Alessandro Ardigò - La poesia contemporanea in classe (anni Duemila)

 

Abstract:

L’intervento La poesia contemporanea in classe si articola in tre momenti. Nella prima parte ci si pone la domanda dell’opportunità della poesia contemporanea, vale a dire se in una Storia letteraria come quella che si affronta al triennio della Scuola secondaria di secondo grado sia opportuno parlare anche di contemporaneità oppure no.

La seconda parte consiste in una panoramica sulla poesia italiana oggi, seguendo il criterio del «canone aperto». Si prenderanno in esame sia la lirica che la poesia di ricerca, quest’ultima articolata nei tre aspetti principali di pubblico-critica, media, linguaggio-forma, strutturando il tutto a partire da un punto di vista didattico.

La terza ed ultima parte si interroga su come strutturare l’approccio alla poesia contemporanea nel triennio.

 

Fermarsi a Montale?

Prima di parlare di “poesia” contemporanea in classe, vorrei spendere alcune parole preliminari sull’idea di contemporaneità a scuola, perché appunto di Storia della Letteratura si parla nel triennio superiore.

Per quello che è la mia esperienza, usualmente i dipartimenti di Lettere non redigono piani di lavoro che oltrepassino Eugenio Montale; magari singoli docenti si spingono più in là, ma “dipartimentalmente” non si prende in considerazione un dopo, e ciò è significativo. L’autore ligure, per come lo si tratta a scuola, si identifica soprattutto con colui che nel 1925 pubblicò gli Ossi di Seppia, così il risultato è di recidere la contemporaneità ormai a cent’anni or sono. E la grande maggioranza degli studenti avrà come ultimo ricordo letterario quello di una scuola che evita accuratamente il presente.

Quando si domanda il perché di un tale orientamento, in genere si raccolgono due tipi di risposte: concrete oppure disciplinari.

Del primo ambito sono risposte che solitamente fanno leva sulla mancanza del tempo-lezione, effettivamente assorbito da altre attività trasversali e sovradisciplinari che negli ultimi anni dettano la linea della prassi scolastica.

Le risposte invece di tipo disciplinare sono quasi sempre legate all’idea di un presente letterario (e storico) fortemente incerto, come incerta sarebbe la sua interpretazione. Insomma, l’oggi non sarebbe storicizzato; mancando una maniera condivisa per raccontarlo, non è possibile contare su di un canone già sedimentato non solo letterario, ma anche e principalmente storico su cui calare una storia della letteratura da raccontare agli studenti.

 

Riflettendo, la credenza che agisce e anima questa impostazione di pensiero implica che da una parte vi sia la ricerca, magari di tipo universitario o anche solo personale, che può e deve discutere e riflettere su qualunque autore o argomento letterario o culturale. Dall’altra parte, invece, in contrapposizione, vi sia la scuola, che deve poggiare le sue lezioni su di un canone sicuro di autori, di eventi, insomma di significati da veicolare agli studenti. La scuola dovrebbe quindi fornire un modello etico ed estetico, magari anche “oggettivo”, poco confutabile, in grado di assicurare un buon insegnamento di quello che è stata la civiltà letteraria occidentale per permettere allo studente di riconoscere il buono e il bello (ambiti della morale e dell’estetica).

Certamente i modelli servono, sotto alcuni aspetti sono irrinunciabili, ma ci sono alcuni appunti che vorrei fare ad una tale impostazione di pensiero, molto diffusa e radicata.

In particolare l’idea di poter contrapporre un “presente incerto” ad un “passato certo” contiene delle criticità che qualsiasi storico o filologo antichista, medievista o modernista, il quale sa quanto poco in realtà ci rimanga del passato, può facilmente individuare (un esempio, il manoscritto autografo della Commedia, il testo più importante della nostra tradizione letteraria, non è mai stato trovato).

 

Per contro, già alle radici della nostra storiografia troviamo modelli di narrazione opposti a quello scolastico. Prendiamo Tucidide. Siamo nel V sec. aC., esattamente agli albori: è il presente che egli vuole raccontare perché è quello che vede e quindi ciò di cui è più certo. Il racconto della contemporaneità è un modello storiografico che trova spazio in tutte epoche e solo a mo’ di esempio cito il Guicciardini, con la sua Storia d'Italia.

Questo per dire che l’idea scolastica di un canone da percorrere cronologicamente, di passato che ormai è “storicizzato” e quindi si può raccontare senza timore di sbagliare, non è la sola narrativa possibile, e tantomeno l’unica corretta.

 

Avanzando nella riflessione appare chiaro un altro problema: il passato «storicizzato» è davvero così innocuo, immutabile, condiviso, a-politico?

Benedetto Croce direbbe che una storia del genere, una storia staccata da noi, sarebbe storia morta. La Storia, secondo Croce, per essere tale deve essere Storia viva, cioè contemporanea, anche se, paradossalmente, antica:

 

Quando la cultura del mio momento storico apre innanzi a me il problema della civiltà ellenica, della filosofia platonica, o di un particolare atteggiamento del costume attico, quel problema è legato al mio essere come la storia di un negozio che sto trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che incombe; ed io lo indago con la medesima ansia, sono travagliato dalla medesima coscienza di infelicità. La vita ellenica è in quel momento presente in me, e mi sollecita e mi attrae o mi tormenta.

Posto che la contemporaneità è carattere intrinseco di ogni storia, bisogna concepire il rapporto della storia con la vita come rapporto di unità (B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, 2011 [I. ed. 1915]).

