porzione di vita pubblica che implica il mio mestiere, ho deciso che tutto è cambiato.
E che l’unica cosa che posso fare, è tentare di scrivere.
Scrivere di paura, di quella paura.
Giorgio Gaber, anni fa, citando un altro cantautore, disse che la cosa che lo preoccupava non era Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me.
Pensieri sparsi, forse, roba che non nasce oggi, qui, adesso. Ma che oggi, qui, adesso, cerca la sua strada, gira l’angolo, prende una direzione.
Precisa. Forse.
Vorrei parlare di Daesh, cercare di capire, non di spiegare.
Molti punti aperti, cerchi da chiudere.
Frammenti di un discorso che non si esaurisce qui.


Quelle reazioni hanno a che fare con Daesh, con Parigi? Sì. No.


È difficile immaginare che uno che scrive romanzi possa definirsi realista, eppure cerco di esserlo. Realista nel senso di attaccato alla realtà, mani, piedi e sogni.
Consapevole potrebbe essere una definizione migliore, ma non è il momento di porre mano al dizionario.
Perché ho avuto paura? Conosco la reazione della gente, quella rabbia smodata, spesso senza un motivo, che ti colpisce alle spalle e trova la sua valvola di sfogo perfetta nei pochi caratteri di un tweet o nei troppi di un post. La evito, quando posso e riesco, tento di arginarla, a volte smettendo di leggere le notifiche a quello che scrivo. Quando scrivevo.
Per molti versi mi pare figlia di quel cordoglio da cartolina che arreda le scene dei delitti di pupazzi, messaggi, poesie, disegni. Parente delle certezze da televisione del pomeriggio, della mistura un po’ incestuosa di fatti, politica, sangue e pettegolezzi, di tutto quel letame vischioso di cui siamo circondati e adoriamo farci circondare e che sfocia in furibonde indignazioni in grado di resistere fino all’acqua sul fuoco, alla pasta da condire o in giudizi sommari basati su poche inquadrature o presunzioni di verità. Niente di nuovo, no. Tutto già visto.
Si potrebbe anche dire che i social non sono il mondo reale, un’osservazione che mi pare pertinente fino a un certo punto. Del mondo reale hanno di certo la rappresentazione e confinano spesso con l’inconsapevolezza del contesto, quell’illusione un po’ becera per cui posso insultare qualcuno su un post e abbracciarlo per strada, come se online agisse un mister Hyde di cui non sappiamo nulla. Sono tutte ipotesi che riconosco, ma che mi sembrano riduttive. La rabbia che leggo, che leggevo anche prima – contro i politici, il fisco, le tasse, la chiesa, gli editori, gli scrittori, tutti quanti a turno – è reale, appartiene a chi la scrive, che abbia o no il coraggio di viverla fuori da lì. È un dato di cui bisogna tenerne conto.
E i risultati si vedono. Almeno, credo di vederli.
In più questa volta si tratta di Daesh e dice molto, forse troppo, forse troppo tutto insieme, delle dita che hanno digitato quelle frasi, del loro mondo, delle loro certezze, del contesto.
Ecco, è il contesto che mi ha fatto paura.
Perché assomiglia a uno specchio.


Siamo realisti, viviamo nel mondo, c’è una parte di rischio che non si può eliminare.
Eppure la nostra paura si fonda proprio su quella parte di rischio, per certi versi non dissimile da un incidente stradale, un deragliamento ferroviario. La prima società che non conosce il significato fisico della parola guerra, ha un bisogno primario di azzerare l’ignoto e cancellare il rischio dalla propria vita.
Una vita comoda, diciamolo, in confronto a quello che accade nella maggior parte del mondo.
Comoda un cazzo, sento di dire in sottofondo.
Ecco, appunto.


