Monica Fabbri - Dante: homo viator nello spazio e nel tempo

Primi appunti sul dantismo di Mandel’štam, Achmatova, Wright, Dickinson; con un’appendice su Anne Paolucci

Monica Fabbri

 

Dante: homo viator nello spazio e nel tempo.

Primi appunti sul dantismo di Mandel’štam, Achmatova, Wright, Dickinson; con un’appendice su Anne Paolucci.

 

 La Commedia di Dante ha viaggiato per anni nello spazio e nel tempo. Questa ardita struttura verticale, dallo stile complesso e plurale, ha provocato, più di ogni altra opera letteraria, un’onda in continua espansione dall’Occidente caraibico di Walcott all’Oriente quasi solo europeo, raggiungendo il Giappone di Kenzaburō Ōe. Il senso di mistero che pervade una simile dinamica consiste nel fatto che dalle terzine incatenate, caratterizzate da un lessico concreto e sperimentale indubbiamente complesso, scaturisce l’incontro con altri poeti e scrittori di lingue differenti che si sentono sedotti dall’universo del poeta fiorentino. «Un Dante, comunque, instancabile ‘connettore’. Non basta, allora, dire che il suo poema ha dato una lingua agli italiani». Se Gianfranco Contini metteva in evidenza che solo la lingua di Dante poteva considerarsi nuova e attuale per questa costante tensione a sperimentare, mentre la vicenda narrata risulta paradossalmente inattuale, ci si domanda allora come sia possibile questa sorta di fratellanza universale tra il poema sacro e scrittori, poeti, narratori e artisti moderni e contemporanei. Per illustrare, in minima parte, l’effetto Dante nella letteratura internazionale, mi limiterò a interrogare quattro autori (due russi e due americani), tentando di evidenziare le connessioni, le attrazioni e le divergenze con il modello fiorentino. Per i due scrittori (Mandel’štam e Wright) si seguiranno le preziose indicazioni di Gilberto Lonardi, che, con il testo Effetto Dante, ha esplorato in modo magistrale il dantismo in autori italiani e stranieri. La seconda parte è dedicata interamente all’opera di una scrittrice statunitense, Anne Paolucci.

 

Dapprima si prenderà in esame lo scrittore russo Osip Ėmil'evič Mandel’štam, che colpisce, tra tutti gli altri autori attratti dal poeta fiorentino, per il semplice motivo che il suo amore per Dante era così viscerale da indurlo a conversare con lui. La poetessa Anna Achmatova, altra appassionata della Commedia, affermò che Osja, come lo chiamavano familiarmente gli amici, ardeva tutto per Dante e recitava il poema giorno e notte. Ma Mandel’štam non amava il Dante dei filologi e dei critici, detestava la pesante retorica scolastica e universitaria e voleva dar vita ad un nuovo commento. Per lo scrittore russo il poema sacro è una rielaborazione creativa e assolutamente avvincente della tradizione antica: le citazioni classiche sono riprese e trasformate per farle rivivere nel presente. L’impressione che si ricava dalla lettura delle Conversazioni è che Mandel’štam voglia fare di Dante non tanto un esponente della tradizione filosofico-teologica occidentale, a lungo sviscerata da un quantitativo di studi inenarrabile, ma un anticipatore della temperie culturale contemporanea. Anche il suo parlare di scienza non è affatto la mortificazione della poesia, ma si esplicita come il divenire dell’esperienza dell’osservazione. La poesia ritorna ad esprimere il suo significato originario, si rifà al latino pŏēsis dal greco ποίησις, derivato a sua volta da ποιέω, cioè  produrre, fare, creare ed, in senso più ampio, comporre. Dunque, la poesia per Mandel’štam assume le connotazioni del divenire, della trasformazione e, infine, della conversione. Si possono riscontrare alcune rispondenze con la Commedia nella lirica del 1930, la 116 di Viaggio in Armenia:

 

Una gatta selvatica – l’eloquio armeno – 

mi tormenta e mi graffia l’orecchio. 

Potessi coricarmi almeno su di un letto gobbo: 

oh, febbre, oh malvagia arsura estiva!