 

Quando leggo Saffo, Saffo sta dicendo qualcosa a me ora, qui. L’idea di Benedetto Croce, espressa in Teoria e Storia della Storiografia del 1915, “ogni storia è storia contemporanea”, è una conquista concettuale che si è raggiunta anche per versanti filosofici e storiografici molto diversi da quelli crociani. Prendiamo ad esempio Marc Bloch e la sua Apologie pour l’Historie (1948-1998), un monumento della riflessione storiografica del ‘900. Bloch ci dice, da buon post-positivista, che non può esistere un oggetto analizzato senza un soggetto che lo analizzi ponendo precise domande, cioè instaurando una relazione fra soggetto e oggetto. E queste domande non sono mai neutre, bensì indirizzate dai bisogni di chi stila il “questionario”, bisogni precisamente radicati nel tempo di chi compie l’analisi:

 

Ogni ricerca storica [e letteraria] suppone fin dai primi passi che l’inchiesta abbia già una direzione. In principio è lo spirito. Mai in nessuna scienza l’osservazione passiva ha prodotto alcunché di fecondo. Non lasciamoci trarre in inganno, infatti. Capita di sicuro che il questionario [cioè le domande che lo studioso pone alla sua fonte] resti puramente istintivo. Tuttavia esso c’è. Anche senza che lo studioso ne sia conscio».

 

E ancora:

 

La realtà ci presenta una quantità quasi infinita di linee di forza, tutte convergenti verso un medesimo fenomeno. La scelta che noi compiamo fra di esse […] non è mai altro che una scelta» (M. BLOCH, Apologia della Storia, 1998 [I. ed. 1993]).

 

L’Apologie ci spiega magistralmente il motivo per cui ogni epoca, a diversi livelli, senta il bisogno di rileggere la propria Storia, compresa quella letteraria: le domande che essa pone al «canone», alla propria tradizione, sono sempre diverse perché sempre diversa è l’identità collettiva ed individuale che sente il bisogno di interrogarsi.

Solo a mo’ di esempio, tenendo sempre Dante come paradigma, cioè un l’autore scolasticamente «intoccabile», il più «storicizzato» fra i nostri scrittori, si vede bene come nei secoli non esista “un solo Dante”, ma che anche “il più grande” sia stato accolto in maniera diversa a seconda delle epoche. In alcuni periodi anzi gli si preferì Petrarca, ad esempio durante i dibattiti sulla lingua che si svolsero nel ‘500 nel contesto delle signorie, oppure durante l’Illuminismo italiano, in cui non si poteva certo dare troppo credito ad un medievale.

Ancora, la maniera in cui nel 2021 è stato celebrato il settimo centenario dantesco non solo è stata occasione per leggere Dante, ma anche per leggere noi: l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso sono apparsi come loghi su gelati confezionati da una ditta che ha poi commissionato ad un noto artista il dipinto del fatidico bacio fra Dante e Beatrice. È chiaro che questo Dante pop-industriale testimonia anche e soprattutto la nostra civiltà e non solo la sua opera. 

 

Rendersi conto del soggetto che compie l’osservazione sugli autori del passato, cioè noi, immersi nel nostro ambiente contemporaneo, diviene allora importante per capire meglio i significati che cerchiamo e che trasmettiamo agli studenti.

Questa consapevolezza è importante soprattutto ai nostri giorni, in cui assistiamo ad esplicite rivendicazioni di “aggiustamento” del canone da parte di istanze culturali che chiedono una loro rappresentanza. Si prenda ad esempio la quesitone femminile. Quante autrici donne si sono presentate agli studenti nel corso del terzo e del quarto anno di studi? La risposta è invariabilmente “nessuna” (LINK 1). Ma la questione femminile non può essere l’unica sul campo e il riesame del canone, per essere strutturato, deve avere uno sguardo complessivo e discutere di tutta quella che gli storici chiamerebbero la “great narration” della cultura occidentale.

 

È ora chiara, quindi l’idea, la riflessione portante dell’intervento di oggi. Aprire delle finestre sulla letteratura contemporanea mentre si analizzano autori e autrici del passato è un modo rendere esplicito l’oggi e riflettere sui bisogni e le domande che noi rivolgiamo alla nostra tradizione letteraria. E anche un modo per testimoniare l’esistenza di una lingua comune fra noi e i nostri studenti.

 

Questo processo implica un continuo confronto critico, una continua individuazione di analogie o differenze tra presente e passato, processo che finisce col relativizzare, tutto sommato, anche le istanze dell’oggi. Contribuisce a renderle meno assolute e al tempo stesso garantisce al passato la sua specificità ed alterità rispetto al presente.

Questo approccio, di fatto storicista, può essere anche un buon antidoto per quelle correnti di pensiero ideologiche che strumentalizzano la storia in funzione del presente, eliminando “la distanza” culturale fra le epoche, presupponendo che la nostra sensibilità sia l’unica accettabile. Penso a quella che usualmente viene indicata come cancel culture. Ma non solo. Su un versante di solito opposto quel pensiero che vede le discipline scolastiche - comprese quelle umanistiche - funzionali unicamente ad uno sbocco immediato sul presente. Le materie umanistiche, Storia della Letteratura, Storia della Filosofia, Storia dell’Arte, ecc. forniscono semmai una visione indipendente rispetto alle dinamiche dell’oggi perché il loro nucleo è storico, cioè tratta degli uomini nel tempo. Permettono insomma una visione altra, un’altra via che non sia quella dell’immediata utilità o spendibilità.

L’appiattimento di prospettiva storica sta caratterizzando i nostri anni. Come quelle miniature medievali che non sapevano ritrarre i personaggi antichi se non come personaggi del proprio tempo.

 

Tutto ciò che dirò in seguito avrà come lanterna ciò che è stato detto in questa introduzione.

Fare storia della letteratura e troncare il programma “a Montale” non è quindi solo un’operazione scorretta metodologicamente, ma è una soluzione di comodo, perché è come se si dicesse «fino a Montale il canone è storicizzato» ma si tacesse della maniera in cui lo si storicizza, omettendo il punto di vista da cui si osserva. Discutere del presente letterario mentre si parla degli autori passati è quindi un’operazione di chiarezza nei confronti di chi apprende.

La poesia di oggi allora non deve essere interpretata come un punto di arrivo alla fine di una lunga cronologia, cui giungere stremati al termine dell’ultimo anno scolastico, ma come un punto di osservazione dichiarato che ci accompagna nel triennio. Come un dialogo continuo tra l’oggi e il passato. Non è necessario, credo, formalizzare e strutturare verifiche, bisogna tenere aperta la lettura.

