Andrea Pagani - The father's spirit walks the earth. Un errore di Leopold Bloom

 

All'inizio dell'8° episodio di Ulysses di Joyce, Leopold Bloom incorre in un errore di reminiscenza letteraria assai emblematico.

Immerso in un flusso di pensieri, che sembra crescere d'intensità anche nella fallacia delle associazioni e dei riferimenti (come del resto gli capita in molte altre circostanze, ognuna delle quali ricca di significati), Bloom inizia a ingannarsi sulla metrica del teatro di Shakespeare («Però Shakespeare non ce l'ha le rime: blank vers, But then Shakespeare has no rhymes: blank vers», U, 296-7), per poi, nel movimento in salita del climax delle inesattezze, confondere il «vagare» (walk) del padre di Amleto «per terra» (the earth), anziché «nella notte» (the night):

 

Hamlet, I am thy father's spirit,

Doomed for a certain time to walk the earth,

Amleto, sono lo spirito di tuo padre

condannato per un certo tempo a vagare per la terra

 

così rammenta erroneamente Bloom (U, 296-7), anziché:

 

GHOST - I am thy father's spirit,

Doomed for a certain term to walk the night

FANTASMA - Io sono lo spirito di tuo padre

condannato per un certo tempo a vagare nella notte

 

come recita invece Hamlet, atto 1, scena V.

 

Si tratta di un errore non casuale - come, peraltro, nulla di casuale c'è in Ulysses, dove ogni parola è copiosa di valori e di sensi, da cui si genera, per l'appunto, l'incanto di quello speciale inconfondibile realismo simbolico.

Sono importanti gli errori di Bloom, e ne fa molti nel corso della storia, parlando con Molly, o anche pensando e ricordando confusamente passaggi letterari, perché in fondo Bloom, come Joyce, non vuole spiegare, non esprime certezze, non indica piste sicure, ma pone interrogativi, apre porte nuove, presenta l'affresco di una vita fondata - come osservò felicemente in un'intervista John McCourt - su «frammenti capiti a metà», che si offrono nella loro lacunosa incompletezza in veste di suggestioni, come a dire che il romanzo (la vita) non ci propone una mappa risolutiva del mondo, dell'esistenza, ma un labirinto, un dedalo (non si chiama forse così uno dei protagonisti? Dedalus), dove è più facile perdersi che trovare la strada d'uscita.

Ora, questo errore di Bloom nell'8° episodio è un indizio prezioso per almeno tre motivi, fra loro strettamente apparentanti e in qualche misura gli uni conseguenti agli altri.

C'è prima di tutto una ragione di ordine, diremmo, psicologico, nel proponimento che sottende ogni pagina del libro di scandagliare i meccanismi della mente, il funzionamento del cervello. I personaggi di Ulysses sono prima di tutto questo: un deposito di memorie, impressioni, fantasie, che si riversano sulla pagina in margine a fatti e situazioni, cosicché  la maestria dell'autore consiste nel restituirci le dinamiche di questo sedimento interiore, il brusio sommesso di questo silenzio, una specie di “rumore in sottofondo” («Lui è uno che non chiacchiera», He doesn't chat, U, 332-3), gli ingranaggi delle associazioni, il turbamento delle ossessioni (al nome di Boylan, che tutti sanno avere una relazione con Molly, «un colpo d'aria calda calor di mostarda morse avidamente Mr Bloom al cuore», U, 334-335). Allo stesso modo, assai significative sono le connessioni imprecise del cervello che si manifesta, ad esempio, nello scambio di parole durante le reminiscenze (earth-night).

C'è poi una sommersa ragione – anche piuttosto insolita per Bloom – di ordine culturale: il ricco sottotesto letterario, soprattutto mutuato dal teatro shakespeariano, che gorgoglia dietro i ricordi dei protagonisti, il che, da un lato, rivela un inaspettato spessore culturale per un agente di pubblicità come Bloom (che – giusto per citare qualche esempio – rammenta, seppure erroneamente, numerosi passaggi di opere colte, dalla Elegia in un cimitero di campagna di Thomas Gray all'Amleto di Shakespeare, dal Don Giovanni di Mozart al pamphlet Perché ho abbandonato la chiesa di Roma di Charles Pascal Telesphore Chinqui, fino alla canzone Seaside Girls di Harry B. Norris, che contiene allusioni semantiche ai nomi di Boylan e Molly), e dall'altro lato rimanda ad un interrogativo sul senso di questa fitta trama di allusioni e rimandi poetici.

E veniamo così alla terza ragione – quella per noi più rivelatrice – di questa lacuna memoriale.

Dicevamo: nulla di casuale nell'universo di Ulysses. Qual è l'indizio che vuole fornirci l'autore con l'equivoco earth-night?

Perché è sintomatico che «lo spirito del padre vaghi sulla terra» anziché «nella notte»?

Per mettere a fuoco l'importanza decisiva che riveste nella filosofia joyciana l'irruzione dei “fantasmi” nel mondo dei vivi, occorre fare qualche passo indietro, risalire cioè a quelle che con ogni probabilità si possono considerare le origini di tali interessi, il germinare di quegli studi. Bisogna tornare cioè al 1900, quando Joyce appena diciottenne comincia a maturare la sua predilezione per il teatro nordico, in particolare per Henrik Ibsen, così carico di quelle tinte gotiche e soprannaturali che avrebbe poi messo al centro della sua riflessione su Hamlet.

Per un compenso di 12 ghinee (che utilizzò fra l'altro per fare un viaggio a Londra, dove ebbe modo di frequentare i teatri e di veder recitare Eleonora Duse), Joyce pubblicò il 1° aprile 1900 sulla “Fortnightly Review” una recensione all'ultimo dramma di Ibsen Quando noi morti ci destiamo (1899), che diede vita ad un breve scambio epistolare con l'autore norvegese e ad una più lunga corrispondenza con il curatore della versione inglese del dramma, William Archer, a cui Joyce inviò il suo primo testo teatrale, purtroppo smarrito, A Brilliant Career. La recensione di Joyce ci fornisce alcune spie utili per il nostro discorso. Il testo di Ibsen ripercorre, da un lato, la tipica poetica delle opere precedenti del drammaturgo, ovvero la crisi di una coppia, nel caso specifico fra il professor Arnold Rubek, scultore, e la moglie Maia Rubek, che vivono un'esperienza di conflitto risolutivo in un hotel a picco su un fiordo nordico; dall'altro lato approfondisce quella componente mistica, esoterica, visionaria presente fin da Spettri del 1881.

Ebbene, in cosa consistono i «morti che si destano» che danno il titolo al dramma? Qual è la singolare natura di questi «spettri»? L'attenzione critica di Joyce si concentra proprio su tali questioni, riverberate, non a caso, nella tematica del conflitto coniugale e del tradimento – anche mentale – dei personaggi, in una dinamica “a tre”, che sarà poi alla base dell'intera produzione joyciana e dell'unico testo teatrale, di così forte ascendenza ibseniana, Exiles. Nella sua recensione, nella prima parte così analitica e dettagliata da diventare in alcuni passaggi persino didascalica, Joyce arriva finalmente ad esaminare il cuore dell'argomentazione, ossia il complesso rapporto fra dramma e vita, sogno e realtà, fantasia visionaria e congiuntura.