[…]

Eravamo uomini e siam diventati gentaglia

e ci tocca – in base a quale classe? – 

la fatale trafittura nel petto 

e il grappolo solo d’uva d’Erzerum.

 

I versi in corsivo rimandano chiaramente al canto XIII dell’Inferno, al canto di Pier delle Vigne (Eravamo uomini e siam diventati gentaglia, /Uomini fummo, e ora siam fatti sterpi..) con il richiamo al corrispettivo personaggio dell’Eneide, quel giovane Polidoro (Virgilio, Aen. III, 22 sgg.), ucciso proditoriamente dal re trace Polimnestore da cui lo aveva mandato il padre Priamo per metterlo al sicuro dalla guerra (la fatale trafittura nel petto). Osja, strappato ai suoi cari, ma soprattutto alla fedele compagna, che seppe imparare a memoria la maggior parte dei suoi componimenti, subì le più atroci torture del lager nell’estrema Siberia orientale, dove morì stremato alla fine del 1938. La storia di Pier delle Vigne, fedele segretario di Federico II di Svevia, che, a causa dell’invidia di corte si ritrovò in prigione, rimanda inevitabilmente alla sua vita travagliata e così narrazione e dolore si intrecciano indissolubilmente. «Mandel’štam legge il poema dantesco nell’inappagata nostalgia di un Inizio, lui che nell’esametro greco-epico intravede le ‘generazioni felici’- e per se stesso e la sua generazione, invece, lo iato». La fratellanza con Dante si incarna nel motivo dell’esilio, nella condizione di chi è messo al bando. Altrove, quando descrive ‘podisti in gara presso Verona, che devono per giunta srotolare verdi tagli di panno’, sembra richiamare alla memoria la ‘cara immagine paterna’ di ser Brunetto:

 

Poi si rivolse, e parve di coloro

che corrono a Verona il drappo verde

per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

(Inf. XV, 121-124)

 

Nei Quaderni di Voronez descrive un uomo imprigionato nella roccia (spesso ritorna nei suoi versi l’immagine della selce, simbolo del desiderio di stare aggrappato saldamente a qualcosa). La memoria va inevitabilmente al Gran Veglio di Creta del canto XIV dell’Inferno.

 

Dentro dal monte inerte sta un gran idolo

in una cuna accogliente, vasta e lieta, 

mentre dal collo goccia grasso di monili
a difesa dell’afflusso e deflusso dei sogni. 

Quand’era fanciullo giocava con lui il pavone, 

lo si nutriva d’indico arcobaleno,
lo si allattava da rosacee crete
senza lesinare la cocciniglia. 

L’osso assopito s’annoda in un nodo,
umane paion le ginocchia, le mani, le spalle.
Increspa tacito in un sorriso la bocca,
pensa con l’osso, percepisce con la fronte,
e si sforza di rammentare la propria umana sembianza. 

10-26 dicembre 1936 

 

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, 

che tien volte le spalle inver’ Dammiata 

e Roma guarda come suo speglio.                            

 

La sua testa è di fin oro formata, 

e puro argento son le braccia e ’l petto, 

poi è di rame infino a la forcata;                                   

 

da indi in giuso è tutto ferro eletto, 

salvo che ’l destro piede è terra cotta; 

e sta ’n su quel più che ’n su l’altro, eretto.                

 

Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta 

d’una fessura che lagrime goccia, 

le quali, accolte, foran quella grotta. 

(Inf., XIV, 103-114)

 

I versi in corsivo sottolineano la corrispondenza: alle lacrime dantesche che danno corso ai fiumi infernali (Acheronte, Stige e Flegetonte) si sostituisce il grasso di monili che goccia dal collo e, sicuramente, l’idolo del poeta russo alla fine si umanizza, perché si ‘sforza di rammentare la propria umana sembianza’. «Circola un’intesa tra i due poeti, proprio perché, trascorsi seicento anni, il più giovane non si assoggetta al grande modello. Lo perscruta, lo accoglie, si lascia accogliere nel suo guscio. E però va per la sua strada; insegue i suoi, solo suoi, sogni». A ben guardare Mandel’štam imita il suo Dante per tradirlo, o meglio tramandarlo, trasformato attraverso la sua carne, il suo dolore, la sua vita.