 

Un canone «aperto» per il Duemila

Con un numero di pubblicazioni poetiche non raggiungibile nemmeno con la migliore volontà di lettore, ogni discorso sull’oggi impone una soggettività interpretativa che deve essere da una parte accettata e dell’altra dichiarata in via preliminare. Per questo è più onesto fare riferimento ad un «canone aperto», una formulazione che mutuo da Luca Serianni, da lui accennata mentre rispondeva alle sollecitazioni di noi docenti durante la Summer School dantesca all’Università di Verona nell’agosto 2021 per il già citato centenario.

La formula del canone aperto sarà quella che proporrò in questa sede. Prendendo le mosse dal panorama letterario tracciato da Paolo Giovannetti in La poesia contemporanea degli anni Duemila, 2017, cercherò di delineare le forme generali della poesia fornendo come esempi autori e autrici che credo possano essere significativi a livello didattico, al contempo sollecitando i colleghi a mutarli a seconda del proprio sentire personale e delle proprie esperienze di lettura.

Una tale soggettività non può che essere “sfidante” perché ci mette in gioco come docenti, ci fa entrare nel dibattito della contemporaneità portando ognuno di noi nel “fuoco della controversia” dell’oggi, aumentando la consapevolezza di noi stessi.

Ad esempio, riguardando a posteriori il materiale che ho preparato per questo intervento mi accorgo che esso è decisamente Milano-centrico. Me ne scuso. Ma constatare ciò è per me rivelatore di un mio punto di osservazione di cui prima non ero perfettamente conscio. Sarà quindi compito di chi mi ascolta o legge riadattare i contenuti alla sua prospettiva e all’ambiente in cui è immerso.

 

Un’ultima questione: la periodizzazione. Se in una Storia della Letteratura una scansione per secoli è spesso impropria poiché arbitraria, figurarsi una scansione per decenni. Risulta soprattutto problematico leggere i singoli testi alla luce di eventi storico politici della “grande storia”, spesso invece molto distanti. Quando si ha a che fare con periodizzazioni su un tempo breve è più accorto riflettere su cesure determinate da fenomeni storico-linguistici, come ha fatto, ad esempio, Enrico Testa per gli anni ’60 e ‘70 nella sua antologia Dopo la lirica - poeti italiani 1960 - 2000:

 

L’evento del tutto eccezionale di una lingua, come l’italiano, che per la prima volta da lingua di cultura va imponendosi sia pure confusamente come lingua di comunicazione, determinando la caduta delle paratie della secolare separazione di lingua della poesia e lingua della prosa, e apre alla poesia lo spazio ormai senza barriere del parlato (E. Testa, Dopo la lirica, 2005 p. VI).

 

Alla stessa maniera Paolo Giovannetti individua per gli anni 2000 come marcatore la smaterializzazione del testo scritto a seguito della diffusione del web 2.0, cioè di quel tipo di web in cui il fruitore diviene anche produttore di contenuti (prosumer) immediati e infinitamente modificabili.

Come già detto, questa parte di lavoro seguirà la linea critica del libro di Giovannetti, rileggendola però in chiave didattica per la scuola secondaria di secondo grado.

 

 

La lirica

Se Enrico Testa intitola la sua antologia Dopo la lirica, riferendosi a quel fenomeno di intrusione del parlato nel linguaggio poetico che caratterizza gli anni ’60 e ’70, tre decenni dopo, nel 2000, possiamo affermare che la poesia lirica, con il suo accento posto sull’io, forse anche perché consonante ai tempi della mostra del sé, è più che mai viva. La lirica di oggi, anzi, in un certo qual modo rappresenta la poesia per antonomasia, quella che conserva ancora l’aspetto che in genere le si attribuisce, con i versi, le strofe e gli a capo.

Agli studenti non iscritti al liceo classico, vale a dire la maggioranza, si può introdurre la lirica ricordando che l’esordio dell’io in poesia avviene molto presto, in ambito greco con il poeta Archiloco (VII sec. aC.):

 

“E io sono servitore del signore della guerra

e conosco l'amabile dono delle Muse.”  

 

Al di là degli aspetti formali del verso in lingua originale, che possono essere accennati o approfonditi a seconda del corso di studi, è utile mostrare agli studenti come la dimensione del sé cerchi qui di staccarsi dalla dimensione collettiva dell’epica, ponendo in primo piano se stessa e la propria sensibilità. E quali sono le esigenze che emergono da questo antico primo “io” poetico? Di dedicarsi all’arte (l’amabile dono delle Muse), e poi all’amore e all’ebrezza, cose che sole possono riempire l’io individuale del poeta.

L’esigenza di staccarsi dalle retoriche della virtù eroica e della vita collettiva è caratterizzante di questi poeti, che metaforicamente gettano il proprio scudo, cioè una vita conformata ai valori guerreschi e comunitari:

 

“Lo scudo ho gettato nell’onde di un fiume che bello scorreva.” (Anacreonte VI sec. aC)

 

L’io è cantato dal poeta con la lira: è il canto ciò che meglio incarna l’espressione diretta dell’emotività e del vissuto interiore del poeta. Ovviamente vi è un altissimo grado di differenza anche formale (lirica monodica o corale ecc.) che sta al docente decidere quanto sia opportuno approfondire.

Per uno sguardo d’insieme, leggero ma accurato e appassionato, volto soprattutto a tutti gli studenti che non hanno approfondito la letteratura greca, ecco un video a cura di un poeta vivente, Silvio Raffo (1947), prolifico scrittore e divulgatore della tradizione poetica: L’effimero e l’eterno - i lirici greci facilmente reperibile su YouTube (LINK 2).

