Loredana Chines - La parola in aula

 

L’aula di cui voglio parlarvi oggi non è l’aula del tribunale, non è l’aula intesa come ampio e solenne luogo di un palazzo (l’aula magna), non è nemmeno soltanto, come diceva Isidoro nelle sue Etimologiae uno «spatiosum habitaculum partibus quattuor conclusum». Questo ampio abitacolo definito da quattro mura diventa davvero un’aula quando si incontrano volti, voci, esperienze, che crescono insieme, in quella straordinaria esperienza che è la lezione, che Ezio Raimondi paragonava a una sorta di pièce teatrale, in cui tutti hanno un ruolo, e di nessuno si può fare a meno per la riuscita dello spettacolo. La parola è fisicità, fisicità di fiato, di tono, di sguardi, di cenni del viso, e deve agire e muoversi in uno spazio fisico, ecco perché l’AULA VIRTUALE creata dall’emergenza della pandemia, che riduce i volti degli studenti a tanti tondini colorati sullo schermo e mette a tacere le loro voci dietro a quei mesti microfoni sbarrati è un monstrum creato dalla necessità e come tale deve rimanere. Per non parlare della solitudine sconsolata di un individuo (il docente) che parla da solo davanti a un computer con un fiume di parole che seguono un corso cieco.

Una riflessione a parte merita poi il binomio AULA – AURA, accostate in un gioco paronomastico caro a uno dei miei maestri, Ivano Dionigi. Non viviamo più in tempi rituali, e da tempo l’aula di lezione (in qualunque ordine e grado dalle elementari all’università) ha perso la sua aura sacrale in cui la parola dell’insegante si librava nel silenzio religioso degli alunni. Non stiamo qui ad annoverare le ragioni di ordine storico, sociale, politico, che hanno portato a un progressivo svuotamento di senso delle istituzioni specchio di un impoverimento culturale e di una miopia che non investe nella formazione, se non in quella fatta di parole d’ordine spesso vuote di senso o fatta di sigle inafferrabili (dalle le famose tre I siamo passati al PNRR) e orientata alla prestazione competitiva e all’ossessione del profilo professionalizzante. È solo la parola dell’insegnante che può e deve ricostruire quell’aura in ogni luogo, che sia lo spazio fisico dell’aula o fuori, camminando sotto i portici, come amava fare Ezio Raimondi con i suoi allievi o, cinquecento anni prima, sulle stesse strade, un maestro dello Studio di Bologna, Filippo Beroaldo il Vecchio. Alla parola in aula dell’insegnante si affida il compito difficile di rendere i propri allievi degli ascoltatori “attivi” ossia in grado di reagire e di far diventare esperienza personale l’informazione. Sempre più difficile il ruolo e la sfida della parola in aula che distolga dalla comunicazione veloce, orizzontale, simultanea e educhi alla lentezza, alla verticalità, alla profondità, che educhi all’ascolto dell’altro (che sia una persona o un testo) e educhi al silenzio fra i continui rumori di fondo. In questo la parola in aula deve sempre interrogarsi su quanto sia “attiva” una tradizione di saperi in una società che cambia nei suoi modelli antropologici e nei suoi sistemi comunicativi. La parola in aula deve misurare di continuo la distanza tra l’oggetto dei propri discorsi e il mondo, e interrogarsi sempre sul senso del proprio agire e chiedersi come possa rendere viva una tradizione che sia veramente tale, ovvero una tradizione che sappia tramandare (tradere) e aprire nuove strade (quel concetto della “lampadoforia”, del portatore di fiaccole che illumina il cammino di chi viene dopo, spesso evocato da Ivano Dionigi).  La parola in aula deve costruire il proprio senso nel rapporto dinamico tra chi parla e chi ascolta, in un gioco dialogico in cui tutti gli attori chiamati in causa devono imparare a muoversi nella complessità. Chi parla in aula deve avere una chiarezza che non è semplificazione e insegnare ad aprire questioni e a porre problemi e domande piuttosto che a dare quelle risposte, che possono dare in tempi rapidissimi Google e gli inquietanti prodigi dell’intelligenza artificiale di Chatgpt.  Chi ascolta deve affidarsi, non deve temere l’apparente disordine che può derivare dalla complessità delle parole e delle cose, complessità che talvolta è anche varietà e contraddizione.  E questo implica un patto di fiducia tra chi parla e chi ascolta.  L’ordine si crea a poco a poco.  Il percorso che trasforma le informazioni in esperienza, in conoscenza viva, è fatto di strade al principio confuse, di attese, di tensioni. È un percorso fatto di pause, di inciampi, di lentezza, e questo ci riporta alla dimensione del tempo della parola in aula su cui torneremo in conclusione.  Così come non bisogna temere di leggere a un bambino testi che contengano parole di registro più elevato, o più difficili, perché sono piccoli mattoni nell’edificio della sua crescita e della conoscenza che attraverso la parola nuova gli svelano il mondo, non bisogna temere di proporre in aula strade che appaiono al principio tortuose se non labirintiche. Scriveva Wittgenstein nel 1946 (in Pensieri diversi, Adelphi): «Mostro ai miei allievi ritagli di un paesaggio smisurato, dove per loro è impossibile orientarsi». Chi parla in aula deve costruire insieme a chi ascolta la mappa del cammino che orienti in questo paesaggio smisurato e ripensare di continuo l’affidabilità del percorso.