 

«Non faccio altro che leggere Dante» - rispose ad un’intervista Anna Andreevna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko. 

Diceva di aver imparato la lingua italiana solo per poter leggere il ‘poema sacro cui pose mano e cielo e terra’. Non amava farsi chiamare poetessa, ma si sentiva poeta. La poesia, il fare, il produrre, il creare è sempre il medesimo, non c’è bisogno di distinzione. Ebbe una vita travagliata e dolorosissima, il primo marito fucilato nel 1921, il figlio Lev imprigionato dal 1935 al 1940 nel periodo delle purghe staliniane. Questi fatti di dolore si intrecciano inevitabilmente ai versi delle sue liriche e costituiscono il legame indissolubile con Mandel’štam e anche con Dante. La sua poesia, infatti, esprime lo strazio di un popolo e dell’uomo che soffre per le vicende storiche e politiche. Molte liriche vennero dedicate al tema della guerra e al preoccupante destino che incombeva sull’Europa: tale pare essere la condizione esistenziale dell’uomo, come ricorda Dante nel celeberrimo incipit del II canto dell’Inferno:

 

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno

toglieva li animai che sono in terra 

da le fatiche loro; e io sol uno                                         

 

m’apparecchiava a sostener la guerra 

sì del cammino e sì de la pietate, 

che ritrarrà la mente che non erra.

(Inf. II, 1-6)

 

La condizione che Dante descrive è quella dell’uomo che ha coscienza di dover affrontare da solo la guerra della vita: nessuno, Virgilio, le altre guide o le persone amate possono sostituirsi a noi o alleviare la guerra che dobbiamo attraversare. Dante per l’Achmatova è anche questo, cioè l’immagine speculare dell’homo viator, dell’esule e a lui dedica la bellissima poesia, riportata qui nella traduzione di M. Colucci:

 

Il mio bel San Giovanni

Dante

 

Neppure dopo morto ritornò

nella sua vecchia Firenze.

Partendo non si volse indietro,

ed io a lui canto questo canto.

Fiaccole, notte, ultimo abbraccio,

oltre la soglia, selvaggio il grido del destino.

Le scagliò dall’inferno il suo anatema,

non la poté scordare in paradiso.

Ma scalzo, in panni da penitente

e cero acceso, non passò mai

per la sua Firenze agognata,

perfida, vile, attesa così a lungo… 

 

Con questa lirica, l’Achmatova ripercorre i punti salienti dell’esilio dantesco: Firenze perfida e vile, descritta in modo grottesco nell’Inferno attraverso tante similitudini, ma dimenticata mai come dimostrano i versi:

 

Non mi parean né ampi né maggiori

che que’ che son nel mio bel S. Giovanni,

fatti per luogo di battezzatori. 

(Inf., XIX, 16-18)

 

Se mai continga che ‘l poema sacro 

al quale ha posto mano e cielo e terra, 

sì che m’ha fatto per molti anni macro,                          

 

vinca la crudeltà che fuor mi serra 

del bello ovile ov’io dormi’ agnello, 

nimico ai lupi che li danno guerra;                                  

 

con altra voce omai, con altro vello 

ritornerò poeta, e in sul fonte 

del mio battesmo prenderò ‘l cappello; 

(Par. XXV, 1-9)

 

Il fil rouge dell’esilio accomuna Dante sia a Mandel’štam sia all’Achmatova, li rende amici e ancor più fratelli.

Si passi ora ad osservare un territorio da sempre ostile alla Russia, gli Stati Uniti d’America, attraverso le straordinarie voci di Charles Wright ed Emily Dickinson.

 

Wright si dichiara colpevole di esplorare l’ignoto senza una meta precisa a differenza di Dante, che conosce sia il punto d’ingresso sia il punto d’arrivo. 