Quella società è la stessa che vorrebbe impedire a un pilota di un volo di linea di impazzire e suicidarsi con tutto l’aereo contro una montagna. Impedire una volta a bordo, intendo. Parlo di reazione, non di sana e necessaria prevenzione. Spero sembri anche a voi un desiderio imbecille, eppure ne abbiamo discusso per settimane.
Quella società è la stessa delle mille petizioni online che, per esempio, si preoccupa di ripopolare il lupo e si rende conto, solo dopo averlo ripopolato, che di lupo si tratta. È la società che cerca una colpa, santifica gli alibi e finge di non capire, la società che ha avuto tutto servito su un piatto e non è più capace di reagire quando cercano di sottrarglielo di mano.
La società dello show, la retorica senza sostanza, il colpo di scena senza storia.
La società potenzialmente più sicura della storia dell’uomo, con le malattie endemiche sconfitte, i diritti del lavoro, abbastanza soldi per mangiare tutti i giorni, Internet quasi come diritto, l’informazione planetaria, la tecnologia che inventa nuovi mondi ogni istante. La società che vive nel futuro. Al sicuro, appunto, con la miglior declinazione possibile della parola, la migliore nei millenni.
Eppure è fragile, leggera, superficiale, farraginosa.
E incredibilmente spaventata.
Parlo delle nostre latitudini, sia chiaro. Parlo con l’ottica sbagliata.
Lo dico subito e lo ammetto, quasi per paradosso, perché parte di questo racconto ha a che fare con latitudine, longitudine, percezione.
Realtà.


Siamo realisti, quindi. Partiamo da lì.
L’attacco a Parigi è un raid, è guerriglia urbana, è una cosa diversa da tutto quello che abbiamo visto e provato. È comunicazione del terrore, abolisce di colpo il concetto di obiettivo, lo sposta dai luoghi alle persone. Non è più piazza San Pietro o Charlie Hebdo o le torri gemelle, è la vita quotidiana per come la intendiamo.
Non sono pazzi.
Il Califfato è un progetto culturale, politico, militare, non è terrorismo, non solo.
Secondo il diritto internazionale, che qui semplifico, perché uno Stato possa essere riconosciuto, deve avere tre caratteristiche. Un governo, un territorio, un popolo.
Daesh, il Califfato, esiste, è uno Stato, potrebbe essere riconosciuto. Ha una continuità territoriale, una popolazione permanente, un potere di governo esclusivo. Possiamo ignorare che sia così, ma ignorare la realtà non aiuta a cambiarla.
Lo scopo di Baghdadi, autonominato califfo, è riconquistare il territorio del VI secolo, l’apice dell’espansione musulmana. Trovatevi una cartina, guardate dov’erano. Parliamo di Medio Oriente, Nord Africa, Spagna. Trovate un libro di storia, pensate all’immaginario di qualcuno che evoca in un momento di crisi, di disfatta, povertà, miseria e morte, la rinascita verso il punto più alto.
Quelli che se la tirano la chiamano storytelling.
Più banalmente, potremmo chiamarla orizzonte. O speranza.


Bastardi islamici, titolava Libero.
Non che Libero sia la mia lettura di riferimento, ma rappresenta alla perfezione due fenomeni legati alla paura.
Il primo, la bassa speculazione. Cavalcare la paura rende. E più è bassa, ancestrale, più ha a che fare con le interiora, più rende. Sto parlando di soldi, consenso. Sto parlando anche di politica, così abile a sfruttare il secondo fenomeno.
La semplificazione.
L’equazione di Einstein sulla relatività è composta da tre lettere, un segno e un numero in apice. Energia, massa, velocità della luce.
Facile, no? Semplice, no? No.
Perché il problema, la relatività, non lo è. È una roba su cui si sono spaccati la testa generazioni di geni e lo stesso articolo di Einstein che la spiega è più di trenta pagine e si basa su secoli di fisica, matematica, scoperte, intuizioni.
Non esiste una soluzione semplice a un problema complesso. Chi la mostra o è un incapace o è in malafede.
Bastardi islamici.
Con pure il corollario della spiegazione semantica sulla differenza fra aggettivo e sostantivo.
Un riga per terra, dice Daesh. Empi e Giusti, dice Daesh. Gli Empi devono morire tutti, i Giusti siamo noi.
Bastardi islamici, rispondono i Libero di questo mondo. Dovete morire tutti, attacchiamoli, facciamoli secchi, guerra guerra guerra, rispondeva la mia timeline e non solo la mia.
Parliamo di semplificazione, viviamo di semplificazione, in totale assenza di cultura, nel deserto delle idee.
E nel deserto delle idee le pallottole sguazzano, reali e metaforiche e gli estremismi godono.
E la paura è il catalizzatore migliore, crea semplificazioni e se ne nutre.