 

Nella contemporaneità le cifre della lirica vengono come “tirate”, stressate. Lo stesso istituto dell’ego è spesso negato. Ad esempio, per fuggire ad una sovrabbondanza insopportabile di ”io” si ricorre ad altri pronomi, ma fittizi:

 

Prima tappa del viaggio notturno

Hai guardato i quattro punti cardinali
e sei andato verso est, verso il parco
dove dormono i ragazzi dopo le partite,
sei arrivato nel campo che gira veloce su se stesso
e hai ricordato tutto, hai ricordato uno per uno
i corpi sepolti e quelli vivi, soffi di vento
che ora ti raggiungono e ti spingono nomade
tra i nomadi, quando il bambino e la morte
si congiungono in un solo cerchio, sfreccia
un rondone e il grido dei demoni invade la tua

ombra e l’ombra più grande che non vedi.

 

***

 

Settima tappa del viaggio notturno

Ogni cosa cammina oscuramente per le strade

prima di apparire e tu hai cercato

quell’autobus con tutte le tue forze, l’hai chiamato

per nome, l’hai invocato e si chiamava semplicemente

Cinquantasette. Ed è comparso. L’hai preso al volo

in una sera di giugno, la stessa sera

che ti parla con la voce errante del destino

tu rivedi il cupo splendore dei tiri e degli abbracci

segui le tue orme e il mosto invisibile del tempo

ti invade, l’eco di una corsa che finisce qui,

l’attimo che prolunghi fino all’ultima fermata.

 

Questi due testi, estrapolati dalla sezione Nove tappe del viaggio notturno dell’ultima pubblicazione poetica di Milo De Angelis (1951) Linea intera linea spezzata (2021) testimoniano bene la fittizia sparizione dell’io, sostituito da un tu che crea una sorta di triangolazione fra il poeta che parla a se stesso ed il lettore che ascolta il dialogo. Diceva il critico Northrop Frye (1912-1991) che quello della lirica è «un “io” che si rivolge al lettore fingendone l’assenza», insomma un io che ci parla ma volgendoci le spalle.

Secondo Jonathan Culler (1944) quello lirico è «un discorso intimo ma pubblico attorno alla vita», ha quindi sempre a che fare con l’aspetto emotivo in relazione all’aspetto morale.

Il tema di Linea intera linea spezzata, come dice appunto il titolo, è il tempo, non solo il tempo della vita, ma, come si vede bene dalle poesie riportate, anche del verso, che tende ad allungarsi, a diventare discorsivo, a “ricordare” in qualche modo il nostro classico endecasillabo ma  puntualmente allungandolo fino ad un calmo andamento parlato.

Ecco un altro aspetto tipico della lirica contemporanea, che Paolo Giovannetti chiama uso aperto della regola. Lo scrittore è perfettamente conscio della tradizione che lo precede e non la nega, ma in qualche modo la ”manipola”, la distorce a seconda di ciò che vuole comunicare.

 

L’infelice luna si chinò piangente.

 

Rivoli innocenti, barche semivuote,

larghi laghi delle montagne

premettono ch’io sia tua, e obbediente

 

***

 

Di sera il cielo spazia, povera

cosa è dalla finestra il suo bigio

(ma era verde) ondulare. Oppure

 

colori che mai speravo riconquistare

abbaiavano tetri al davanzale. Se

questa tetra verginità non può

 

rimuovere dal cuore i suoi salmi

allora non v’è nessuna pace per

chi scuce, notte e dì, triste cose

dai suoi labbri.

 

Non è la casa (cucita con le mattonelle)

a farti da guida; è il mistero

disintegro delle facciate aeree

 

che ti promette gaudio sottilmente.

 

Le due liriche riportate sono tratte da Serie ospedaliera (1969) di Amelia Rosselli (1930-1996). Avrei evitato esempi antecedenti agli anni 2000, ma Amelia Rosselli è tanto apprezzata, citata e studiata oggi e il suo influsso così forte soprattutto su autrici, che ho lo stesso optato per trarla ad esempio. A differenza del precedente Variazioni belliche (1964) che per i motivi che discuteremo in seguito saremmo portati a considerarlo “di ricerca”, Serie ospedaliera si fa testimone di un profondissimo e disperato canto amoroso costretto dalla permanenza in una struttura ospedaliera.

È una scrittura che incessantemente si misura con le forme della tradizione poetica per trasformarle. Il primo testo, ad esempio, riprende la brevità dell’epigramma. Inizia con immagini perfettamente liriche, addirittura scontate: una luna che piange, delle barche rischiarate dalla luce lunare, i laghi delle montagne; ma all’ultimo verso tutto cambia, perché questi elementi banali «premettono ch’io sia tua, e obbediente». Su quell’«obbediente» si potrebbe dialogare a lungo con gli studenti sulle forme dell’amore, del legame, sul senso di appartenenza, se è ancora “ammissibile” per una donna dirsi obbediente. Ma ciò che veramente a mio parere testimonia l’arte della Rosselli è quel «premettono»: qual è infatti il rapporto logico tra il paesaggio lunare e l’azione del «premettere» un certo legame amoroso? Un altro poeta, credo, magari più prevedibile, avrebbe pianamente scritto «permettono», oppure «promettono», ma è in quel verbo destabilizzante che sta l’arte, la finezza poetica di quel testo.

 

A volte, raccontare l’io nella contemporaneità può assumere i toni di una vera e propria narrazione che si snoda per una successione ordinata di testi poetici volti a costruire una storia intima con un inizio, uno sviluppo e una fine. Fra i molti esempi possibili cito Cento poesie d’amore a Ladyhawke (2007) di Michele Mari (1955). Da un punto di vista didattico, Cento poesie può essere un libro adatto ad una lettura autonoma da parte degli studenti, che possono “apprezzare” l’immediatezza del testo senza un’eccessiva mediazione da parte dell’insegnante.

Qualche poesia di questo libro inoltre ha saputo fare breccia nel sentire comune:

 

Fedeli al duro accordo

non ci cerchiamo più

Così i bambini giocano

a non ridere per primi

guardandosi negli occhi

e alcuni sono così bravi

che diventano tristi per la vita intera.