Nella sua giovinezza presta servizio militare in Italia e precisamente a Verona: Verona mi fe’, disfece Verona, the song goes. / I’ve hummed it… versi che inevitabilmente rimandano alle parole di Pia de’ Tolomei nel V canto del Purgatorio:

 

«ricorditi di me, che son la Pia: 

Siena mi fé, disfecemi Maremma: 

salsi colui che ‘nnanellata pria 

disposando m’avea con la sua gemma»

(Purg., XV, 133-136) 

 

Il contesto è differente: non c’è più un marito crudele, ma solo una nuova patria, l’Italia, capace di ridare vita al poeta, una sorta di rinascita, di conversione con connotazioni prettamente laiche e letterarie.  Un’altra poesia di Laguna dantesca del 1981 rimanda a molti nuclei tematici del Paradiso: la piccioletta barca dello splendido incipit del canto II del Paradiso (O voi che siete in piccioletta barca,), il cielo della luna, il corpo greve, lo sparire ‘per acqua cupa’ di Piccarda (canto III del Paradiso):

 

I want, like a little boat, to be isolate

                       slipping across one element

Toward the horizon […]

                       under the heaven of the moon

 

There’s something I want to look on, face to face.

 

Like a rock, or some other heavy thing, I want to descend

                       through clear water

Endlessly,

                       disappearing as she did,

Line after leached line, into lunar deeps

 

Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave

Maria’ cantando, e cantando vanio 

come per acqua cupa cosa grave

(Par. III, 121-123)

 

Wright afferma nel 1999 di aver parlato di una sola cosa per tanti anni della sua vita: l’amor che move il sole e l’altre stelle. Ma non lo ha fatto con la certezza dantesca della visio Dei, il suo ignoto resta un mistero senza risposta. Anche lui, come gli altri poeti finora presi in esame, attraversa Dante, ne avverte la corrispondenza, ma lo tradisce per esprimere la sua novità, corroborata e resa ancor più viva dalla lettura di Montale che confluisce nella sua rielaborazione dantesca. «Intanto poem dopo poem, il ricordo della Commedia tende a fare tutt’uno con quello, egualmente incancellabile dell’Italia soprattutto dei movimentati anni giovani e poi della maturità: un’Italia che assomiglia a un altrove insieme di volta in volta circostanziato, e come fissato, per sempre nella lontananza […]. Un altrove familiare e dolcissimo».

 

Da ultimo Emily Dickinson, ma nel senso latino più corrispondente ed efficace, dulcis in fundo. L’educazione severa e puritana, l’infanzia e l’adolescenza solitarie, che manifestarono una religiosità particolare e conflittuale, diventano spesso la materia del suo canto, accompagnate da sentimenti d’amore travagliati e folle ossessione per la morte. Ma la sua parola risulta essere semplice, brillante ed efficace, arrivando dritto al cuore di chi legge.

 

Tie the Strings to my Life, My Lord,

Then, I am ready to go!

Just a look at the Horses -

Rapid! That will do!

Put me in on the firmest side -

So I shall never fall -

For we must ride to the Judgment -

And it's partly, down Hill -

 

But never I mind the steepest -

And never I mind the Sea -

Held fast in Everlasting Race -

By my own Choice, and Thee -

 

Goodbye to the Life I used to live -

And the World I used to know -

And kiss the Hills, for me, just once -

Now - I am ready to go!

 

Chiede al Signore, di legare i lacci della sua vita, che è stata vissuta fino in fondo, perché è una cosa seria come Dante le ha insegnato. La Commedia rimane per lei, consapevole o meno, il punto di riferimento più importante, in particolare con lo sguardo rivolto ai canti I e XXXIII del Paradiso. Il concetto dell’ineffabile, di ciò che non si riesce a dire, o meglio a definire, è la parola chiave che accomuna Dante a Emily Dickinson: è come se la vista interna si affinasse sempre di più e il desiderio dell’intelletto diventasse via via più potente.

 

Nel ciel che più de la sua luce prende 

fu’ io, e vidi cose che ridire 

né sa né può chi di là sù discende; 

(Par. I, 4-6) 

 

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio 

che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, 

e cede la memoria a tanto oltraggio. 

(Par. XXXIII, 55-57)

 

Omai sarà più corta mia favella, 

pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante 

che bagni ancor la lingua a la mammella.