Nella presentazione della crisi della coppia, una «unione infelice [dove] ciascuno dei due è insoddisfatto dell'altro», s’insinua ben presto il tarlo del loro malessere, l’ombra del “fantasma” che li ossessiona, il tormento della gelosia e la tentazione al tradimento: «ci si rende conto – osserva Joyce – che la visione dall’interno del loro rapporto è lungi dall’essere ideale, come invece ci si aspetterebbe dopo averli osservati da fuori», finché lo scultore Arnold fa la conoscenza di una misteriosa figura femminile, Irene, che poi si scopre essere stata un’antica modella dello sculture e che continua a parlare di sé «come se fosse già morta». Non a caso, in un punto cruciale dell’opera, Joyce riconosce «la chiave dell'intero dramma» nella risposta che Irene proferisce a Rubek (autore peraltro di un capolavoro dall'altro titolo emblematico Il giorno della Resurrezione), quando le chiede il sentimento che ha provato durante il loro ultimo incontro: «Ero morta da anni – esclama Irene - […]. Mi calarono le braccia dietro la schiena. Poi mi calarono in una fossa. Questa era chiusa con sbarre di ferro e aveva pareti imbottite... di modo che lassù, sulla terra (earth), nessuno poteva udire le grida della sepolta», finché un giorno, prosegue Irene «Io mi sono mostrata a te come può mostrarsi una donna... (abbassando la voce) E non mi hai toccata nemmeno una volta». È qui che arriva il passaggio determinante, quando Rubek osserva: «Irene, io ero un artista» e lei prontamente ribatte: «Appunto per questo».

Si rivela una serie di battute magistrali, capaci di gettare un fascio di luce su un tema che sarà alla base dell'intera poetica joyciana e che lo scrittore dublinese deve aver certamente rivenuto e mutuato fin da giovane nella produzione tragica nordica, intrisa di tinte gotiche, con quei «profondi crepacci» e quelle «cime nascoste a tratti dalla nebbia» che ispirano la mistica atmosfera del soprannaturale: è il tema del mondo dei morti che fa irruzione nel mondo dei vivi (Ero morta da anni. Mi calarono in una fossa. Io mi sono mostrata a te come può mostrarsi una donna), dove il ruolo dell'artista diventa fondamentale per riportare in vita, appunto sulla terra, quel trascendente sepolto nella fossa (Io ero un artista. Appunto per questo).

È ciò che è avvenuto, allo stesso modo, nella deformazione semantica di Bloom, quando cita erroneamente «Lo spirito del padre di Amleto che vaga sulla terra», proprio come in Irene che «torna sulla terra» attraverso l'opera dell'artista Rubek, e proprio come nell'8° episodio quando Bloom, commettendo un altro errore, confonde la morte e il sogno, rammentando l'atto III, scena 1 di Hamlet, ed infine proprio come nei drammi di Strindberg che larga parte avranno in Ulysses, in particolare in quel Sogno gravido di allucinazioni, visioni, ossessioni che ispirerà profondamente la visionarietà del 15° episodio, “Circe”.

I morti si destano nei drammi di Ibsen, in una sorta di Danza di morte – come non a caso recita un'altra magnifica opera di Strindberg – dove ancora una volta lo spazio claustrofobico della frustrante vita borghese coniugale esplode nell'irruzione di un terzo personaggio, che mette in evidenza l'aggressività, la rabbia sommersa fra moglie e marito.

C’è dunque un robusto elemento di continuità fra i drammi della tradizione gotica e le errate citazioni shakespeariane di Bloom (spie rivelatrici per un autore come Joyce dalla memoria prodigiosa che non poteva di certo confondere earth con night; d'altro canto è lo stesso Stephen Dedalus nel 9° episodio a ricordarci, «con tono rude», che «A man of genius makes no mistakes. His errors are volitional and are the portals of discovery, Un uomo di genio non commette sbagli. I suoi errori sono volontari, e sono i portali della scoperta» U, 371), dove gli spettri della mente (Gengangere per citare un altro dramma di Ibsen) si manifestano sotto forma di ossessioni e fobie, di memorie e figure del passato, o addirittura miti ancestrali che visitano la terra, e dove il ruolo dell'artista/demiurgo assume un compito risolutivo nel suo potere di resuscitare i fantasmi della notte.

Si potrebbe dire che Ulysses sia «un libro sui fantasmi» (Maud Ellmann): un libro in cui le forme spettrali dei pensieri – non di rado risolte in ossessioni – convivono, anzi irrompono nel piano della realtà, così che il lettore viene di continuo sottoposto a questo movimento pendolare da capogiro, ad una sorta di vertigine linguistica, fonetica, mentale, dove da un lato ci sono i fatti e gli accadimenti (sempre più radi) e dall'altro lato una strana musica, la musica della mente, la musica di un altrove che con la sua spirale vorticosa e febbrile prende sempre più spazio, si espande a dismisura fino a raggiungere gli esiti estremi negli episodi 15° e 18° (e il Finnegans Wake ci dimostrerà che l'avventura non era ancora conclusa).

Per questo se Joyce non si può certo definire uno scrittore che aderisce ad una religione rivelata e positiva, è tuttavia – ha efficacemente segnalato Terrinoni – uno scrittore religioso, nel senso di essere affascinato dal senso del mistero, dotato di una profonda spiritualità, di un senso del metafisico e dell'occulto, sedotto dal viaggio in un buio la cui sacralità consiste per l'appunto in un vibrante rapporto coi morti: i morti che vagano sulla terra (e proprio Terrinoni – ma avremo modo di ritornarci – ha scandagliato la maturazione del rapporto fra vivi e morti nel soggiorno di Joyce a Roma). Da qui, deriva, peraltro, l'altra componente di Ulysses che ne fa la sua complessità per non dire difficoltà: e cioè la componente simbolica, per la forte pregnanza di segni occulti e delle incomprese/incomprensibili chiavi di accesso nel cervello dei personaggi, smascherati dai gesti più che dalle parole, un po' come il Mr Utterson di Stevenson, something indeed wich never found its way into his talk, but wich spok not only in these silent symbols of the after-dinner face, o meglio ancora, per il forte radicamento di Joyce con la tradizione medioevale, come la Fiammetta di Boccaccio, in cui gli eventi non si prestano mai ad una mera lettura calligrafica ma disegnano una mappa di segni da interpretare: «Oimè, che segnale più manifesto di quello che avvenire doveva mi potevano dare gl'Iddii?».