C’è differenza fra una bomba in Siria, in Medio Oriente, in Iraq, in Libia, in Nigeria, in Somalia, in Turchia e quelle di Parigi?
La risposta è no e la risposta è sì.
Qualcuno dice che Parigi siamo noi, sentiamo quei morti più vicini perché li riconosciamo, abitano in case che sono le nostre, vanno al cinema, in autobus, in metropolitana, al ristorante. Vivono come noi, quindi ci indigna la loro morte, la loro paura e la risposta è sì. Un po’ quello che accadde con il bambino siriano, di carnagione chiara, morto sulla spiaggia.
Condivisione, sdegno, fratellanza, unione, empatia, desiderio di accoglienza, frontiere aperte, progetti per il futuro. Il tutto nello spazio siderale di pochi istanti. Poi, di nuovo, il diluvio di rabbia e odio, tutti a casa loro, in un ghetto, in mare, dove volete voi. Frontiere chiuse.
Una società, un’opinione pubblica che decide con quella rapidità da che parte piazzare la linea per terra e che la muove con la stessa rapidità e una facilità disarmante, cosa dice di se stessa, della sua consapevolezza, dei motori delle sue decisioni, di quello che desidera e di cui pensa di avere bisogno?


È naturale sentire vicinanza per quello che riconosciamo.
Ma se il gruppo a cui sentiamo di appartenere fosse quello sbagliato?
Se la percezione della realtà fosse così ingannevole da metterti nella posizione sbagliata?
Ricordate quella riga per terra, quella di Daesh, non l’avete tracciata, ma vi riporta per forza di cose da un lato. Se guardate di là, oltre, vedete il vostro nemico. Al vostro fianco, invece, ci sono i vostri alleati, gli Empi, secondo le categorie di Daesh.
Sbagliare la percezione del proprio alleato è un errore imperdonabile.
Noi italiani dovremmo saperlo bene. La mafia sparava in Sicilia, vessava la Sicilia, faceva i suoi affari al di là dello stretto, uccideva esseri umani in un’isola, lontana. Una questione regionale, dicevamo. Si ammazzano fra loro, dicevamo. Poi sono arrivate le bombe in continente, Milano, Firenze, le chiese di Roma, lo stadio Olimpico e ora ci indigniamo, come brave talpe restituite alla luce, per la trattativa. Chissà se eravamo così indignati anche per Boris Giuliano o per un commerciante qualunque che si è preso una pistolettata in corpo per non aver pagato il pizzo.
Vi sembra diverso? Non lo è. Stiamo parlando di cultura, spero sia chiaro.
Non è nemmeno sottovalutare il fenomeno, è proprio vederne un altro.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, cantava Sergio Endrigo.
Era il 1969.
È razzismo? Per qualcuno sì, certo. Per molti no, solo un altro punto dell’elenco semplificazione.
È una reazione umana? Sì, certo. Come singhiozzare mentre, nascosto in un angolo, speri che l’uomo con il kalashnikov se ne vada. Una reazione umana pericolosa.


La risposta alla domanda è no, invece, se la realtà tiene la posizione e non si affaccia alla finestra di rado.
Parafrasando Plinio il Giovane, i morti si dovrebbero contare, non pesare e l’unica riga per terra che dovrebbe avere importanza, in questa storia, è quella tracciata da Daesh.
Gli Empi e i Giusti. Loro e Noi.
Accanto a quella riga, però, ce n’è un’altra che mostra la stessa distinzione, Noi e Loro, ma la sposta molto più in qua. Una riduzione di campo, operata con capacità, spregiudicatezza, ignoranza.
Bastardi islamici, due parole che la segnano alla perfezione.
I morti di Damasco, Beirut, Mogadiscio, Baghdad, Lagos, Ankara, non sono nostri, non li piangiamo, non li sentiamo sulla pelle e nelle ossa, non li percepiamo parte dello stesso problema, nello stesso orizzonte degli eventi. Sharm e Tunisi si avvicinano di più, ma solo perché spesso si tratta di occidentali o asiatici. Poi c’è Parigi, Londra, New York.
Noi e Loro. Noi e Loro, i Buoni e i Cattivi, il mondo diviso in due, tagliato con l’accetta. A semplificazione, semplificazione e mezza.
I Giusti e gli Empi, simmetrie allo specchio, opposti che si annullano.
Opposti che, nel caso della nostra linea per terra, creano una realtà fasulla e pericolosa.
Daesh pone se stesso nella parte minoritaria del mondo.
Dice Noi siamo pochi e nel giusto, voi tanti e peccatori. E fra i peccatori mette anche una bella fetta di quel miliardo e seicento milioni di musulmani che abitano il pianeta, quasi due terzi in Asia.
La riga della vostra rabbia, invece, lo mette tutto di là, quel miliardo e mezzo abbondante.
Pensatelo come un esercito potenziale e capirete in che casino vi mette il desiderio di ignorare la realtà.


