Giancarlo Alfano - Standard

Qual è il nostro standard? Sugli obiettivi comuni dell'insegnamento universitario

Dove si stabilisce lo standard?
Uno standard, si osserva in ambiente pedagogico, è il frutto della concertazione pubblica, l'effetto del dibattito e di una non sempre esplicita contrattazione tra le forze sociali, che riescono a imporre alle istituzioni e in generale ai fornitori una qualità media minima di un certo servizio o prodotto o una erogazione media di quel servizio o prodotto. Lo standard non è dunque fissato all'interno del corpo che deve soddisfare quel certo livello o quella certa quantità.

Uno standard per l'insegnamento della letteratura si può individuare
Fissato così il problema, l'espressione e la ricerca di uno standard didattico, in accezione generica, andrebbe considerato una minaccia alla libertà d'insegnamento e alla stessa libera circolazione delle idee, e in quanto tale andrebbe rifiutata. Ma il termine si può anche declinare in un'altra accezione, intendendolo come un insieme di conoscenze, di abilità e – in senso per ora esteso e generico – di competenze impartite dall'Università. In questo senso, pur restando (in linea teorica) il pericolo di una limitazione, almeno tendenziale, della libertà di insegnamento, e soprattutto – cosa molto più pericolosa – pur inserendo in maniera surrettizia un principio di misurabilità del servizio, ritengo tuttavia che il concetto sia ricevibile e che anzi possa risultare molto utile per l'organizzazione dei nostri insegnamenti.

L'insegnamento della letteratura non può avere uno standard "disciplinare"
In verità, un tale standard non può essere inteso in senso strettamente disciplinare. Si può, certo, fissare un canone di autori e testi (e dunque un set di conoscenze) che deve essere impartito nei corsi di Letteratura italiana. E anzi in un recente passato Andrea Battistini, realizzando un egregio lavoro di sintesi per individuare un canone condivisibile, ha prodotto un documento che resta la base di partenza per ogni riflessione sull'insegnamento della storia della letteratura. Ma se si passa dalle conoscenze alle abilità (per esempio la redazione di un testo scritto) e alle competenze (per esempio quelle della interpretazione), allora è evidente che i singoli Settori scientifico-disciplinari possono fare ben poco se continuano a muoversi in maniera isolata. Questo non vuol dire che si debba applicare agli SSD un unico pensiero omogeneizzante, ma solo che un'adeguata riflessione didattica deve essere estesa a tutte le discipline affini.

Muoversi per primi
La questione non è per niente teorica, quanto piuttosto pratica, e anzi direi strategica, per non dire vitale. Se infatti le riforme universitarie fin qui realizzate muovono verso l'abbattimento dei costi e dunque la riduzione dei Corsi di Laurea, la risposta più efficace non può essere affidata soltanto alle cordate di tipo politico-amministrativo (con conseguente indebolimento dei centri deboli e rafforzamento dei centri forti). Quel che occorre, invece, è riacquisire voce nel dibattito pubblico – e anzi costruire quel dibattito pubblico che sin qui è mancato nell'affrontare i problemi dell'università italiana contemporanea e, a fortiori, delle discipline umanistiche. Insomma, se è vero che ogni standard è frutto di concertazione, occorre che la posizione universitaria sia forte, appunto per poter esprimersi al meglio dentro la concertazione.

