Un'apologia
Doverosa premessa.
Dopo l’uscita del mio Odissea 4.0. Nessuno ricorda Ulisse (Liguori, Napoli 2023), la presentazione napoletana non poteva ricalcare un modello tradizionale. Decidemmo, d’accordo con Maria Liguori, della Casa editrice, la forma del processo, un processo al mio personale modo di rileggere e riscrivere il mito. Il processo, molto partecipato, si è svolto il 23 novembre del 2023, nel Teatro Bellini di Napoli. Presidente della Corte: Miriam Candurro, splendida attrice della soap-opera Un posto al sole, nonché scrittrice (La settima stanza). L’accusa fu sostenuta da Aglaia McClintock, che insegna Diritto Romano e diritti dell’antichità all’Università del Sannio. La Difesa fu svolta da Arturo De Vivo, latinista e già Rettore Magnifico dell’Università Federico II di Napoli. Il Cancelliere Tuttofare, lettore sapiente di passi del libro, fu Francesco Puccio, drammaturgo, regista e storico del teatro. Non mancarono supertestimoni a sorpresa, non saprei ancora dire se a favore o sfavore dell’imputato: Valerio Petrarca, antropologo; Maurizio Bettini, filologo classico; Salvatore Tucci, amico di vecchia data dell’imputato. Si dice, giustamente, che le sentenze vanno rispettate. La Presidente mi ha riconosciuto colpevole, ma con le attenuanti diaculturali, e mi ha condannato alla pena di ‘volumi uno”. Per chi fosse interessato/a, il processo si può vedere a questo link: https://www.facebook.com/assavocealta/videos/743082684511092.
Quella che segue è la mia personale apologia.
Processarono il Liceo Classico. Poi processarono i Classicisti, a cominciare dai filologi classici. Anche quelli “dal volto umano”, dei quali faccio parte con pochi altri. Non ne farò i nomi, li riconoscete dal sorriso, dalla leggerezza autoironica e dai titoli dei loro articoli, nessuno dei quali comincia con “Ancora su …”, magari su un frammento tragico o comico.
Di cosa mi accusano? Di un neoconio, come se non bastassero - sostengono - diegesi e diegetico (intra, extra e super, per dire) oppure ossimoro, antanaclasi, ipallage ed enallage, che nessuno sa in cosa differiscano, quasi come sineddoche e metonimia.
La parola sotto processo è diacultura e risale al 2020, in piena pandemia. La prima occorrenza è in un volumetto edito da Liguori (Napoli), come del resto i successivi due. Tanto vale elencarli subito: Il segreto del tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum (2020); L’isola degli dèi. Procida capitale della Diacultura (2021); Odissea 4.0. Nessuno ricorda Ulisse (2023). Tutti scritti da me, non ho problemi ad ammetterlo.
La definisco e ridefinisco a partire dal primo parto (pardon!). Molto semplice: una cultura che attraversa, che percorre. Lo riconosco, ho sfruttato il senso della preposizione greca diá. La traslittero per non creare disagio alle pochissime persone (italiane e non) che non hanno fatto il Liceo Classico, cui va tutta la mia solidarietà per le discriminazioni che continuamente subiscono, come minoranza maggioritaria (ossimoro anche questo). E poi, ma solo una volta, ho giocato sulla diversa accentazione Dìa, che è l’accusativo del nome divino Zeus. Un po’ come quando, se andate a Napoli - anche se sono salernitano e lo rivendico, non credo di fare razzismo antimeridionale - e chiedete dov’è Piazza Cavour, vi correggono: Piazza Cávour?
Posso precisare che prima di usare pubblicamente diacultura avevo fatto una ricerca in rete con Google Chrome: ora trovate molti link ai miei lavori, ma allora esisteva solo Dià Cultura (così, due parole), che c’è ancora. Una fondazione di promozione culturale ed etica. Promuovevo cultura anche io, lo riconosco, anzi ero pagato per farlo. A proposito, mi sono sempre rifiutato di considerare il mio settore di studi e ricerche come cose inutili, programmaticamente inutili, anzi orgogliosamente inutili, cioè non produttive, non legate al mercato se non direttamente al capitalismo, cioè al vivere quotidiano, in tutte le sue sfaccettature. Devo dire che mi sarei vergognato di ricevere uno stipendio (e ora una pensione) per insegnare cose inutili. Quanto alla promozione etica, lungi da me. Non vorrei uno Stato etico, figuriamoci un Professore etico.
Per questo sentivo il mio neo-conio davvero originale, capace di rappresentare il mio modo di raccontare il mondo antico. Raccontare, non insegnare, meglio precisare. Creare, cioè, personaggi risalenti ad un’epoca che conoscevo bene (meglio di altre) per farli parlare in prima persona e far loro raccontare le proprie esperienze, ma con una cultura diacronica (ecco di nuovo il diá), antica e moderna insieme: una cultura nei cui quadri mentali potevano coesistere senza problemi il politeismo e il cinema, per dirla con una formula.