Per Ulysses si tratta, è chiaro, d'una spiritualità profana, sottratta ad ogni riverbero provvidenziale, eppure comunque d'una spiritualità importante, che, come sottolinea Gabriele Frasca, viene inaugurata e celebrata fin dalle prime pagine del libro, attraverso la solennità «statuaria (stately)» e «pingue (plump)» di Mulligan, in quel rito liturgico che rende un giorno qualunque il giorno qualunque, e che ci apre ad una sacralità laica – la sacralità del quotidiano – che viene officiata (e incorniciata) dalla messa profana della Torre Martello. Da questo momento il lettore percepisce che sta entrando in un grande libro, ovvero che si sta avviando in un'esperienza unica, ancestrale e catartica, l'esperienza (appunto spirituale e sacra) della celebrazione del giorno qualunque, così difficile e complicato da decifrare com'è di fatto la vita (non era forse l'autore a richiedere ai suoi lettori di «dedicarsi per tutta la vita a leggere le mie opere», il che di fatto corrisponde a chiedere di dedicare tutta la vita a studiare e interpretare il senso della vita stessa?), e attraversato di un misticismo oscuro attraverso la “danza macabra” che i defunti esibiscono nel mondo dei vivi.

Ma cosa significa che i morti camminano nel mondo dei vivi, vagano sulla terra? O meglio: chi sono, precisamente, questi morti?

Tenteremo di dare una risposta a questi interrogativi concentrandoci soprattutto sui tre episodi di Ulysses che, forse meglio di tutti, esplorano i temi del rapporto fra vivi e morti, della visionarietà, del misticismo, della reincarnazione e quindi della paternità, ossia gli episodi 6°, 9° e 15°: il sesto, con al centro il funerale di Paddy Dignam, dove si viaggia in un corteo funebre fino al cimitero di Glasnevin (quale migliore danza macabra) e dove per la prima volta s'incrociano i due protagonisti, entrambi clad in mourning («vestiti a lutto»), proprio come vestito di scuro per la prima volta compare un misterioso uomo col macintosh (ovvero Mr McIntosh), la cui identità, verrebbe da chiederci, potrebbe avere un rapporto con gli altri due personaggi, come lui, vestiti di scuro (l'uno, Bloom, per l'occasione del funerale; l'altro, Stephen, per ostentazione intellettuale); il nono episodio, disseminato di preziosi indizi, cellule embrionali già presenti nel primo episodio e qui riprese, espanse e approfondite, in una fitta rete di corrispondenze e rimandi, non solo per le doviziosa serie di citazioni shakespeariane, ma anche per la sontuosa rassegna di nozioni di teosofia, occultismo, esoterismo di cui Joyce si interessò negli ultimi anni a Dublino e che rappresentano un vero e proprio sottotesto dell'episodio con richiami simbolico-numerologici, che il ricco apparato di note della edizione Bompiani, curata da Terrinoni, rigorosamente segnala: seven is dear to the mystic mynd, The life esoteric is not for ordinary person; e da ultimo, naturalmente, il sontuoso travolgente episodio di Circe, in quel palcoscenico di apparizioni (in una specie di altro climax narrativo, prima di quello, ancora più appariscente, del 18° episodio, giacché, non dimentichiamolo, siamo qui, nel 15°, alla fine, della Odissea propriamente detta, cosicché si potrebbe parlare di due climax all'altezza della fine della seconda e terza parte di Ulysses), ovvero in quella specie di farneticazione da Don Giovanni o il Convitato di Pietra di Molière o da Sogno di Strindberg dove finalmente i due spettri per eccellenza – la madre di Stephen e il padre di Bloom, assieme alle altre visioni – prorompono nei loro rimproveri dopo aver perseguitato le loro vittime per tutta l'opera.

Ma prima di condurre la ricognizione nei tre episodi suddetti, cercando di capire quale rete di connessione s'intrecci fra Bloom, Stephen e Mr McIntosh, vale la pena seguire una pista che ci fornisce una brillante intuizione di Fabio Pedone, in Lezione di terrestrità. Memoria, suono e strategie di lettura in Ulysses, un saggio introduttivo all'edizione Bompiani, là dove Pedone sottolinea la presenza di «ricorrenti allucinazioni uditive […] denominate in inglese earworws», una sorta di «perenne e invadente» a tratti persino ossessiva melodia che accompagna le azioni della giornata, di «ripetizione incontrollabile» (U, LXXVII), data, in questo caso, dai pensieri dei personaggi, quasi ipnotizzati, narcotizzati (il profumo di un fiore che inebria Bloom-Flower in “Lotofagi”, per poi sprigionarsi senza controllo in “Circe”), dalle loro ossessioni persecutorie, paterne e materne, forse più paterne per Bloom e più materne per Stephen (inseguito dalla triplice persecuzione materna, «madrepatria, Santa Madre Chiesa, lingua materna», Frasca).

È una sorta di rumore di fondo, che segue di continuo la storia – la storia, s'intende, secondo il canone della tradizione che Joyce intende sfasciare, gli accadimenti, la fenomenologia dell'intreccio – mentre il lettore, al contrario, sempre più viene investito dalla musica delle congetture, dal suono delle fantasticherie, dalla melodia delle chimere, delle illusioni, delle stramberie di Bloom (Flower, Fiore di loto, languid floating flower), di Stephen, di Molly. Più andiamo avanti e più ci rendiamo conto che «ogni personaggio è parlato, piuttosto che parlare» (Frasca) e finisce che siamo storditi dall'eco delle divagazioni di Bloom, o dal continuo rimuginare di Stephen «costretto ad aggirarsi displeased and sleepy in un mondo di sonnambuli» (Frasca). Sonnambuli – termine quanto mai azzeccato – perché immersi nei loro miraggi, stralunati, straniti, staremmo per dire “morti viventi”, sospinti da una «forza onirica» che li agita e «li porta in giro per la città, fa frequentare loro cimiteri, redazioni di giornali, biblioteche, cliniche, bordelli e naturalmente pub, tanti pub» (Frasca). Ed ecco che entrano in campo i morti, o meglio il rapporto fra i morti (i fantasmi, le ossessioni, le fantasticherie) e i vivi (la cosiddetta “storia”). L'elemento autobiografico – ormai è un dato assodato – rappresenta una chiave d'accesso essenziale per penetrare i reconditi grovigli del libro, e in quest'occasione, più che mai, ci torna utile.

