Marco Marangoni - La poesia e la paura

Parafrasando Heidegger di Essere e tempo, la paura che interessa, dall’interno, la poesia è l’angoscia ( Angst). Cioè il darsi del “negativo” che delimita l’esser-ci. La poesia infatti, meglio di altri linguaggi, piuttosto obbedienti alla ragione impersonale e giudicante, sarebbe in grado di portare a linguaggio la percezione affettiva e ostensiva del dato negativo , del “non”.  Non è una tesi originale, ma piuttosto la codificazione rigorosa della condizione della poesia nel “moderno”. A questa altezza del tempo, lo stile  immediatamente riconoscibile del poeta si coglie senz’altro a partire dal suo “pensiero negativo”.   Ma  questa poetica, si dirà, era  già  degli antichi: quella dell’insopprimibile radicamento  sentimentale ( con valore centrale del corpo) nella “finitezza”.  Già lì  infatti è ravvisabile l’esser solo mia, in verità e solitudine, dell’avventura  per l’ “ultimo orizzonte”. Ultimo, ma già da sempre il “primo” per l’esser-ci, perché fondativo del suo stato di sospensione, di fragilità, di frammentarietà, non modificabile da alcuna prassi. Tutto l’agire ha  già lì perfettamente il suo contro-piano: “ Soles occidere et redire possunt;/Nobis cum semel occidit brevis lux,/ Nox est perpetua una dormienda.” ( Catullo)

Una trama terrifica, un thauma, prepara e attraversa la parola poetica degli antichi, che de-canta, cantando, la finitezza; ma così, pur smaltandosi di luce e ritmo ( l’armonia che le muse ispirano, secondo quando dice Esiodo nella Teogonia[1]), è una parola che si inoltre nella terra di Ade.


Sincronia qui perfetta di classici e moderni.  Ma sincronia fin qui. Oltre infatti, nella diacronia, troviamo nel moderno una tradizione-innovazione che va dal Barocco alla “poetica”  almeno dello spazio bianco, e della metafisica dell’inquieto ( De Chirico); quando la domanda che si forma  è quella sulla possibilità che resta di un canto, di un tempo-metro : in quale tempo può ancora  darsi il tempo poetico? Quando noi viviamo? In quale tempo sono le piazze segnate dagli orologi fermi di De Chirico?  Quale luce le illumina-dipinge? Quali ombre le adombrano? Quali Muse  ci parlano ( “muse inquietanti” )?  E qui si prolunga quell’inizio che fu l’intuizione  appunto del Barocco, tra vertigini, nature morte, e  maschere, deformate-deformanti; tra sogno, realtà, e amletica psicologia.  La tradizione del moderno passa di qui.  Tradizione della  scissione dell’unità  antropologica  e cosmologica.  Che esplode nella sensibilità della crisi  tra ‘800 e ‘900. 


Dunque siamo ancora lì, a Essere e tempo, tra la poesia e l’angoscia. Nel cerchio delle Elegie duinesi dove Rilke tratteggia la soglia tra “qui” e “nessun-dove “[2].  Soglia che Freud, in chiave psicoanalitica,  vede come separazione dal fondo materno, e rispetto a cui il gioco linguistico-simbolico (fort /da) “ci salva”[3], introducendo ad un itinerario che Winnicott nei suoi lavori, considera fondamentale  per l’apertura dello spazio culturale e artistico. Lo spazio materno dell’ispirazione[4] . I  “saltimbanchi”di Picasso  prendono rilievo nell’immaginario di queste parole nuove ( la Quinta elegia di Rilke), come “Il vecchio chitarrista cieco”(1903) del “periodo blu” è alla base  dei versi di  “The man with the Blue Guitar”di Wallace Stevens[5]. I “saltimbanchi” che saltano  sul “verlorenen/Teppich im Weltall”,  sul “perduto tappeto dell’universo”, sono l’esito elegiaco e ironico di una poetica segnata dal negativo, dalla frontiera, dal “Nessun-dove”. Ironia e angoscia dunque, caratteristiche della poesia nel “moderno”, oltre che del poeta che ha perduto l’aureola e se ne va nella metropoli come uno straniero, amante di nuvole. Di qui la umiltà e quotidianità che conosciamo ampiamente e irriducibilmente come un elemento caratterizzante la poesia contemporanea, ma non per delle adesioni ideologiche e populiste.  Ma per condizione di storia e ontologia. Per ontologia poetica. Ironia che introduce, come suo necessario correlato, lo scherzo - il gioco, il riso, fino al non-sense. Ironia che erode tutte le certezze e introduce al ludico , ma può sortire  anche il momento estetico  in quanto “mistico” (Wittgenstein).