Daesh è la realtà che reclama attenzione. Leggete Domenico Quirico. Leggete Montesquieu. Leggete Oz e Grossmann. Brecht. Rushdie. Levi. Daesh è il sintomo di una malattia che ignoriamo e vogliamo ignorare, il rintocco di un orologio che non smette di girare sotto i nostri occhi, il sintomo di un’impotenza, di un’assenza, di un declino. Daesh è politica, non religione. Ha già cambiato il mondo, le carte geografiche che vediamo sono sbagliate, i confini di Siria e Iraq e Libia sono stati spazzati via. Smettiamola di chiamarli terroristi, il terrorismo è solo un lato, un aspetto.
E dire che la tigre è un felino non la rende uguale a un gatto.


Il primo nemico di Daesh è il resto dell’Islam.
Sunniti e sciiti, un capitolo nuovo, riaggiornato e con ambizioni molto più ampie, di una guerra vecchia. Salafiti e Wahabiti, l’unico Islam contro l’Islam degli Empi, sempre la stessa riga, infedele anche quello, come noi.
Per questo le vittime del califfato vanno contate e non pesate, per tarare fino in fondo i confini, anche geografici, di quanto sta accadendo e cambiando e di quanto sia diverso dalla nostra percezione quel limite che abbiamo tracciato, noi e loro. Un confine che esiste perché è proprio Daesh che lo ha tracciato, Daesh che combatte il resto del mondo per quello che è e che considera altro da sé anche una larga parte di quelli che la nostra miopia ritiene seguaci, fiancheggiatori, addirittura complici.
Se ci riteniamo dalla parte giusta del mondo, come facciamo a non riconoscere chi sta dalla nostra parte?
Se noi, al riparo dietro le urla beluine dei profili social, siamo la ridotta da salvare, che cosa sono quelli di Kobane, che cosa sono i curdi, quelli che vedono gli uomini in nero appena oltre la frazione di mondo di un mirino? Che cosa sono quelli che davvero resistono, combattono, cercano di restare vivi? Lo dico ai teorici dei musulmani da spazzare via, i curdi sono in larga parte proprio musulmani. E qui stiamo parlando di cultura.


Stiamo parlando di cultura, sì. Il modo di vivere è cultura, i valori sono cultura. Le parole sono cultura, per questo leggendo ho avuto più paura che con Daesh. La paura che funziona, in tutte le sue declinazioni, è la forma sotto il lenzuolo, una variante dell’inaspettato, l’angolazione appena distorta che sa scoprire mondi terrificanti. Questo, mi sono sembrate le parole che leggevo.
Da Daesh mi aspetto il peggio. Vedo gli uomini bruciati vivi, affogati nelle gabbie, sgozzati davanti alle telecamere. Leggo e sento tutta la litania di orrori e fanatismo e non mi sorprendo, è prevedibile nella sua forma come una pistola apparsa in scena all’inizio di un film che, a un certo punto, spara un colpo. Non c’è parola di Dio, dietro Daesh. Come non c’era nella Santa Inquisizione e non ditemi che sono passati secoli, l’Europa ha avuto a che fare con quisquilie come la Rivoluzione Francese e l’Illuminismo, vi sembreranno dettagli, ma non lo sono.
Le parole che leggevo, quell’uniformità agghiacciante, la certezza granitica del loro manicheismo, la densità e la similitudine dei toni, la violenza, eccola la forma sotto il lenzuolo. Eccolo il presunto esercito del Bene, la massa democratica, la civiltà dei diritti. Non vedevo differenza, per questo ho avuto paura. E se la rabbia è una reazione comprensibile, lo è meno il non imparare nulla dall’esperienza, non pesare il significato delle proprie azioni, trasformarsi in branco, da una parte e dall’altra.
Dietro Daesh c’è un clima da Vecchio Testamento, da collera perpetua, che ne genera uno del tutto analogo e probabilmente vuole generarlo, estremizzando chi non lo è ancora, traendo vantaggio per ogni centimetro con cui spostiamo la nostra divisione del mondo.
Per ogni bomba occidentale che uccide un civile in Medio Oriente, Daesh guadagna un soldato. Per ogni immigrato che viene emarginato, Daesh guadagna un soldato. Per ogni reazione smodata che spara nel mucchio della retorica, dell’isolamento, della reazione a colpo multiplo, Daesh guadagna un soldato.


