Nicola Bonazzi - La società della paura

Una delle parole fondamentali usate da sociologi e educatori che si occupano di intercultura è "empatia", secondo lo Zingarelli "fenomeno per cui si crea, con un altro individuo, una sorta di comunione affettiva in seguito a un processo di identificazione". L'empatia dovrebbe essere alla base, naturalmente, di ogni rapporto interpersonale, segnalando la capacità di ciascuno di capire il mondo emotivo degli altri e condividerlo. Se è vero che l'identità si definisce anche attraverso le differenze, l'empatia serve a capire che, al fondo di ognuno di noi, di là da ogni incoercibile differenza culturale e senza necessariamente scomodare teorie psicologiche, esiste un mondo comune di affetti e di sentimenti.
Naturalmente quel fenomeno che chiamiamo empatia funziona meglio quando può formarsi sulla base di esperienze comuni che sollecitano determinate risposte emotive. Ricordare la tragedia di chi è costretto a subire attacchi aerei a base di bombe cosiddette "intelligenti" che spesso abdicano alla loro intelligenza per andare a colpire civili inermi è un esercizio non solo necessario, ma anche salutare, perché ci ricorda che la guerra è una faccenda sempre e comunque di brutale ignoranza, sempre e comunque "una sporca faccenda", come recitava il titolo di un film un po' reazionario con John Wayne. E lo ricorda (tenta di ricordarlo) a noi, appagati e un po' stanchi abitatori di quella imprecisata entità geografico-politica che chiamiamo Occidente, dove gli ultimi superstiti che hanno vissuto la guerra per esperienza diretta hanno adesso tra gli ottanta e i novant'anni. Allo stesso tempo, tuttavia, occorre non rinunciare all'esercizio della ragione, affinché ogni pratica di condivisione degli affetti non azzeri il senso critico, una delle maggiori acquisizioni di noi appagati e stanchi abitatori d'Occidente. Costruire le giustificazioni del nemico, seppure assai meno pericoloso, rischia di essere altrettanto ambiguo che costruire il nemico, per usare una bella espressione di Umberto Eco.
Personalmente credo che, nei recenti sviluppi della strategia del terrore, le bombe occidentali che piovono sulla testa degli afgani o degli iracheni non c'entrino più, se mai sono c'entrate qualcosa (è sufficiente essere aggiornati anche solo dai quotidiani per sapere che in tali strategie hanno una parte fondamentale le politiche di certi Stati): i fatti ci dicono che parecchi dei terroristi le cui azioni limitano il nostro orizzonte d'attesa su un futuro abitato dalla paura (basti pensare al famigerato Jihadi John di nazionalità inglese) sono europei di seconda o terza generazione, come sono francesi e belgi di seconda o terza generazione alcuni dei terroristi implicati nei fatti di Parigi e, successivamente, nelle retate di Bruxelles. Daesh ha sì un governo, una popolazione permanente e una continuità territoriale - è dunque uno stato. Se la faccenda fosse chiusa lì saremmo di fronte a un problema politico e militare. Il che non è poco, per carità. Ma qui c'è dell'altro, cioè il fatto che la carta d'identità segnala per molti dei terroristi una provenienza europea. Il che contribuisce a rendere la questione non solo politica e militare, ma sociale. E infatti, a questo punto, la violenza si consuma nella società: strade, stadi, teatri.
È chiaramente il fallimento di un modello eurocentrico, o capitalista-eurocentrico. O ancora meglio: è il fallimento della politica come tentativo di armonizzare le diverse parti della società. Se è vero che molti ragazzi europei di seconda generazione avvertono uno scollamento forte tra il mondo nel quale vivono e la famiglia dalla quale provengono, è altrettanto (e drammaticamente) vero che Il tessuto sociale nel quale sono immersi non li aiuta certo a risolvere questo conflitto dirompente. Come è altrettanto vero che buona parte dei migranti che arrivano in Europa viene immediatamente marginalizzata, la qual cosa contribuisce ad aumentare la temperatura dello scontro sociale in atto. Tale marginalizzazione aumenta persino nel momento stesso in cui le amministrazioni provano a risolverla: i sussidi o le case di accoglienza per richiedenti asilo legittimano in chi ne fruisce una sorta di de-responsabilizzazione, ne acuiscono il lamento e la coscienza di una propria subalternità, che va ad aggiungersi alla coscienza della subalternità sociale di chi magari, europeo da un paio di generazioni, sconta la propria marginalità economica, dovuta alle difficoltà incontrate dai genitori ad inserirsi nel sistema produttivo del paese che hanno scelto per vivere. D'altro canto che sistemi di accoglienza sussidiari esistano non solo è un bene, ma è fondamentale.
La risoluzione del problema dunque, se non si vuole dire che passa attraverso le politiche economiche degli Stati nazionali e in una correzione del sistema capitalistico che riduca gli squilibri economici presenti all'interno delle società più evolute (processi lentissimi e spesso così complessi da richiedere le azioni le più disparate), passa almeno dalla capacità delle amministrazioni di fornire una risposta all'elementare bisogno delle persone di sentirsi gratificate nell'ambiente in cui vivono, senza avvertire il senso di frustrazione di vedersi precluso l'accesso a istituzioni, sistemi o percorsi a cui altri possono tranquillamente accedere: è ciò che si chiama welfare, di cui oggi tanto si parla, ma che pochi sanno identificare nelle sue funzioni fondamentali (assistenza sanitaria, trasporti pubblici, pubblica istruzione, accessibilità culturale ecc.). Laddove questo non accade, risuonano sinistramente attuali certe argomentazioni di Frantz Fanon nei Dannati della terra sulla violenza delle società colonizzate: "fin dalla nascita è chiaro [per il colonizzato] che quel mondo ristretto, cosparso di divieti, non può essere rimesso in discussione se non con la violenza assoluta"; o ancora: "la prima cosa che l'indigeno impara è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti. Perciò i sogni dell'indigeno sono sogni muscolari, sogni di azione, sogni aggressivi". Mutato il contesto storico-politico, se alla faccia dell'indigeno o del colonizzato sostituiamo quello di un giovane inurbato di seconda o terza generazione consegnato dal senso di frustrazione sociale al radicalismo religioso che promette di gratificarlo, le riflessioni di Fanon, esemplificate dai brevi passi precedenti, acquistano una loro spiazzante attualità.
Chi dunque scrive senza troppi fronzoli "Bastardi islamici" mostra di non conoscere la realtà nelle sue articolazioni complesse; o forse finge di non conoscerla, per appagare un proprio elementare senso di sicurezza fatto di recinti, confini, scomparti: i sogni muscolari appartengono anche alla nostra società, che spesso non si rende conto che anche il proprio desiderio di violenza (pur se solo verbale) è la risposta alla frustrazione implicita di chi è alla costante ricerca di una piena legittimazione politica e culturale.

Pubblicato il 17/12/2015