Così parla Bute, l’amico del Tuffatore di Paestum che ispira al padre, Maestro pittore, i famosi affreschi che ricordano il suo amico suicida, titolare della famosa tomba scoperta nel 1968 (ma tu guarda le coincidenze!): cita Murakami e il rito del simposio, col gioco del cottabo; Ettore Scola e il katapontismós, il tuffo (mortale) in mare. Insomma, se per tanti anni avevo spiegato, con voce moderna, cosa dicevano i testi greci e latini, una volta che davo la parola a uno di loro, perché non farlo parlare con una cultura complessiva, accumulata nei secoli? In fondo si trattava solo di racconti esplicitamente di fantasia, anche se fondati su base storica.
Come spesso accade, però, la cosa esisteva ben prima del nome. Nel 1983, per la precisione il 4 giugno, in pieno Congresso Internazionale di Papirologia a Napoli, pubblicai un’intervista al Vesuvio, nientemeno che sul Manifesto. Lo so, c’erano già le “interviste impossibili” e quindi non facevo nulla di inedito, però anche il Vesuvio, in quella intervista, aveva in mente un film, che conosceva perfettamente: «Vorrei, infatti, smentire alcuni luoghi comuni che da tempo circondano tali vicende. I papiri ercolanesi, come Lei sa, sono tutti carbonizzati. Colpa del Vesuvio, si è sempre detto, della sua lava. Qualche anno fa, un brillante regista inventò un film che ha fatto epoca, come dite voi (ma di epoche dovreste far parlare chi ne ha vissute più d’una!), Fahrenheit 451: non Le è mai venuto in mente che l’idea di bruciare i libri non sia un fatto unicamente moderno, che di roghi di opere filosofiche si parla ben prima di Cristo? E non Le sorge il sospetto che io sia intervenuto solo per evitare una catastrofe ‘culturale’ di ben più ampie proporzioni?».
Non riuscivo a fare diversamente neanche allora. Non riuscivo a vedere i classici come testi sacri, magari fonte di insegnamento perenne, capaci di illuminare le tenebre nelle quali, secondo alcuni/e, viviamo - sempre peggio, signora contessa, sempre peggio!
Li spiegavo e li studiavo con rigore filologico, ma mi sentivo radicato fortemente nel presente; potevo certo dialogare con gli antichi, ma era con i mei contemporanei che convivevo, soprattutto con i/le più giovani che venivano alle mie lezioni: con loro scambiavo idee, prendevo decisioni, progettavo un futuro sostenibile. E i testi antichi si offrivano “buoni per pensare”. Anche loro, come tante altre conoscenze, utili conoscenze.
Per questo potevo scherzare sul Vesuvio e sui papiri, mi sentivo di proporre un intreccio di pensieri antichi e moderni per mettere questi saperi alla prova del mondo in cui vivevamo.
Poi c’era chi studiava lettere classiche e diventava giornalista, chi non necessariamente andava a insegnare a scuola o chi, da insegnante, ricordava che non esistevano solo le parole, le declinazioni e la sintassi, ma le persone, uomini e donne, che le avevano pronunziate e scritte -donne un po’ meno - e anche questo serviva a pensare e a insegnare.
La diacultura cominciò abbastanza presto, dunque, se proprio non vogliamo risalire ai primi spettacolini universitari di fine anni ‘60, un po’ goliardici, nei quali a Salerno, al circolo Il Ridotto, riscrivevo con Totti Tucci, che ho come testimone a favore anche in quest’ultimo processo, lui che ha passato una vita fra banche e questioni finanziarie, riscrivevo la congiura di Catilina.
E poi, nelle interminabili giornate del lockdown, ecco l’ispirazione, la spinta diaculturale, il grimaldello capace di non farmi rinnegare i miei studi e neanche la mia curiosità fantasiosa, ereditata dal mio Maestro, Francesco Sbordone.
Ho riscritto? Sì, ho riscritto. Rispettando fino in fondo la natura profonda del Mito che, come mi ha insegnato Maurizio Bettini, un altro filologo dal volto umano, è fatto per essere raccontato e riraccontato, rimodulato a seconda dei luoghi e dei tempi, e adattandosi di volta in volta a chi lo racconta come a chi lo ascolta.
Perché, per quanto il cinema oggi sia una realtà ‘classica’ anch’essa, rimane sempre valida la magia della enárgheia, la vividezza, la capacità di ‘far vedere’ con le parole, attraverso i dettagli, nei quali, come si sa, convivono dèi e demoni. Quel cinema prima del cinema a cui anche Italo Calvino pensava, quando scriveva nelle Lezioni americane, a proposito della visibilità: «Questo ‘cinema mentale’ è sempre in funzione in tutti noi, - e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema - e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore». Raccontare, lo ripeto da tempo come un mantra, era per i Greci dieghéomai, condurre attraverso, guidare (di nuovo diá), quasi come mostrare un paesaggio noto a chi ancora non lo conosce.