Per ogni semplificazione, Daesh vince. Per ogni generalizzazione, Daesh vince. Per ogni ignoranza, umiliazione, Daesh vince. Per tutti i ghetti e tutti i muri, Daesh vince. Per ogni non pensiero, Daesh vince. Lo dice il presente e lo dice la nostra storia passata, la nostra, quella dell’Europa, delle nostre guerre, della nostra cultura. Lo dice, lo grida e lo abbiamo dimenticato. La guerra in Afghanistan e quella in Iraq sono durate più a lungo delle due guerre mondiali messe insieme, senza risolvere nessun problema. Inneggiare alla guerra contro l’Islam – nemmeno Daesh, proprio l’Islam – ricordando le campagne di George W. Bush, uno dei peggiori incapaci della storia, farebbe sorridere, se non fosse tragico. Come farebbe ridere, non fosse tragico, leggere del rifiuto degli insegnanti di portare gli alunni a una mostra di arte sacra, quasi che Giotto o Mantegna o Santa Sofia non fossero prima di tutto opere d’arte. O sentire chi parla di immigrazione come se fossero solo angeli. Buoni e cattivi, solo buoni e cattivi. Ma in che mondo vivete? In un fumetto Marvel?


È all’illuminismo che si guarda, quando bussa il medioevo, alla ragione quando ti minaccia la follia. È il medioevo in noi, il primo che dobbiamo combattere. E non parlate di Dio, questo ve lo chiedo in ginocchio. Non criticate il fanatismo, cadendo nel fanatismo opposto e solo quando vi fa comodo. Perché parla di Dio anche il vostro vicino, pensando ai diritti degli omosessuali, negando la sperimentazione sugli embrioni. Vi sembra un Dio meno crudele? Un uomo meno stupido?


La domanda più importante, su cui rifletto da tempo, è perché Daesh sia diventato appetibile per chi vive nel nostro mondo. Penso agli europei di seconda o terza generazione, soprattutto. Occidentali di nascita. Per gli altri, quelli che vivono nei luoghi in cui così amabilmente abbiamo esportato democrazia, la spiegazione mi sembra facile.


Pensate alla vita di un iraqeno.
Uno che non ha mai avuto nulla a che fare con Saddam, uno che taceva, per sopravvivere o per codardia poco importa. Uno che non riusciva a immaginare un futuro libero, uno cresciuto con la guerra all’Iran e poi al Kuwait. Uno che la parola libertà non doveva nemmeno pensarla, figuriamoci viverla. Uno che ha una casa, però, un lavoro, che può comprare il pane e che un giorno scopre che l’esercito dei Buoni, quello della parte giusta del mondo, sta arrivando a liberarlo, a uccidere il tiranno, scannato fuori da un buco sotto terra, uno che vede le statue cadere, che immagina di poter respirare e che scopre che non era vero niente, che non può più uscire di casa, che i suoi figli non possono uscire di casa, che forse una casa non ce l’ha nemmeno più e che al posto del tiranno sono arrivati i tagliagole, i kamikaze.
Uno così, un musulmano, uno che prega il suo Dio o forse non lo prega nemmeno, perché dovrebbe amare l’Occidente?
Perché non dovrebbe pensare che stava meglio prima, soggiogato, ma vivo, non affamato, forse addirittura meno spaventato? Se a quell’uomo – o un libanese, un afghano, un siriano – si può chiedere con ragionevolezza se stava meglio prima, non abbiamo già perso? Non ha già vinto Daesh? Di fronte alla paura della morte, all’insicurezza per la propria famiglia, al poco che hai che se ne va come terra spazzata dal vento e non ritorna, alla libertà che diventa libertà di morire per nulla, di fronte a tutto questo, il Dio collerico degli uomini in nero, la parte giusta del mondo con cui schierarsi, l’ordine, non è la prospettiva più allettante? Non è una speranza di miglioramento, di fronte al nulla? E anche morire, morire per morire, non rende più sensato morire per una causa, magari dare uno scopo alla tua vita?
Questo accade in Medio Oriente. Non mi sembra difficile da capire.
In fondo coloro che pensano Bastardi islamici, a ruoli invertiti, farebbero la stessa scelta.