C'è un capitolo dell'intramontabile biografia critica del 1959 di Richard Ellmann che investiga i “retroscena” del testo joyciano, i nodi segreti che legano biografia e romanzo in margine a quei gioielli di epifanie e epiclesi che sono i Dubliners, ed in particolare ad un racconto il cui titolo già instrada il nostro cammino, The Dead. Ellmann, ricostruendo la genesi del testo segnala, in particolare, tre episodi, tutti singolarmente contrassegnati dal medesimo denominatore comune. The Dead - spiega Ellmann - si fonda su un evento realmente accaduto a Galway nel 1903, dove il giovane Michael Bodkin aveva corteggiato la futura moglie di Joyce, Nora Barnacle, senza successo, e quando, diversi anni dopo, Nora, ormai trasferitasi a Dublino, dove lavorava presso il Finn’s Hotel, venne a conoscenza della prematura morte di Bodkin, confessò di «essere stata attratta da Joyce perché assomigliava a quell’antico corteggiatore». Del resto, di recente Terrinoni ha dedicato pagine importanti al racconto The Dead in merito al rapporto vivi/morti e approfondisce le valenze simboliche implicite nell'episodio biografico sottolineando i molteplici significati nascosti nel nome Bodkin: «È una parola strana che, tramite l'associazione con il pugnalare (to stab), in qualche modo rimanda persino a quel bodkin (“pugnale”) che figura nel monologo di Amleto tanto amato e tanto citato da Joyce, ma che è anche il cognome del primo amore di Nora – Michael Bodkin –, il morto da cui trarrà ispirazione il racconto I morti» (p. 97). Ebbene, tornando a Ellmann: «L’idea di essere in certo quale senso rivale di un morto seppellito nel piccolo cimitero di Oughterard doveva irritare un individuo portato come lui alla gelosia».

Secondo episodio. Trieste, 1905. Il fratello Stanislaus in una lettera racconta a Joyce di aver assistito ad un concerto del baritono irlandese Plunket Greene: il testo era quello di una melodia di Thomas Moore, dal titolo O, Ye Dead, in cui si consuma un «macabro dialogo fra vivi e morti», e dove questi ultimi si lamentano per non godere più dell’esistenza corporea. Joyce si mostrò molto interessato a questo concerto e chiese al fratello le parole della canzone, che imparò a memoria. Ancora una volta, dunque, una complessa relazione fra vivi e morti, che Ellmann commenta in questo modo: «I suoi sentimenti verso l’amore defunto di Nora trovarono drammatico riscontro nella gelosia dei morti per i vivi nel canto di Moore: si sarebbe detto che i vivi e i morti fossero gelosi gli uni degli altri».

D’altro canto – e arriviamo al terzo episodio – lo stesso soggiorno a Roma (come approfondisce il prezioso contributo di Terrinoni dal titolo emblematico Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma) potrebbe costituire un evento determinante, che ispira il racconto a Joyce: «A Roma l’invadenza dei morti investì ciò ch’egli pensava di Dublino, l’altra città cattolica che aveva lasciato, l’altra città che afferrava con le sue rovine, visibili e invisibili. Il suo cervello era preso dall’idea che troppo facilmente i morti sopraffacevano la città dei viventi». In effetti, dopo che Ellmann, smonta l’interna intelaiatura del testo e svela la fitta rete di corrispondenze e rimandi fra i personaggi della finzione e le figure reali (avvalorando così il principio del forte “autobiografismo” joyciano, una poetica fondata su un peculiare procedimento analogico, per cui i fatti e le conoscenze reali si riverberano e si trasfigurano nell’opera in chiave allegorica: una «trasfigurazione fantastica di materiale sparso») e, per l’appunto, dimostrando che «in più punti Joyce attribuisce a Gabriel le proprie esperienze», Ellmann perviene a questa importante riflessione:

 

Con la sua lirica e malinconica accettazione di tutto ciò che la vita e la morte offrono, The Dead rappresenta il mozzo su cui fa pernio la produzione di Joyce. [...] Lo spunto finale del racconto, quello della reciproca dipendenza fra i vivi e i morti, aveva cominciato a maturare in lui fin dall’adolescenza.

 

L'associazione col passaggio dell'8° episodio, che abbiamo citato in apertura, giunge immediata: lo spirito dei defunti che vaga sulla terra The father's spirit walks the earth. La costante convergenza, compenetrazione, corrispondenza fra mondo dei morti e mondo dei vivi, fin dai tempi dei Dubliners. Una dipendenza che non si risolve nel mero confronto fra le due entità, in un gioco di specchi, secondo un andamento di convergenze e opposizioni, tali da riconoscere i caratteri degli uni in dialettica rispetto agli altri. C'è qualcosa di più. Sembra esistere un rapporto viscerale, simbiotico, archetipico, fra le due dimensioni, in modo che l’una s’intreccia e prosegue nell’altra, senza soluzione di continuità, anzi al punto tale che gli uni (i morti) accompagnano, indirizzano, guidano il cammino degli altri (i vivi). È ciò che si compie in Ulysses attraverso due temi che costituiscono il nerbo portante del romanzo: il tema della metempsicosi e la teoria di Stephen sull’Amleto di Shakespeare (teoria che si snoda lungo tutto il romanzo fin dal primo episodio, che - guarda caso - aveva elaborato Joyce in quel fatidico 1904, e che diventa il motivo centrale del 9° episodio).

Ma i morti vagano nel mondo dei vivi, nella fattispecie nella città di Dublino, solo in forma metaforica? Solo sotto forma di figure allegoriche? Si direbbe di no. Si direbbe che, a un certo punto, i morti vagano per davvero, fisicamente, con una corporea presenza.

C'è una figura misteriosa che vagabonda (vaga, walks) per la città di Dublino, e che s'intreccia da vicino con le figure di Bloom e Stephen, e forse persino con la stessa identità dell'autore, perché – vale la pena rammentarlo – «sono sempre i personaggi minori che portano le insegne dell'autore» (Frasca): stiamo palando dell'enigmatico uomo col macintosh marrone che compare per la prima volta nel 6° episodio.

Chi è Mr McIntosh? si domanda verso le due di notte Leopold Bloom mezzo frastornato, nel 17° episodio, rientrato nella sua casa al 7 di Eccles Street.

Ci vengono forniti, al riguardo, alcuni indizi preziosi, sui quali possiamo sviluppare qualche ipotesi.

Il fantomatico uomo col macintosh marrone, dopo la sua prima apparizione al funerale di Dignam si diverte a far capolino in ben altre dodici occorrenze fra le pieghe di Ulysses, o meglio nei pensieri (si badi: nei pensieri) di Bloom, un'ombra enigmatica il cui unico «tratto identitario» (Frasca) è un impermeabile scuro. E di certo non è un caso che Mr McIntosh compaia per la prima volta (e appunto per l'unica volta fisicamente) in questo sesto episodio, assieme a Bloom e Stephen, proprio alla confluenza della zona Ringsend, ovvero – conviene ricordarlo – nella stessa zona di Dublino, in quel 16 giugno 1904 «quando Nora e James andarono a passeggiare […], e lei con un atto audace gli sbottonò i pantaloni e, a dire di lui, “lo rese uomo”» (Terrinoni, Su tutti i vivi e i morti, p. 186). In quella zona si incrociano tutti e cinque: Bloom, Stephen, Mr McIntosh, James, Nora.