 

***

 

Coincidere con chi si è diventati

credendo sia saggezza

è il più facile dei tradimenti

perché il suo castigo è nella pace.

 

***

 

Ti sei sempre riassunta per me
nei tuoi occhi

 

Così hai dominato i miei pensieri
sotto la forma dell’ellissi indiana
dove su bianco smalto l’iride
si vetrifica attorno alla pupilla

 

Così sognarti
è sempre stato guardare da lontano
due fuochi fatui
in un cimitero celtico

 

Così la tua immagine
è l’ultima che vede di notte il guidatore
prima del frontale

 

Di certo la brevità della maggior parte delle poesie, il linguaggio chiaro unito al tema amoroso contrastato, l’ossessività nel raccontarlo ne hanno agevolato la condivisione su social network quali Instagram e Facebook.

E in effetti, la gran parte della produzione testuale di oggi subisce la forte tendenza ad accorciarsi, accorciando i tempi di lettura, forse anche istintivamente per garantire una leggibilità social. È un fenomeno che va molto al di là della poesia, e mi chiedo se non investa più in generale le forme del pensiero.

 

La scrittura di ricerca - pubblico e critica

L’altro versante è quello della “poesia di ricerca”. Le definizioni ci aiutano a ordinare una realtà, a stabilire “confini” che però nella pratica non sono immediatamente riconoscibili; esiste piuttosto un continuum in cui a volte è difficile individuare le cesure. Questo per dire che anche nella lirica vi è una costante ed infinita ricerca e che i confini che tracceremo nell’ambito della poesia ricerca, calati sul singolo autore o sul singolo libro, risultano spesso molto labili.

Il distinguo fra lirica e poesia di ricerca, anche se spesso solo teorico, consiste nel fatto che la poesia di ricerca opera un’azione artistica deliberata e volontaria su uno degli aspetti formali della poesia che ora vedremo: pubblico e critica, media, linguaggio e forma. Per definizione la poesia di ricerca lavora sui margini, questo il motivo per cui la domanda che ritroveremo sarà sempre “è ancora poesia, questa?”. 

Nell’intervento di oggi lascerò da parte i temi della poesia, i contenuti, perché si tratta di un orizzonte troppo vasto per essere unito in uno stesso intervento.

 

Nella poesia ma più in generale nell’arte contemporanea il destinatario - pubblico e critica - assume un ruolo di prim’ordine, che non aveva raggiunto nelle epoche precedenti. Pubblico e critica hanno il compito di pronunciare il fatidico «questa è davvero poesia», affermazione che, soprattutto nell’ambito della ricerca, è fondamentale. Il destinatario oggi ha il compito di implementare l’opera d’arte, cioè compiere determinate azioni interpretative volte ad isolare ed individuare il messaggio artistico. Tale compito diviene facile da intuire se pensiamo, ad esempio, a Marcel Duchamp (1887-1968) con la sua Fontana del 1917 o alla banana di Cattelan esposta al Guggenheim nel 2020. Oggetti di uso comune che - ricontestualizzati - acquistano, se il destinatario lo accetta, un valore artistico.

Nella poesia si verifica spesso la stessa dinamica piena di contraddittorietà: un medesimo sintagma magari preso dal parlato può divenire “poesia” con il cambio di contesto. Più in generale la medesima operazione può essere più o meno apprezzata se proviene da un determinato scrittore invece che un altro, oppure da una casa editrice più prestigiosa di un’altra.

Di queste dinamiche spesso opache dell’apprezzamento nell’arte non è difficile parlare con gli studenti, proprio perché loro e noi siamo calati nello stesso oggi. Spesso anzi, nella mia esperienza, soprattutto in quelle classi in cui vi sono studenti appassionati di musica o arte, la necessità dell’artista non solo di produrre la propria opera, ma di crearsi un pubblico, un nome, di apparire su una certa rivista è un messaggio che viene sentito familiare. E magari, gli adolescenti più noi, sanno rifiutare.

In generale, se l’arte fa a meno della tecnica, quello che rimane è il solo messaggio artistico, e come tale in completa balìa delle dinamiche dell’apprezzamento, che lo possono elevare appunto “ad arte” oppure respingerlo negandone lo status.

 

La scrittura di ricerca - media

In un’epoca dove anche la poesia è liquida, smaterializzata e viaggia spezzettata in bit alla velocità della luce, la riflessione sui media di un testo è inevitabile. Una risposta a questo stato di cose viene dal fuggire la riproducibilità per ritrovare una concretezza, una materialità artistica anche della poesia. Penso ad esempio alle poesie cancellate dell’artista-poeta Emilio Isgrò (1937) pubblicate per una micro casa editrice artistico-artigianale milanese, Il ragazzo innocuo anagramma dell’editore Luciano Ragozzino, che pubblica plaquette a caratteri mobili (quelli di Gutenberg per intenderci). Sulla stessa linea d’onda, ma ancora più vicina al “media”, è l’esperienza artistico-editoriale delle edizioni Il pulcino elefante di Alberto Casiraghy (1952), che per anni ha lavorato con Alda Merini (1931-2009). Ad esempio

 

Dove va a finire

il bianco

quando si scioglie

la neve?

 

acquista senso solo vista nella sua materialità, cioè stampata in rilievo senza l’uso di inchiostro (LINK 5).

Spingendo ulteriormente il discorso in questa direzione si potrebbero anche citare i libri cuciti di Maria Lai (1919-2013), di inizio 2000, ma la domanda sarebbe inevitabile: questa è ancora poesia? Forse la risposta più corretta sarebbe «no», ma la quesitone del medium testuale è serissima e non si può immaginare che l’arte e la poesia non si interroghino, intrecciando discorsi sulla materialità e la smaterializzazione del testo.