L'università nella concertazione
Ma perché la presenza pubblica dell'Università è oggi così indebolita?
La colpa non credo sia della scuola o dell'università. O non solo della scuola o dell'università. Prima di proseguire con un breve ragionamento su quel che possiamo o dobbiamo fare, credo necessario fare una pausa di carattere descrittivo, proporre una bozza di diagnosi della situazione attuale. Credo infatti ci siano tre aspetti che hanno collaborato nel rallentare o fermare del tutto la riflessione italiana sul ruolo e sugli obiettivi della scuola e dell'università nel campo della consapevolezza linguistica e della consapevolezza culturale:
1) La caduta di credibilità delle istituzioni formative tradizionali. Questo solo parzialmente per il minore livello, la minore qualità dei docenti e dei risultati finali. Ma soprattutto per la natura del mercato del lavoro in Italia, che non seleziona, né premia in base al titolo di studio. Se un laureato riesce soltanto a ottenere un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore rispetto al suo, ne consegue la bassa credibilità della laurea. Lo stesso discorso vale per i titoli scolastici.
2) La mancanza di uno standard nazionale condiviso in tutto il territorio. Ciò riguarda sia i corsi regolari del 3+2, sia i successivi passaggi verso il mondo scolastico. Prima le SSIS (da noi SICSI: ma perché solo in Campania un altro acronimo?), adesso il TFA: la parte conclusiva della preparazione all'insegnamento – che non a caso si chiama abilitazione – è gestita su base regionale, ma di fatto è organizzata su base locale. Ciascun Ateneo fa infatti un po' quel che gli pare, fatta salva una certa omogeneità per le prove di ammissione. Manca invece l'omogeneità in uscita. Questo perché non c'è nessuna condivisione nazionale. Né il Ministero l'ha mai chiesta o imposta. E anche adesso che ci sono state le prove di un concorso nazionale per la scuola pubblica, le prove scritte sono state ispirate a criteri non noti in precedenza, di certo estranei sia alla formazione universitaria sia al percorso delle SIS.
3) La scarsa abitudine a ragionare sul fatto che trasmettere, cioè insegnare, significa ripetere, ribadire un certo sistema di riferimenti, che è il mezzo col quale si insegna, e anche il fine per il quale si insegna. Lo ha spiegato, in maniera mirabile, Thomas Kuhn parlando del modo in cui si sono realizzate le rivoluzioni scientifiche. A differenza degli scienziati, chi si occupa di letteratura e di arte in generale, non può affidarsi a un sistema di riferimento comune e stabile, indipendente dal singolo oggetto che tratta e sottoposta a una determinata routine. La lettura di un canto di Dante conduce verosimilmente alla enucleazione di un certo insieme di contenuti di apprendimento (di carattere storico, tematico, ideologico, formale, etc.), ma questa lettura non è la conferma di un insieme di valori o di nozioni o di procedure che appartengano oggi abitualmente al lettore. E anche qui, tuttavia, occorre registrare che manca, oggi, un quadro di riferimento comune che permetta di comprendere, o accogliere, o respingere, ma comunque di integrare in un orizzonte concettuale condiviso a partire dal quale poter stabilire una concertazione di intenti.

Standard come obiettivi condivisi
Non credo che abbia senso ragionare al livello del punto 1. Almeno non direttamente. La scuola e l'Università sono state sottoposte a cambiamenti scellerati, che vanno in direzione opposta rispetto agli obiettivi che si dichiarano (fornirò dopo un esempio: i seminari). Ma è vero che sono mondi che sono stati mal governati per troppo tempo. Devono ritrovare credibilità anche lavorando al proprio interno, e trovando la forza di introdurre sistemi di auto-valutazione seria e non esclusivamente burocratica (ma questo è argomento diverso).
Mi sembra che i punti 2 e 3 – pertinenti per il nostro discorso presente – possano essere affrontati di concerto.
Ecco perché ritengo opportuno partire dallo standard, il quale, come osservano gli specialisti, significa "riferimento condiviso" (viene dallo stendardo militare, dietro il quale si raccolgono le truppe di uno stesso schieramento: acies, no?): si tratta dunque di «un elemento sul quale si conviene, che assume valore di norma, modello, regola» (Accorsi, p. 37). Se lo standard ha «una funzione regolativa», esso però non è «un oggetto statico»: esso «nasce socialmente in quanto la legittimazione dello standard e la sua stessa applicabilità derivano dall'essere un elemento negoziato e condiviso fra soggetti: ha un valore storico e contestuale» (ivi)
Cito a questo proposito Simone Giusti: «le competenze sono sempre situate in un determinato gruppo sociale e sono il frutto di una negoziazione. Non è, dunque, com'era nel caso dei programmi, lo statuto epistemologico della disciplina a definire i saperi da trasmettere (il programma o il canone). La propria disciplina di insegnamento assume semmai un ruolo strumentale allo sviluppo di quelle competenze, ovvero all'acquisizione di quelle conoscenze e capacità che concorrono alla loro formazione» (p. 69). Però, attenzione, se è vero che la singola disciplina non può definire lo standard a livello scolastico, l'Università può invece agire proprio a questo livello, addirittura mettendosi alla testa di un processo di negoziazione pubblica che investa la società nel suo complesso (recuperando in parte anche il difficilissimo punto 1).