Per di più Ulysses dissemina con una certa insistenza indicazioni sulle condizioni meteorologiche della giornata, senza dubbio una giornata assolata e afosa. Conviene dare un sommario ma utile catalogo delle principali occorrenze:

–      [...] il bagliore del sole gli imbiancava il miele della capigliatura maltinta (episodio 2, Nestore, U, 55);

–      Su quelle sue spalle sagge attraverso il disegno a scacchi delle foglie il sole scagliava lustrini, monete danzanti (episodio 2, Nestore, U, 59);

–      […] nell'essere attraversati da un ampio raggio di sole. […] I suoi occhi sbarrati quasi fossero stati colti da una visione fissarono severi quel raggio di sole in cui si fermò (episodio 2, Nestore, U, 65);

–      Luce aurea sul mare, sulla spiaggia, sui massi. Il sole è lì, gli alberi snelli, le case giallo limone (episodio 3, Proteo, U, 81);

–      Attraverso i barbacani si muovono sempre fasci di luce (episodio 3, Proteo, U, 85);

–      [...] seguito dalla spada fiammeggiante del sole (episodio 3, Proteo, U, 91);

–      Voltando le spalle al sole si inchinò [...] (episodio 3, Proteo, U, 93);

–      Sotto la tesa guardava attraverso le ciglia ansimanti da pavone il sole digradare verso il sud. Sono catturato in questa scena bruciante (episodio 3, Proteo, U, 95);

–      […] la narice da lebbroso a russare al sole (episodio 3, Proteo, U, 97);

–      [...] fuori dappertutto un mite mattino estivo (episodio 4, Calipso, U, 101);

–      Attraversò per camminare sul lato assolato, evitando la botola malferma del settantacinque. Il sole si stava avvicinando al campanile di George's church. Chissà che giornata sarà. Con questi vestiti scuri poi lo senti di più. Il nero conduce, riflette (o rifrange?), il calore. Mica posso andarci con quel vestito leggero. Non è mica un picnic. Gli si abbassavano spesso le palpebre nel camminare in quel lieto calore (episodio 4, Calipso, U, 105);

–      [...] nella scia del sole. Fascio di luce sul frontespizio (episodio 4, Calipso, U, 107);

–      La luce del sole giunse veloce e calda correndo per Berkeley Road (episodio 4, Calipso, U, 113);

–      Pesantezza: giornata calda in arrivo. Troppa fatica le scale fino al pianerottolo (episodio 4, Calipso, U, 125);

–      Mattino assai caldo. Sotto le palpebre socchiuse [...]. Troppo caldo (episodio 5, Lotofagi, U, 133-5);

–      Una gatta soriana saggia, sfinge ammiccante, guardava dal caldo davanzale (episodio 5, Lotofagi, U, 145);

–      Ondata di calore. Non durerà. Sempre corre, il flusso della vita [...] (episodio 5, Lotofagi, U, 163);

–      Le spalle in panni caldi ascendevano scalino dopo scalino (episodio 7, Eolo,U, 227);

–      Padre Conmee lo benedisse al sole […] (episodio 10, Rocce erranti, U, 429);

–      Che bel tempo, proprio splendido (episodio 10, Rocce erranti, U, 429);

–      Che giornata tranquilla (episodio 10, Rocce erranti, U, 435);

–      Bel vestito, non trovi? Adatto a un giorno d'estate (episodio 10, Rocce erranti, U, 479);

–      [...] finimenti e pastorali lucidi al sole splendenti (episodio 10, Rocce erranti, U, 485).

E si tratta solo di un catalogo delle occorrenze più evidenti.

Dunque, perché questa insistenza, per non dire ostinazione, sugli aspetti meteorologici, ovvero sul calore della giornata, illuminata da un sole assillante? Pesantezza: giornata calda in arrivo. Mattino assai caldo. Sotto le palpebre socchiuse. Troppo caldo. Aria umida. Ondata di calore. Da notare che l'afa asfissiante è in forte contrapposizione con un altro aspetto peculiare di quel 16 giugno 1904, e cioè che solo tre personaggi sono “vestiti di scuro”, solo per tre personaggi si insiste con la stessa ostinazione a precisare che indossano abiti scuri: e sono Bloom, Stephen, e Mr McIntosh.

Dei primi due si indica il particolare l'abbigliamento scuro, per ragioni diverse. L’uno per necessità, l’altro per ostentazione (significativo il plurale «abiti neri», in these black clothes). Il primo vestito a lutto per il funerale di Patrick Dignam, il secondo come sfoggio di un’aria da intellettuale spavaldo e ribelle, un po' bohémien. Di sicuro, è un abbigliamento scomodo, ingombrante, inadeguato per una giornata così afosa e rovente. Ma allora per quale motivo l’autore si sofferma a segnalare il loro abito sconveniente ed inappropriato? Proprio di loro due? Cosa si nasconde dietro quegli «abiti neri»?

Partiamo da Leopold Bloom. Nei suoi confronti, l’autore dispensa nel corso del romanzo una cospicua serie di indicazioni sul vestiario. Le prime tracce le troviamo ovviamente nel 4° episodio, quando Bloom si prepara per uscire: «La mano afferrò il cappello dal piolo sopra il pesante soprabito con le iniziali e l'impermeabile usato proveniente dall'ufficio oggetti smarriti» (U, 105). Segue poi un altro indizio: «Chissà che giornata sarà. Con questi vestiti scuri poi lo senti di più. Il nero conduce, riflette (o rifrange?), il calore. Mica posso andarci con quel vestito leggero. Non è mica un picnic» (U, 105). E qualche pagina dopo: «[...], si guardò i pantaloni neri, le balze, le ginocchia, le borse alla ginocchia. A che ora il funerale?» (U, 117). Nel 5° episodio, quando Bloom incontra Mr M’Coy, di cui vorrebbe «liberarsene al più presto», la prima cosa che osserva l’interlocutore è il suo abbigliamento scuro, a lutto (U, 137):

 

Gli occhi fissi sulla cravatta nera e i vestiti, domandò con pacato rispetto:

- Non è successo ... niente di grave spero. Vedo che sei...

-  Ah, no, disse Mr Bloom. Il povero Dignam, sai. Il funerale è oggi.

La condizione “luttuosa” di Bloom, già anticipata alla fine di questo quinto episodio («[...] anch’io sono a lutto» (U, 159), diventa poi il tratto dominante dell’episodio successivo, in margine alla memoria straziante della morte del figlio Rudy, che prostra e addolora profondamente Bloom. Nell’8° episodio, mentre Bloom vaga per le strade di Dublino, assillato dalla fame, verso l’una, la narrazione registra uno degli ironici e geniali scarti stilistici di Ulysses, poiché il punto di vista passa da Bloom ad uno stormo di piccioni, che devono scegliere su chi evacuare: «Di fronte al gran portone del parlamento irlandese volò uno stormo di piccioni. Scherzetto dopo il pasto. Su chi la facciamo? Io mi piglio il tizio in nero» (U, 315). Si tratta, ovviamente, di Bloom, vestito a lutto, su cui si dirotta la defecazione del piccione.