Poi ci sono quelli che sono scappati, alla ricerca di un luogo dove la vita abbia un valore migliore, indissolubile, unico e hanno trovato spesso gli sguardi torvi e imbecilli di chi li considera come loro, gli uomini in nero da cui sono fuggiti, tronfio nelle sue sicurezze da social network, nella sua crassa ignoranza di chi ha dimenticato ogni dettaglio del passato che lo ha condotto lì.
Sto pensando a chi è venuto con le migliori intenzioni, ché nessuna immigrazione di massa è tutta bianca, nemmeno quella italiana in America, tanto per essere chiari.
Ecco, vivere in un luogo così, non ti fa pensare che sarebbe stato meglio combattere, che sia meglio combattere, che se mi consideri quello che non sono, se mi offendi, mi umili, mi emargini, mi deridi, mi sfrutti, allora tanto vale che lo sia davvero, quello che credi che sia?
È una semplificazione anche questa? Forse.
Ma tutte le comunità straniere, nella storia dei flussi migratori, hanno cercato qualcosa che mantenesse viva la loro identità.
Gli italiani in America, i cinesi ovunque nel mondo, sono solo due esempi.
Ogni comunità straniera tende a ricreare il suo mondo e integrazione non vuol dire assimilazione.
E in comunità ai margini, il fascino di una rivincita diventa molto alto.


Daesh ha una visione di futuro, anche questo affascina.
Qualunque sia il futuro. Una meta, un punto di arrivo, il ritorno al momento più alto dell’espansione islamica nella storia, un riscatto, una riconquista.
E un posto in cui schierarsi, dietro a Dio, al Bene, fra i giusti del mondo, fra coloro che riporteranno l’ordine nel caos del nostro tempo.
C’è qualcosa che possa tenere testa, qualcosa di meglio da proporre agli ultimi della Terra, in epoca di pensiero debole, crisi economica, neoliberismo sfrenato, disoccupazione, guerra, povertà?
Hanno un’estetica, una Legge, un’idea, un esercito, un territorio, un welfare, un nemico, una comunicazione.
Tutto tagliato con l’accetta, tutto orribile, ma preciso, non ammette sfumature, solo certezze assolute, ignora il mondo e la sua complessità, divide fra buoni e cattivi.
Ma dall’altra parte?
Dall’altra parte ci siamo noi e la nostra reazione e, nemmeno troppo in fondo, la nostra presunzione.


Cosa stiamo dando a questa gente?
E non solo a loro, anche a noi, ai nostri ragazzi?
Che futuro? Che felicità possibile? Che diritto alla libertà?
E non sto parlando di chi legge il mondo travisando il Corano, dividendo il mondo fra empi e giusti, ma di chi potrebbe considerarlo un compromesso accettabile o un futuro possibile. Quanti ragazzi, quanti uomini o donne stiamo consegnando agli estremisti di tutto il mondo semplicemente perché nessuno si occupa di loro tranne gli estremisti? I Salvini, le Le Pen, i Farage, sono gli unici che lo fanno e lo fanno per contrapposizione, per additarli come causa di tutti i mali o chiamarli alle armi, consenso o fucile che sia, capro espiatorio di una politica minuscola che non costruisce nulla e, colpa ancora peggiore, non immagina nulla. Eppure guadagnano voti. La crisi di valori, culturale, politica, crisi di idee, ideali, visione del mondo, società è impotente di fronte alle certezze invalicabili di Daesh e di tutti gli estremismi di questo mondo.
La costruzione culturale di un modello di società all’altezza del tempo è un compito a cui abbiamo abdicato.
Viviamo di paura. Solo paura. Indotta o reale. E, di conseguenza, nemici.
Siamo anoressici di valori. Abbiamo smesso di nutrirci, ma ci guardiamo allo specchio e ci troviamo belli, splendenti, nel giusto a priori, convinti. E ora che sentiamo gli scricchiolii e temiamo il crollo, succhiamo una zolletta di zucchero, pensiamo di aver dormito poco, ciucciamo una bustina energetica e ignoriamo lo specchio, di nuovo, ancora, sempre, continuando a sentirci assolti, ingenui, candidi portatori di verità incrollabili.