Estendere la discussione
L'obiettivo che occorrerebbe porsi è dunque quello di estendere la riflessione almeno agli ambiti L-FIL-LET/09-14, contemplando però anche 02 e 04, semmai, nonché gli altri settori – quelli delle letterature straniere – in cui è forte l'interesse della letteratura (spesso, peraltro, in conflitto con gli ambiti delle linguistiche). È un progetto ambizioso, e forse non pienamente realizzabile; ma certo è un orizzonte operativo, che intanto può aiutarci a fissare i passi di un percorso comune: innanzitutto comune per chi lavora con lo sguardo rivolto alla storia della letteratura, alla storia della lingua, alla filologia, all'analisi dei testi e alle prospettive teoriche e comparatistiche inerenti al testo letterario.

Quali elementi si possono fissare?
Senza avere la benché minima presunzione di imporre ai Settori scientifico-disciplinari "fratelli" e "cugini" dell'area linguistico-letteraria, e anzi sottoponendo queste riflessioni a tutte le integrazioni utili per procedere congiuntamente, si può provare a fissare i primi elementi qualificanti per stabilire uno standard condiviso, e cioè per individuare il livello di apprendimento di conoscenze e di acquisizione di abilità e competenze che lo studente deve raggiugere nel corso del suo percorso di studio. A questo scopo ritengo utile ragionare in termini di scalarità, giacché il sistema del 3 + 2 (più TFA, e/o più dottorato) lo impone.
Al di là della differenza degli assetti culturali e dell'organizzazione amministrativa dei diversi livelli della formazione, bisogna prendere atto che in Europa ci si è mossi in direzione della scuola delle competenze e dell'apprendimento permanente. E se tutti conveniamo su questo, allora chi lavora nelle ex Facoltà di Lettere ha due compiti:
a) proseguire nella via didattica impostata sull'acquisizione di competenze;
b) preparare personale che sappia a sua volta formare avendo di vista le competenze.
Le ex Facoltà, e cioè i Dipartimenti che, con varia denominazione, impartiscono una formazione superiore di tipo umanistico, deve pertanto assumersi il compito di ragionare anche in termini di competenze.

Tutti coloro che insegnano oggi all'Università riscontrano regolarmente forti debolezze culturali, e linguistiche e sinanco cognitive, nei loro studenti. In particolare, tra le varie competenze che avrebbero dovuto sviluppare nel ciclo dell'obbligo e poi con l'acquisizione dell'Esame di Stato, quella che risulta più debole è imparare a imparare: gli studenti universitari, almeno al triennio risultano infatti poco autonomi.
Essi hanno inoltre preparazioni di base estremamente diversificate, a causa dei diversi percorsi di studio che li hanno portati all'iscrizione a un Corso di Laurea umanistico.
Ciò fa sì che chi insegna all'Università non possa più contare su due aspetti decisivi del vecchio studio universitario: a) autonomia dello studente; b) condivisione della tradizione culturale nazionale. A questo si aggiungeva poi un elemento c) rispetto, se non devozione per il sapere umanistico.
Venuti meno questi pre-requisiti, chi insegna al triennio deve sforzarsi di reintrodurre dei riferimenti concettuali e conoscitivi medi minimi sufficienti (e qui non possiamo ignorare la dimensione ideologica e "conservatrice" che ne può conseguire). Nei fatti egli può però agire al solo livello "b" (se è autorevole, semmai anche al livello "c"), giacché non ha strumenti, né ha tempo per dedicarsi al livello "a" che è – peraltro – quello più delicato.
Il primo problema da affrontare è dunque quello del potenziamento dell'autonomia dello studente. Il potenziamento deve rivolgersi, prima di ogni altra cosa, al lavoro con testi complessi: comprensione, sintesi, confronto con indici, vocabolari, manuali storico-letterari, realizzazione di percorsi individuali utilizzando più testi.
Queste potrebbero essere le capacità da conseguire entro la fine del triennio. La famigerata prova finale potrebbe consistere pertanto in un percorso su un testo o un corpus ristretto di testi (o questioni) realizzato facendo ricorso a una bibliografia ristretta.