Spingendo i ragazzi a riflettere su questi temi, invitandoli a staccarsi al mondo del testo esclusivamente online, riusciremmo anche meglio a comunicare il rapporto con la materialità testuale e libraria che hanno avuto le epoche antecedenti alla nostra: penso alla dimensione dei manoscritti ad esempio, su cui gli studenti si trovano a lavorare in terza.

 

Sempre intendendo la poesia come installazione segnalo un fenomeno poetico che sta prendendo piede soprattutto tra i giovani e che può certamente stimolare gli studenti: il MEP, Movimento per l’emancipazione della poesia (LINK 3) nato a Firenze nel 2010 e presto diffuso in tutta Italia. Un comune ciclostilato in A4 o A5 con una poesia anonima ma siglata viene appiccicato per lo spazio urbano: la città - e il degrado - si trovano così “poeticizzati” da poesie anonime. Qui al discorso urbano si aggiunge quello dell’anonimato, che tanto si oppone a quell’ego dilagante di cui abbiamo discusso più sopra.

 

Il libro di poesia è la nostra immagine canonica quando ci approcciamo al genere, ma un volume stampato, per quanto antico, persino se scritto a mano è tutto sommato un artefatto recente, è esso stesso un medium creato per permettere alla voce di arrivare in tempi e spazi lontani rispetto all’autore.

Un folto gruppo di autori contemporanei lascia da parte l’idea di libro di poesia scritta per cercare un ritorno all’origine, al corpo, per riscoprire la poesia orale. Il ritorno di aedi e trovatori dell’età contemporanea va di pari passo con la diffusione dell’idea di performance artistica e, in realtà, più che una creazione dell’oggi basata su una rilettura della tradizione poetica orale, deriva da una emulazione della scena statunitense. Oltreoceano la poesia performativa è profondamente legata alla diffusione del rap, che significa letteralmente rhythm and poetry. Effettivamente, nonostante la mancanza di una tradizione letteraria comune fra Europa e Stati Uniti, la “poesia a ritmo” americana ha molti tratti in comune con la nostra poesia orale in volgare. Ad esempio, ad un livello comico di linguaggio, ciò che fra gli americani è il dissing - cioè l’insulto a suon di poesia - nella nostra tradizione fu la tenzone (e gli argomenti di insulto più o meno sono gli stessi: la sessualità, i tradimenti, l’incapacità ecc.). Niente meno che il Dante giovane praticò il genere, insultando ed essendo insultato da Forese Donati:

 

Chi udisse tossir la mal fatata

moglie di Bicci vocato Forese,

potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata

ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.

 

Di mezzo agosto la truovi infreddata;

or sappi che de’ far d’ogn’altro mese!

E no·lle val perché dorma calzata,

merzé del copertoio c’ha cortonese.

 

La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia

no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi,

ma per difetto ch’ella sente al nido.

 

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,

dicendo: «Lassa, che per fichi secchi

messa l’avre’ in casa il conte Guido!».

 

Di solito, con studenti quasi sempre più esperti di “musica parlata” del docente, questo aggancio tematico cronologicamente verticale funziona bene.

Al di là della comunanza direi antropologica fra i temi degli stili comici di ogni epoca, esattamente al contrario dello studiatissimo lirismo che mescola verso libero e tradizione “riadattata”, la nuova poesia performativa riscopre e riutilizza le forme chiuse, in particolare la quartina rimata che più si presta alla performance e all’improvvisazione pubblica su un beat in quattro tempi.

Ciò ci permette di capire quanto il verso libero sia in realtà legato, storicamente, all’abbandono dell’oralità e allo sviluppo di una poesia interamente scritta, interamente intima.

  

Come detto, la formula con cui la poesia orale arriva in Italia è d’importazione americana: è la competizione Poetry Slam (LINK 4) promossa da poeti come Lello Voce (1957) e Dome Bulfaro (1971).

Interessante sarebbe svolgere con gli studenti una riflessione sull’influsso dell’oralità secondaria nell’ideazione e nella composizione delle poesie performative. Un’oralità, quella secondaria, registrata con mezzi elettronici e fruita per la gran parte in un secondo tempo via piattaforme come YouTube e simili. La coscienza della fruizione “secondaria” della performance, perfettamente nota al poeta-performer, ne condiziona l’ideazione e la realizzazione; egli infatti tenderà ad “aggiustare” la propria performance nei tempi e nelle dinamiche affinché “riesca” anche sulle piattaforme social.

Il mio personale parere è che la riscoperta, il riadattamento e la riproposizione della poesia orale potrebbe avere una profondità e una portata culturale ed artistica molto più ampia di quella che è una trascrizione italiana di modelli rap americani, come è stato finora. Di certo gli studenti che compongono versi - ma li chiamano barre - si sentono molto affini a questo tipo di espressività.

 

La dimensione della corporeità della poesia può essere spinta oltre, fino a ritrovare la medesima domanda che era sorta per l’intermedialità: fino a che punto è poesia? In questo senso è da segnalare una poeta come Francesca Gironi la quale scrive poesie (Abbattere i costi, 2016) che trovano il loro senso pieno quando performate: la scrittrice infatti le recita da un megafono, come se fossero comunicati pubblici, mentre costringe il proprio corpo in movimenti che non può smettere di fare (come ad esempio girare un hula hoop).

Sempre nella direzione parola-corpo la poeta Beatrice Orsini (Apocalissi domestiche, 2023) nella sua performance letteralmente ingurgita il testo, a dire che la parola è corpo, reazione chimica, è umore e non vive in un’ideale dimensione distaccata e immateriale.

Come prima, la domanda “è ancora poesia?” può avere una risposta negativa, ma esattamente come si è detto prima per i media, non è pensabile che l’arte poetica non si interroghi profondamente sul corpo, non si stacchi almeno per un po’ da quell’aura di superiorità che per lungo tempo le è stata attribuita.

 

La scrittura di ricerca - linguaggio e forma

In un medesimo ambiente e nel medesimo tempo è quasi impossibile si parli una sola lingua. Ci sarà una lingua maggioritaria, nel nostro caso l’Italiano anche lingua ufficiale, ma al contempo altre lingue vi convivono, e in un certo senso si pongono in competizione.