Uno dei riferimenti più espliciti ed emblematici lo troviamo al 13° episodio, gravido di sensualità e erotismo, quando Bloom, dopo essere andato a trovare la vedova Dignam, stanco per il lungo vagabondare, si riposa sulla spiaggia di Sandymount, alle otto di sera, e su di lui si polarizza l’attenzione della giovane Gerty Mc Dowell, la quale, con un sentimentalismo adolescenziale vago e idealista, dopo il lungo movimento ondivago delle sue fantasticherie sensuali e romantiche, immagina Bloom come un principe azzurro, e il testo così lo descrive: «[...] per fortuna il signore vestito di nero lì seduto tutto solo venne in soccorso con fare galante e intercettò la palla» (U, 695).

Ma se la scelta di un abito ingombrante (anch'esso, a ben vedere, un altro tratto dell'inadeguatezza di un Bloom outsider, che ad esempio lo distingue nel corteo funebre dai compagni di carrozza, che lo trattano con distanza apostrofandolo per cognome mentre fra loro si chiamano col nome di battesimo, Simon, Arthur, Martin, anche se lui, Bloom, con una perseveranza che intenerisce, cerca in tutti i modi di inserirsi, di integrarsi, di far battute per essere accettato) è in qualche modo coerente con le circostanze occasionali del funerale, meno ovvio risulta il riferimento a Stephen.

In effetti il giovane intellettuale, nonostante non abbia nessun ufficio e tanto meno un dovere da assolvere, giacché non presenzia al funerale di Dignam, indossa un abito scuro, proprio come Bloom.

Fin dal primo episodio lo scopriamo adombrato in una serie di pensieri luttuosi, relativi alla morte della madre, dove si segnala il colore nero del suo abito (U, 9):

 

Stephen, un gomito posato sul granito dentellato, teneva il palmo appoggiato alla fronte e fissava il logoro orlo della manica della sua lisa giacca nera.

È un’atmosfera “nera” che accompagna per tutto il romanzo la figura di Stephen, assediato da questi fantasmi del passato (della madre al cui capezzale di morte «sinistramente» non s'è inginocchiato, U, 7) e dalla scomoda immagine del padre. Del resto è lo stesso Bloom che, quando vede Stephen per la prima volta proprio nel 6° episodio così lo rappresenta: «Mr Bloom assorto vide un giovane snello, vestito a lutto, ampio cappello» (U, 169), lithe young man, dove lithe sta appunto per snello, macilento, flessuoso, filiforme, spilungone. Saranno gli stessi aggettivi, «ampio cappello», «cappotto scuro», «bastone di frassino» che ritorneranno a caratterizzare Stephen nel bordello di Bella Cohen, nel 15° episodio:

«Sull'attaccapanni della sala appesi un cappello da uomo e un impermeabile» (U, 989) e «Accanto alla pianola c'è Stephen, e su quella poggiano il cappello e il bastone di frassino» (U, 993),

come fin dall’entrata in scena, Stephen, nel primo episodio, afferrava il suo bastone di frassino.

Ma senza dubbio il passaggio più rivelatore è quello in cui la prostituta del bordello, Zoe Higgins, quando vede arrivare assieme Bloom e Stephen, domanda «(Sospettosa) Non sei il padre del ragazzo, vero?», al che Bloom ribatte: «Non io!», e Zoe, di nuovo, incalza: «Siete tutt'e due vestiti di nero» (U, 935).

Infine, a contrassegnare la simmetria del vestiario fra Bloom e Stephen, giunge un passaggio alla fine del 16° episodio, quando i due protagonisti, dopo l’avventura del bordello, si ricompongono, fanno conoscenza e si avviano a piedi verso la dimora di Bloom, in Eccles Street, scansando un veicolo che stava per investirli e dove «il conducente [...] si limitò a osservare le due figure, mentre sedeva nel suo carretto, entrambe nere – una pienotta, l'altra magra – camminare verso il ponte della ferrovia » (U, 1331), both black, one full, one lean.

È evidente che l’affinità di abbigliamento fra i due allude, in qualche modo, ad una più complessa gamma di temi allegorici: nasconde una rete di rapporti più o meno irrisolti con le figure dei genitori e dei figli (per Bloom col figlio Rudy, morto prematuramente e col padre Rudolph, morto suicida; per Stephen col padre Simon e con la madre). Il gioco di ricerche e distacchi, di incroci e di separazioni che corre in tutto il romanzo fra Bloom e Stephen, e che si condensa soprattutto negli episodi 15°, 16°, 17° sembra riverberarsi simbolicamente nell’immagine del cappotto scuro che entrambi indossano. È lecito domandarsi: c’è soltanto una sorta di ostentazione intellettuale nell’abbigliamento di Stephen, prefigurazione dell’artista da giovane, o c’è un richiamo, più sottile, all’oscurità del suo linguaggio? Ad altre metafore filosofiche, ad una più complessa riflessione esistenziale, così come si compiace di osservare in un passaggio folgorante del terzo episodio: «Trovi le mie parole oscure. L'oscurità è nella nostra anima, non credi?» (U, 93).

Allora, occorre muoversi sulla pista di questi indizi per mettere in luce la serie di strette analogie che legano Mr McIntosh (ovvero l'uomo con l'impermeabile marrone) a Bloom e Stephen. Può tornare utile, in questa fase di studio, oltre ovviamente a tener come riferimento principale l'eccellente traduzione di Terrinoni dell'edizione Bompiani, anche un raffronto con altre due traduzioni, quella di Giulio de Angelis (Mondadori) e di Gianni Celati (Einaudi). Ebbene, di Mr McIntosh ci viene detto, nella sua prima apparizione quando lo intercetta Bloom: «Ora chi è quel tipo male in arnese tutto allampanato col macintosh?» (U, 211), dove «male in arnese tutto allampanato» sta per lankylooking galoot, che de Angelis traduce «spilungone» e Celati «stangone [...] e smilzo». Sono esattamente gli aggettivi che, nel corso di Ulysses, verranno dispensati per Leopold Bloom e Stephen Dedalus: «Mr Bloom assorto vide un giovane snello, vestito a lutto, ampio cappello» (U, 169), a lithe young man (tradotto anche da de Angelis  «giovanotto snello», p. 123 e da Celati «giovanotto macilento» p. 118), molto simile all'«allampanato» (U, 211), attribuito all’uomo col macintosh, lankylooking galoot («spilungone», de Angelis, p. 152 o «stangone smilzo», Celati, p. 149). Questo aspetto fisico di Stephen ritorna in conclusione dell’episodio di “Eumeo”, quando il conducente indica Stephen con l’aggettivo di lean, «magro» (U, 1331) («esile» in de Angelis, p. 864 , «magrina» in Celati, p. 825).