E la letteratura?
Resta il punto 3 della diagnosi, che si potrebbe sintetizzare così: come si trasmette un'invenzione? È questo infatti, a mio avviso, il punto controverso e difficile che bisogna affrontare per discutere di uno standard significativo e condiviso (almeno nel mondo universitario), che abbia poi effettive ricadute positive nel mondo della scuola e nella società nel suo complesso.
Da una parte, esistono le interessanti provocazioni, come quella di Francisco Rico, che invitano a ripensare l'ambito stesso del nostro mestiere e a orientarsi verso una sorta di insegnamento dell'"Immaginario", o semmai dell'"Immaginario occidentale". Dall'altra, esiste un'amplissima fetta dell'arte della comunicazione di cui gli studi letterari hanno mancato di farsi carico, perdendo di vista la decisiva rilevanza della retorica, della metrica e della narratologia, cioè dei tre principali assetti della comunicazione verbale.
Al tempo stesso io credo tuttavia che il nostro insegnamento non possa sfuggire all'impegno di avere a che fare con le grandi opere d'arte, cioè con quei testi la cui forza espressiva eccede le descrizioni che possiamo darne.
Ciò vuol dire riconoscere che la difficoltà della trasmissione con cui abbiamo a che fare consiste nel fatto che il nostro lavoro consiste nel ripetere una differenza.
Ed è qui il punto centrale sotteso alla questione di come si trasmette un'invenzione: fare in modo che vi sia una percezione della differenza a partire dall'identico. Mantenere la distanza, e al contempo invitare al contatto. Il lavoro di chi si occupa di trasmissione deve ispirarsi al principio della compresenza, alla gestione di una complessa quanto decisiva disarticolazione sensoriale e cognitiva. Del resto, proprio perché figlie della memoria, le Muse insegnano l'arte dell'ubiquità nel tempo, tenendoci con un piede sul qui e un piede sull'allora, bloccati tra due evanescenze a realizzare un arco che è l'unico punto saldo in un continuo sommovimento di flussi.
Alludevo in precedenza alle modifiche che sono andate in direzione opposta rispetto agli obiettivi dichiarati. Un caso a mio avviso particolarmente doloroso riguarda la scomparsa pressoché totale di esercitazioni e seminari. La ragione è prevalentemente economica, ed è dovuta alla necessità di saturare l'orario dei diversi curricola impegnando ciascun docente, indipendentemente dalla fascia (e dalle eventuali compensazioni economiche previste per i ricercatori), per almeno 120 ore di insegnamento frontale.
Ma la ragione è anche culturale, e si spiega con una certa inerzia nel cogliere le poche opportunità offerte dal sistema 3+2: il secondo ciclo non può infatti in alcun modo essere considerato una replica perfezionata e avanzata del primo. Per il ciclo triennale, spero si possa accettare la descrizione che ho fornito in precedenza, ovviamente integrandola e calibrandola meglio in vista di un modello (e quindi uno standard) condiviso. Per il biennio magistrale, invece, l'insegnamento dovrebbe diventare laboratoriale, potenziando la partecipazione attiva degli studenti. Certo, con decine e decine di studenti, se non centinaia, è impossibile lavorare in termini di effettivo laboratorio, ma esercitazioni, analisi di testo guidate, prove intermedie con verifica autonoma dello studente a partire da un modello fornito dal docente, questo è invece più realizzabile. Il quadro storico-letterario ne verrebbe indebolito, rispetto al tempo dedicatogli in aula (ma senza danni eccessivi, credo, se ogni testo viene opportunamente inserito nella sua cornice storica). Il punto sarebbe nello spingere gli studenti a potenziare la loro capacità analitica (quindi comprensione del testo e riflessione sulla lingua e i suoi assi strutturali; eposition de texte; analisi formale), attraverso cui arrivare a una sintesi interpretativa: per confronto, per integrazione di notizie, per apprezzamento dei fattori estetici primari.