(Par. XXXIII, 106-108)

 

Similmente Emily Dickinson nella lirica To tell the beauty would decrease affronta il tema dell’ineffabile e la paura di perdere la favella che coincide con il timore di smarrire completamente il senno, quando si vede la Bellezza.

 

To tell the beauty would decrease,

To state the Spell demean,

There is a syllableless sea

Of which it is the sign.

 

My will endeavours for its word

And fails, but entertains

A rapture as of legacies -

Of introspective mines.

 

La Bellezza è il segno di un mare senza sillabe, la volontà si adopera per restituire la parola, ma, inevitabilmente, fallisce, anche se intrattiene, diverte e ti porta via. Quasi una sorta di rapimento mistico dove il Λόγος, il Verbo che si fa carne, dovrebbe tradursi in λόγος, umile parola scritta. Ma l’impresa è alquanto ardua. Tuttavia l’essere umano ha bisogno di perdersi nel mistero delle cose, di donarsi, perché, come afferma la Dickinson, in uno dei suoi più perentori aforismi: «Siamo tutti umani finché non diventiamo divini. Per alcuni di noi questo momento è lontano, per altri è vicino».

 

Nel segno di Dante: Anne Paolucci

 

Abbiamo preso in considerazione quattro autori diversi, appartenenti a differenti tradizioni culturali, che sono stati influenzati dal poeta fiorentino. A questo punto ci si chiede quanto Dante possa aver determinato le opere di scrittori di origine italiana. Tra i tanti emerge la figura di Anne Paolucci, che nacque a Roma nel 1926 e si trasferì, a soli otto anni con la madre rimasta vedova a New York. Divenne docente di ricerca e presidente del Dipartimento di Inglese presso la St John ’s University di New York. Ebbe alla Columbia University grandi maestri: Giuseppe Prezzolini e Dino Bigongiari. Due testi sono l’espressione più significativa della sua passione per Dante: la tesi di dottorato, intitolata The women in Dante’s Divine Comedy and Spenser’s Faerie Queene, che le valse una Woodbridge Honorary Fellowship, ricevendo un dottorato di ricerca in letteratura comparata alla Columbia nel 1963, e Dante revisited. Essays by Anne Paolucci. Nel primo saggio affronta un argomento estremamente significativo e attuale: le figure femminili nella Commedia, paragonandole a quelle di The Faerie Queene, poema epico incompiuto di Edmund Spenser, che risale al 1590.  Tutto il libro dell’autore inglese si presenta come un’allegoria delle virtù cristiane all’epoca di re Artù ed è scritto con una struttura metrica alquanto innovativa, che poi venne ripresa dai poeti romantici inglesi Wordsworth, Keats e Byron. Egli aveva intenzione di scrivere dodici libri, proprio come Virgilio con l’Eneide, ma lo colse la morte improvvisa. Sono già due gli elementi che lo accomunano a Dante: la ricerca di un nuovo stile, (le cosiddette strofe spenseriane, otto pentametri giambici e un verso alessandrino) e il riferimento a Virgilio, «tu duca, tu segnore, tu maestro (Inf. II, 140)». Anne Paolucci approfondisce i tratti delle figure femminili dantesche e spenseriane: «In Dante’s poetic vision, the perfect woman is not a phisical presence but a divine miracle».

Dove il corpo di una donna viene menzionato in tutte e tre le cantiche, il riferimento è breve; forse Francesca, la protagonista assoluta del canto V, viene descritta con più precisione rispetto ad altre, quasi a voler ribadire il pericolo dell’attrazione fisica di un certo tipo d’amore. Beatrice, quando appare nel canto XXX del Purgatorio, indossa vesti che sono uguali a quelle dell’incontro iniziale della Vita Nova.

 

Sovra candido vel cinta d’uliva 

donna m’apparve, sotto verde manto 

vestita di color di fiamma viva.