Allo stesso modo, il testo dispensa una numerosa serie di indicazioni attorno alla natura goffa, impacciata, maldestra di Bloom (disadattato, inadeguato, outsider), in linea con quel lankylooking galoot («tipo male in arnese», U, 211) dell’uomo in macintosh, soprattutto nell’episodio di “Circe” (come vedremo fra poco).

Ma non finisce qui. C'è un altro aspetto sintomatico che contraddistingue il nostro McIntosh. Nel momento in cui Bloom si mette a contare i presenti al funerale, constata che l’uomo col macintosh è il tredicesimo: «il numero della morte» (U, 211). Dunque: da un lato, fra l’uomo col macintosh e Bloom e Stephen (non solo per il comune vestiario scuro, ma anche per gli attributi che a loro vengono assegnati: snello, goffo, smilzo, stangone, spilungone); dall’altro lato, fra l’uomo col macintosh e la morte (un legame che ritornerà di frequente). Quel tale col macintosh è il tredicesimo. Il numero della morte. Passiamo all’11° episodio. Qui troviamo Bloom nel bar Ormond, ossessionato dal pensiero del tradimento della moglie con Blazes Boylan e frastornato da immagini confuse, mescolate al canto di Ben Dollard della romanza The Croppy Boy, che guarda caso racconta proprio di un tradimento e che adombra la relazione di Molly consumatasi in quel momento (più o meno alle 16.30). Alla fine Bloom esce dal locale, frustrato e stordito, e proprio in quel momento, nel suo smozzicato monologo interiore resuscita questa immagine: Wonder who was that chap at the grave in the brown macin, «Chissà chi era il tizio accanto alla tomba in quel bruno mackin.» (U, 569) (tradotto da de Angelis: «Chi sa chi era quel tale vicino alla tomba col mackintosh marr.», p. 392, e da Celati: «Vorrei sapere chi era il tizio in mackintosh alla sepoltura», p. 400), riprendendo la formula già usata nel 6° episodio del «vorrei sapere», Now who is he I’d like to know. Dunque, ecco di nuovo il misterioso uomo col macintosh associato alla morte.

Di lì a poco altri due indizi.

Nel 12° episodio, attorno alle cinque del pomeriggio, nel bar drogheria di Barney Kiernan, in mezzo alla complessa conversazione fra gli avventori, in cui domina la figura del fanatico nazionalista Cittadino, furioso contro gli usurpatori inglesi, s’inserisce di nuovo, in margine ad una disquisizione sull'amore, il pensiero di Bloom, ora più che mai in una formula enigmatica, oscura, e anche piuttosto macabra, dove è associato ancora una volta Mr McIntosh alla morte: The man in the brown macintosh loves a lady who is dead «L'uomo col macintosh marrone ama la signora che è morta» (U, p. 653) (nella versione de Angelis: «L’uomo dal mackintosh marrone ama una signora morta», p. 449, mentre la versione Celati traduce «scuro», p. 458, anziché «marrone»). Si tratta di un episodio (dove, sia detto per inciso, abbiamo la possibilità di ricostruire una sorta di albero genealogico e di preziosi legami di parentela di Bloom), in cui il flusso dei pensieri del personaggio si lascia andare ad un crescendo di immagini, quasi spettrale, sul tema dell’amore, e in questo climax arriva a fantasticare sullo stravagante amore fra l’uomo in mackintosh (qui con la k) e una donna morta. A rafforzare questa funerea caratterizzazione del nostro personaggio giunge infine il 13° episodio, che conferma e cementa l'interessante parallelo fra Bloom e l’uomo col macintosh. Agli occhi sognanti della giovane Gerty McDowell, in cerca di un principe azzurro fra le cui braccia abbandonarsi, il testo sembra porsi la domanda, in una sorta di novella d’amore di Mr Bloom: Ask yourself who is he now. The Mystery Man on the Beach, «Adesso domandiamoci chi è. L'uomo del mistero sulla spiaggia (U, 733) («Chiediti chi è ora. L’uomo Misterioso della Spiaggia», de Angelis, p. 507; «Allora chiedersi adesso: chi è L’ignoto della spiaggia», Celati, p. 515). A questo ritratto di Bloom si collega, due righe sotto, senza soluzione di continuità, l’altro ritratto “misterioso”: And that fellow today at the graveside in the brown macintosh, «E quel tipo oggi accanto alla tomba col macintosh marrone» (U, 733) («E quel tale oggi vicino alla fossa con il mackintosh marrone», de Angelis, p. 507; mentre Celati: «E quel tale oggi vicino alla fossa con quel mackintosh scuro», p. 516, preferendo la lezione «scuro», anziché «marrone» nella trasposizione italiana dell'inglese brown).

In altre parole, se fino a questo punto Ulysses si limitava a suggerire, invece ora l’affinità si fa esplicita e inconfutabile fra l’uomo col macintosh e Bloom, ma soprattutto fra il misterioso personaggio col macintosh marrone e la tomba, la sepoltura, la morte.

The ghost walks, professor MacHugh murmured softly.

«Il fantasma cammina, mormorò il professor MacHugh con aria blanda» nell'episodio di Eolo, richiamando ancora una volta la situazione di Hamlet, che attraversa tutto Ulysses.

Il fantasma di un defunto, l'espressione figurata della morte, che cammina fra i vivi.

E chi è, dunque, questo fantasma che cammina, dalle molteplici sfaccettature, se non un groviglio simbolico dei pensieri di Bloom e di Stephen  (forse anche dello stesso autore, che in quella giornata, pure lui, passeggiava per le vie di Dublino assieme a Nora, proprio nella zona di Ringsend), che sembrano materializzarsi nella figura di McIntosh, in una sorta di danza macabra, di mistica trasmissione fra i vivi e i morti (metempsicosi, trasmigrazione delle anime)?

O meglio in una sorta di assimilazione identitaria fra McIntosh e i due protagonisti del libro, di fluida trasfigurazione gli uni negli altri («If we were all suddenly somebody else, E se fossimo tutti all'improvviso qualcun altro» U, 210-1), tema ricorrente che conflagra nella sfrenata metamorfosi collettiva di “Circe”. Ed è allo stesso tempo la coincidenza del regno dei morti e di quello dei vivi, una sovrapposizione fra le due dimensioni, il vagabondare dei defunti fra i viventi. The spirit walks the earth.

Al tempo stesso, è arrivato il momento di domandarsi: chi sono, per la precisione, questi morti? In cosa consiste il loro spirito vagante sulla terra?

Quali sono i fantasmi che assediano il mondo dei vivi, sempre presenti, Famished ghost (Fantasmi affamati, U, 332-3), anche dopo la morte: «All these here once walked round Dublin. Faithful departed, Tutti questi qua un tempo passeggiavano per Dublino. Fedeli defunti» (U, 218-9)?

