Parafrasando Heidegger di Essere e tempo, la paura che interessa, dall’interno, la poesia è l’angoscia ( Angst). Cioè il darsi del “negativo” che delimita l’esser-ci. La poesia infatti, meglio di altri linguaggi, piuttosto obbedienti alla ragione impersonale e giudicante, sarebbe in grado di portare a linguaggio la percezione affettiva e ostensiva del dato negativo , del “non”. Non è una tesi originale, ma piuttosto la codificazione rigorosa della condizione della poesia nel “moderno”. A questa altezza del tempo, lo stile immediatamente riconoscibile del poeta si coglie senz’altro a partire dal suo “pensiero negativo”. Ma questa poetica, si dirà, era già degli antichi: quella dell’insopprimibile radicamento sentimentale ( con valore centrale del corpo) nella “finitezza”. Già lì infatti è ravvisabile l’esser solo mia, in verità e solitudine, dell’avventura per l’ “ultimo orizzonte”. Ultimo, ma già da sempre il “primo” per l’esser-ci, perché fondativo del suo stato di sospensione, di fragilità, di frammentarietà, non modificabile da alcuna prassi. Tutto l’agire ha già lì perfettamente il suo contro-piano: “ Soles occidere et redire possunt;/Nobis cum semel occidit brevis lux,/ Nox est perpetua una dormienda.” ( Catullo)
Una trama terrifica, un thauma, prepara e attraversa la parola poetica degli antichi, che de-canta, cantando, la finitezza; ma così, pur smaltandosi di luce e ritmo ( l’armonia che le muse ispirano, secondo quando dice Esiodo nella Teogonia[1]), è una parola che si inoltre nella terra di Ade.
Sincronia qui perfetta di classici e moderni. Ma sincronia fin qui. Oltre infatti, nella diacronia, troviamo nel moderno una tradizione-innovazione che va dal Barocco alla “poetica” almeno dello spazio bianco, e della metafisica dell’inquieto ( De Chirico); quando la domanda che si forma è quella sulla possibilità che resta di un canto, di un tempo-metro : in quale tempo può ancora darsi il tempo poetico? Quando noi viviamo? In quale tempo sono le piazze segnate dagli orologi fermi di De Chirico? Quale luce le illumina-dipinge? Quali ombre le adombrano? Quali Muse ci parlano ( “muse inquietanti” )? E qui si prolunga quell’inizio che fu l’intuizione appunto del Barocco, tra vertigini, nature morte, e maschere, deformate-deformanti; tra sogno, realtà, e amletica psicologia. La tradizione del moderno passa di qui. Tradizione della scissione dell’unità antropologica e cosmologica. Che esplode nella sensibilità della crisi tra ‘800 e ‘900.
Dunque siamo ancora lì, a Essere e tempo, tra la poesia e l’angoscia. Nel cerchio delle Elegie duinesi dove Rilke tratteggia la soglia tra “qui” e “nessun-dove “[2]. Soglia che Freud, in chiave psicoanalitica, vede come separazione dal fondo materno, e rispetto a cui il gioco linguistico-simbolico (fort /da) “ci salva”[3], introducendo ad un itinerario che Winnicott nei suoi lavori, considera fondamentale per l’apertura dello spazio culturale e artistico. Lo spazio materno dell’ispirazione[4] . I “saltimbanchi”di Picasso prendono rilievo nell’immaginario di queste parole nuove ( la Quinta elegia di Rilke), come “Il vecchio chitarrista cieco”(1903) del “periodo blu” è alla base dei versi di “The man with the Blue Guitar”di Wallace Stevens[5]. I “saltimbanchi” che saltano sul “verlorenen/Teppich im Weltall”, sul “perduto tappeto dell’universo”, sono l’esito elegiaco e ironico di una poetica segnata dal negativo, dalla frontiera, dal “Nessun-dove”. Ironia e angoscia dunque, caratteristiche della poesia nel “moderno”, oltre che del poeta che ha perduto l’aureola e se ne va nella metropoli come uno straniero, amante di nuvole. Di qui la umiltà e quotidianità che conosciamo ampiamente e irriducibilmente come un elemento caratterizzante la poesia contemporanea, ma non per delle adesioni ideologiche e populiste. Ma per condizione di storia e ontologia. Per ontologia poetica. Ironia che introduce, come suo necessario correlato, lo scherzo - il gioco, il riso, fino al non-sense. Ironia che erode tutte le certezze e introduce al ludico , ma può sortire anche il momento estetico in quanto “mistico” (Wittgenstein).