Spesso anzi osservare e descrivere la cultura maggioritaria o dominante per mezzo di una lingua - e di una cultura - minoritaria è una delle maniere più efficaci per sottolinearne i limiti e le storture.

L’esempio più immediato sono le culture dialettali, che hanno in qualche modo perso qualche decennio fa il confronto con la Storia, ma che continuano ad esprimersi sia oralmente che per scritto. Esse sono portatrici di una visione discosta, più legata alla tradizione, magari anche alla durezza della vita, ad una sua materialità e ad una natura non come “idillio” ma come “fatica dei campi”. Allo stesso tempo, però, lontane da capitalismo, frenesia, mercificazione eccetera.

 

 

La gioia me parlava e mi murivi

süj pal de Sant’Ambrös e tra quj tend

che ne la piassa slarghen la mia vita

sòta quel ciel che tra i palass se pèrd…

 

 

[La gioia mi parlava e io morivo / sui pali di Sant'Ambrogio e tra quelle tende / che nella piazza allargano la mia vita / sotto quel cielo che tra i palazzi si perde…]

 

***

 

Al chèsi ad campagna

Sbriṣédi de la róspa

maṣèdi dri i garagg

al chèṣi ad campagna

agli à finéi.

 

I li smana pr’e’ mònd:

i èbi ti zardéin

al dvanaróli in mostra

te salòt.

Dalvólti t’a li vèid

maṣèdi sòtta i cópp,

cmè pavaiòti;

ch’u li zirca i marchènt

par fè d’i albergh. 

 

[Le case di campagna. Sbriciolate dalle ruspe / nascoste dietro i garage / le case di campagna / hanno i giorni contati. / Le smembrano a pezzetti: / le vasche di sasso nei giardini / e gli arcolai in mostra / nel salotto. / A volte le scorgi / nascoste sotto i tetti / come le farfalle / che i mercanti le cercano / per farne degli alberghi.] 

 

Il primo componimento è del milanese Franco Loi (1930-2021) da El bunsai (2005) mentre il secondo del romagnolo Nino Pedretti (1923-1981) da Al vòusi (1975). Come si vede dall’esempio di Loi, il cui testo è una lirica in dialetto, non è necessario che i testi parlino, come fa invece quello di Pedretti, dello “scacco” che la cultura del cemento e dei mercanti opera ai danni di quella campagnola. Nonostante ciò, essi portano comunque la loro specificità: quel «pal de Sant’Ambrös» rappresenta una certa Milano, sicuramente non quella dei grattacieli, dei manager o dei rider.

Non è facile con gli studenti leggere testi dialettali; anche se parlano di contemporaneità suonano per loro come L’albero degli zoccoli, ma proprio per questo ancora più significativi.

D’altro canto la questione delle lingue minoritarie può essere un grande aggancio, un grande ponte comunicativo con tutti quegli studenti che hanno come retroterra culture di un’altra lingua che non sia l’italiano. Non ho ancora notizia di sillogi poetiche in cui l’italiano venga contaminato da lingue di immigrazione, ma certamente nei prossimi decenni ve ne saranno e con esse la lingua mista porterà una prospettiva propria.

 

Nell’ambito formale la riflessione maggiore si è avuta sulla verificazione. Il verso libero ha portato con sé un’enorme varietà nell’approccio versificatorio, tanto da rendere spessissimo inutile il verso, identificandolo in un arbitrario a capo. Con senso provocatorio si è allora diffusa quella che prende il nome di poesia in prosa

 

Un orologio d'oro GanderWatch acquistato a Bellinzona,
cinquecento franchi.
Un abito della sartoria Frigerio, duemila lire.
Il conto dell'albergo Crotto Rosa per cinque bottiglie
di champagne, cinquecento lire.
Cento fiaschi di vino comune, trecento lire.
Un etto di burro, una lira.
Vicino alla ferrovia, un grande prato con la cinta di rete
metallica era chiamato campo sportivo o solare.
Serviva anche per il tiro a segno, il tiro al piccione.

 

Il nome è derivato dai poème en prose della tradizione francese, da Baudelaire in avanti, ma in realtà è una sorta di prosa in veste di poesia. L’esempio qui riportato è di Giampiero Neri (1927-2023) tratto da L’aspetto occidentale del vestito del 1975, a dire come questa riflessione arrivi da più lontano che dai ‘2000. Come si può leggere, non solo il verso, ma anche i contenuti sono manifestamente prosaici.

Su una simile linea si colloca la prosa ritmica, la quale, al contrario, pur non avendo i discussi “a capo” presenta un andamento versificatorio e cadenzato ma, appunto, non immediatamente visibile.

 

Un deciso passo avanti concettuale in questo senso si ha con la prosa in prosa, anch’essa espressione di derivazione francese, coniata dallo scrittore Jean-Marie Gleize (1946). Eliminando anche gli ultimi residui di versificazione, le prose in prosa sono «oggetti verbali non ancora pienamente formati, in attesa di diventare altro», non è poesia, ma grezzo «materiale per la poesia», come scrive Enrico Giovannetti.

Nonostante l’apparenza di testo compatto, la prosa in prosa non è sovrapponibile al racconto, perché non analizzabile secondo i criteri della narratologia. Essa, come la poesia, ha fini estetici.

Giovannetti trova questo genere più vicino al koan tradizionale giapponese, un testo breve con fine estetico morali:

 

Un novizio, appena entrato nel monastero, domandò al maestro Chao-chou:

"Ti prego, spiegami che cosa devo fare per raggiungere l'illuminazione".

"Hai mangiato la tua zuppa?".

"Sì".

"Allora, lava la ciotola".

 

Oltre al koan, è appena il caso di sottolineare l’enorme influenza e successo della forma breve giapponese haiku composta da tre versi di complessivamente diciassette more con una struttura 5/7/5. Nella lingua italiana, l’elemento più vicino alla mora giapponese è la sillaba, quindi un haiku in italiano dovrebbe essere composto da 5/7/5 sillabe, ma su questo si sono registrati infiniti dibatti, per la maggior parte - significativamente - online.