Da sabato sento spesso citare la nostra stagione di terrorismo e il bisogno di unità.
Un paragone azzardato, simile a quello con cui si celebrano le larghe intese tirando in ballo Moro e Berlinguer.
A una cosa, però, ho pensato subito. I compagni che sbagliano.
Una parte della sinistra, allora, li chiamava così, i terroristi rossi. Compagni che sbagliano. Né con lo Stato, né con le BR.
Quando è cominciata la fine? Quando quella frase ha smesso di avere significato.
Potere delle parole, in qualche modo. Non erano compagni che sbagliavano, erano un nemico che andava sconfitto, espulso dal proprio campo, tolto di mezzo dalla società che si voleva costruire.
Oggi alla comunità islamica tocca lo stesso compito. Ed è meno facile di allora, credo, perché la linea che abbiamo tirato noi è molto stretta e si restringe ogni volta che qualcuno si fa esplodere o spara per strada.
È anche quello uno dei risultati che si vuole ottenere. Che la nostra rabbia, la nostra reazione, il nostro Noi e Loro, li spinga fra le braccia di Daesh.
Non so se quella presa di posizione arriverà come la vorrei sentire, so che andrebbe aiutata, che dovrebbe esserci, so che contro Daesh dovrebbero esserci Stati a maggioranza islamica, senza mezze misure, senza i sotterfugi indecenti di Turchia e Arabia Saudita, per esempio.


Ora sento parlare di guerra, che per me ha un solo significato, truppe di terra.
Niente giochi di prestigio aerei, sana e antica fanteria.
Ma si può pensare di far la guerra a Daesh senza una coalizione che comprenda il mondo arabo, magari sunnita e sciita, tutto insieme?
Difficile che accada, molto.
E ammesso che accada, dove si fa questa guerra? In Siria? In Iraq? In Libia? E Boko Haram lo lasciamo stare, ché tanto in Africa si scannano da sempre?
E senza tagliare le fonti di finanziamento, magari tenendo da parte i complotti, i priorati, le scie chimiche, la Spectre? Senza prendere per le orecchie i re sauditi e spiegargli con cura che è ora di smetterla? Senza stringere la mano a Erdogan, fingendo che sia quello che non è, magari continuando a pensare che possa entrare nell’Unione europea?
E, sempre ammesso che il migliore dei mondi possibili accada, siamo disposti ad accettare le conseguenze?
L’ondata migratoria che ne conseguirebbe, per esempio, cosa ne facciamo?
E al posto di Daesh, in Siria, in Libia, in Iraq, cosa succede?
E tutto quello che avverrà, qui e ora. Dal panettiere, allo stadio, al cinema, in chiesa, per strada. Oggi, domani, negli anni a venire.
Siamo una società in grado di reggerlo?
Tutti i guerrafondai da salotto che riempiono il silenzio del mondo, sanno a cosa stanno andando incontro?
Lo chiedo a quelli che se ne fregano dei diritti degli altri e reclamano i proprio, chiamandoli universali.
A chi è disposto a smettere di pretenderli, quei diritti.
Ai costruttori di rifugi antiatomici che leggevo, che leggo, che leggerò.
Alla loro paura della realtà, che non passerà.


Sono solo social network? Può darsi.
Il fatto è che questo approccio al ragionamento lo sento nella vita di tutti i giorni. Nelle telefonate alle radio, dove l'anonimato è un po' meno smaccato, o al bar o per strada o fra alcune delle persone che conosco. Non è una questione di avatar, ma di persone in carne e ossa ed è un metodo facile, perfino rassicurante.
La realtà, semplicemente, non esiste. O ne esiste solo la parte che ti serve, quella che riesci a vedere e che ti tocca, come se nella caduta delle tessere di un domino vedessero solo l'ultima, quella che chiude il cerchio. Non pretendo che le vedano tutte, men che meno la prima che è spesso lontana, ma almeno che sappiano che esistono, che non guardino un campo da calcio dallo spioncino.
Questo mi sembra un obiettivo raggiungibile. Di più, obbligato.
Consapevolezza e realtà, di questo sto parlando.