(Purg. XXX, 31-33)  

 

«Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia.[…] questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo […]»

 

Tuttavia, afferma Paolucci, i vestiti di Beatrice non hanno colori reali, ma sono una visibile manifestazione, una rappresentazione simbolica della natura, forieri d’amore, di fede e di speranza: «The women of the Paradiso, like the women of the Inferno, are robed only figuratively- not in idre or filth or unkempt hair, but in the splendor of white light, which consumes all traces of the material body. The gradual reduction of materiality to spirit can be seen, also, in Dante’s treatment of the hair of women».

Anche i capelli delle donne, evidenzia la studiosa italo americana, sono un elemento significativo del processo di smaterializzazione operato dal poeta fiorentino: nell’Inferno sono ancora un tratto distintivo, ad esempio, le furie del canto IX hanno i serpentelli al posto dei capelli e la Taide del canto XVIII è sozza e scapigliata, invece i capelli scompaiono del tutto nel Purgatorio e nel Paradiso. Queste affermazioni sembrano essere in contrasto con il realismo dantesco, che consiste soprattutto nella valorizzazione della biografia e dell’esperienza dei suoi personaggi (si pensi soltanto a Farinata degli Uberti). Dante privilegia la storicità, la narrazione e molto meno la descrizione che risulta vincolata ancora agli stilemi del Dolcestilnovo. «Both Dante and Spenser seem to have distinguished intentionally certain area of description from others  by the grater or lesser use of metaphors and similes». Continua il parallelismo con Spenser anche nell’importanza che entrambi attribuiscono al sorriso, manifestazione assieme agli occhi di un’interna disposizione dell’animo. Lo stesso tema (occhi-sorriso) della Vita nuova verrà ripreso nel Convivio, rivedendo e valutando gli argomenti filosofici di Aristotele, Platone e di altri: «For Dante, the smile has special meaning as the infallible sign of selfless love; for Spenser it is a snare to temptation, exerting its dangerous fascination in the confused, familiar world of fallible men and women».

Tuttavia, risulta evidente una notevole differenza tra i due autori relativamente al sorriso: se per il poeta fiorentino è il segno di qualcosa che rimanda ad altro, per Spenser il sorriso è l’emblema di un’evidente tentazione. Paolucci riprende la stessa tematica nel secondo saggio Dante revisited, costituito da otto approfondimenti, preceduti da uno studio di Dino Bigongiari dal titolo The man and the poet. Sempre partendo dal confronto con Spenser, avendo come punto di riferimento l’Eneide, sono due le componenti che accomunano l’autore inglese al poeta fiorentino: l’etica e la politica: «In both poems, women are the source of misdirected action and the means of redemption […]».

Spesso nella Commedia  il nucleo tematico dell’amore è sempre accompagnato dalla passione per la politica, anzi sono  due componenti strettamente legate; basti pensare alla storia di Francesca, la cui morte, determinata dal folle amore per Paolo, è sicuramente dipesa anche da questioni politiche oppure nel cielo di Venere (canti VIII e IX), dopo che ha parlato Carlo Martello, sovrano che arde d’amore per l’etica e la politica, Dante dialoga con Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia, che si sono dati all’amore sensuale per poi volgersi a quello divino, dedicandosi ad attività politiche. Sia per Dante sia per Spenser la bellezza senza virtù è uno strumento di distruzione. In un altro studio dal titolo Exile among exiles: Dante’s party of one, Paolucci pone l’attenzione sull’esilio del poeta fiorentino:  «Exile is the all-pervasive state of mind of the Divine Comedy […] In Dante’s Christian universe, all of human life on earth is , of course, a journey in exile».

Che Dante sia stato l’emblema dell’homo viator, pellegrino del mondo, risulta un’evidenza, che lo rende straordinariamente familiare a tanti scrittori anche e soprattutto contemporanei, perché l’esilio così concepito è una condizione dell’animo. Quando il poeta fiorentino scrive:

 

Non mi parean men ampi né maggiori 

che que’ che son nel mio bel San Giovanni, 

fatti per loco d’i battezzatori;  

(Inf. XIX, 16-18)      

 

si avverte una profonda nostalgia e la dichiarazione di un forte amore per la propria città; diventa inevitabile stabilire collegamenti con molti autori contemporanei che hanno patito l’esilio o l’esclusione per motivi politici. In un altro saggio, la scrittrice statunitense si sofferma sul ‘Byronic hero’, che si identifica nel Satana di Paradise lost di Milton: «Milton’s Satan, unlike Dante’s, seems to reflect at moments all the inspiring pathos and attractive stoicism of a Brutus, a Macbeth, an Oedipus».