Tra chi parla e chi ascolta, per usare le parole di George Steiner, «Il dono diventa reciproco, come nei labirinti dell'amore». «Io sono più completamente io quando sono te», scrive Celan. Naturalmente non si può ignorare che un ruolo fondamentale giochino l’indole e lo sguardo sull’altro e sul mondo che ha chi pronuncia la parola in aula, il cosiddetto professore o maestro (che, come ci ricorda Ivano Dionigi, è colui che «ha un ruolo superiore» (magis), contrapposto a ministro (minister), colui che ha un ruolo inferiore (minus).  Vi sono maestri che esercitano un fascino della parola, esercitano la cosiddetta componente erotica dell’insegnamento su cui ci illuminano le pagine di Massimo Recalcati e insistono celebri film (come L’attimo fuggente) o fortunate recenti serie televisive (Un Professore con Alessandro Gassman, ma su tutto questo si può vedere l’ultimo fondamentale lavoro di Gian Mario Anselmi, White mirror). È fondamentale che la parola del maestro, in questo caso, guidi chi ascolta a diventare altro da lui, a liberarsi dal rischio di passive emulazioni o di implicazioni psicanalitiche. Abbiamo casi di emulazioni mimetiche negli atteggiamenti, nelle posture, nei toni della voce da parte dell’allievo nei riguardi di un maestro. Ma non è questo il territorio dell’argomento di oggi. Credo che il vero erotismo della parola in aula sia nel rigore appassionato e nella capacità di chi parla di creare una continua curiositas verso il sapere. Perché la parola in aula riesca a creare il movimento della curiosità verso il sapere, chi parla e chi ascolta devono procedere insieme, c’è qualcosa - amava dire Ezio Raimondi - di “artigianale” nel mestiere dell’insegnante, perché la sperimentazione è continua e la parola si misura di continuo con la fisionomia dell’uditorio, con la realtà del presente. È quindi fondamentale che chi parla non “riveli” verità acquisite, ma mostri per così dire il proprio volto “infantile”, disposto allo stupore; solo così, se chi insegna sa essere anche un po’ l’altro rimanendo se stesso, si avvia quel procedere insieme che porta a conoscere davvero e a trasformare l’informazione in esperienza. Insegnare è un mestiere difficile e il senso profondo di questo meraviglioso mestiere è, come diceva Heiddeger, insegnare ad imparare. E chi, come nel nostro caso, insegna la letteratura ha il grande vantaggio di dialogare con chi ascolta a partire da una parola straordinaria per potenza espressiva, profondità  e forza semantica che è quella della lingua letteraria,  antidoto all’omologazione, all’impoverimento progressivo del linguaggio, alle facili semplificazioni; chi parla  in aula è un lettore dei testi e della realtà (“lettore” era in origine anche il nome dei professori dello studio) e deve formare lettori in grado di comprendere la complessità del reale intorno, sotto qualunque forma, a partire da un cosmo che è un testo. Le parole della letteratura si calano nel quotidiano, nella realtà del presente, lo illuminano e ne escono a loro volta umanizzate, e diventano così - diceva Ezio Raimondi - “patrimonio tangibile” (di là da ogni misurazione dell’ANVUR del MiUR e di ogni algoritmo che ha l’ossessione di misurare le cose, si preoccupa del COME, del QUANTO ma non del COSA). Più che mai nell’università di oggi che soffoca il “noi”, soffoca il procedere insieme nelle spire della burocrazia, dei formalismi e delle emergenze di ogni tipo, avremmo bisogno di ritrovare un calore che è umano e intellettuale insieme e un senso vivo di comunità e di appartenenza. Ma torniamo al senso della parola in aula e al ruolo di chi parla a un uditorio. La parola, abbiamo detto, deve formare lettori in grado di comprendere (cum prehendere, afferrare, mettere insieme) quello che è in un testo. La comprensione è l’incontro con le cose attraverso le parole di un testo che si aprono a me mentre io mi apro a loro. Un testo letterario ci illumina, ci rivela noi stessi e la realtà attraverso le parole, mentre noi rendiamo vivo, illuminiamo il testo con il nostro sguardo che cambia nel tempo.  La parola letteraria non può essere compresa con la velocità, con la modalità di lettura distratta con cui leggiamo una mail o un Whatsapp; richiede lentezza, pause, ci spinge a riflettere anche sui silenzi, sui “non detti”, educa all’ascolto, all’osservazione, a indugiare sulla natura profonda della parola. Educare un lettore significa predisporlo a cogliere i suoni e i colori della parola, a osservare con attenzione la materialità del testo, a scrutarne ogni dettaglio. In tal senso l’osservazione e l’attenzione sono categorie comuni alla parola scientifica e alla parola letteraria, pretendono entrambe l’ESATTEZZA, come ci ricorda il Calvino delle Lezioni americane. Un poeta come Leopardi aveva insieme il senso della lingua esatta (e uno straordinario habitus filologico) e faceva vibrare di vaghezza e di associazioni evocative la sua lingua poetica. D’altra parte la capacità immaginativa è presupposto comune al sapere scientifico e a quello letterario; pensiamo a poeti del cosmo come Lucrezio, che ricreano nella lingua, attraverso il gioco combinatorio delle lettere-atomi, quelle leggi della natura che va descrivendo nei suoi esametri, o pensiamo a Galileo che legge Ariosto e negli infiniti fili narrativi del Furioso che si intrecciano vertiginosamente trova consonanze con gli infiniti mondi che si