Vale per Daesh, per i vaccini, per l'immigrazione, per l'uomo sulla luna, metteteci quello che volete e non è folklore, è una trasformazione sociale, in parte avvenuta e in parte in corso.
E anche questa fa parte dello specchio.
Culturalmente, che differenza c'è fra chi divide il mondo in Giusti e Empi e chi ignora ogni risultato scientifico per credere al primo che passa per la strada?
E' un paradosso? Fino a un certo punto.
Frequento le persone sbagliate? Forse. Ma non posso ignorare quello che vedo. E non credo di essere l'unico a vederlo.
Sono una minoranza? Chissà.
Ma la paura è più contagiosa di una normale influenza.
Ho paura, toglimi un po’ di diritti e fammi sentire al sicuro. È un discorso umano, in fondo, lo sento già fare. Un discorso inutile, lo sappiamo.
Dammi un nemico da combattere, uno che possa vedere, identificare, colpire. Uno fuori. Uno di Loro. Sposta la riga sempre più vicina, sempre più prossima.
Sono una minoranza? Forse. Ancora.
Ma preferisco preoccuparmene prima che il contagio cresca.


Come si vince? Non ne ho la più pallida idea.
Non confondendo il buonismo con l’accoglienza e la tolleranza. Non patteggiando sicurezza e libertà, perché di fronte a qualcuno disposto a morire per ucciderti, la gara è difficile se non impossibile.
Di certo un punto di partenza necessario è riappropriarsi della realtà, del significato delle parole.
La paura è sorella gemella dell’idiozia, una alimenta l’altra e entrambe alimentano l’ego. Di una persona o di una nazione, di piccole o grandi sette, dei depositari delle verità di tutte le latitudini.
Posso criticare il governo di Israele senza essere antisemita (per estensione lo sarebbe anche ogni israeliano che non lo ha votato)? Posso dire che la situazione palestinese è aberrante e allo stesso tempo detestare Hamas e Hezbollah? Dire che bombardare Daesh da solo non serve a nulla e non volermi rassegnare a saltare per aria in strada?
Posso ragionare dai distinti e non da una curva, per pensieri e ragionamenti e non per slogan, con le sinapsi che possiedo e non con lo stomaco?
È ancora concesso o non resta che gridare, spaventarci, cercare un nemico a cui dare la colpa?
Se la politica ha ancora un senso, se ne ha uno l’intelligence e uno l’economia e se in ultima istanza ne ha una l’umanità, allora si riparte da pochi punti saldi e noti.
Da dove vengono le armi di Daesh? Chi li finanzia e quale ruolo abbiano noi, da questo lato della linea? Come si muovono, come si approvvigionano? Che tipo di modello di sviluppo è possibile per quella zona del mondo e come possiamo mettere indietro di qualche anno l’orologio della storia e cominciare a ragionare di integrazione su larga scala, magari restituendo alla politica, quella piccola e quella grande, il suo compito più importante, pedagogico, culturale.
Se la domanda è come si vince, allora si vince combattendo su tutti i fronti insieme, costruendo e non disfacendo, cambiando punti di vista antichi, educando.
Si vince insieme, ci si salva insieme e, proprio per questo, temo che non si salvi nessuno.
Si vince col progresso, l’ho già detto.
Se bussa il medioevo, serve la ragione.
Con la sola forza delle armi si sconfiggono gli uomini, non i problemi.
Dopo il 1945 nessuna delle guerre moderne ha risolto qualcosa. Non sono un pacifista senza se e senza ma – non esiste nulla, nella vita, senza se e senza ma –, ma l’esperienza dovrebbe insegnare, è una delle prima cose che apprendono anche gli animali. Non si reiterano i comportamenti pericolosi.
Oppure resta una sola alternativa possibile.
Rassegnarci, ogni tanto o ogni poco, a tanti novembre europei, più piccoli e più grandi.
E alla rabbia che ne segue che prima o poi, da qualche parte, dovrà pure sfogarsi.

Pubblicato il 20/11/2015