La figura grottesca del Lucifero dantesco che tanto somiglia ai giganti, protagonisti del canto XXXI, viene resa più intensa e drammatica da Milton, il cui Satana, come osservava anche T.S Eliot, soffre allo stesso modo delle anime dannate. Nella Commedia il finale tanto atteso risulta a dir poco paradossale: l’incipit latino («Vexilla  regis prodeunt inferni», Inf. XXXIV, 1), la descrizione fredda e lentissima di questa prodigiosa macchina infernale, incastrata al centro della terra viene trasformata da Milton, il cui Satana diventa l’eroe titanico per eccellenza: «Dante’s satan is a reductio ad absurdum of the ‘Byronic hero’s Paradise Lost. Milton’s Satan, if properly understood, does not detract from Dante’s poetic representation, but, rather, intensifies it».

Molto interessante il confronto fra Dante e Machiavelli nel saggio intitolato Dante and Machiavelli: political idealism and political realism, dove si determina il confronto di due diverse concezioni politiche e anche etiche, sebbene la spinta ideale fosse la medesima, cioè quella di stabilire un governo forte e unito. Paolucci studiò con passione le opere del segretario fiorentino e tradusse La Mandragola, straordinaria commedia, considerata dalla critica il vero capolavoro del Cinquecento: «In spite of their very different arguments, Machiavelli and Dante are basically in agreement as to the need for strong and unified rule».

Certo gli obiettivi erano differenti: per Dante il governo, se pur guidato da Dio, doveva essere consegnato nelle mani degli imperatori germanici, che avrebbero mirato a ricreare l’antico Impero, mentre per Machiavelli sono gli stati ad assumere un ruolo preminente, dove un equilibrio di potere, determinato dalla figura del Principe, assicura vincoli e quindi pace. La questione politica viene ulteriormente approfondita nelle pagine, intitolate The cosmopolitan age of Dante and his dream of restored imperial rule. La studiosa italo-americana afferma che il desiderio di un governo stabile si lega indissolubilmente all’esigenza di felicità di ogni essere umano. Così nella Monarchia:

 

«Dunque la ineffabile provvidenza due finalità da perseguire ha proposto all'uomo: la felicità in questa vita, che consiste nella esplicazione della propria virtù attiva ed è raffigurata nel paradiso terrestre; e la felicità nella vita eterna, riposta nel godimento della visione di Dio a cui la virtù intrinseca non può giungere se non è guidata dalla luce divina; e questa felicità è dato di riconoscere nel paradiso celeste».

(Dante, Monarchia, iii, XV, 7)

 

«Dante never forgets the ultimate end of man, his fulfillment in heaven, and in this respect, he belongs to the middle ages. He essentially modern in subscribing to the belief that attain meant of peace and happiness on earth is a prerequisite of man’s ultimate spiritual end». L’epoca di Dante, sottolinea Anne Paolucci, è davvero particolare non solo dal punto di vista politico, ma soprattutto dal punto di vista culturale: la definisce un’età ‘genuinamente cosmopolita’. Dal Mediterraneo alla Norvegia vi era un unico linguaggio, una sola religione, un accordo universale sulla scienza e su tutte le leggi scientifiche. Uno studente poteva passare dall’Università di Parigi all’Università di Bologna senza cambiare lingua o condotta morale. Questo aspetto risulta davvero interessante a si potrebbe approfondire con ulteriori studi a partire dalla concezione di Medioevo plurale di Alain De Libera al cosmopolitismo della Paolucci, che, inevitabilmente fa pensare alla contemporaneità. Molto complesso, ma ricco di suggestioni il saggio intitolato Dante, Hegel, and the Marian inspiration of the Commedia. Nel sistema hegeliano l’arte, insieme alla religione e alla filosofia, è una figura dello Spirito Assoluto. Essa fa conoscere il divino, l’Assoluto e grazie ad essa lo spirito conosce e si realizza. «L’arte fa di ogni sua produzione un Argo dai mille occhi, perché si veda in ogni punto l’anima interna e la spiritualità». L’arte, per Hegel, ha la capacità di additare qualcosa oltre se stessa; attraverso la bellezza permette allo sguardo di protendersi verso l’oltre, che, per mezzo suo viene rappresentato. Che cosa accomuna Dante alla filosofia estetica di Hegel? Proprio la figura della Vergine Maria: «[…] Hegel does not hesitate to bring the incarnation of divine love, through Mary, into focus, as the highest conceivable inspiration the art has ever had».