La proposta in sintesi: scalarità di competenze
Propongo qui una prima ipotesi sintetica di scalarità e progressività degli standard, intesi come obbiettivi minimi condivisi, inerenti al triennio e al biennio:
A) Standard del triennio: tenendo conto delle competenze in arrivo (come peraltro prevede la legge 270, che però non spiega come realizzare questa verifica), si deve far sì che lo studente abbia acquisito in uscita delle chiare competenze che riguardino la autonomia dello studente nello studio e nell'acquisizione di informazioni pertinenti ai suoi campi di studio, associata a un buon orientamento storico-letterario. A ciò si deve aggiungere la capacità di descrivere le strutture di base del testo letterario.
B) Standard del biennio: data per acquisita l'autonomia di lavoro, i due anni finali devono mirare all'acquisizione delle competenze interpretative complesse, che sappiano misurarsi con archivi culturali e materiali articolati e differenziati e sappia selezionare le informazioni utili per l'organizzazione di una ricerca di livello medio e per la realizzazione di un contenuto autonoma nell'ambito storico-letterario e linguistico-filologico. Le competenze devono riguardare anche una dimensione metodologica di base e una più solida strutturazione teorica che riguardi le discipline letterarie, linguistiche e filologiche.

Si tratta di una prima formulazione, che va di sicuro integrata e calibrata al meglio, provando però a fornire un quadro di riferimento adeguato al tipo di realtà nuove che ci sono già davanti, e rispetto alle queli dobbiamo a nostra volta posizionarci nel più breve tempo possibile. Nel contempo, occorrerà fissare degli standard per i corsi di dottorato (realizzazione di una ricerca originale; conoscenza e sfruttamento dei patrimoni archivistici e librari e delle grandi risorse elettroniche; capacità di muoversi a livello internazionale; capacità di produrre un testo scientifico) e degli standard per i corsi di TFA (competenze di insegnamento della lingua e della letteratura; abilità di realizzazione di materiale didattico; orientamento multidisciplinare; capacità di utilizzare le risorse elettroniche a fini espressamente didattici).
È questa la prospettiva nuova, sulla quale dobbiamo fissare adesso il nostro orizzonte professionale di docenti e ricercatori.



Riferimenti bibliografici:


Maria Grazia Accorsi, Insegnare le competenze. La nuova didattica nell'istruzione secondaria, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2013
Giancarlo Alfano, Come si trasmette un'invenzione, in Alfano et alii, Dove siamo? Nuove posizioni della critica, Palermo, :duepunti edizioni, 2011, pp. 95-108
Giancarlo Alfano, Fare cose con i testi, in «il verri», LVI, n. 46 (giugno 2011), pp. 27-42
Simone Giusti, Insegnare con la letteratura, Bologna, Zanichelli, 2011
Jean-Marie Schaeffer, Petite écologie des études littéraires. Pourquoi et comment étudier la littérature?, Vincennes. Editions Thierry Marchaisse, 2011

 

Pubblicato il 20/06/2013