Occorre richiamare il rumore di fondo di cui abbiamo trattato all'inizio (ovvero quell'ossessivo «tarlo nell'orecchio», earworws di cui parlava Pedone) per capire che i veri fantasmi dei personaggi sono i loro assillanti pensieri, quel flusso d'immagini, incubi, idee ricorrenti che li accompagnano per tutta la giornata (per tutta la vita: full of life: «life is a stream, la vita è un flusso» U, 296-7), una musica costante, un grammofono perforante, un suono dominante: quello stream of consciousness, che in varia intensità e varie declinazioni, incombe su Stephen e su Bloom, così da sostituire l'onniscienza dell'autore con una sorta di «poliglottismo interno» (Contini), che naturalmente esplode nella visionarietà allucinata di “Circe”, che è davvero «la straordinaria messa in piano drammaturgica dello  stream of consciousness» (Frasca).

I fantasmi-pensieri visitano la mente-la terra dei due protagonisti.

Per Stephen è soprattutto il pensiero ossessivo della madre, ma anche degli ingombranti compagni della Torre Martello, dell'usurpatore impero britannico, e naturalmente del padre (non a caso Stephen s'ingegna di dimostrare che Shakespeare si rispecchia nel fantasma del padre: «ha la prova algebrica che il nipote di Amleto è il nonno di Shakespeare e lui stesso il fantasma di suo padre» U, 33).

Per Bloom è il fantasma-pensiero del padre morto suicida avvelenato, del figlioletto Rudy morto all'età di 11 anni, della lontana figlia Milly, di tutta una serie di fantasie erotiche e di evasione (insite nel suo nome, evocativo di desiderio di fuga esotica: Bloom-Virag-Flower-fiore), ma è soprattutto il pensiero di Molly.

La moglie che tutti sanno (e anche lui) tradirlo con Blazes Boylan: anzi Bloom sa persino l'ora del pomeriggio in cui lei giacerà sullo stesso letto coniugale in cui si è svegliato quella mattina. Eppure, nonostante tutto, egli le porterà la colazione a letto quella mattina, cercherà di evitare non solo il pensiero di Boylan ma anche di incrociarlo alla fine dell'8° episodio («Safe!, Al sicuro!» U, 356-7), si preoccupa di non rientrare a casa prima di sera per non sorprendere e “disturbare” la moglie, e persino s'interrogherà se forse anche lui avrà qualche responsabilità in quel tradimento, se in fondo anche lei, Molly, continua ad amarlo, come infatti ci viene dimostrato nel vertiginoso stream di Molly, finalmente lei la protagonista, nel 18° episodio, la donna di cui finora tutti hanno parlato ma che davvero non si è mai vista, se non fosse per quell'onomatopeico mugugno sotto le coperte nel 4° episodio, simile al miagolio del gatto che si strofina sulla gambe di Poldy e se non fosse per quel breve ma intenso dialogo (U, 119-121) con il marito che le spiega il significato della parola “metempsicosi”, «trasmigrazione delle anime» (e quanto ci sarebbe da ragionare ancora su questo tema centrale di Ulysses che ricorre in ben dieci passaggi, la teoria secondo cui dopo la morte l’anima trasmigra da un corpo all’altro, in un ciclo cosmico di rigenerazione, rinnovamento, purificazione). Eccola, finalmente lei la protagonista assoluta, nella sua esplosione affettiva complessa intima profondissima verso il marito. E Bloom arriva a domandarsi se Molly, dopo la morte di Rudy, cerchi di ristabilirsi dalla crisi matrimoniale e abbia bisogno di uno “svago”, visto che «Could never like again after Rudy, Finito il piacere dopo Rudy» (U, 324-5).

Bloom cerca di comprendere, giustificare, perdonare. Nonostante tutto, Bloom, al contrario dell'Ulisse omerico che fa strage dei Proci usurpatori, si preoccupa di non disturbare la moglie, la capisce, si fa carico del suo dramma, anche lei, come lui, in comunione dolorosa per la morte del figlio. Bloom, forse persino al contrario dell'altro grande riferimento di Ulysses, cioè l'Amleto di Shakespeare (che percorre tutto il testo joyciano, citato di continuo e, per la verità, modello più di Stephen che di Bloom), Bloom non cerca vendetta come il personaggio shakespeariano, ma concede perdono: se Amleto si consuma nella sete di vendetta (la parola revenge compare fin dal primo atto per ben tre volte, come animosa esortazione del fantasma del padre, per poi ripetersi nel corso della tragedia per oltre dieci volte, fino a portare il protagonista ad una cieca rabbia che si fa follia), il mite Bloom anela alla clemenza, alla tolleranza, alla pietas.

Un inno alla vita (Yes). Un inno alla compassione, alla concordia, alla democrazia.

In questo senso, Ulysses, un po' come la teoria di Stephen accennata nel 1° episodio e poi approfondita nel 9° alla National Library of Ireland, è un grande libro popolato di ombre, «un libro sui fantasmi che vampirizzano l'ego come spettri affamati dell'oltretomba» (Maud Ellmann).

Un libro che, nel profluvio di apparizioni della mente, celebra la vita, l'amore, la bellezza.

 

Riferimenti bibliografici

Le citazioni di Ulysses e la relativa traduzione sono tratte da: James Joyce, Ulisse, introduzione generale, traduzione, note e apparati critici di Enrico Terrinoni, Bompiani, Milano, 2021 (i passi citati vengono indicati con U e di seguito il numero di pagina)

Le altre citazioni dalle opere di Joyce e dai saggi su Joyce sono tratte da:

James Joyce Lettere e saggi, a cura di Enrico Terrinoni, traduzione di Giorgio Melchiori, Giuliano Melchiori, Renato Oliva, il Saggiatore, Milano, 2016

Enrico Terrinoni Su tutti i vivi e i morti, Feltrinelli, Milano, 2022

Gabriele Frasca L'uomo con la macchina da prosa, Luca Sossella editore, Roma, 2022

Richard Ellmann James Joyce, Feltrinelli, Milano, 1964

John McCourt Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura, Carocci editore, Roma, 2021

John McCourt James Joyce. Gli anni di Bloom, traduzione di Valentina Olivastri, Mondadori, Milano, 2004, p. 33

Giorgio Melchiori Joyce: il mestiere dello scrittore, Einaudi, Torino, 1994

Giorgio Melchiori Shakespeare, Laterza, Bari, 1994

Renzo S. Crivelli Un amore di Giacomo. Poemetto in prosa di James Joyce nella Trieste di primo Novecento, Castelvecchi, Roma, 2017

Umberto Eco Le poetiche di Joyce, Bompiani, Milano, 1987, p. 98

Per le altre traduzioni di Ulysses si è fatto riferimento a:

James Joyce Ulisse, traduzione di Giulio de Angelis, consulenti Glauco Gambon, Carlo Izzo, Giorgio Melchiori, Mondadori, Milano, 1960

James Joyce Ulisse, traduzione di Gianni Celati, Einaudi, Torino, 2013.

 
 

 

25 ottobre 2023