Per la prosa in prosa italiana è da segnalare l’uscita nel 2009 di una antologia intitolata appunto Prosa in prosa

L’ambito formale del verso è forse, fra quelli elencati, l’aspetti più di arduo da comunicare agli studenti, perché vive di sfumature di senso. Perciò lo lascerei ad una classe V, in cui lo studente ha già l’esperienza di due anni di storia della letteratura alle spalle. 

 

Strutturazione didattica

Arrivati a questo punto possiamo scegliere fra due vie “didattiche”. La prima, di impostazione più tradizionale, consisterebbe nel cercare - cosa secondo me impossibile - di riservare uno spazio per la poesia degli anni 2000 alla fine del quinto anno.

Volendo procedere in questo senso, ci sarebbero alcuni elementi da tenere in considerazione. Dante e la sua Commedia, che un’altra volta ritornano in questa trattazione, andrebbero definitivamente svolti su due anni (III Inferno, IV Purgatorio Paradiso) per liberare ore in V procedendo almeno un po’ “oltre” Montale e sollevando anche gli studenti dal portare il Paradiso agli Esami di Stato.

Tale proposta è già stata ampiamente sperimentata da chi scrive e discussa nelle opportune sedi. In particolare, essa fu uno dei punti toccati nella Summer school nazionale di didattica degli studi danteschi del 2021, in occasione del settimo centenario dalla morte di Dante, all’Università degli Studi di Verona. In particolare Luca Serianni entrò nel merito della questione supportandone la proposta e sostenendo che il canone contemporaneo dovesse essere, come già detto in apertura di questo intervento, uno sfidante “canone aperto”.

Un altro momento in cui si è discusso e avvalorato questa direzione sono state le riunioni in seno all’Adi-Sd Lombardia, ospitate dall’Università degli studi di Milano.

Nello specifico, in Adi-Sd si è convenuto di non lasciare del tutto decadere Dante al quinto anno, ma di ricordarlo per tutti quegli autori che da lui avessero attinto, in una sorta di percorso  “Dante del Novecento”.

Secondariamente, si potrebbe ipotizzare di trattare Leopardi in IV, ridiscutendo gli autori canonici di tale classe. Questa proposta, sostenuta da Adi-Sd, libererebbe tempo in V. Può essere accettabile o meno a seconda se intendiamo Leopardi come l’ultimo dei moderni - IV - o il primo dei contemporanei - V -.

Da ultimo, dovremmo forse alleggerire il numero di letture su alcuni “nomi” troppo ricorrenti. È giusto il caso di ricordare come agli esami di Stato si sentano quasi esclusivamente i nomi di Andrea Sperelli, Vitangelo Moscarda, Adriano Meis.

 

Una seconda proposta di strutturazione didattica, non solo più attuabile, ma soprattutto più aderente alla prospettiva storiografica esposta in apertura, quindi teoricamente a mio avviso più strutturata, è quella di distribuire la contemporaneità su tutto il triennio. L’oggi non come un punto di arrivo alla fine di una lunga cronologia cui giungere affannati al termine dell’anno scolastico, ma come un punto di osservazione dichiarato, come costante dialogo tra noi e il nostro passato.

In questo senso, solo a mo’ di proposta:

 

III classe - MACROTEMA AMORE

Leggere i lirici contemporanei visti qui assieme al Dolce Stilnovo, Dante, Petrarca, Boccaccio, ecc. (un’ora ogni due settimane?). La terza diverrebbe un anno in cui a Letteratura si parla quasi esclusivamente d’amore e di relazioni. E si manterrebbe un linguaggio comune, che magari spronerebbe a capire con più voglia la lingua (anzi le lingue) del Due-Tre-Quattrocento italiano.

 

IV classe - MACROTEMA CORPO-TEATRO

Ascoltare i poeti orali contemporanei visti qui, magari provando a performare, a entrare in contatto con la propria voce, mentre si tratta della Commedia dell’Arte, del Teatro nel ‘600, ecc.

 

V classe - MACROTEMA IDENTITÀ

Trattare i poeti dialettali contemporanei visti qui assieme alla discussione sulle varie culture nazionali presenti sul territorio (anche in relazione al Novecento).

 

Chiaramente questi sono soltanto suggerimenti, i temi si moltiplicano a seconda della sensibilità del singolo docente, come le autrici e gli autori che si presentano.

 

BIBLIOGRAFIA

Storiografia

Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, 1915

Marc Bloch, Apologia della storia, 1998

 

Studi e antologie

Enrico Testa, Dopo la lirica, 2007

Paolo Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila, 2017

Dome Bulfaro, Guida liquida al Poetry slam, 2016

 

Risorse online

https://letteraturaitalianainclusiva.wordpress.com/

https://radicidigitali.eu

https://mep.netsons.org/manifesto/

https://progetto.lospazioletterario.it/

https://www.youtube.com/@sylviuslecodellemuse

 

Sillogi in ordine di citazione

Milo De Angelis, Linea intera linea spezzata, 2021

Amelia Rosselli, Variazioni belliche, 1964

Amelia Rosselli, Serie ospedaliera, 1969

Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, 2007

Emilio Isgrò, Carabus cancellatus, 2012

Edizioni Pulcinoelefante [casa ed.]

Il ragazzo innocuo [casa ed.]

Maria Lai, Le parole imprigionate, 2008 [mostra in galleria]

Lello Voce, Piccola cucina cannibale, 2012

Francesca Gironi, Abbattere i costi, 2016

Beatrice Orsini, Apocalissi domestiche, 2023

Franco Loi, El bunsai, 2005

Nino Pedretti, Al vòusi, 1975

Giampiero Neri, L’aspetto occidentale del vestito, 1976

AAVV, Prosa in prosa, 2020

 

 

25 ottobre 2023