aprono al suo cannocchiale. Comune al paradigma scientifico è la ricerca della verità della parola, perseguita dalla filologia a partire dall’umanesimo, che non metteva barriere tra i saperi: già Lorenzo Valla alla metà del Quattrocento e Poliziano alla fine dello stesso secolo indagavano con lo stesso sguardo filologico testi letterari, testi giuridici, testi scientifici, spesso sovvertendo autorità costituite, e rifondando i saperi e portando nuove conoscenze in ogni disciplina. La filologia, ancora oggi è il nostro enchiridion, la nostra arma, uno strumento non solo per vagliare l’attendibilità di un testo ma anche la veridicità di una fonte, per combattere le fake news. Come educa alla parola letteraria chi è in aula? Abbiamo risposte diverse da grandi autori che sono stati grandi lettori e in qualche caso anche grandi maestri. Alfieri nella Vita ci racconto come leggesse Dante senza commenti, che costituivano una sorta di zavorra, cercando un contatto diretto, da poeta a poeta con il vibrare delle terzine dantesche; e non c’è dubbio che abbia un senso dare valore la lettura ad alta voce per cogliere gli elementi del suono, i colori della parola, l’accelerarsi o il rallentarsi del ritmo, le pause, i silenzi, il non detto (pensiamo solo a Benigni che legge Dante); la lettura è il primo livello dell’interpretazione, non meno importante degli altri. Ma chi ascolta deve essere messo in grado di cogliere con adeguate conoscenze la profondità della parola letteraria, capire come si crea quella profondità. Quando un insegnante legge il V canto dell’Inferno presenta la schiera dei lussuriosi che sottomettono la ragione al talento, sottomettono la ragione alla passione e scontano nella bufera infernale la loro pena. Si spiega così l’uso iterato per tre volte, in quel canto, di una figura retorica che è l’hysteron proteron (dal greco hysteron – dopo - e proteron  - prima) che consiste nel mettere prima quello che logicamente andrebbe messo dopo. La ragione dovrebbe venire prima della passione, ma questo stravolgimento dell’ordine di valori è proprio il peccato che scontano i lussuriosi. La retorica non è una sovrastruttura, ha a che vedere con le radici antropologiche dell’uomo e della parola, è la rappresentazione profonda del movimento degli affetti. Quando nella Liberata di Tasso si parla dell’uso ripetuto dell’iperbato che è una figura retorica di dilatazione, di drammatica tensione, o di chiasmo che è la figura a specchio delle polarità oppositive, si parla dei laceranti conflitti interiori dei personaggi tassiani e dell’autore che li ha creati, già vicini alla drammaticità teatrale dei personaggi shakespeareani. La letteratura, come dice Giuseppe Pontiggia, è tante cose, ma soprattutto è “critica del linguaggio” che ci porta a riflettere sulle parole che usiamo e spesso abusiamo ogni giorno. Moltissime delle parole che ancora oggi adoperiamo le hanno già utilizzate Dante, Petrarca, Boccaccio, ma in accezione diversa. E conoscerne l’origine e l’uso nei diversi contesti culturali vuol dire ragionare sulla diacronia della lingua, sul senso del tempo in cui la parola si cala e si evolve semanticamente. Pensate al saggio memorabile di Gianfranco Contini sul sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare di Dante, in cui tutti i vocaboli sono usati abitualmente ancora oggi, ma nel testo dantesco hanno accezioni diverse (“gentile” equivale a “nobile”, “onesta” equivale a “virtuosa” e “pare” non significa “sembra”, ma “appare, allude all’epifania di Beatrice: e tali parole racchiudono un’intera poetica). O si pensi alla parola “cortesia” oggi ridotta alla formula “per cortesia”, già utilizzata dai poeti del Trecento con riferimento alla “corte” degli intellettuali e al legame di reciproca generosità con cui il sapere si condivideva e si alimentava. La parola “noia”, a cui ogni adolescente prima o poi ricorre, è nella lingua di Boccaccio il dolore, la pena dell’anima; così come la malinconia¸ melas nous, l’umore nero, che ha a che vedere con la teorie mediche degli umori di Ippocrate e Galeno, quel tedio dell’anima che il Boccaccio vuole allontanare nelle donne distraendole con il suo libro di novelle; Si pensi alla parole discrezione che appartiene oggi alla sfera del bon ton, ma che nel Cinquecento di Guicciardini e di Machiavelli incarnava il paradigma di conoscenza e di comportamento del saggio e del politico che sa dis-cernere, distinguere il particolare in ogni situazione della realtà, e intervenire di conseguenza. L’apparenza fisica della parola è la stessa, ma la sua anima è mutata, come notava un grande maestro di recente scomparso, Luca Serianni, a proposito del verbo “convenire” usato da Dante nel III canto dell’Inferno, che per noi ha inevitabilmente il senso di un’opportunità, di un vantaggio di qualche natura, ma non così per Dante per cui il senso è di necessità assoluta, di obbligo, di dovere: Inf. III 14-15: «Qui si convien lasciar ogne sospetto / ogne viltà convien che qui sia morta».  E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. D’altra parte, immaginatevi i bambini di oggi leggere i Topolini di una volta, in cui si trovavano parole come “turlupinare”, “corroborare”, “lucrare”, tanto lontane dalla conoscenza degli adolescenti di oggi che si ebbe a dire, già una decina di anni fa, che ci vorrebbe un topo-dizionario  (Stefano Rizzato su “La Stampa” 2012).