Nella sua Vita di Gesù, che per larga parte si ispira ai Vangeli sinottici, l’attenzione non è rivolta all’incarnazione di Gesù attraverso il corpo di Maria, quanto piuttosto all’importanza che questa figura femminile ebbe nell’ispirare l’arte, nell’indicare alla ragione qualcosa di oltre. Il filosofo non parla di resurrezione, quanto piuttosto di imperativo morale e di bellezza, ispirata soprattutto dalla figura della Madonna. Anne Paolucci definisce la Commedia un lavoro di ispirazione mariana: «In Dante’s native  Florence[…], the power of Mary was an omnipresent artistic reality».

Dante è il primo autore in occidente a riconoscere i limiti dell’arte: questo concetto risulta evidente già nel canto XV del’Inferno, dove incontra il maestro di un tempo Brunetto Latini (l’indimenticabile verso «Siete voi qui, ser Brunetto?», così familiare e umano, resta fisso nella memoria di tutti i lettori). Nell’ultima sequenza del canto il vecchio maestro raccomanda al discepolo, prima di separarsi da lui, la sua opera più cara, il suo Tesoro. L’unica vita immortale per il maestro di retorica è quella dell’arte, ma Dante ha già appreso che non può bastare, che è mutevole come un fiato di vento, motivo ripreso nel bellissimo canto XI del Purgatorio:

 

Non è il mondan romore altro ch’un fiato 

di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, 

e muta nome perché muta lato.  

(Purg. XI, 100-102)   

 

Pertanto, quando la fonte di ispirazione è Maria, a cui l’homo viator rivolge la preghiera e, in ultimo, lo sguardo l’arte stessa diventa il segno dell’oltre, nel suo limite di prodotto mortale. Così conclude Anne Paolucci: «Dante, we may say in conclusion, is the first poet of the West […] to recognize the absolute limits of art, right up  to the heighten source of inspiration, which trough Mary’s intercession, takes him into the blinding light of divine love, where being, beauty, truth, and goodness transcend themselves together».

Luce accecante dove verità, bellezza e bontà coincidono. I saggi di Anne Paolucci, scritti in modo scorrevole ed efficace, offrono spunti di approfondimento e di ampliamento veramente significativi, perché affrontano molteplici tematiche con leggerezza e al contempo profondità. Nel segno di Dante.


BIBLIOGRAFIA

Dante, Vita nuova, Garzanti, Milano, 1999

Emily Dickinson, Complete poems, Part Five: The Single Hound, Penguin Classics, Regno Unito, 2010.

Margherita Guidacci, Neurosuite, Neri Pozza, Vicenza, 1970.

G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, con un saggio introduttivo di S. Givone, Einaudi, Torino, 2014.

Gilberto Lonardi, Effetto Dante. Sulla Commedia dei moderni, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli, 2022.

Simone Magherini (a cura di), Dante e i poeti del Novecento, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2022. 

Osip Mandel’štam, Conversazioni su Dante, Adelphi, Milano, 2021.

Id., Quaderni di Voronez, Mondadori, Milano, 1995.

Id., Armenia, Adelphi, Milano, 1988.

Anne Paolucci, The women in Dante’s Divine Comedy and Spenser’s Faerie Queene, Griffon House for the Bagehot Council, Delaware, 2005.

Anne Paolucci, Dante revisited, Griffon House for the Bagehot Council, Delaware, 2008.

 

 

8 maggio 2023