Vero è che quel “pensiero negativo” è  sistematicamente oscurato dall’ideologia razionalista , per incompatibilità con i presupposti dell’Occidente. Una barra lo rimuove.  E il rimosso “ritorna” col disagio della modernità[6] , con lo spaesamento (la Unheimlichkeit, heideggeriana). La poesia ha registrato questa nuova paura, questa terra refrattaria,  sterile in Wast land di Eliot ( “ Unreal City,/ Under, the brown fog of a winter dawn,/ A crowd flowed over London Bridge, so many,/ I had not thought death  had undone so many” ( Città irreale,/ Sotto, la  nebbia bruna di un’alba invernale,/Una folla fluiva sul London Bridge, così tanta/ che io non avrei potuto pensare che la morte  tanta ne avesse disfatta”); o in The Age of Anxiety di Auden. Lo stesso “perturbante” di Freud è leggibile come questo  “ritorno” del rimosso. Freud così ha dato un formidabile contributo all’interpretazione della poesia dello unheimlich (“perturbante”[7]), che ci porta a confrontarci con la presenza ridestata di un pensiero magico, ma “nero”, mentre l’inanimato si anima, l’automa si fa organico.  E’ che l’abisso c’è  ed è senz’altro pauroso, mysterium tremendum. Il problema è quello del suo accoglimento. Lo straniero ci abita, questo è il punto; e dunque come ospitare l’Altro? Ecco perché Freud consiglia Rilke, in una fase di depressione, ad accettare la caducità; per cui il poeta  si avvierà verso una poetica della salvezza-che-cade[8]. Una poetica che sarà una rivisitazione del mito orfico, e della poesia come parola salutare, che ascolta il corpo e lo comunica. Se l’Occidente non sa trovare una possibilità “orfica” ( Rilke) per fare esperienza lirica della katabasi,  non gli resta  che “ l’orrore” che è l’ultima parola di kurz, il  con radiano protagonista di “Cuore di tenebra”, la vinta anima del razionalismo occidentale incapace di relazionarsi con l’altro ( la “foresta”),  e al quale non resta come exitus che la follia.

Pubblicato il 20/11/2015 

 

Note:


[1] Vedi, sulla funzione delle Muse  nella mitologia greca:  W.F.Otto, Le muse, trad. it., Fazi, Roma , 2005 ; Il Mito, trad.it., Il Melangolo, Genova, 1993.

[2] Rilke dice nella VII Elegia: “ Nirgends ohne Nicht”, Nessun dove senza no.

[3] S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. it., Newton Compton, Roma , 1992, pp.1104-1105.  Qui Freud intende l’allontanamento della madre come la “premessa indispensabile del festoso ritorno”; questa è l’economia del gioco.

[4] Cfr. A. Carrera, Lo spazio materno dell’ispirazione. Agostino, Blanchot, Celan, Zanzotto, Cadmo, Fiesole 2004. La distanza dal cielo, Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano, 2011.

[5] Cfr. la nota di Massimo Bacigalupo a W. Stevens, Tutte le poesie, trad.it.,  Mondadori, Milano, 2015, p. 1109.

[6] Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1999.

[7] S. Freud, Il perturbante ( 1919), op. cit., pp. 1049-1070.

[8] Cfr. Franco Rella, Premessa a I sonetti a Orfeo, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1988. S. Freud, Sulla precarietà ( 1916), op.cit., p.889-891.   La decima e ultima elegia delle Duinesi si chiude con  “wenn ein Glückliches fällt, ossia letteralmente “  se una cosa felice  cade.”