Vero è che quel “pensiero negativo” è sistematicamente oscurato dall’ideologia razionalista , per incompatibilità con i presupposti dell’Occidente. Una barra lo rimuove. E il rimosso “ritorna” col disagio della modernità[6] , con lo spaesamento (la Unheimlichkeit, heideggeriana). La poesia ha registrato questa nuova paura, questa terra refrattaria, sterile in Wast land di Eliot ( “ Unreal City,/ Under, the brown fog of a winter dawn,/ A crowd flowed over London Bridge, so many,/ I had not thought death had undone so many” ( Città irreale,/ Sotto, la nebbia bruna di un’alba invernale,/Una folla fluiva sul London Bridge, così tanta/ che io non avrei potuto pensare che la morte tanta ne avesse disfatta”); o in The Age of Anxiety di Auden. Lo stesso “perturbante” di Freud è leggibile come questo “ritorno” del rimosso. Freud così ha dato un formidabile contributo all’interpretazione della poesia dello unheimlich (“perturbante”[7]), che ci porta a confrontarci con la presenza ridestata di un pensiero magico, ma “nero”, mentre l’inanimato si anima, l’automa si fa organico. E’ che l’abisso c’è ed è senz’altro pauroso, mysterium tremendum. Il problema è quello del suo accoglimento. Lo straniero ci abita, questo è il punto; e dunque come ospitare l’Altro? Ecco perché Freud consiglia Rilke, in una fase di depressione, ad accettare la caducità; per cui il poeta si avvierà verso una poetica della salvezza-che-cade[8]. Una poetica che sarà una rivisitazione del mito orfico, e della poesia come parola salutare, che ascolta il corpo e lo comunica. Se l’Occidente non sa trovare una possibilità “orfica” ( Rilke) per fare esperienza lirica della katabasi, non gli resta che “ l’orrore” che è l’ultima parola di kurz, il con radiano protagonista di “Cuore di tenebra”, la vinta anima del razionalismo occidentale incapace di relazionarsi con l’altro ( la “foresta”), e al quale non resta come exitus che la follia.
Pubblicato il 20/11/2015
Note:
[1] Vedi, sulla funzione delle Muse nella mitologia greca: W.F.Otto, Le muse, trad. it., Fazi, Roma , 2005 ; Il Mito, trad.it., Il Melangolo, Genova, 1993.
[2] Rilke dice nella VII Elegia: “ Nirgends ohne Nicht”, Nessun dove senza no.
[3] S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. it., Newton Compton, Roma , 1992, pp.1104-1105. Qui Freud intende l’allontanamento della madre come la “premessa indispensabile del festoso ritorno”; questa è l’economia del gioco.
[4] Cfr. A. Carrera, Lo spazio materno dell’ispirazione. Agostino, Blanchot, Celan, Zanzotto, Cadmo, Fiesole 2004. La distanza dal cielo, Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano, 2011.
[5] Cfr. la nota di Massimo Bacigalupo a W. Stevens, Tutte le poesie, trad.it., Mondadori, Milano, 2015, p. 1109.
[6] Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1999.
[7] S. Freud, Il perturbante ( 1919), op. cit., pp. 1049-1070.
[8] Cfr. Franco Rella, Premessa a I sonetti a Orfeo, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1988. S. Freud, Sulla precarietà ( 1916), op.cit., p.889-891. La decima e ultima elegia delle Duinesi si chiude con “wenn ein Glückliches fällt, ossia letteralmente “ se una cosa felice cade.”