E di riscritture (riracconti, meglio) è sempre stata piena la cultura letteraria, sin dall’antichità. Riscritture esplicite o riscritture mascherate, a volte riconoscibili, a volte affioranti solo per un occhio esperto. E ce ne sono di tutti i tipi. Quelle che meno mi prendono sono le riscritture troppo simili all’originale, che allora rimane sempre la migliore lettura, anche grazie alle traduzioni, come quelle metriche di Daniele Ventre, e non solo dei poemi epici - recentissima quella dell’Odissea per Ponte alle Grazie; abbandono dopo pochissime pagine quelle che danno voce al personaggio, ma come fosse seduto sul lettino dello psicanalista: ne leggono e spiegano pensieri e azioni immergendole pienamente nella sensibilità dell’autore/autrice moderno/a. Con sottile astuzia ripropongono il modello, il paradigma inattaccabile, il rimpianto per quello che in realtà non fu e forse non sarà mai. Certo, psicanalizzando lo/la psicanalista di turno si potrebbero rintracciare pulsioni autobiografiche.
Come, del resto, anche in una riscrittura diaculturale. Perché negarlo? Anzi, permettendo a un personaggio antico di vivere dentro una cultura anche moderna per raccontare il suo mondo, gli si danno molte più possibilità di somigliare o compararsi/confrontarsi con l’autore (e viceversa); consentendogli di ritrovare passioni sopite, desideri inespressi.
Confronti fra giganti, si potrebbe metaforizzare, se si tratta di autore megalomane; o fra nani, se si ha a che fare con autore capace anche di autoironia. Un modo, insomma, per abbandonare definitivamente, con sguardo laico, rinnovate querelles fra antichi e moderni.
Per questo, nel concludere la mia apologia, voglio rassicurare sulla mia condizione mentale. Certo, gli anni passano - sono nato appena qualche mese prima della mia Repubblica (italiana! Cosa avete capito? Leggo il Corriere, il Foglio e il Riformista), cui rimango affezionato come un fratello appena maggiore - ma le idee si fanno quasi più chiare, anche sui motivi per i quali ho vissuto e ho operato, e ancora ho progetti e voglia di realizzarli. Mi difendo sostenendo di aver attraversato indenne l’Accademia senza perdere le ragioni dell’insegnare, del trasmettere contenuti e stati d’animo. Le mie ricerche, come i miei racconti, non sono mai state oggettive, neutre. Soprattutto negli ultimi anni sono state ‘rivelate’ in prima persona, come un processo, a volte con esito felice, a volte insoddisfacente, ma senza drammi. Processo, sia ben chiaro, non come procedura di accusa e difesa, in vista di un verdetto finale, ma come sequenza di tentativi.
Come dovrebbe essere, del resto, la traduzione, l’ultimo baluardo, ultima tyche (sì, avete letto bene, non Thule) dei classicisti D.O.C., che, sebbene traduttori esperti, convivono tranquillamente con le liceali traduzioni ‘scriteriate’, fatte davvero a caso, di testi che loro hanno sezionato per una vita; oppure non si scompongono di fronte agli strafalcioni di giornalisti anche illustri, sugli stessi giornali da cui ogni tanto loro sentenziano.
Mentre sarebbe così semplice se, alla domanda ‘come si traduce’, si dovesse rispondere non con frasi nella propria lingua improbabilmente equivalenti a quelle originali, ma con una vera descrizione/resoconto del proprio processo interpretativo, in prima persona: con i propri dubbi, le proprie ricerche sul vocabolario, i propri tentativi, le proprie proposte.
Diacultura anche questa, e quindi improponibile per un insegnamento spesso incapace di fantasia e troppo vincolato ai programmi e alla griglie di valutazione. In fin dei conti, per traduttori di mestiere e filologi ci sarà tempo per imparare, con un insegnamento appropriato. Anticiparlo a scuola si rivelerà sempre più difficile, e anche senza alcun senso.
Sempre peggio, signora contessa, sempre peggio.
In conclusione, immagino che debba dichiararmi in qualche modo. Colpevole? Innocente?
No, preferisco ricorrere a un aneddoto, a un racconto vero. Eravamo da poco stati trasferiti dall’Università di Napoli Federico II all’Università della Calabria, la mitica, monovocalica Arcavácata. Per diventare professori associati. Con me l’amico di una vita, non solo accademica, Arturo De Vivo, latinista, poi Rettore Magnifico, che è stato anche il mio Difensore ufficiale in questo processo.
A Cosenza parcheggiammo un’attempata 850 Fiat e cercammo il Tesoro, inteso come Ufficio, per sbrigare alcune pratiche. Eravamo a metà degli anni ’80. In quel periodo si parlava anche del tesoro di Alarico, che si cercava proprio vicino Cosenza, nei pressi del fiume Busento. Fermammo una coppia di anziani calabresi, chiedendo se sapevano dov’era il Tesoro (sempre inteso come Ufficio). Ci guardarono un po’ dubbiosi, poi si guardarono fra loro e la signora esclamò: Ci dispiace, siamo sconosciuti.
Ecco, mi dichiaro sconosciuto, grazie.
11 marzo 2024