Chi parla in aula deve far propria la lezione del Nietzsche di Aurora  della lettura lenta, o, per ricorrere alle parole dell’amico Pasquale Stoppelli , deve  ricordare che «Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, diventare silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia da orafi della parola».  E infine una considerazione sul tempo della parola in aula. Chi parla in aula deve stabilire che l’ora di lezione è un’ora «in contrattempo» (per usare il titolo di un recente libriccino di Gian Luigi Beccaria), è un tempo diverso, più che contro il tempo veloce, è un tempo in controcorrente, sottratto al tempo veloce, che ha altri ritmi di movimento e di pensiero.

Aldo Manuzio, il grande editore veneziano del Cinquecento, aveva scelto per il proprio marchio tipografico l’adagio erasmiano «festina lente», affrettati lentamente, in cui si condensa l’idea tutta umanistica di una parola fondata sulla verità della filologia, sullo studio lento,  esatto ed accurato che sa portarci nella profondità della parole e trasformare le parole in pensieri nuovi, in azioni. La lettura lenta consente di cogliere il potere straordinario della letteratura e il potere della parola in generale. «Le parole- dice Recalcati- sono vive, entrano nel corpo, bucano la pancia: possono essere pietre o bolle di sapone, foglie miracolose. Possono fare innamorare o ferire. Le parole non sono solo mezzi per comunicare, le parole non sono solo il veicolo dell’informazione […] ma sono corpo, carne, vita, desiderio. Noi non usiamo semplicemente le parole, ma siamo fatti di parole, viviamo e respiriamo nelle parole». Nel nostro tempo più che mai complesso e per certi versi vertiginoso la parola della letteratura può servire a comprendere meglio la complessità fuori e dentro di noi. Chi parla in aula dovrebbe sempre far riflettere sul senso profondo delle parole a partire da quelle più banali, divenute quasi formule che hanno perso la loro vitalità, il loro volto originario. Si prenda la parola “unanimità” che domina nel linguaggio burocratico dei verbali di condominio o dei consigli di classe o di dipartimento. Petrarca dice a Boccaccio nelle lettere che loro due sono unanimes, una sola anima in due corpi, e sta dialogando, in quel momento, con l’Agostino del IV libro delle Confessioni, con una pagina tra le più belle, in cui Agostino racconta il dolore che lo prese fanciullo per la morte di un amico caro, dolore che cercò di allontanare con la distrazione di altri affetti:

«Per me – dice Agostino- quella finzione [il legame affettivo verso l’amico] non moriva, se anche uno dei miei amici moriva. Altri legami poi avvincevano ulteriormente il mio animo: i colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l'essere ognuno dell'altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l'uno dell'altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l'esca, direi, della fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola». È questa L’unanimitas.

Credo che di questa esca che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola abbia bisogno più che mai oggi la parola in aula.

 

 

25 ottobre 2023